l’Unità 2.9.13
Renzi: pronto a guidare il Pd
“Serve una rivoluzione”
Il sindaco annuncia a Genova la sua candidatura: «Ma voglio il voto di tutti gli elettori»
Pippo Civati
«Le correnti esistono, sfidiamoci sui contenuti»
di Ninni Andriolo
«Renzi? Da Genova nulla di nuovo, la legittima autobiografia di Matteo...». Pippo Civati ieri pomeriggio era ad Arezzo. «Alla Giostra del Saracino» precisa uno dei candidati alla segreteria del Pd che «in attesa che venga finalmente decisa la data del congresso» gira «l’Italia in lungo e in largo per parlare del nostro futuro».
Ha sentito onorevole? I renziani non esistono. E i civatiani?
«A me sembra che i renziani esistano eccome. Tutti, quando si candidano, dicono che non hanno o non faranno correnti...»
Dopodiché?
«Dopodiché le correnti si manifestano puntualmente. L’importante è scegliere le persone non in base alla fedeltà al leader. Se c’è un cuperliano bravo o un pittellista in gamba io mi affiderei a loro senza remore. Non è che bisogna ridurre la scelta delle persone solo ai propri sostenitori, altrimenti si continuerebbe con lo sguardo miope che il Pd ha avuto in passato. L’importante, tuttavia, è che ci sia dibattito serrato sulla politica e non sulle biografie di ciascuno».
Renzi torna a chiedere che la data del congresso venga fissata al più presto. «Io lamento il fatto che il confronto congressuale debba ancora decollare. Proposi di organizzare il congresso alla fine di settembre, come si ricorderà. Oltre a Renzi tutti i candidati alla segreteria chiediamo tempi celeri perché questa fase di incertezza sta logorando il partito. Serve una discussione aperta, seria, appassionata. Poi ci si conta e si capisce non quali sono le nuove correnti ma le nuove ipotesi in campo, i diversi modelli di rinnovamento. Cosa ne pensano, per esempio, Renzi e Cuperlo dell’Imu e del rischio che per eliminarla possano aumentare altre imposte?»
Lei è stato duro con il governo...
«Sì. Il decreto sull’Imu già non mi piaceva prima, dopo averlo letto nella versione definitiva mi convince ancora meno. E vorrei sapere, poi, come la pensano gli altri candidati alla segreteria sulla durata di questo governo perché andare avanti altri due anni con le larghe
intese mi sembra molto impegnativo...».
Letta ha ribadito che questo non è l’esecutivo per il quale si era speso in campagna elettorale.
«Ecco, appunto. Se non è convinto nemmeno lui forse le larghe intese non devono diventare anche lunghe. Fatta la legge elettorale e messi a regime i conti bisogna andare oltre».
Potrebbe avvenire già a settembre a sentire Brunetta. Secondo lui bisogna evitare con tutti i mezzi la decadenza di Berlusconi, altrimenti sarebbe il Pd a rompere la coalizione di governo...
«Siamo al solito ricatto. Per me il problema è la decadenza del Paese. Se teniamo in piedi un governo che fa le cose che vuole il Pdl, come è avvenuto con l’Imu. E se, per di più, questo non basta mai e si alzano sempre di più i toni, siamo all’assurdo. Di fronte a una condanna un leader politico si fa da parte. Se la preoccupazione principale del Pdl è quella di salvare Berlusconi in ogni caso e in ogni modo la questione è risolta: il governo si sfascia per colpa loro e non per colpa nostra».
E dopo, onorevole Civati?
«Dopo si va dal Capo dello Stato per capire cosa si può fare prima di scegliere la strada del voto, come prescrive la Costituzione. Io farei di tutto per evitare di tornare alle urne con il Porcellum. Il Capo dello Stato avrà gli strumenti per valutare se c’è un’altra ipotesi».
Che coinvolga il M5S o le sue componenti disponibili?
«A me non piace questo mercanteggiare sui grillini, ce ne sono 15, 20, 35, eccetera. Il problema è politico. Se c’è un’emergenza, che è quella di varare la legge di stabilità e la riforma elettorale, bisogna valutare le strade da percorrere. Non ho chiesto che dalla sera alla mattina cadesse questo governo, ma una via d’uscita, una formula seria e all’altezza dei compiti che abbiamo». Violante ripete che Berlusconi ha diritto a difendersi come qualsiasi altro parlamentare.
«Le esternazioni di Violante non le ha capite nessuno. La giunta del Senato è sovrana. Ma se Berlusconi vuole difendersi ci penserà lui, non capisco perché dobbiamo entrare noi nel suo collegio di difesa».
La Stampa 2.9.13
“Matteo sbaglia. Senza sinistra il Pd non esiste”
Cuperlo: “No a un modello plebiscitario”
intervista di Carlo Bertini
Di ritirarsi sotto le bandiere di Renzi come gli chiede Goffredo Bettini non ha alcuna intenzione «perché sarebbe solo un nuovo patto di potere e non mi interessa». Anzi, Gianni Cuperlo invia due avvertimenti precisi al rottamatore: «Attenzione con questa voglia di azzerare il pluralismo, perché potrebbe celare un principio di assolutismo, un cedimento a un modello plebiscitario che mina le radici profonde del nostro essere». La seconda: «Se pensa di mandare in soffitta la sinistra qualora dovesse vincere il congresso, faccia bene i suoi conti, perché il Pd senza sinistra semplicemente non c’è». Tradotto, anche se il candidato gradito agli ex Ds dovesse perdere, non ci saranno scissioni.
Intanto faccia tre previsioni: il governo mangerà il panettone? Il Pd reggerà unito su Berlusconi o il fronte del rinvio farà proseliti? Il congresso si farà a novembre?
«Io mi auguro che il governo vada avanti, a condizione che faccia le cose che servono. Dopo la vicenda Imu, noi dobbiamo imporre un’agenda del Pd: agire contro la povertà con misure straordinarie; creare lavoro con un intervento sul cuneo fiscale; fare la riforma della legge elettorale. Secondo punto, Berlusconi: massimo rispetto per l’autonomia della Giunta che stabilirà i tempi e ascolterà le ragioni della difesa. Ma noi siamo convinti di voler e dover votare la decadenza, sia in Giunta che in aula. E non per tattica, è una questione di principio. L’idea che il consenso delle urne sia la fonte di una legittimazione sopra ogni altro potere non ha nulla a che vedere con lo stato di diritto. Quindi noi non accetteremo nessuna tattica dilatoria. Sul terzo punto, il congresso, a marzo avevo chiesto di farlo entro luglio: quindi le primarie vanno fatte il 24 novembre.
Ha visto cosa dice Bettini? I giovani innovatori sostengano Renzi contro le forze della conservazione, per diventare la nuova classe dirigente.
«Molti pensano che Renzi sia il più adatto ad aggregare consenso ben oltre i nostri confini. Benissimo, quando faremo le primarie per la premiership si metta in gioco. Ma se prima di allora il popolo democratico deve decidere chi guiderà il Pd, sarebbe giusto discutere nel merito di che partito vogliamo. Stimo Bettini, ma a me non importa fare un nuovo patto generazionale, che rischia di essere un patto di potere per il controllo del partito. A me interessano i principi e le idee. Voglio discutere dell’Italia e dei suoi problemi. Con fatica, vista la sproporzione di mezzi rispetto ad altri, provo a raccontare la mia idea di partito sul contrasto alla povertà, sui diritti umani, su una vera patrimoniale per le grandi ricchezze, perfino sui limiti morali del mercato. Su tutto ciò non sento da Renzi parole chiare e non mi interessa mettere insieme per un accordo i vertici delle correnti. Noto peraltro che la sua è la più strutturata, tanto che tende ad operare come un partito nel partito. E cosa vuol dire rottamarle? Che si metta fine alla logica di premiare la fedeltà invece del merito? Bene, ma lo si faccia, senza dirlo. Ma se si allude all’idea che basta uno solo al comando e poi l’intendenza segue, attenzione: sarebbe un cedimento drammatico ad un modello plebiscitario e allora qui non si scherza più, perché entra in gioco la natura di partito e l’idea di democrazia».
Che succederà se vincerà Renzi? Gli ex Ds se ne andranno per conto loro?
«Il Pd è una realtà dalla quale non possiamo più prescindere. Io sono fiducioso che tra la nostra gente il consenso potrà allargarsi intorno alla mia proposta. Sono consapevole che il Pd è nato dalla confluenza di diverse culture, ma senza la sinistra il Pd semplicemente non è. E chiunque pensi di poter dar vita ad un partito che metta da parte, in soffitta o in naftalina, quel bagaglio complesso e articolato di tradizione e anche di valori proiettati nel domani e non nel passato, che fa forte l’identità della sinistra, vuole male al Pd. Chiunque coltivi questa suggestione non solo vuol male alla sinistra, ma vuol male al nostro partito e al paese».
La Stampa 2.9.13
Oggi il faccia a faccia su alleanze e democrazia interna
I «dissidenti» chiedono di introdurre presto la piattaforma online per far decidere la base
“Subito al voto”, “No, serve dialogo” I senatori del M5S verso lo strappo
Sono una decina i senatori grillini considerati «dissidenti»
di Marco Bresolin
La riforma della legge elettorale e la posizione da tenere in caso di caduta del governo, soprattutto. Ma anche la tanto annunciata - e mai realizzata piattaforma online per raccogliere le proposte e i pareri della base. La prima riunione post estiva dei senatori del Movimento Cinque Stelle, in programma oggi alle 17, si preannuncia tesissima. E nel mirino finirà anche il blogger Claudio Messora, che si occupa della comunicazione al Senato.
Per avere un’idea del clima, basta dare un’occhiata alle ultime dichiarazioni: Luis Alberto Orellana, senatore che sostiene la necessità di «dialogare» con le altre forze politiche, ieri ha ricordato che anche «Crimi e la Lombardi dialogarono in streaming con Bersani su un’ipotesi di governo» e che oggi, «solo per aver ipotizzato qualcosa di simile, sono diventato un traditore». Due giorni prima la collega Laura Bottici gli aveva spedito un bel «vaffa». Oggi si confronteranno faccia a faccia e c’è già chi ipotizza uno strappo.
Dalla parte di Orellana sono in tanti a Palazzo Madama, almeno dieci. Una minoranza, certo, ma molto determinata. Di tornare al voto con il Porcellum, come sostiene Grillo, non ne vogliono sentir parlare. «Facciamo i presìdi per difendere la Costituzione - butta lì Lorenzo Battista - e poi siamo i primi a non rispettarla. La Carta dice che, nel caso in cui cadesse il governo, non si può tornare subito alle urne. Il Presidente della Repubblica deve prima cercare altre maggioranze. E io dico che il Movimento dovrebbe nono solo valutare maggioranze alternative, ma proporre un governo con personalità di alto profilo. Cosa che purtroppo non è mai stata fatta». Ma sull’altra sponda i colleghi sono perfettamente allineati con Grillo: «Se sei su una macchina che si sta per schiantare contro un muro - prova a spiegare il fedelissimo Alessandro Di Battista -, cosa faresti? Io mi lancerei dal finestrino, sperando di salvarmi anche se rischio di farmi male. Ecco perché bisogna tornare alle urne immediatamente». Anche con quella «schifezza del Porcellum».
Oggi gli «aperturisti» torneranno a chiedere di introdurre la piattaforma online per consultare la base: facciamo decidere gli elettori. A maggio, durante l’incontro di Grillo con i parlamentari, Filippo Pittarello (un uomo della Casaleggio) assicurò: «Sarà pronta entro luglio». Per ora, però, non c’è traccia. Le decisioni vengono prese dalla maggioranza dei parlamentari. «Ma gli input - allarga le braccia Battista - arrivano da uno solo».
Corriere 2.9.13
Dai democrat nuovi segnali ai dissidenti Cinquestelle
ROMA — La «provocazione» dell’eurodeputata ex Idv Sonia Alfano sui 15 senatori Cinquestelle, pronti — ne è convinta — ad abbandonare il movimento di Beppe Grillo per sostenere un eventuale «Letta bis» continua ad agitare il M5S. Ma il tema di come comportarsi di fronte a una crisi provocata da Silvio Berlusconi tiene banco anche, e soprattutto, nel Pd. Tanto che ieri è intervenuto dicendo la sua Giuseppe Fioroni, con una dichiarazione che può essere vista come un appello ai pidiellini governisti, ma anche ai grillini più inquieti, nonostante la distanza con il fondatore del Movimento: «Se ci sarà la crisi, Letta si dovrà ripresentare alle Camere e tutti i parlamentari, in modo particolare quelli del Pdl, dovranno decidere se votare a favore dell’Italia e degli italiani oppure scegliere la difesa degli interessi di uno solo, peraltro con un danno certo al Paese e nessuna utilità per l’interessato». E ha precisato: «Questa è la responsabilità cui è chiamato tutto il Parlamento, quindi anche i colleghi del Movimento 5 Stelle. Fermo restando che le posizioni di Grillo sono incompatibili con quella saggezza che viene richiesta per risolvere i problemi degli italiani».
In attesa di capire se e quando Berlusconi arriverà a staccare la spina al governo Letta, oltre ai dissidenti già venuti allo scoperto, qualche nuovo spiraglio dal movimento di Grillo è sembrato aprirsi con un’intervista all’Unità del senatore siciliano Francesco Campanella, considerato, un «dialogante». Apertura subito corretta: «Finora il Pd ha dimostrato di avere un progetto che va in direzione opposta a quella che noi riteniamo essere utile all’Italia». Ma oggi pomeriggio si terrà l’attesa assemblea dei senatori Cinquestelle in cui sono pronti a emergere nuovamente i maldipancia nei confronti dell’idea di Beppe Grillo di andare al voto conservando il Porcellum e i malumori nei confronti del responsabile della comunicazione Claudio Messora.
l’Unità 2.9.13
L’azzardo del Cavaliere e la partita della destra
di Michele Ciliberto
È DIFFICILE PREVEDERE LE AZIONI DEGLI UOMINI: UN CRITERIO PUÒ ESSERE QUELLO DI VEDERE COME SI SONO COMPORTATI IN SITUAZIONI AFFINI, fatta salva, s’intende, la varietà della fortuna e il potere della virtù. Se si compie un esercizio di questo tipo si potrebbe prevedere, nei limiti detti, come Berlusconi si comporterà dopo il 9 settembre, se sarà proclamata la sua decadenza da senatore. È prevedibile che una delle sue principali opzioni resterà quella di far cadere il governo: quando si è trovato in situazioni di questo genere anche meno pesanti per lui, si è comportato infatti in questo modo. Mi limito a un solo esempio: la Bicamerale presieduta da D’Alema. Arrivati ai nodi della giustizia, fece saltare il tavolo, come si dice con espressione mutuata, giustamente, dal gioco d’azzardo.
Berlusconi, come tutti i grandi venditori, è in effetti un giocatore, e come i grandi giocatori è disposto, se ne valuta l’opportunità, a giocarsi
anche tutta la posta. Basta pensare alle tappe principali della sua carriera di imprenditore; alla nettezza e alla rapidità, ad esempio, con cui, suscitando grande stupore in Montanelli, abbandonò l’edilizia per la televisione commerciale. Questo non vuol dire che non sappia essere prudente, ma la costante principale della sua azione è quella del rischio calcolato, ma portato, se necessario, fino al punto estremo -. In questo senso è strutturalmente estraneo alla mediazione e, se la politica è mediazione, alla politica; così come è estraneo alla tradizione liberale, che ogni tanto celebra. In essenza è un estremista: di destra, ed è l’egemonia della destra che ha imposto in Italia negli ultimi vent’anni. Con i moderati non ha molto in comune, ma li ha asserviti al suo disegno politico, inserendoli in una prospettiva che non è la loro.
È perciò interessante lo sforzo che i moderati confluiti nel Pdl stanno facendo in queste settimane per far sentire la loro voce in modi e toni che non coincidono con quella di Berlusconi e del primo cerchio dei suoi seguaci. Se ne capiscono i motivi: al governo stanno bene, per certi versi è il loro governo. E poi anche loro capiscono che Berlusconi è arrivato all’ultimo giro e cercano di individuare una linea di fuga, occhieggiando anche ad ambienti del Pd.
Chi sono, da dove vengono? Varrebbe la pena di fare un’analisi. In prima approssimazione si può dire che hanno origini molto diverse: dalla Democrazia cristiana, dal Partito socialista e anche dal Partito radicale. Nel linguaggio della prima Repubblica, si può precisare che, pur nella varietà delle generazioni, provengono in larga parte dall’area del pentapartito, soprattutto dalle correnti di centro e di destra della Dc. Ma più che neo-democristiani, sono neo-dorotei accomunati, alle origini, dal rifiuto, anzi da una vera ripulsa, per tutto quello che sul piano delle politiche e delle culture politiche, ha rappresentato fin quando è esistito, il Partito comunista Italiano. Sta qui la ragione della confluenza nelle loro file, a prima vista sorprendente, anche di una componente radicale.
Se si andasse alle elezioni, la domanda da porsi sarebbe questa: che fine farà questa componente moderata del Pdl? Qual è il suo destino? Ora come ora, la riposta è netta: continueranno ad essere una forza subalterna a Berlusconi. Per una serie di motivi: non hanno una propria autonomia politica, non sono in grado, se non in modo subalterno, di dare una specifica rappresentanza alla loro base sociale, culturalmente fragili, sul piano ideologico l’unico retroterra che hanno è Comunione e Liberazione, che è, certo, per l’indissolubilità del matrimonio, ma è politicamente poligama. In sintesi, sono, e restano, una forza ausiliaria, subalterna, di tipo neo-doroteo.
Questa situazione pone però problemi assai gravi al sistema politico italiano oggi, e in futuro qualora persista -. La mancanza di un partito moderato autonomo e indipendente incide infatti, condizionandoli, su tutti gli altri
attori politici. La legge del vuoto e del pieno, oltre che in fisica, esiste anche in politica: e in Italia c’è, storicamente, una forte componente moderata che vuole, in modo legittimo, una rappresentanza politica. Dopo la crisi della Dc, l’ha trovata in Forza Italia e nel Pdl, ma e questo è il problema sul tappeto si tratta di una scelta definitiva, senza alternative? È questo l’unico destino possibile per il moderatismo italiano? Oggi, uno dei compiti principali delle forze politiche dovrebbe essere proprio quello di riaprire il campo delle possibilità e delle scelte, mettendo in grado i moderati italiani di collocarsi oltre il berlusconismo. Se ci fosse, questo dovrebbe essere l’obiettivo di quel partito moderato, che però da noi non c’è più dopo la fine della Dc. Ma questo non toglie che il problema continui ad esistere e che, anzi, esso sia un problema politico generale, non solo, cioè, dei moderati. E se è tale, su di esso non può non interrogarsi anche un partito nazionale come il Pd.
Come è stato efficacemente detto, oggi bisogna costruire una sinistra più larga, non più piccola, capace di aprirsi in molteplici direzioni. Muovendo di qui - cioè dalla consapevolezza delle proprie ragioni - bisogna dunque riuscire a pensare a uno schieramento riformatore che sia capace di intercettare anche quei ceti e quelle forze interessati, pur nell’ambito di scelte moderate, a una prospettiva di progresso dell’Italia e dell’Europa: forze e ceti che non trovando alternative politiche sono rimaste chiuse per vent’anni nella camicia di ferro del berlusconismo, e che dalla crisi sociale sono state fortemente spiazzate, a tutti i livelli, compresi quelli identitari. È un problema da affrontare in chiave europea, costruendo uno spazio politico nuovo ed allontanando con nettezza le sirene neo-dorotee. Ce ne sono le condizioni e le possibilità, se si sviluppa un’iniziativa politica adeguata. Ma se non si riesce ad aprire varchi anche in questa direzione il berlusconismo rischia di sopravvivere a Berlusconi.
Corriere 2.9.13
Il Cavaliere valuta l'ipotesi clemenza
E non esclude di parlare in Giunta
L'ex premier tra «la voglia di rompere tutto» e la tentazione di «accettare la sentenza e chiedere la grazia»
di Lorenzo Fuccaro
qui
Repubblica 2.9.13
Chi crede ai trucchi del Cavaliere
di Curzio Maltese
LA MINACCIA di far cadere il governo era un bluff, come prevedibile, ed è durato ancora meno del previsto. Berlusconi in persona ha dato il contrordine, falchi e colombe sono rientrati nel pollaio. È andata male. Qualcuno del resto poteva credere che si facesse sul serio? La permanenza del governo Letta è l’unico salvacondotto possibile rimasto a Berlusconi.
Un’ancora alla quale si è aggrappato con forza. Le ipotesi alternative sarebbero state una follia. Da un lato, c’era la prospettiva di un Letta bis senza i voti decisivi del Cavaliere. Dall’altro, l’avventura di elezioni anticipate in autunno, che sarebbero state drammatiche per il Paese e probabilmente catastrofiche per il centrodestra. In entrambi i casi, per Berlusconi avrebbe significato la condanna all’irrilevanza politica. Come sempre, ha scelto la soluzione migliore per i propri interessi. Non senza aver inflitto al Paese l’ennesimo trucco. Per settimane i media sono corsi dietro al bestiario di falchi e colombe e pitonesse, prima di rendersi conto che era il solito teatrino di cortigiani dove il padrone passa ogni tanto a distribuire le parti in commedia.
La recita è finita secondo la logica. Il governo va avanti e il Parlamento voterà la decadenza di Berlusconi da senatore. La guerra o la guerricciola istituzionale è finita. Peccato che la destra si sia dimenticata di avvisare qualche amico del Pd. Nessuno per esempio ha avvertito Luciano Violante, che continua a combattere nella jungla come un soldato giapponese la sua battaglia contro il nemico che più l’ossessiona: l’antiberlusconismo. Per la verità sono molte le cose delle quali il senatore sembra rimasto all’oscuro, almeno a giudicare dalla sortita di ieri. Il senatore Violante ha ricordato il diritto alla difesa di Berlusconi contro le tentazioni del Pd di trasformarlo in un nemico assoluto e ha esortato il proprio partito ad ascoltare le ragioni dell’avversario.
Violante non è stato informato che Berlusconi oggi non è più il nemico assoluto e tecnicamente neppure un avversario del Pd, ma il suo principale alleato di governo. Come tale le sue ragioni sono ascoltate tutti i giorni dal partito di Violante e anzi, secondo molti elettori del centrosinistra, perfino un po’ troppo. Altra informazione non pervenuta al senatore è che il processo a Berlusconi si è già celebrato in questi anni, in cui l’imputato ha potuto largamente usare e anche abusare del diritto alla difesa dentro e fuori le aule, nel processo e dal processo. Ormai non rimane, secondo Costituzione, che prendere atto della sentenza definitiva. Berlusconi non intende farlo, ma ci vuole un bel coraggio per definire un simile atteggiamento «diritto alla difesa».
Ancora una volta il Pd riesce a trasformare un problema della destra in uno proprio. Alla fine la destra ha compiuto la scelta più raziocinante, la più conveniente. Ha evitato il voto anticipato e lo spettro di un’esclusione dalla maggioranza. La scelta più conveniente per il Pd, una volta svanita la minaccia e il bluff della destra, sarebbe stata di chiudere la vicenda in fretta, archiviare il caso Berlusconi e tornare a occuparsi dei problemi seri del Paese. Ecco che invece il partito riprende a lacerarsi con una discussione assurda e fuori tempo. È davvero difficile capirne la necessità. Chissà, forse siamo noi a non essere bene informati. Dal ’96 in poi ci siamo chiesti perché il governo di centrosinistra non avesse approvato in Parlamento una legge sul conflitto d’interessi e sul sistema televisivo. Prima di apprendere un giorno, anni dopo, dalla voce dello stesso Violante in Parlamento che c’era un accordo sottobanco fra i dirigenti della sinistra e Berlusconi per «non toccare le televisioni e le aziende ». Se anche stavolta esistono «patti della crostata» fra vertici di centrosinistra e Berlusconi, i cittadini dovranno aspettare altri nove anni per saperlo?
La Stampa 2.9.13
La Giunta pronta a votare subito la decadenza
La maggioranza dei componenti non ritiene necessario mandare gli atti alla Consulta né aspettare il giudizio della Corte d’Appello sull’interdizione di Berlusconi
a cura di Guido Ruotolo
qui
Repubblica 2.9.13
La crisi siriana
Dietro il caos in Siria l’ombra dell’Iraq e i regni dell’oro nero
di Gilles Kempel
LA CRONACA di un attacco annunciato contro la Siria di Bashar al-Assad coincide più o meno con il dodicesimo anniversario dell’11 settembre. L’ostentata volontà franco-americana di bombardare un Medio Oriente in cui si moltiplicano le spaccature dopo le rivoluzioni del 2011 non è che l’ultima replica del big bang che ha aperto il XXI secolo. Ma le esplosioni ricorrenti del vulcano arabo liberano delle forze irreprimibili, protagoniste impreviste del mondo di domani. Le rivoluzioni arabe sono in primo luogo il prodotto della decomposizione di un sistema politico concepito per resistere alla paura della proliferazione terroristica dopo la «doppia razzia benedetta su New York e Washington» perpetrata da bin Laden e dai suoi accoliti. Contro Al Qaeda, avevamo eretto un baluardo di regimi autoritari e corrotti, ma dotati di servizi di sicurezza efficienti. L’esigenza della democrazia era stata sacrificata sull’altare della dittatura, ma Ben Ali, Mubarak, Gheddafi e altri come Ali Saleh, non sono stati altro che dei despoti patetici che hanno cristallizzato contro se stessi il malcontento popolare, portando a delle rivoluzioni che sono dilagate da Tunisi al Cairo e da Bengasi a Sana’a nella primavera del 2011.
Nel frattempo, Al Qaeda aveva investito le sue energie per creare un improbabile «Emirato islamico di Mesopotamia» nell’Iraq occupato dagli Usa dopo il marzo del 2003. Si è infranta nella sua corsa folle agli attentati suicidi, sognando invano di infliggere all’America un Vietnam jihadista. Nei suoi confronti, i neoconservatori americani, credendo di riscattare il loro onore militare con il dispiegamento di un arsenale invincibile contro uno «Stato canaglia», si prendevano una rivincita simbolica contro gli aerei lanciati contro le Torri Gemelle. Speravano di raggiungere un duplice obiettivo. Rovesciando Saddam Hussein, punivano un dittatore sunnita sospettato di avere creato bin Laden. E portavano al potere la maggioranza sciita in Iraq, che credevano filo-americana, amica di Israele, e perfino capace di far vacillare il regime dei mullah di Teheran. Questi ideologi imbevuti di guerra fredda si sono rivelati degli apprendisti stregoni. Lungi dal vacillare, Teheran è rapidamente diventata la fornitrice di armi e la finanziatrice dello sciismo iracheno. E sono questi sciiti che hanno spezzato le reni all’organizzazione terroristica sunnita, finanziata dai petrodollari provenienti dalla riva araba del Golfo Persico. Infine, sotto gli auspici di Maliki, Bagdad è diventata la migliore alleata di Teheran.
La guerra in Iraq ha dunque avuto due conseguenze paradossali. Ha rafforzato l’asse sciita diretto da Teheran, che ora ha un forte sostegno a Bagdad, e, inoltre, Damasco, gli Hezbollah libanesi e (fino al 2012) il movimento Hamas palestinese, unico partner sunnita della coalizione. E ha disintegrato Al Qaeda, così le dittature sono apparse inutili o addirittura dannose. Soprattutto, Teheran, fornendo via Damasco le armi ai suoi debitori di Hezbollah e di Hamas, ha proiettato la sua frontiera militare sui confini dello stato ebraico, tramite gli alleati interposti. Di fronte al rafforzamento di questo asse sciita, il cui controllo dell’arma nucleare sconvolgerebbe la geopolitica globale dell’energia, perché trasformerebbe il Golfo Persico in un lago iraniano, il mondo sunnita subisce una prima scossa con le rivoluzioni arabe. Le «primavere arabe» sono state accolte con benevolenza in Occidente, ma hanno comunicato un’ondata di panico nella spina dorsale delle monarchie petrolifere del Golfo.
La prospettiva di un «contagio democratico » ha terrorizzato queste dinastie i cui membri monopolizzano i proventi del petrolio e del gas. Il pericolo toccava ormai la penisola arabica stessa, mentre la comunità internazionale guardava da un’altra parte lasciando prevalere gli idrocarburi in pericolo sui diritti umani a rischio. Eppure, il Consiglio di cooperazione del Golfo si è diviso profondamente rispetto alle rivoluzioni arabe. Il Qatar, seconda potenza produttrice di gas al mondo, si è impegnato a dare un massiccio sostegno materiale e mediatico, attraverso la Al Jazeera, ai Fratelli Musulmani. Ha visto in questo islamismo socialmente conservatore la massa umana critica capace di farlo diventare la potenza egemonica del mondo arabo sunnita. Per contro, l’Arabia Saudita e gli altri emirati hanno fatto blocco contro i Fratelli, che fanno concorrenza alla loro intenzione di controllare l’Islam mondiale. L’Arabia ha sostenuto ovunque i salafiti, rivali dei Fratelli. Tuttavia, parte di questi elementi sono finiti nell’attività jihadista violenta. È in questo contesto che si è sviluppata la rivoluzione siriana. All’inizio, aveva lo stesso profilo che in Tunisia o in Egitto: una gioventù istruita si metteva a capo delle rivendicazioni democratiche contro un potere autoritario. Ma l’intensità della repressione e la sua trasformazione graduale in guerra civile a carattere confessionale ha impedito il sollevamento delle forze armate contro il presidente. Il finanziamento in petrodollari e la distribuzione di armi provenienti dai Paesi del Golfo — uniti per sostenere i sunniti che avrebbero scardinato l’asse sciita se Damasco fosse caduta — ha cambiato la situazione sul terreno, favorendo la penetrazione militare dei gruppi islamisti e rendendo più difficile il sostegno alle forze democratichedella resistenza. La Siria diventa dunque l’epicentro dello scontro tra l’asse sciita e i suoi avversari sunniti, ostaggio di una guerra per procura fatta prima di tutto per controllare gli idrocarburi del Golfo. La vittoria di Assad rafforzerebbe Teheran e, dietro all’Iran, la Russia, messa da parte in Medio Oriente. È su questa mappa contrastata che si è aperto nel 2013 il «terzo tempo» della dialettica delle rivoluzioni arabe: la reazione contro i Fratelli musulmani. A quel punto, si è prodotto un importante riallineamento nella regione, di cui hanno immediatamente tratto profitto i dirigenti siriani, iraniani e russi: l’esplosione del blocco sunnita in due fazioni rispetto al sostegno o all’ostilità verso i Fratelli Musulmani. Questa spaccatura profonda separa la Turchia e il Qatar, da una parte, e gli altri paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa.
Questo è il contesto in cui sono state usate le armi chimiche nella periferia di Damasco. Se si scoprisse che il regime è l’autore di questo bombardamento sarebbe una provocazione per la comunità internazionale, per la quale questa rappresenta, come ha detto Obama, una «linea rossa». È la violazione di questa norma morale che i presidenti americano e francese invocano per agire in nome dell’umanità contro la barbarie. Tuttavia, l’invocazione di questi principi riscuote poco successo tanto nell’opinione pubblica dei paesi coinvolti che tra gli alleati, dagli altri paesi europei alla Lega Araba. Soprattutto, la riaffermazione russa cambia profondamente la situazione rispetto a un’operazione militare. Mosca non vuole subire un nuovo Afghanistan. La paradossale accoppiata francoamericana ha i mezzi per prolungare l’unilateralismo che è prevalso dopo la caduta del muro di Berlino? Oppure l’Occidente, diviso, è costretto ad agire nel quadro di un nuovo multipolarismo?
(traduzione di Luis E. Moriones)
La Stampa 2.9.13
Magia, filtri e sacrifici umani in India la sfida dei razionalisti
“Acchiappa-stregoni” contro i riti ancestrali, ma il loro leader viene ucciso
di Maria Grazia Coggiola
Da pozioni e malocchi si arriva secondo i movimenti «illuministi» a pratiche estreme: uccisi bambini
Offerte agli dei. Vedove, ragazze povere e i figli degli intoccabili sono le vittime della superstizione
Per vedere un pezzo dell’India occulta basta andare al vecchio tempio del dio Hanuman, dalla testa di scimmia, a Connaught Place, nel cuore della moderna New Delhi. A pochi passi da un centro commerciale e da negozi di moda, l’indovino Raj Guru Rajnder Swami, vestito di una tunica rosa shocking, siede davanti a un tavolo dove è posata una grossa lente e una sua foto di parecchi anni fa con l’ex presidente della Repubblica indiana, lo scienziato nucleare Abdul Kalam. «Ho ricevuto diversi premi – si vanta - perché sono tra i pochi in India a leggere le linee della fronte». Ma il segno della mezzaluna che ha come «terzo occhio» e che è il simbolo di Kali, la dea nera della distruzione, rivela che si occupa anche di rituali magici come molti altri «tantrik», veri o presunti, che bivaccano sotto gli alberi sacri del tempio.
La gente li chiama comunemente «jaadu tona», che è la parola in hindi per dire «magia nera» ovvero «malocchio». Sono pratiche occulte o «tantriche» ancora molto diffuse soprattutto nell’India profonda, nelle campagne dove abita l’anima oscura del gigante asiatico e dove i computer e i call center convivono con superstizioni, orrori contro le donne e l’esclusione sociale dei «pariah».
Si stima che in India ci siano 5 milioni di santoni, dai brahmini che fanno le «puja» con le noci di cocco e l’acqua del Gange fino agli asceti che si cospargono il corpo con le ceneri delle cremazioni. Un gigantesco supermercato della superstizione che continua ad affascinare gli occidentali.
Questo volto nascosto dell’India è riaffiorato alla superficie di recente con l’uccisione di un medico, Narendra Dabholkar, un «acchiappa-stregoni» di 69 anni a capo di un movimento «razionalista» nello stato centrale del Maharashtra che si batteva contro rituali medioevali come la «caccia alle streghe» e l’aberrante pratica dei sacrifici umani. Secondo dati della sua associazione, ogni anno circa 3 mila bambini sono rapiti, torturati e uccisi dai «tantrik», gli stregoni indiani, per propiziare le divinità quasi sempre a favore di coppie sterili. Alcuni di questi crimini finiscono sulle pagine dei giornali perché sono scoperti dalla polizia, ma molti rimangono classificati come «scomparsa di minori».
Dabkolkar è stato freddato il 20 agosto a colpi di pistola da due sicari a bordo di una moto, mentre stava tornando nella sua casa di Pune dopo la consueta passeggiata mattutina. La polizia non ha ancora alcun indizio, ma i sospetti cadono su gruppi della destra indù che è molto potente nello stato che ha come capitale Mumbai. La sua morte ha creato un moto di indignazione e anche proteste di piazza nel Paese del Mahatma Gandhi che improvvisamente ha scoperto di essere bigotto e violento.
«È una vittima dell’intolleranza della società, ma temo che dietro la sua uccisione ci siano anche delle ragioni economiche» spiega Siddharth, 26 anni, dell’associazione «liberi pensatori» Nirmukta che conta circa 8 mila soci a New Delhi. «Con l’aumento del benessere, soprattutto della classe media, ci sono evidentemente molti interessi in gioco – aggiunge - e Dabholkar ha pestato i piedi a potenti lobby religiose che gestiscono il business della superstizione».
Il movimento, che si definisce «ateo e agnostico» organizza conferenze e altre attività anti-superstizione in otto metropoli. «Non siamo contro le religioni, ma contro le pratiche che in nome della religione creano misoginia, omofobia e in generale limitano la libertà di pensiero o peggio fanno del male alla gente» spiega Raghu Kalra, 22 anni, che è anche tra i responsabili del club degli astronomi amatoriali della capitale.
Per questi moderni Galileo, l’astrologia e perfino le medicine alternative come l’ayurveda sono «prive di basi scientifiche» perché escludono la sperimentazione che è invece un elemento determinante della scienza moderna. «Per esempio – continua – si sa benissimo che lo zodiaco come lo studiano gli astrologi non esiste più perché non coincide più con le 12 costellazioni che con gli anni si sono spostate». L’altro tiro al bersaglio preferito degli «umanisti» sono i guru famosi come il Sathya Sai Baba di Puttaparthi, scomparso due anni fa e celebre in Italia grazie ai legami con il fratello dell’ex leader Bettino Craxi. Il santone dai folti capelli ricciuti usava un «trucco da prestigiatore» per far comparire la cenere sacra nelle sue mani e, ancor peggio, è stato coinvolto in una torbida storia di omicidio «ma è sempre stato protetto dai poteri forti» afferma con amarezza Siddhart.
Un altro «acchiappa stregoni», Narendra Nayak, presidente della Federazione delle associazioni razionaliste indiane (Fira), che raggruppa 85 organizzazioni, è stato minacciato di morte per le sue attività di smascheramento di «tantrik» e guaritori nei villaggi più remoti dell’India. «L’uccisione di Dabholkar non fermerà la nostra battaglia – ha affermato - ma la rafforza perché ora saranno migliaia quelli che combatteranno la superstizione».
Dopo l’incidente, il governo del Maharashtra ha varato un decreto legge, da anni era nel cassetto, che mette al bando la «magia nera» e punisce chi sfrutta il prossimo proponendo rituali, incantesimi o formule magiche o «mantra». È il primo provvedimento di questo tipo in India.
Non ci sono solo i rituali pseudo religiosi indù nel mirino dei razionalisti, ma anche i «miracoli» proclamati dalla Chiesa indiana. Lo scorso anno, uno dei decani degli «illuministi», Sanal Edamaruku, a capo di un’associazione che si chiama Rationalist International, fondata nel 1949 a Chennai e che ha 100 mila sostenitori, è stato denunciato per blasfemia dopo che ha smontato il «miracolo» di un crocefisso che «piangeva» in una chiesa di Mumbai. L’attivista, che ha scritto libri, partecipato a numerose trasmissioni televisive e anche lui nella lista nera di estremisti religiosi, si era accorto subito che le «lacrime» di Gesù Cristo erano prodotte da un’infiltrazione di acqua dal soffitto. Edamaruku è scappato all’estero per evitare il carcere e si trova ora in Europa, da dove grazie a internet continua la sua crociata contro la superstizione.
Corriere 2.9.13
Filosofia. Un saggio individua nel dualismo tra anima e corpo il tratto dominante dell’Occidente. E lancia un appello per superarlo
L’eterno ritorno dell’antagonismo
Neppure la fine analisi di Roberto Esposito sfugge all’obbligo dell’essere “contro”
di Ernesto Galli della Loggia
qui
Repubblica 2.9.13
Anche se poco citata nelle scritture è la figura più celebrata dai cattolici Tra volontà popolare e potere ecclesiastico il giornalista e lo studioso di mistica raccontano perché
Ave Maria laica
L’inchiesta di Augias e Vannini sulla ragazza che divenne mito
di Vito Mancuso
Dopo l’Inchiesta su Gesù con Mauro Pesce (2006) e sul Cristianesimo con Remo Cacitti (2008), Corrado Augias giunge al tema delicatissimo di Maria, l’umile donna diventata con il tempo Madonna, cioè Mea Domina, Mia Signora, termine di origine aulica che prima di entrare nel lessico religioso ricorreva nella poesia cortese della Scuola siciliana e del Dolce Stil Novo. La guida cui Augias si affida per districarsi nel labirinto di testi sacri, dogmi, apparizioni e devozioni mariane è Marco Vannini, noto studioso di mistica e autore di numerosi saggi che sfidano la concezione tradizionale della religione.
Ho parlato di labirinto perché in effetti questa è la condizione della lussureggiante costruzione teologica e devozionale cresciuta nei secoli sulla base dei pochi passi evangelici concernenti la madre di Gesù. In singolare contrasto con la sobrietà biblica, la tradizione cattolica ha infatti elaborato la massima «de Maria numquam satis», «su Maria mai abbastanza», generando così più di 30 celebrazioni mariane all’anno, 4 dogmi, le 150 avemarie del Rosario (di recente diventate 200 con l’aggiunta di nuovi “Misteri”), le 50 Litanie lauretane e una serie sterminata di altre devozioni, chiese, ordini religiosi, antifone, musiche, immagini, santuari.
Leggendo il libro (che esce poco prima dell’arrivo a Roma, il 13 ottobre prossimo, della statua della Madonna di Fatima, una delle più celebri Madonne accanto a quelle di Loreto, Lourdes, Czestochowa, Guadalupe, Medjugorje) pensavo spesso al padre domenicano Yves Congar (1904-1995), benché nel libro non sia nominato. Teologo stimatissimo, creato cardinale da Giovanni Paolo II per la preziosità del suo pensiero, Congar annotava nel diario tenuto durante il Vaticano II e pubblicato postumo nel 2002: «Mi rendo conto del dramma che accompagna tutta la mia vita: la necessità di lottare, in nome del Vangelo e della fede apostolica, contro lo sviluppo, la proliferazione mediterranea e irlandese, di una mariologia che non procede dalla Rivelazione ma ha l’appoggio dei testi pontifici » (22.9.61). Eccoci al punto critico: la vera fonte della proliferazione mariologica non è la Rivelazione, ma un singolare connubio tra potere pontificio e devozione popolare. Maria è sì «una madre d’amore voluta dal popolo» come scrive Augias, ma tale volontà popolare è stata sistematicamente utilizzata dal potere ecclesiastico per rafforzare se stesso: tra mariologia ed ecclesiologia il legame è d’acciaio.
Congar proseguiva: «Questa mariologia accrescitiva è un cancro» (13.3.64), «un vero cancro nel tessuto della Chiesa» (21.11.63). Il protestante Karl Barth aveva definito la mariologia «un’escrescenza, una formazione malata del pensiero teologico », il cattolico Congar indurisce l’immagine. Come spiegare il paradosso? Il fatto è che quanto più crescono il desiderio di onestà intellettuale, la fedeltà al dettato evangelico, la volontà di reale promozione della donna all’interno della Chiesa, tanto più decresce l’afflato mariologico con la sua tendenza baroccheggiante. E ovviamente viceversa. Prova ne sia che nel protestantesimo, dove la dottrina su Maria è contenuta nei limiti indicati dal Vangelo, il ruolo della donna nella Chiesa è del tutto equivalente a quello del maschio (è di questi giorni la notiziache alla presidenza della Chiesa luterana degli Stati Uniti è giunta una donna), e viceversa nel mondo cattolico i più devoti a Maria sono anche i più contrari al diaconato e al sacerdozio femminile, basti pensare a Giovanni Paolo II.
Ma non era solo Congar, anche il giovane Ratzinger, allora teologo dell’università di Tubinga, scriveva nell’Introduzione al Cristianesimo del 1967: «La dottrina affermante la divinità di Gesù non verrebbe minimamente inficiata quand’anche Gesù fosse nato da un normale matrimonio umano», parole da cui appare che il dogma della Verginità di Maria non è per nulla necessario al nucleo della fede cristiana, e ovviamente meno ancora lo sono i dogmi recenti dell’Immacolata Concezione e dell’Assunzione. È l’opinione anche di teologi del livello di Rahner e di Küng. Eppure sembra non ci sia nulla da fare: Ratzinger cambiò presto idea giungendo a fare della Verginità di Maria «un elemento fondamentale della nostra fede» e anche papa Francesco farà arrivare a Roma la statua della Madonna di Fatima consacrando il mondo al Cuore immacolato di Maria come già fecero Pio XII nel 1942, Paolo VI nel 1964, Giovanni Paolo II nel 1984, con i risultati, per quanto attiene al mondo,che ognuno può valutare da sé.
Tornando al libro in oggetto, la sua forza consiste nella ricchezza della documentazione e nella piacevolezza con cui viene offerta: i testi biblici vengono scandagliati con competenza filologica, si analizza lo sviluppo del culto mariano, i quattro dogmi, le preghiere tradizionali, i nessi con il culto mediterraneo della Grande Madre e con le altre religioni, la lettura femminista, le altre Marie dei Vangeli e in particolare la Maddalena, le apparizioni e in particolare quella di Lourdes del 1858 con le guarigioni miracolose attestate ancora oggi e quella di Fatima del 1917 con i famigerati tre segreti. Vi sono anche due dotti capitoli finali su Maria nell’arte, nella poesia, nella musica, nel cinema.
Il libro è solido dal punto di vista dei testi. Vengono citati Sant’Agostino in latino, l’esegesi dei testi del Vaticano II, si ricorda persino la setta di un certo Valesio sconosciuto ai principali dizionari teologici, anche se poi gli autori scrivono che nelle Scritture «nessun riferimento si fa mai alla sua miracolosa maternità verginale», dimenticando Matteo 1,18 secondo cui Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» e Luca 1,35 che ribadisce il messaggio.
Ma il risultato dell’inchiesta alla fine qual è? La demolizione della dottrina tradizionale. Avversata da Augias fin dall’inizio, da Vannini è sì difesa («la devozione a Maria è segno di maturità spirituale») ma in modo inaccettabile per il cattolicesimo. Per esso infatti vi è una connessione inscindibile tra fatto storico-biologico e significato spirituale, mentre a Vannini interessa unicamente il secondo, per lui la verginità e maternità di Maria sono «non una storia esteriore ma una realtà interiore», e Maria è «l’anima che ha rinunciato all’amore di sé». Con ciò egli si colloca volutamente, come recita il titolo del suo ultimo saggio, oltre il Cristianesimo. Ne viene il paradosso di un libro sulla più cattolica delle dottrine scritto da un non credente e da un “oltrecristiano”! Ma questo, lungi dall’essere un difetto, è stata la condizione che ha concesso loro obiettività nel presentare lucidamente lo sterminato materiale sulla «fanciulla che divenne mito» e di offrire uno strumento utile e soprattutto onesto per ritornare alla verità evangelica su Maria.
Nell’immagine, in senso orario la Verginedi Ingres, la Madonna Benois
di Leonardo la Pietàdi Michelangelo la Madonna d’Alba di Raffaello e
l’Annunciazione di Beato Angelico
Esce mercoledì: Inchiesta su Maria di Corrado Augias e Marco Vannini (Rizzoli, pagg. 250, euro 19)
I due autori saranno presenti al Festivaletteratura di Mantova giovedì 5 settembre alle 16,30 in Piazza Castello
Corriere 2.9.13
Ostacolare la conferenza di Garattini l’intolleranza dei nemici della scienza
di Luigi Ripamonti
Una quarantina di persone appartenenti a gruppi animalisti e alcuni esponenti locali del Movimento 5 Stelle hanno manifestato ieri mattina a Sarzana, in occasione della conferenza tenuta al Festival della Mente da Silvio Garattini, fondatore e direttore dell'Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri. Striscioni, slogan, sit-in di protesta e irruzione all'interno dell'aula di tre esponenti del gruppo poco prima dell'inizio della conferenza, con urla contro Garattini. La colpa del professore? Aver sostenuto in molte occasioni la perdurante necessità della sperimentazione animale nella ricerca biomedica.
La questione oggi, però, non è essere d'accordo o meno con il professor Garattini, perché il problema si sposta sul piano della cultura, della tolleranza e della libertà di espressione. Parole grosse? Nient'affatto, se è vero che prima della contestazione gli attivisti avevano messo in atto un'iniziativa ancora più grave, come un appello al sindaco del Comune spezzino contro la partecipazione dello scienziato al Festival, addirittura con l'auspicio che a Garattini fosse impedito l'ingresso in città.
Alle argomentazioni di un segno si oppongono argomentazioni di segno contrario anche e soprattutto in campo scientifico, dove le opinioni sono ancelle dei fatti e dei dati. Se si sceglie di negare la parola, il sospetto è che si abbia paura di misurarsi sul piano della dialettica e, trattandosi di scienza, delle prove che la sostengono. Si obietterà che il professor Garattini è stato invitato successivamente dai suoi contestatori a un altro dibattito pubblico. E allora perché non limitarsi a questo, senza iniziative censorie e espressioni violente?
Azioni simili, che sono chiaramente autolesioniste sul piano della credibilità, generano il sospetto che chi le compie forse non sia cosciente fino in fondo nemmeno di ciò che smarrisce anche sul piano strettamente personale. Chi nega il diritto di parola rinuncia a confrontarsi per decidere e scegliere con responsabilità. Chi nega il diritto di parola abdica quindi anche alla propria libertà e riduce se stesso a un automa mosso da soli impulsi, presumibilmente eterodiretti.
il Fatto 2.9.13
L’Io senza il Noi delira ed è carne da manicomio
La saggezza
di Vittorino Andreoli
Forse è troppo tardi. Temo si sia già spenta. La saggezza è morta e il tempo presente ne ha un bisogno estremo. Il bisogno dei morti, quando ormai i vivi seminano soltanto morte. Benedetto Croce ci ricorda che se scompare una parola non resta più nulla del pensiero che conteneva. E non ne rimane nemmeno il ricordo, come uno di quei cimiteri d’Irlanda in cui le tombe non portano nemmeno più il nome di chi vi è interrato.
Senza la saggezza l’umanità è vuota, sente che manca sempre qualcosa, ma non sa cosa. È la saggezza che non c’è più.
La saggezza si chiede quale è il senso dell’uomo nel mondo e soltanto dopo fa progetti e si mette a correre.
La saggezza un tempo si coniugava soprattutto con i vecchi. E i vecchi oggi sono morti, uccisi dalle belle maniere.
Si può ammazzare il corpo e allora di un uomo scompare tutto. Ma si può ucciderne la personalità e così si incontrano corpi che se la portano in giro defunta. Si può uccidere anche la dimensione sociale dell’uomo, il suo significato nel mondo, il suo senso dentro la comunità. E rimane un inutile, un Nessuno, uno che sembra esserci ma è come non ci fosse.
Io sono vecchio, un nessuno che sogna la saggezza.
La saggezza non è intelligenza, non è bellezza, non è successo… la saggezza è il senso del-l’uomo che si esprime soltanto insieme agli altri e dunque ha la dimensione del Noi di quel noi che è morto.
La saggezza non ha un prezzo, non è quotata alla Borsa di Wall Street. La saggezza è silenzio, è gioia e si può piangere di gioia.
La saggezza è sapere che l’Io senza il Noi delira e diventa carne da manicomio. La saggezza non è potere: faccio perché posso, ma semmai è un muoversi lentamente per fare qualcosa che serva a tutti. La saggezza non urla, è meditazione. Si basa sulla fragilità dell’uomo, che è una sua caratteristica strutturale, esistenziale. Il potere è la forza che sottomette, la fragilità è il bisogno dell’altro, senza è come trovarsi in un deserto dove si esperiscono soltanto illusioni. L’amore nasce dalla fragilità, dal senso del proprio limite. Ma l’amore è diventato mercato: si compra e si vende.
Domina la stupidità, il credere di essere dèi mentre si è soltanto mistero, di essere grandi e si è attaccati ad “un filo di ragno”. Dominano la furbizia, l’inganno di chi crede di imbrogliare l’altro e sta truffando se stesso, l’invidia di chi corre per aver ciò che un altro possiede e si dimentica di quanto ha.
La saggezza non è la giustizia dei tribunali, non è la verità che puzza sempre di sopraffazione, è la ricerca continua di senso, di pace, di serenità. Non è saggio condannare ma perdonare.
La saggezza si esprime dentro un sorriso. È usare le mani per una carezza, non per strangolare.
Ho voglia di saggezza, ma forse non c’è più, se l’avete vista da qualche parte, ditemi dove, e a passi lenti e stanco, la raggiungerò. Ho bisogno di guardarla in viso per poter almeno sperare.
Vittorino Andreoli è uno fra i più autorevoli studiosi italiani della psiche. I suoi saggi sono da sempre un imprescindibile punto di riferimento per capire i giovani, il disagio, la malattia, la società, ma anche per interpretare la realtà nei suoi aspetti creativi, familiari, gioiosi. Ha anche scritto numerosi romanzi, raccolte di racconti e di poesie, diari interiori che danno magistralmente voce ai sentimenti, alla fantasia, alla potenza evocatrice della letteratura. Tra gli ultimi titoli, tutti di grande successo e pubblicati da Rizzoli: “Il denaro in testa” (2011), “L’uomo di superficie” (2012), “I segreti della mente” (2013).
il Fatto 2.9.13
Tra Roma e l’Europa corre l’Appia
di Tomaso Montanari
CASTELLO E CHIESA
Cos’è l'Europa? Dov’è l'Europa? La posso toccare, vedere, respirare? Ci posso camminare dentro? L’Europa non è un’invenzione dei banchieri, non solo un simbolo sui nostri soldi, gli euro. E non è nemmeno un’idea astratta, un desiderio, o una speranza.
L’Europa è dentro di noi. È come una nostra mamma, a cui assomigliamo tutti: anche se non lo sappiamo. E, per trovarla, non importa andare molto lontano.
Prendiamo l’Appia, che i romani chiamavano la “Regina delle Strade”. Già duecento anni prima della nascita di Cristo collegava Roma a Brindisi, cioè alla Grecia. Ogni epoca si è specchiata nell’Appia: i primi cristiani ci scavarono le catacombe, gli artisti del Rinascimento e del Barocco andavano a cercarci un irripetibile insieme di arte e natura selvaggia. Oggi abbiamo l’Appia che ci meritiamo: per larghi tratti sfigurata dai gangsters che l’hanno resa uno dei santuari del cemento abusivo. Ma ancora bellissima: salvata dall’impegno di Antonio Cederna, e oggi difesa da un’archeologa coraggiosa come Rita Paris.
Ebbene, al terzo miglio dell’Appia Antica sei in Europa. Arrivando da Roma, superi la chiesa di San Sebastiano: e dopo poco, sulla sinistra, ecco la tomba di Cecilia Metella, che fu più o meno una contemporanea di Gesù. Non sappiamo bene chi fosse, ma certo suo padre e suo marito le vollero così bene da costruire un monumento degno di un faraone: un piccolo pantheon cinto di marmi, ornata di un fregio con tanti teschi di bue (da cui il nome con cui generazioni di romani hanno chiamato quel posto: Capo di Bove).
In pieno Medioevo questa tomba risorse a nuova vita: le spuntarono i merli, e diventò il torrione di un castello. Un nuovo signore aveva privatizzato questa parte dell’Appia: papa Bonifacio VIII Caetani, il grande nemico di Dante, che nella Divina Commedia gli prepara un posto all’Inferno.
In quel suo castello, il papa volle anche una chiesa: e la volle far costruire come quelle che aveva visto a Parigi e in Francia. La volle dedicare a San Nicola, come succedeva spesso in Francia per le cappelle dei castelli: perché a San Nicola era dedicata la cappella che Giustiniano si era costruito nel palazzo imperiale di Costantinopoli. E probabilmente la fece costruire a un architetto che lavorava a Napoli per i re di sangue e cultura francese, quelli che costruirono Santa Chiara e San Lorenzo.
A pochi minuti dal centro di Roma, sulla più antica strada per la Grecia, trovi una chiesa francese che guarda a Napoli e richiama Istanbul.
È l’Europa nel cuore dell'Italia: ed è uno dei posti più belli del mondo.