il Fatto 30.8.13
Congiure democratiche. I 101 che fecero fuori Bersani
Adesso Bersani sputa il rospo “Sala macchine per farmi fuori”
di Antonello Caporale
L’ex segretario Ds dice a Repubblica che i 101 parlamentari che affondarono la candidatura di Prodi al Quirinale volevano colpire anche lui. La storia della rielezione di Napolitano e delle larghe intese è tutta da scrivere
Ci fu una regia, più mani che insieme costruirono una “sala macchine” nella quale si congegnò l’ordigno per far fuori Romano Prodi dal Quirinale e Pierluigi Bersani dal Pd. Con quel che ne è seguito e che nel disegno era evidentemente pianificato: la richiesta di un supplemento di presidenza a Giorgio Napolitano e la cooptazione di Silvio Berlusconi al governo, il timbro del nuovo corso, delle grandi intese, della “cooperazione” tra gli opposti per la salvezza del Paese. C’è un po’ da sussultare nella verità che Bersani, il protagonista sconfitto, elargisce, facendosi cadere le parole dalla tasca, sul finire di un’intervista a Repubblica. Parla di questa sala, e offre limpida l’immagine cruenta di un putsch, un complotto per cambiare il corso della storia, sovvertire, con un accordo segreto, la linea ufficiale. È dentro il Pd che bisogna indagare, andare ancora più a fondo, sembra dire Bersani, verificare fino a che punto si sia spinta l’intelligenza col nemico, i dettagli dell’accordo, la stesura del compromesso.
E IL PATTO con Berlusconi - e qui il passato oramai conosciuto proietta la sua ombra equivoca sul presente - contiene forse anche quella garanzia di comprensione rispetto ai guai giudiziari, alle sentenze che si accavallano e alla pena che l’aspetta? Il passato ritorna e già il prossimo 9 settembre, giorno di riunione della Giunta per le elezioni, avremo modo di capire se quella sala macchine è ancora in funzione. E anche se non si stia preparando, seguendo i fili confusi di un disegno non ancora scoperto, una reazione, una resistenza armata, dentro il Pd, al-l’accordo di pace fatto siglare da Napolitano.
Torniamo a quei giorni e sollecitiamo la memoria di chi li ha vissuti da protagonista sull’una e l’altra sponda del Partito democratico. Miguel Gotor legava ogni suo passo a quello di Bersani: “Ricordo il gelo, il silenzio attorno a noi. Percepivo in quella rarefazione di rapporti interni qualcosa di più che una presa di distanza. Se Bersani parla di sala macchine ha sicuramente elementi maggiori per meglio definire la mia impressione. È indubitabile che qualcosa si sia mosso contro di noi”. Alt. Qui Nicola Latorre ha un ricordo esattamente opposto: “I gruppi dirigenti non si riunivano e le decisioni erano prese in grande solitudine, un cerchio ristretto di persone che centellinavano ogni informazione. Sala macchine? Cospirazione? Ogni segretario sconfitto tende ad assolvere il suo operato. Lo sbandamento che seguì dalle ripetute sconfitte sul campo, ricordiamoci la infausta trattativa con Beppe Grillo, provocò uno smottamento, questo è vero. Son cose che hanno fatto male al partito, ma non è verità di oggi”.
Choc, confusione, caos in un partito mal guidato. Nico Stumpo, controllore delle tessere e responsabile dell’organizzazione, un vicino di casa del segretario disarcionato: “Il voto contro Prodi fu un colpo a freddo, questo posso dirlo. Sul resto non so, ma quel sovvertimento del pronostico fu davvero una rivelazione, una novità assoluta, uno choc vero per noi”.
QUEL VOTOdi maggio porta disordine ancora oggi, e rischia di gonfiare di guai il prossimo autunno di Enrico Letta. Dice Stumpo: “Non credo alla ripicca, non penso assolutamente che esiste la possibilità di regolare i conti interni facendoli pagare a Letta. I nostri militanti patiscono ancora, e persino di più che l’allenza con Berlusconi, la scelta del Pd di non dare i voti al fondatore dell’Ulivo, al padre nobile del partito”.
Ritorniamo alla sala macchine, alla cabina di regia, al complotto. C’è un fatto: poco dopo la “standing ovation” che l’Ansa registrò sul nome del leader bolognese nella riunione dei gruppi parlamentari, la Velina rossa, foglio agguerrito e informato di area dalemiana, ricordò un suo lancio del 3 aprile preannunciando decine di casi di coscienza e ostruzioni, ribaltamenti, inabissamenti. Valutò in 130 il numero dei dissidenti, definendo, come supremo oltraggio al Bersani sconfitto, in 29 (furono 101 i grandi elettori del Pd contro Prodi) il numero dei franchi tiratori alla rovescia. “Ricordo caos, assenza di linea politica, molta approssimazione del gruppo dirigente. La regia, il gruppo organizzato, sono idee fuori dalla realtà che è magari anche più tragica e sconfortante”, è il parere di Goffredo Bettini.
Ma il passato trascina il presente nell’inquietudine: “Una parte dei nostri elettori condivide e comprende le larghe intese, nel mezzo tanti sono sul chi va là e poi c’è la zona degli arrabbiati, di chi ne ha le tasche piene di Berlusconi. Sono sentimenti che premono per la rottura, ed è suggestiva l’idea che in autunno si restituisca pan per focaccia, si metta in crisi il governo Letta con quel che ne consegue. Ma rimane una suggestione, per adesso non andrei oltre”, pensa Latorre.
L’autunno è alle porte e la verifica se un’altra sala macchine è in procinto di ospitare operazioni di guerra contro il governo (e soprattutto il Quirinale) non si farà attendere. Davide Zoggia: “La nostra gente comprende tutto ma ci chiede una cosa sola: essere irremovibili con Silvio Berlusconi. La Costituzione va rispettata e le sentenze pure”.
il Fatto 30.8.13
Maroni mi disse: Napolitano ce l’ha con Pier Luigi, che è contrario al bis
di Loris Mazzetti
IL SEGRETARIO federale della Lega Nord Roberto Maroni, dopo aver vinto le elezioni regionali in Lombardia del 24-25 febbraio, la prima uscita televisiva la fece su Rai Tre a Che tempo che fa il 3 marzo. Nell’attesa dell’intervista con Fabio Fazio rimasi con lui nel camerino ad intrattenerlo come si fa con tutti gli ospiti, con lui in particolare visti i nostri precedenti all’epoca di Vieni via con me quando, da ministro dell’Interno, impose la sua replica al monologo con cui Roberto Saviano aveva denunciato “la presenza della ‘ndrangheta al Nord che interloquiva anche la Lega”. Invano mi opposi alla sua replica, imposta dal direttore generale della Rai Masi, e ne pagai le conseguenze. Per questo nessun rancore, il nostro padrone è il telespettatore che avrà fatto le opportune considerazioni. Questo per dire che tra me e Maroni il rapporto è puramente televisivo e non esiste tra noi confidenza. In quei giorni il dibattito era: “Il presidente Napolitano avrebbe dato o meno mandato all’onorevole Bersani di formare il governo? ”. Chiesi al segretario della Lega quale era la sua opinione. Lui mi disse che aveva seri dubbi sulla possibilità che ciò accadesse.
RIMASI molto sorpreso perché era il pensiero dell’ex ministro dell’Interno, cioè di uno che i fatti del “palazzo” li conosceva, perché dal passaggio di consegna alla Cancellieri era trascorso poco più di un anno. Maroni mi spiegò che Napolitano aveva un certo “ra n-core” nei confronti di Bersani che, all’interno del Pd, in qualità di segretario, si era fortemente opposto al suo desiderio di iniziare un secondo mandato da presidente della Repubblica, per passare alla storia come il primo e probabilmente l’unico a dare il bis.
Grazie al tradimento dei 101 democratici nei confronti di Romano Prodi e soprattutto del loro capo Bersani, il desiderio di Napolitano, trasformato in salvatore della Patria, è stato esaudito. Mi spiace per lui, lo scrivo con il rispetto che si deve all’Istituzione, ma questa è la verità dei fatti.
il Fatto 30.8.13
Il politologo Gianpietro Mazzoleni
“Ha vinto la falange Brunetta”
di Stefano Feltri
La capacità di Silvio Berlusconi di imporre l’agenda si è rivelata come sempre micidiale, gli altri sono stati travolti e hanno potuto soltanto reagire”. Giampietro Mazzoleni insegna Comunicazione politica alla Statale di Milano e dirige la rivista del Mulino ComPol.
Professor Mazzoleni, come ha fatto Berlusconi a imporre così il tema Imu?
Ha usato l’accento populistico che gli riesce molto facile, si è concentrato su quello che per gli italiani è il bene supremo, cioè il mattone, nonostante il crollo dei prezzi. Ed è partito da lontano, già prima della campagna elettorale.
Però la vittoria è stata solo parziale, l’Imu 2012 non è stata restituita e quella sulla prima casa sarà sostituita da un’altra tassa.
Non importa, quello che conta non è il calcolo razionale, per gli italiani è una vittoria a somma zero. Infatti Angelino Alfano, nella conferenza stampa dopo il Consiglio dei ministri, non è sceso nei dettagli. Ha solo annunciato la cancellazione dell’Imu e sembrava George Bush padre quando diceva: “Leggete le mie labbra, niente nuove tasse”. Dal punto di vista della comunicazione è stato un successo.
Quanto ha pesato l’ossessiva ripetizione televisiva della richiesta di cancellare l’Imu, affidata soprattutto a Renato Brunetta?
Molto. Berlusconi ha chiaramente chiesto ai suoi una compattezza assoluta sull'Imu e l'ha avuta. L'unico messaggio arrivava o da Berlusconi o da Brunetta. La falange non ha perso nessun uomo per strada, diventando quindi uno schiacciasassi. É una pagina che finirà nei manuali di comunicazione: un notevole successo politico anche se gli italiani sanno perfettamente che la tassa uscita dalla porta rientrerà dalla finestra.
Dopo aver ottenuto questo risultato, per Berlusconi sarebbe il momento di ritirare i cosiddetti falchi?
Forse farebbe meglio perché comincia a esserci una certa stanchezza per questa costante aggressività. Se dovessimo andare alle elezioni in tempi brevi, personaggi come Daniela Santanchè potrebbero respingere l’elettorato moderato. Prima della sentenza della Cassazione Berlusconi aveva richiamato gli esponenti più bellicoso del partito, gli converrebbe farlo anche ora in attesa della sentenza “politica” del Senato sulla decadenza
Il Pd invece non riesce a imporre sull’agenda alcun tema, nessuno si è accorto che nel decreto del governo ci sono interventi anche per esodati e cassintegrati, potenziale elettorato democratico.
Perché il Pd è un partito plurale, tutti si esprimono continuamente, l'effetto di immagine finale è spezzettato, un mosaico difficile da leggere. Non è mai ben chiaro qual è la posizione, anche se questo è un po' inevitabile per un partito democratico che vuole essere democratico anche di fatto e non soltanto di nome. Opinioni diverse si annullano a vicenda.
Ora che la questione Imu è stata superata quale tema dominerà l’agenda politica?
Penso che sarà la legge elettorale. Letta lo sta già facendo intendere da alcuni giorni. E al Pdl dirà: vi abbiamo dato l'Imu adesso dovete accettare la legge elettorale. Anche perché dopo l’intervento sull’imposta immobiliare il governo pare destinato a continuare e quindi il premier può pensare all’agenda di ottobre.
il Fatto 30.8.13
I trucchi dell’abolizione dell'Imu. Soldi finiti e favori agli amici
Le coperture non ci sono, la nuova Service Tax si annuncia pesantissima
La Chiesa non paga
di Marco Palombi
Forse è il caso, visto il livello della propaganda sul tema, di fissare alcuni punti sulla questione Imu prima casa e i reali contenuti del decreto approvato ieri: i punti oscuri, come vedremo, sono più d’uno.
Abolizione?
Non proprio. Il decreto abolisce solo la rata di giugno e sostiene che esiste un “accordo politico” per cancellare anche la seconda, quella di dicembre, sulla prima casa e su terreni e fabbricati agricoli. Per questi ultimi, peraltro, si tratta di un’abolizione parziale: questo tipo di patrimonio tornerà a pesare sull’Irpef fondiaria per il 50 per cento. L’abolizione, per di più, vale solo per il 2013: l’anno prossimo arriverà una service tax che dovrebbe all’ingrosso avere il gettito dell’Imu (ve ne parliamo più avanti). Nel frattempo, però, i Comuni potranno approvare i loro bilanci di previsione solo tra qualche mese.
Le imprese? Promesse
Niente da fare per i capannoni industriali: pagheranno l’Imu. La promessa è che l’imposta dall’anno prossimo sarà deducibile al 50 per cento dal reddito d’impresa (ma non dall’Irap, che si paga anche se l’azienda chiude il bilancio in perdita).
Coperture farlocche
Per finanziare l’abolizione dell’Imu, i fondi per la cassa integrazione e il “piano casa” sono indicate misure abbastanza aleatorie e per di più una tantum: tagli di spesa intermedia dei ministeri che andranno indicati dal Tesoro e, soprattutto, la partita di giro dei debiti commerciali della Pubblica amministrazione. In sostanza, quando scattano i pagamenti, una parte di quei soldi torna indietro sotto forma di Iva: questi maggiori introiti servono appunto a eliminare la rata Imu di giugno. Di più: siccome i soldi non bastavano, il ministeo del Tesoro Fabrizio Saccomanni ha autorizzato la spesa di altri 10 miliardi oltre ai venti già stanziati. Ovviamente se, come in parte sta accadendo, ci fossero ritardi e difficoltà nei pagamenti, questo non potrebbe non avere effetti sui conti pubblici.
Condono ai furbetti delle slot
L’ultima fonte di finanziamento per l’operazione spot è una sanatoria per chi sia stato condannato in primo grado dalla Corte dei conti per fatti iniziati prima del dicembre 2005. Messa così è incomprensibile, ma si tratta di un favore alle società concessionarie dei giochi. Vicenda annosa: la magistratura contabile contestò ad una decina di aziende proprietarie delle slot machine un’evasione miliardaria; dopo una lunga querelle la condanna in primo grado ha quantificato il danno in due miliardi e mezzo circa. Ora, grazie a Enrico Letta, potranno chiudere il tutto pagando il 25 per cento entro il 15 novembre: all’ingrosso, per loro, si tratta di 620 milioni.
Regalo a banche e costruttori
Il Piano casa voluto dal ministro Maurizio Lupi (Pdl) contiene anche una misura che farà piacere ai nostri istituti di credito: Cassa depositi e prestiti potrà acquistare obbligazioni bancarie emesse dalle banche cartolarizzando i crediti da mutui garantiti da ipoteca su immobili residenziali”. Tutta roba il cui valore è in caduta libera. Ai costruttori, invece, è stato regalata l’esenzione Imu sull’invenduto.
Inquilini a rischio service tax
Si chiamerà Taser, pare, come le pistole che danno la scossa elettrica, e sarà una tassa sui servizi comunali. Sarà in vigore dal 2014 e ingloberà tanto l’Imu che la Tares, cioè i pagamenti su rifiuti e servizi comunali (verde pubblico, trasporti, etc): verrà calcolata in base ai metri quadrati o alle rendite catastali, come l’Imu, e la pagheranno tanto i proprietari che gli inquilini. Sarà meno cara? È lecito dubitarne: al momento non ci sono coperture strutturali per diminuire il gettito - che all’ingrosso dovrebbe aggirarsi sui 30 miliardi di euro tutto compreso - e ieri il sottosegretario Pier Paolo Baretta (Pd) ha parlato di uno stanziamento di 2 miliardi per evitare effetti devastanti sugli affittuari (le associazioni già protestano, ricordando che la stragrande maggioranza degli inquilini ha redditi che non superano i trentamila euro l’anno). Per di più, ai comuni - che saranno i veri titolari dell’imposta - viene concesso di aumentare le aliquote per coprire interamente i costi dei servizi. Ad oggi, insomma, Taser, Imu e Tares sono solo i nomi delle tre carte con cui sta giocando il banco.
La Chiesa non paga
Enrico Letta l’ha detto chiaramente, per lo più ignorato dai media: il no profit sarà esentato dalla nuova Taser. Questo vuol dire che il regolamento faticosamente varato da Monti per far pagare l’Imu, ad esempio, a scuole e alberghi privati - in gran parte di enti ecclesiastici - evitando pure una multa al-l’Italia per aiuti di stato illegali non sarà rispettato. Visto che anche quest’anno il no profit “commerciale” s’è salvato per una serie di ritardi nell’applicazione della legge Monti, si può tranquillamente dire che la Chiesa è eternamente esente dall’imposta.
Il rischio Tares a Natale
Nessuno lo dice, ma i sindaci potranno far entrare in vigore la nuova pesante tariffa su rifiuti e servizi già a dicembre.
Una nuova, piccola tassa
Nonostante l’enfasi di Alfano sul decreto tax free, una ce n’è: per finanziare la parte sugli esodati viene infatti diminuita la quota scaricabile delle assicurazioni su vita e infortuni. E questo implica una aumento delle tasse da pagare.
il Fatto 30.8.13
Imu, l’inganno della propaganda
di Mario Seminerio
Il giorno dopo il trionfale annuncio della cancellazione dell’Imu sulla prima casa, dato mercoledì dal governo in un clima surreale per il tenore di alcune dichiarazioni politiche che parevano una via di mezzo tra la vittoria al Mondiale di calcio e la scoperta della pietra filosofale, il paese si è svegliato attendendo di capire a che ora è previsto il boom che ci solleverà da terra tirandoci per le stringhe delle scarpe.
Un risparmio medio di 225 euro per famiglia pare avere, agli occhi di alcuni, una tale carica di ottimismo e di inversione del sistema di aspettative sulla congiuntura che, se le cose dovessero davvero andare come previsto ad esempio da Silvio Berlusconi (“Con la riforma di oggi invertiamo la rotta su un sentiero virtuoso di crescita: il valore degli immobili aumenta, il reddito aumenta, i consumi ripartono, si creano nuovi posti di lavoro, le aspettative sul futuro tornano a essere positive” ), potremmo finire con l’ipotizzare che la crisi sia stata solo il frutto di un sortilegio scagliato contro il nostro paese dalle Forze del Disfattismo che da sempre ci impediscono di mostrare al mondo il nostro vero valore. Sfortunatamente, le cose stanno in termini differenti.
È INNEGABILE CHE l’atteggiamento psicologico degli agenti economici abbia un ruolo, ma non tale da sovvertire una realtà fatta di dati “duri” come il persistente credit crunch bancario e condizioni del mercato del lavoro che restano prostrate. Il fatto è che in Italia sembra effettivamente esserci un’ampia discrasia tra aspettative e psicologia delle famiglie e riscontri in termini di comportamenti di spesa. Ad esempio, il nostro paese si caratterizza per una costante e singolare divergenza tra gli indicatori di fiducia dei consumatori e il successivo andamento delle vendite al dettaglio. Nel senso che, a periodi di miglioramento delle aspettative delle famiglie conseguono poi robuste delusioni in termini di consumi effettivi.
QUESTO fenomeno appare legato ai cicli della politica italiana, e ad annunci di mirabolanti iniziative di politica fiscale destinate invariabilmente a finire contro il muro della realtà. Anche a questo giro, pare abbiamo posto le basi per rinverdire la tradizione: ieri Istat ha pubblicato il dato di agosto dell’indice di fiducia dei consumatori, che ha toccato il valore di 98,3, battendo le attese e tornando sui livelli della seconda metà del 2011. La cosa è ancora più sorprendente se si pensa che tale indice è rimasto per molti mesi a strisciare sul fondo, al valore prossimo a 85, per riprendersi dopo la formazione del governo Letta. L’indice Istat appare in miglioramento più marcato sulla componente futura rispetto a quella corrente (per la serie “ora non va molto bene, ma andrà meglio”), e più sulla valutazione del clima economico nazionale che di quello personale (“io non me la cavo ancora benissimo, ma penso che per il paese stia per andare meglio”). Come detto, questo indicatore di fiducia appare assai poco correlato con i consumi effettivi, anche considerando il fisiologico intervallo variabile che intercorre tra miglioramento del clima psicologico e assunzione di decisioni di spesa. E proprio queste affascinanti evidenze comportamentali applicate al-l’economia sembrano suggerire una diversità dei consumatori-elettori italiani rispetto a quanto ci si aspetterebbe da agenti vagamente razionali. Ad esempio, ci si attenderebbe che il frastuono che ha caratterizzato la decisione sull’Imu prima casa, trascinatosi per mesi, dovesse finire col deprimere le aspettative di consumatori normalmente avversi all’incertezza.
STESSO DISCORSO per la prossima entrata a regime della Service Tax, che al momento appare del tutto indeterminata e che rischia di risolversi in una brutta sorpresa per i contribuenti, viste le condizioni molto precarie dei conti dei comuni. Invece, il clima di fiducia dei consumatori italiani è migliorato, verosimilmente a causa del continuo condizionamento sul luminoso futuro che ci attende, in attesa di evidenze reali. Abbiamo sempre un Campo dei Miracoli che ci attende, dietro l’angolo. La cosa non sorprende più di tanto, pensando che da un ventennio la maggioranza dell’elettorato italiano continua a credere, alternativamente, che Berlusconi sia l’uomo destinato a guidare il Paese verso una luminosa era di benessere, o che schieramenti progressisti innamorati della fiscalità come strumento punitivo della intrinseca malvagità umana possano portarci verso l’era della Grande Giustizia Redistributiva. Alla fine, pare di capire che il vero problema di questo Paese siano le stereotipate e disarmanti credenze politiche del suo elettorato, sempre più slegate dall’esame di realtà.
Repubblica 30.8.13
Già a marzo, una risoluzione del ministero per l’Economia ha concesso cinque anni di “abbuono” agli enti no profit, come quelli religiosi
E rispunta l’esenzione anche per la Chiesa
di V. Co.
ROMA — Sono passati venti minuti dall’inizio della conferenza stampa. Il premier Letta ha annunciato l’abolizione della prima rata dell’Imu, l’impegno a cancellare la seconda, la nuova Service tax, le misure per esodati e cassintegrati. Alla fine dice: «Poi c’è tutto il tema dei locali legati alle attività no profit del terzo settore che sono stati pesantemente penalizzati dall’Imu. Nella Service tax vogliamo completamente alleggerirla perché crediamo che questo passo sia molto importante». In pratica, il presidente del Consiglio promette di cancellare per sempre l’Imuanche alla Chiesa. Mossa che neppure Monti - dopo la battaglia a colpi di codicilli ingaggiata con il Consiglio di Stato - aveva mai osato. Almeno non così esplicitamente.
In qualche modo però - e ben prima che questo Esecutivo a forte trazione cattolica (oltre Letta, due ministri di area ciellina, Lupi e Mauro, poi Delrio, ma anche Alfano) entrasse in campo una mano a quel mondo era comunque arrivata. Contenuta nella risoluzione numero 3 del 2013, firmata dal direttore generale delle Finanze, Fabrizia Lapecorella. Data: 4 marzo 2013, una settimana esatta dalle elezioni politiche più incerte della storia italiana. Mentre il Pd si incartava tra consultazioni e incarichi, il ministero dell’Economia di fatto concedeva cinque anni in più agli enti non profit per adeguare Statuti o regolamenti (o redigerli ex novo), tappa obbligatoria per godere dell’eventuale esenzione dall’Imu sulle porzioni “non commerciali” degli edifici.
Il dipartimento Finanze, in pratica, scrive nella risoluzione che il termine del 31 dicembre 2012 «non è perentorio » perché le regole sui tempi sono quelle valide per la vecchia Ici. E dunque ogni Comune ha cinque anni di tempo dalla scadenza del periodo d’imposta per contestare «dichiarazioni incomplete o infedeli». Di conseguenza, più tempo per scuole e cliniche cattoliche - decisamente in pressing in quei mesi - per adeguarsi. Nel frattempo, tutto come prima. Chi non pagava, continua a non pagare. Nonostante la “norma Monti”, voluta per evitare l’infrazione europea per aiuti di Stato (aperta nel 2010 e chiusa il 19 dicembre2012). Ma ora arriva il Lodo Letta.
Repubblica 30.8.13
Il consigliere economico di Renzi, Gutgeld: non so se voterò il decreto sull’Imu, si prende ai poveri per dare ai ricchi
“Un’operazione da Robin Hood alla rovescia sulla casa cedimento alla destra populista”
di Tommaso Ciriaco
ROMA — «Egoisticamente sono contento perché non dovrò più pagare l’Imu sulla prima casa. Ma da esponente della sinistra sono molto triste. È un’operazione da Robin Hood alla rovescia. Si prende ai poveri per dare ai ricchi. Un cedimento alla destra populista ». Il siluro sul governo Letta arriva dal deputato del Pd Yoram Gutgeld. Tocca a lui, consigliere economico di Matteo Renzi, aprire una crepa significativa nel fronte dem: «Così com’è avrei grosse difficoltà a votare questo decreto».
Onorevole, lei parla di massima iniquità. Perché?
«Le tasse non sono come l’aria, che è infinita. Sulle tasse vanno fatte delle scelte».
Hanno scelto di cancellare l’imposta a tutti i cittadini.
«È una grande ingiustizia sociale e morale. Un atto sbagliato dal punto di vista economico. E un grave errore politico».
Un disastro, insomma. Perché è moralmente ingiusta?
«Se davvero ci fossero quattro miliardi di risorse rintracciatedall’Iva o dal gioco d’azzardo, io li metterei sui precari. E invece noi che facciamo? Li diamo ai benestanti e ai ricchi. Presenterò una proposta emendativa per ridurre l’Irpef ai redditi più bassi».
Che c’è di sbagliato dal punto di vista economico?
«Chi, come me, non pagherà l’Imu avrà mille euro in più. Finiranno in banca e lì resteranno. Ai benestanti non cambia nulla. Seinvece dessimo quei soldi a precari e disoccupati, andrebbero in consumi. Quindi economicamente è la scelta più sbagliata possibile: produce meno sviluppo e meno Pil».
Poi c’è il punto politico.
«Si tratta di un grave errore politico del Pd. Fino a martedì scorso abbiamo detto, con buon senso, che l’imposta andava ritoccata, ma comunque lasciata a chi è più ricco. Poi mercoledì c’è stata una marcia indietro inspiegabile. Ha vinto Berlusconi, abbiamo contribuito a costruire la sua campagna elettorale».
Addirittura. Un prezzo pagato in nome delle larghe intese?
«Lo sanno anche i bambini dell’asilo. E c’è una cosa ancora più grave: abbiamo ceduto non al Cavaliere, ma alla destra populista e demagogica. Perché una destra liberista seria tassa gli immobili, come avviene in Inghilterra e negli Usa. Una destra seria non dice che l’abolizione serve a rilanciare il mercato immobiliare, perché è una fesseria colossale. Serve invece ridurre l’enorme tassazione sulle transazioni immobiliari».
Sembra quasi intenzionato a votare contro questo decreto.
«Avrei grosse difficoltà a votare così com’è la parte sull’Imu. Mi spenderò per cercare di modificarlo in Parlamento».
il Fatto 30.8.13
Confessioni fiscali
Dopo il regalo a Silvio, il Pd ammette: “L’Iva salirà”
di M. Pa.
Silvio Berlusconi dice una cosa per volta, si sa, e fino allo sfinimento. Avendo abolito a chiacchiere l’Imu, adesso si dedica a ordinare dal suo bunker in Brianza: “No all’aumento dell’Iva” dal 21 al 22%. L’intervento del padre padrone del Pdl s’è reso necessario perché in mattinata Stefano Fassina, viceministro all’Economia e Pd di rito bersaniano, aveva messo nero su bianco - in un intervento sull’Huffington Post e alla web tv del Fat toquotidiano.it - quello che molti pensano ora che il decreto sull’Imu è legge: togliere l’imposta sulla casa anche ai ricchi “ha sottratto preziose risorse a finanziare, ad esempio, il rinvio dell’aumento dell’Iva previsto, oramai irrimediabilmente dopo la ‘vittoria del Pdl’ sull’Imu, per il primo ottobre”.
APRITI CIELO. Il partito del Cavaliere non può neanche immaginare si alzi una tassa mentre loro sono al governo: preferiscono, come nel caso della futura service tax, che ci pensino i sindaci ad aumentarle oppure a tagliare servizi essenziali. A loro la scelta. Il primo a reagire, come spesso accade, era stato il capogruppo Pdl alla Camera Renato Brunetta: “Fassina, per amor di polemica e di ideologia, straparla. Non ci sarà alcun aumento dell’Iva da ottobre, come da accordi di maggioranza. Aspettiamo smentite dal ministero dell’Economia”. A seguire è stato un fuoco di fila di attacchi (ad esempio Fabrizio Cicchitto: “Abbiamo l’impressione che Letta si nutra qualche serpe in seno”) culminati nella presa di posizione di Silvio Berlusconi al telefono con Studio aperto: niente aumenti dell’Iva, anzi c’è bisogno di “un alleggerimento del carico fiscale”. Lo faremo entro settembre, hanno promesso in coro i ministri del Pdl.
Come realizzarlo? Non si sa. D’altronde la pressione fiscale durante i governi di centrodestra è aumentata, quindi il nostro non è proprio un esperto. Per sterilizzare l’aumento dell’Iva per il solo 2013 serve circa un miliardo, 2,2 l’anno se lo si vuole evitare per sempre: per capirci su che scoglio siano due miliardi e spiccioli per questo governo, basti ricordare che la seconda rata dell’Imu che non si è riusciti ancora ad abolire vale proprio quella cifra, cui vanno aggiunti 700 milioni di ulteriori rimborsi ai comuni per la crescita stimata del gettito Imu.
CALCOLANDO che restano da finanziare pure le missioni militari all’estero (altri 400 milioni sul 2013) e qualche contratto in concessione, si capisce che la faccenda non è proprio di facilissima soluzione: servono, insomma, più di cinque miliardi solo per rispettare impegni di maggioranza e finanziare le spese obbligatorie. Insomma, nuove tasse non si può, diminuire spesa pubblica dall’oggi al domani significa ricorrere ai tagli lineari tanto aborriti da tutti e regalare una altro pezzettino di Prodotto interno lordo alla recessione: la legge di stabilità in ottobre già si preannuncia un percorso a ostacoli.
EVITARE maggiori tasse sui consumi sarebbe comunque vitale per due motivi. Il primo sono gli effetti regressivi: “Si colpirebbero, di nuovo, le fasce più deboli aumentando i costi soprattutto per loro”, dice Susanna Camusso della Cgil. Il secondo è che la domanda interna moribonda è esattamente quel che sta affossando l’economia italiana: con l’aumento, dice Confcommercio, nel solo 2013 i prezzi crescerebbero dello 0.3-0,4 per cento, i consumi scenderebbero di un altro 0,1 per cento, il Pil invece dello 0,05 per cento, causando la perdita di diecimila posti di lavoro.
l’Unità 30.8.13
Guglielmo Epifani
Adesso il governo può arrivare al 2015
intervista di Andrea Carugati
qui
il Fatto 30.8.13
Epifani, mi spieghi una cosa: sul governo ha ragione lei che festeggia o la Cgil?
di Luisella Costamagna
Caro Guglielmo Epifani, una bella gatta da pelare questa segreteria del Pd, eh? Lei che manco è ex democristiano o ex comunista, come le due anime del partito, bensì ex socialista, si è ritrovato a capo dei democratici nella fase più difficile della loro storia (non che ne abbiano mai avute di facili).
Come quando le aziende sono sull’orlo del baratro e a tenerle in vita ci provano gli operai, così in via Sant’Andrea delle Fratte hanno pensato che a prendersi ‘sto grattacapo potesse essere soltanto un ex sindacalista. Lei. Capisco lo spirito di sacrificio, il gusto della sfida (disperata?) e pure un pizzico di vanità, la soddisfazione personale di guidare un grande partito dopo la Cgil: ma ne valeva davvero la pena?
OGNI GIORNO la maionese - tra correnti, elettori insoddisfatti, decisioni prese, da prendere e magari da rimangiarsi, sentenze, dichiarazioni, smentite - rischia di impazzire (mai verbo fu più calzante). E lei si ritrova alla guida dell’aereo più pazzo del mondo, tra nemici interni ed esterni, a smazzare pure l’appassionante dibattito sulle regole del nuovo congresso, in attesa del nuovo pilota.
Chi sarà? Mistero della fede. Alla festa dell’Unità di Roma di luglio i militanti hanno accolto il suo predecessore Bersani al grido “Un segretario, c’è solo un segretario!". Vista la fioritura di candidati, pare che per la kermesse nazionale di Genova modificheranno leggermente lo slogan: “C’è solo un segretario - per stand”.
Ma a lei tutto questo non interessa, perché già sappiamo che non sarà della partita (poi chissà, mai dire mai). Lei ora ha altri problemi, ben più urgenti: le tocca fare da parafulmine, oltreché alle beghe interne, pure alle decisioni del governo Letta.
Le ultime, sull’Imu, gli esodati e la cassaintegrazione la vedono soddisfatta, laddove il suo antico amore - la Cgil - le boccia senza appello. Come mai? I diritti dei lavoratori, dei pensionati, dei giovani, di tutti gli italiani, che lei ha difeso per anni, dovrebbero essere sempre quelli: mica cambiano se uno li guarda da sindacalista o da segretario del partito di governo, no?
Può quindi dire a tutti loro, più che a me, chi sbaglia adesso: il suo ex sindacato a protestare o lei a plaudire? Un cordiale saluto.
Repubblica 30.8.13
L’epicentro della protesta in Toscana. Malumori anche in Lombardia, Umbria e Marche. Paganelli: persi 25 appuntamenti rispetto all’anno scorso
“Delusi dalle larghe intese”. E le feste dem cambiano nome
di Ernesto Ferrara
FIRENZE — A Martignana, ottocento anime sulle colline tra Empoli e Montespertoli, in quella che un tempo era la “Stalingrado” della rossa Toscana, i compagni del Pd hanno fatto una scelta dolorosa per «punire il partito»: niente festa “democratica”, quest’anno l’hanno chiamata “festa di fine estate”, come fosse una sagra qualunque. A Piacenza, patria di Bersani, hanno mantenuto il nome ma hanno dovuto fare i conti con la realtà: «I militanti sono un po’ provati qui da noi», ammette il segretario Vittorio Silva. E così quest’anno la festa anziché i soliti 10 giorni ne dura 5. Gran fatica organizzare le kermesse estive anche in Umbria, Marche e Lombardia per non parlare del Sud, spiegano segretari e dirigenti. Per la crisi economica che allontana gli affari ma anche per i volontari senza più voglia. Spesso a causa delle larghe intese: a Zanica, Bergamo, quest’anno un cartello avvertiva che «per il disagio nel partito» la festa si chiamava «di centrosinistra» e non più «democratica».
Travolte da una crisi che ha a che farecon la linea politica prima ancora che con la congiuntura, le feste Pd si riscoprono epicentri del malessere della base. In certi casi saltano. A Vernio, Prato, hanno deciso di non farla subito dopo il caso dei 101: «Un tradimento che meritava un gesto forte», spiegano. A Montale (Pistoia) e Cavriglia (Arezzo) sono invece mancati i volontari: «A livello nazionale 25 feste in meno rispetto all’anno scorso, compensate però da altrettante nuove, in Calabria ad esempio», fa i conti Lino Paganelli, responsabile nazionale del settore, secondo cui «l’orgoglio Pd èsempre vivo». Un vero business quello delle ex feste dell’Unità: oltre 2.000 per un giro d’affari da 130 milioni di euro. E però ora sembra emergere una stagione di “scioperi”. A Martignana dicono: «Una scossa la dovevamo dare a questo partito che ha fatto l’accordo con Berlusconi ma non ha dato la data del congresso ».
Nel Pd di Milano, rientrata la minaccia dello sciopero della militanza, la base vuole un referendum consultivo tra gli iscritti sugli F35. In Liguria lite via mail tra il segretario della sezione Pd di Recco (Genova), Luciano Port, e la deputata Anna Giacobbe: «Votate per cacciare Silvio dal Parlamento», le scrive lui allegando 92 firme di iscritti. Lei: «Ma certo!». E Port: «Certo un bel nulla: ancora dobbiamo sapere chi erano i 101».
La Stampa 30.8.13
Enrico e Matteo, così simili da non poter evitare lo scontro Ma in stile democristiano
di Mattia Feltri
Ce li terremo per i prossimi venti anni, durante i quali l’uno dirà dell’altro che è «una risorsa», e nei momenti peggiori «una risorsa preziosa». Saranno loro due, Enrico Letta e Matteo Renzi, i D’Alema e Veltroni della prossima stagione, che è appena iniziata e dentro il partito democratico vede l’imprevisto trionfo della componente cattolica. I giovani laici, i postcomunisti, i Gianni Cuperlo e quel che c’è, assistono dai margini all’ennesimo duello della politica italiana, e sarà cordialmente sanguinoso. Oggi inaugurano una nuova fase del loro confronto a distanza parlando alle feste del Pd: Letta a Genova, Renzi a Forlì. Sono troppe le similitudini fra i due perché possano sopportarsi. Sono cattolici. Sono giovani di un gioventù programmatica, Letta giovane da una vita, da quando fu presidente dei Giovani democristiani europei fra il 1991 (cioè a 24 anni) e il 1995; più modestamente, Renzi fu segretario del Ppi fiorentino nel ’99 (naturalmente a 24 anni), dopo essere stato fondatore di un fan club di Romano Prodi. Letta continuò a essere giovane fino a diventare il più giovane ministro della storia repubblicana, e Renzi, che è un professionista dal ramo, è stato eletto sindaco di Firenze a 34 anni, cioè a un’età in cui in politica ci si accontenta di fare il portavoce del sottosegretario. Anche le differenze si scovano, però, e parecchie: intanto Letta ha ormai 47 anni quindi è giovane soprattutto nello spirito, mentre Renzi ne ha 38 e il titolo di giovane lo conserverà per lustri. Poi Letta è uno che ha fatto la carriera interna, da secchione, da bravo ragazzo che sa aspettare il suo momento, mentre quell’altro è il monellaccio che la carriera l’ha fatta a parolacce e calci negli stinchi, alla fiorentina però, a cielo aperto.
Alla fine, con ironia automatica, si dice che moriremo democristiani. Letta fu allievo di Beniamino Andreatta, che vide il ragazzo a Strasburgo (dove il babbo di Enrico insegnava) e se lo portò al ministero degli Esteri. Renzi faceva il boy scout e dirigeva la relativa rivista firmandosi Zac, è forse era un atto di stima per Benigno Zaccagnini. Si laureò in giurisprudenza con una tesi su Giorgio La Pira, il sindaco santo (e democristiano). Letta - che quanto a titoli universitari ne ha un elenco per il quale qui non c’è spazio - deviò un poco per amore del socialista ed europeista Jacques Deleros, e del resto il professore Cancemi del liceo Dante di Firenze sostiene che da ragazzo Renzi era un cattocomunista («e lui un fascista», rispose in classico stile l’ex allievo). Non c’è problema, si può andare avanti a lungo. Enrico e Matteo hanno tre figli a testa due dei quali, uno di qua e uno di là, si chiamano Francesco e non si fa altro che dire: in onore del Poverello. Hanno anche una dose di berlusconite, Enrico perché è milanista a nipote di Gianni, Matteo perché sarà anche della Fiorentina, ma è stato ad Arcore e da ragazzo alla Ruota della Fortuna di Mike Bongiorno. E hanno una dose di cupezza, Enrico perché ha sentito divampare il fuoco della passione politica quando il babbo lo condusse in pellegrinaggio in via Fani, mentre Aldo Moro era ancora prigioniero delle Br, Matteo perché ebbe la stessa fiammata quando alla sera mamma gli leggeva la biografia di Bob Kennedy, il fratello di John ammazzato a Los Angeles nel ’68.
Lo vedete il derby perfetto? Più si somigliano e più ci si scannerà. Chi dei due è più pop? Chi dei due è più fedele all’esempio di Mandela, del quale hanno il poster appeso sulle pareti dell’anima? Chi ha compreso più a fondo la forza rivoluzionaria del rock, Enrico con Phil Collins o Matteo con gli U2? Chi cita meglio Ligabue, il premier nel discorso della fiducia («bellezza senza navigatore») o il sindaco all’esordio della campagna per le primarie («non è tempo per noi»)? Chi è più fascinosamente toscano, il fiorentino («La Torre di Arnolfo a Palazzo Vecchio è più alta e soprattutto più dritta della vostra») oppure il pisano («sì ma il lungarno Gambacorti è il più bello del mondo»)? Per ora sono fermi alle sfide rusticane a prevalenza fair play: le bottarelle sono girate sotto tavolo, come prodromo di eleganti accoltellamenti futuri. Perché la verità ultima è che in mezzo a tanti parallelismi i due hanno vite che si scontrano perpendicolarmente. Letta è il pisano di genitori abruzzesi che studia in Francia e fa carriera a Roma, Renzi è il fiorentino che da lì non si schioda, né schioderà sino all’ultimo. Letta è il cattolico adulto che ha viaggiato e tempera la fede con l’uso di mondo, Renzi è lo scout che va a fare i ritiri spirituali coi gesuiti, ma se c’è da attaccar briga lo fa anche col vescovo. Letta è uno che dice di credere «moltissimo nel formalismo delle regole e agli statuti», Renzi è uno per il quale «la politica deve essere conquista senza reti. Come dice Clint Eastwood, se vuoi una garanzia allora comprati un tostapane». Letta è sempre stato convinto che la leadership sia un obiettivo da raggiungere con la concordia, tendendo la mano, avvicinando le idee e gli uomini distanti, Renzi è invece persuaso che la leadership sia un obiettivo da strappare affrontando la vita a petto in fuori, senza paura di niente e di nessuno, perché se non si ha la forza e il coraggio di battersi tanto vale restare in tinello. Letta è un signore dai tratti nobili, con la libreria colma, che fa esercizio di modernità presentandosi in maniche di camicia. Renzi è un simpatico teppista, con la parlantina veloce, che fa esercizio di modernità presentandosi in maniche di camicia. E pure senza cravatta.
Corriere 30.8.13
Meteoriti, spore e padri alieni Le mille risposte sull'inizio della vita
Da Anassagora alle suggestioni di «A come Andromeda»
di Tullio Avoledo
Prima di Darwin, la spiegazione dell'origine della vita sul nostro pianeta era piuttosto semplice. Genesi, 1, 20: Dio disse: «Le acque brulichino di esseri viventi». Poi è arrivata la scienza e sono cominciati i problemi: ridde di teorie, dispute spesso incandescenti e valanghe di ipotesi.
L'ultima è stata presentata ieri a Firenze, alla conferenza Goldschmidt — il più importante congresso mondiale di Geochimica — dallo scienziato americano Steven A. Benner, primo ricercatore ad aver creato un gene in laboratorio, nel lontano 1984. Il gruppo di ricerca da lui diretto lavora con la Nasa per la progettazione delle nuove sonde marziane. Non è quindi un caso se l'ipotesi che ha enunciato a Firenze è che la vita sia nata su Marte, per essere poi portata sulla Terra da un meteorite. L'idea, per quanto possa sembrare strampalata, lo è meno di tante altre proposte nel corso dei secoli, tra cui l'antica e longeva teoria della «generazione spontanea», secondo la quale Dio avrebbe creato solo gli esseri viventi «superiori», come l'uomo e i grandi animali, mentre quelli «inferiori», tipo vermi e insetti, avrebbero potuto nascere spontaneamente dal fango o da carcasse in putrefazione. Gli scienziati Francesco Redi, Lazzaro Spallanzani e Louis Pasteur si ritrovarono uniti, attraverso i secoli, nell'impresa di abbattere questa ingombrante teoria, alla quale Pasteur assestò il colpo di grazia con un famoso esperimento nel 1864, dimostrando che la vita non può nascere dal nulla.
Ma allora, da dove viene? Dall'esperimento cruciale di Pasteur si sono susseguite svariate spiegazioni per la nascita della vita, dai nomi evocativi come «teoria del brodo primordiale, «ipotesi di Wächtershäuser», «teoria delle bolle», «ipotesi cometaria», «teoria dell'argilla». Tutte caratterizzate, purtroppo, dall'impossibilità di essere provate in modo definitivo e inconfutabile.
Secondo l'illustre ultimo arrivato, il professor Benner, all'origine della vita, tre miliardi di anni fa, vi sarebbe stata una forma minerale molto ossidata dell'elemento chiamato molibdeno. All'epoca il nostro pianeta era coperto dalle acque, mentre su Marte vi sarebbero stati non solo molibdeno e ossigeno, ma anche boro, altro elemento cruciale nella formazione delle molecole organiche. «Le analisi di un meteorite marziano hanno dimostrato di recente che vi era boro su Marte — sostiene Benner — e crediamo vi fosse anche la forma ossidata di molibdeno». Stando allo scienziato americano, l'abbondanza d'acqua sarebbe stata un fattore ostile per la formazione autonoma della vita sulla Terra, visto che l'acqua risulta corrosiva per l'Rna, la prima molecola genetica a essersi formata. La vita, secondo Benner, sarebbe quindi nata su Marte, dove l'acqua copriva solo piccole aree, e sarebbe arrivata sulla Terra con un meteorite marziano, come quello i cui frammenti vengono venduti anche in questo momento su eBay (a 16,03 sterline per un pezzettino del diametro di due millimetri e del peso di 10 milligrammi).
La sua ipotesi è figlia, a ben vedere, della teoria sull'origine della vita che ha prodotto maggiore impatto a livello di immaginario collettivo: quella della panspermia, secondo la quale la vita si trasmetterebbe da un pianeta all'altro attraverso semi, o spore. I seguaci di questa ipotesi la fanno risalire addirittura al filosofo greco Anassagora (V° secolo a.C.). Fra i suoi più recenti propugnatori ci fu, negli anni 70 del secolo scorso, lo scienziato inglese Fred Hoyle, autore del romanzo «A come Andromeda» da cui fu tratto nel 1972 un indimenticabile sceneggiato Rai in cinque puntate con Luigi Vannucchi e Paola Pitagora. Da allora, sull'onda di quella teoria, vi sono stati «2001: Odissea nello spazio», romanzo di Arthur C. Clarke che ispirò a Stanley Kubrick un altrettanto straordinario film, e poi (curiosa coincidenza di titoli) «Andromeda» di Michael Crichton, dove un organismo venuto dallo spazio minaccia la vita umana, e più di recente «Mission to Mars» di Brian De Palma (curiosamente vicino a un episodio del fumetto Jeff Hawke in cui Marte morente, 4 miliardi di anni fa, lanciava alcune astronavi verso la Terra, dando origine alla vita sul nostro pianeta) fino a «Prometheus» di Ridley Scott, che evoca, con il nome di Ingegneri, l'idea di una «panspermia guidata» da una razza aliena la cui missione è fecondare pianeti sterili spargendovi il seme della vita. Idea peraltro già sviluppata dalla fantascienza, con grandi autori come Theodore Sturgeon, Larry Niven e Kurt Vonnegut che si erano cimentati sul tema. Inutile dire che il più dissacrante è stato Vonnegut, il cui racconto «The Big Space Fuck» descrive il lancio di un'astronave carica di sperma umano verso Andromeda, dando una prospettiva completamente nuova alla parola panspermia.
Chissà che l'ipotesi di Benner, in attesa di essere dimostrata, non produca nuova linfa vitale in un sottogenere letterario, per forza di cose, estremamente fertile...
Corriere 30.8.13
Il gene che ci allunga l'esistenza di 16 anni
di Edoardo Boncinelli
Sappiamo da tempo che esistono nel corpo di tutti gli esseri viventi alcuni geni, non meno di una trentina, che concorrono a determinare la longevità dell'organismo che li porta. Numerosi studi hanno mostrato che modificare uno di questi geni può allungare di molto la vita dell'organismo che lo possiede nella forma modificata. Nessuno di questi organismi ha però la complessità di un topo, un animale a noi molto affine. Sembra che adesso si sia dimostrato che un topo con il gene TOR modificato possa vivere un 20% di tempo in più: pari a 16 anni, per un uomo di 79. Tale gene è stato da tempo individuato come collegato al contributo che dà alla longevità la restrizione delle calorie introdotte nel corpo. Grande successo quindi? Se si voleva un'ulteriore dimostrazione della potenza di tali geni, sì. Ma c'è un però. Vivere più a lungo va bene, ma bisogna anche vivere bene gli anni guadagnati. E da questo punto di vista TOR non è l'ideale. La vecchiaia di questo animale non è ottimale. Accusa anzi diversi acciacchi tipici dell'età. Ecco perché bisogna studiare ancora e scegliere il gene più giusto per allungare la nostra vita. Certamente lo troveremo, ma occorre tempo e molto studio. Non si può inseguire la longevità per la longevità. La vita guadagnata deve essere degna di essere vissuta. Altrimenti che senso ha? Alla comprensibile fretta di coloro che aspirano a vivere più a lungo occorre affiancare una corretta gestione della biologia dell'invecchiamento e dell'esistenza stessa. Non si vive di solo pane — in questo caso di solo corpo — ma di corpo e psiche, altrimenti la vita diviene una gara sportiva: non vince chi vive di più ma chi vive meglio, nel corpo e nell'anima.
Corriere 30.8.13
Creare significa «fare» L'etimo antico del genio
Alle radici di un attributo divino e umano
di Umberto Curi
L a genealogia del verbo italiano «creare» — e di altri termini simili nelle lingue moderne, come il francese creer e lo spagnolo criar — è insieme istruttiva e sorprendente. La derivazione più attendibile è infatti dal sanscrito kar-, che ritroviamo nel greco kaino («produco»), oltre che in krantor (il «dominatore») e kreion («colui che fa»), sempre col significato di «produrre», «generare», «fabbricare». Ne troviamo traccia anche in «crescere», che sarebbe una forma incoativa di «creare», e starebbe appunto a indicare il processo mediante il quale qualcuno o qualcosa si va formando.
La presenza della radice sanscrita nel nome di due divinità — Kronos (il «creatore»), padre di Zeus, e Ceres («quella che produce»), divinità delle messi, in modi diversi connessi con la coltivazione dei campi, confermerebbe il fatto che la capacità di creare, la creatività, rappresenta una forma specifica del fare, con particolare accentuazione sulle potenzialità generative. La concezione cristiana del Dio «creatore» chiarisce ulteriormente il quadro concettuale: vi è ribadita la funzione «generativa» della creazione, con l'aggiunta di un ex nihilo, che sottolinea l'anteriorità cronologica e ontologica di Dio rispetto ai prodotti della creazione.
Il mondo greco antico conosce due modi ben distinti — e due termini diversi — per alludere a ciò che chiamiamo intelligenza: nous e metis. La prima è l'intelligenza inattiva e contemplativa, quella che intus-legit, e cioè «legge dentro» le cose, le conosce nella loro essenza concettuale, senza tuttavia preludere ad alcun tipo di azione o di comportamento. È l'intelligenza astratta, disimpegnata da ogni vincolo con il «fare». Ben diversa è, invece, la metis, l'intelligenza attiva ed esecutrice, preposta all'azione, e dunque provvista di abilità e di prudenza, di astuzia e pazienza. Il nous contempla. La metis, come la creatività, genera.
Già nell'Iliade, Odisseo è presentato come polymetis («molto astuto») e polymechanos («molto abile»), polytlas («molto paziente»), un campione di quell'intelligenza pragmatica capace di creare soluzioni anche in situazioni all'apparenza senza sbocchi. La guerra di Troia si concluderà per quello che potremmo chiamare un esempio di vivace creatività, un vero «colpo di genio», di Ulisse, al quale si potrebbe dunque riferire ciò che Eraclito scrive di Pitagora, quando lo accusa di essere kopidon archegos, «inventore primo di inganni».
Ma campione della metis è anche Prometeo, che la metis porta già nel suo stesso nome. Egli sarà assunto anzi come patrono degli artigiani, perché accreditato in forma eminente della capacità di produrre. Senza dimenticare che Zeus riuscirà a vincere la lotta per la conquista dell'Olimpo solo quando avrà ingoiato colei che egli aveva scelto come sua compagna — Metis, appunto — riuscendo con ciò ad aggiungere a Kratos e Bia, al Potere e alla Violenza, anche l'intelligenza pratico-creatrice. Quasi a dire che, per governare, non basta l'esercizio della violenza e l'uso del potere, poiché è non meno indispensabile la creatività.
Così si comprende anche per quale motivo la dimensione temporale che più si addice alla creatività della metis non è il chronos, il tempo della successione, la misura del divenire, l'accezione quantitativa di tempo. Connesso alla metis è piuttosto il kairos, il tempo opportuno, l'attimo che fugge, e cioè quella variante qualitativa del tempo in cui si manifesta un evento extra-ordinario, che va afferrato al volo, come insegna la raffigurazione classica del kairos: un giovane calvo sulla nuca e provvisto di un vistoso ciuffo sulla fronte, che dobbiamo afferrare quando ci viene incontro, se non vogliamo perdere il «momento buono».
Ciò che nella nozione originaria di metis appare ancora implicito e indistinto, esplode nella cultura moderna e contemporanea talora in forma di contrapposizione insanabile. Da un lato, soprattutto nella concezione romantica, la creatività è un requisito attinente all'affettività e ai sentimenti, ma non alla ragione, il cui dispotismo geometrico è considerato in contrasto con la libera espansività della creazione artistica. Già dai primi decenni del Novecento, però, l'irrompere della Gestaltpsychologie prima, e del cognitivismo poi, in campo psicologico e l'affermazione impetuosa delle neuroscienze conducono a un simmetrico rovesciamento dell'impostazione romantica. Non l'arte, ma la scienza, non gli affetti ma la razionalità, costituiscono il terreno di espressione della creatività.
Si profila con ciò una sorta di dualismo — documentato nella collana di testi pubblicati dal «Corriere della sera» e dal Festival della mente — fra due accezioni diverse di affettività, a seconda che essa venga riferita all'intuizione e alla sfera generale dei valori poetici, in una visione in sostanza antirazionalistica che sopravvive nel pensiero francese fino all'inizio del nostro secolo; ovvero che essa sia collegata allo stereotipo dell'uomo di genio in campo scientifico, capace di produrre innovazione anche in campo tecnologico, secondo una concezione che gode di particolare credito nei Paesi di lingua inglese. Al di là di questo dissidio, la recente forte ripresa di interesse per la creatività non può occultare un punto decisivo, e cioè che essa conserva tuttora un margine di enigmaticità, tale da renderla solo parzialmente decifrabile. Al punto da far apparire tutt'altro che paradossale la corrosiva battuta di Einstein: «Il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti».
Corriere 30.8.13
Emozione, crescita, coscienza Così diamo i nomi al futuro
Le scelte di Boncinelli, Cantarella e degli altri autori
di Ida Bozzi
U n'idea curiosa e interessante nata nell'ambito del Festival della Mente — dedicato ai processi creativi e dunque vocato alla sollecitazione di idee e argomenti di dibattito — è stata quella di chiedere ai numerosi ospiti di ciascuna edizione, scrittori, linguisti, neurobiologi, scienziati, economisti, giuristi, filosofi, quale fosse la parola più importante o stimolante nel loro ambito di studio. Le parole finora indicate dagli studiosi sono state raccolte nel libro «100 parole per la mente», uno dei volumi della collana saggistica di Laterza e Festival della mente, incluso anche nell'iniziativa editoriale del «Corriere della Sera» (è il numero 17).
Prendendo spunto dall'iniziativa, che è l'occasione per analizzare lo «stato dell'arte» di alcune discipline scientifiche e umane, abbiamo chiesto a cinque autori dei libri della collana, di spiegarci qual è secondo loro la «parola del futuro», dal punto di vista della disciplina o del campo del sapere di cui si occupano. Cioè qual è il punto di partenza per nuove ricerche o riflessioni. Dal genetista Edoardo Boncinelli viene la prima risposta: «La parola del futuro secondo me è "mente". Perché? Perché ne sappiamo talmente poco (anzi "talmente niente"), che qualsiasi cosa scopriremo sarà sicuramente molto interessante e certo rivoluzionaria». E prosegue: «Potrei dire anche la parola "coscienza", ma cambierebbe poco, non ci sposteremmo dallo stesso ambito. Dirò di più: mentre si sa qualcosa, anche se poco, di mente e coscienza, invece non si sa nulla dell'intelligenza. Nulla di nulla. Un'altra cosa di cui non sappiamo davvero nulla è la memoria. E sappiamo così poco perché abbiamo cominciato tardi (a forza di raccontarci favole) e ora dobbiamo recuperare il tempo perduto. Quando capiremo la mente e la coscienza, però, si tratterà di scoperte fondamentali: e non credo che si realizzeranno nei prossimi anni, quanto probabilmente nei prossimi decenni». A simili argomenti, Boncinelli ha dedicato due volumi presenti nella collana, il primo uscito il 28 agosto e intitolato Come nascono le idee, e il secondo in uscita dal 13 novembre, su La vita della nostra mente.
Affine alla riflessione del genetista, che tocca l'ambito delle neuroscienze, è la parola scelta da Eva Cantarella, grecista e giurista, già docente di diritto romano e greco antico: un'affinità insolita, che mostra come l'intersecarsi tra le discipline porti frutti molto interessanti e inediti: «Per il futuro, scelgo non una sola parola ma due tra loro collegate: ragione ed emozione. Il diritto è stato tradizionalmente considerato un luogo della ragione, da cui dovevano essere espunte le emozioni, e noi siamo abituati a distinguere tra i due elementi come se la ragione fosse fredda e distante dalle calde emozioni. Invece da alcuni decenni questa distinzione è messa in discussione: le scoperte delle neuroscienze, infatti, vanno in questa direzione». Quali sviluppi porteranno le neuroscienze nell'ambito del diritto? «Per avere un dibattito più razionale nel campo del diritto bisognerà dare più attenzione alla dimensione emozionale. Sembra paradossale e invece, grazie alle scoperte delle neuroscienze, non lo è: sarà una questione al centro dell'interesse nel mio ambito di studi, e non solo. Occorrerà dare più valore cognitivo alle emozioni». Il volume di Eva Cantarella dedicato all'intelligenza di Ulisse, «Sopporta cuore...». La scelta di Ulisse, uscirà per l'iniziativa del «Corriere» il 4 settembre.
Chi di emozioni, specie nell'adolescenza, si occupa anche nei due libri presenti nella collana, Fragile e spavaldo e Cosa farò da grande? (in edicola dall'11 settembre e dal 20 novembre) è lo psichiatra Gustavo Pietropolli Charmet: «Sono abituato a ritenere sinonimi le parole "futuro" e "crescita", ma scelgo quest'ultima come parola chiave, perché quando si parla del futuro per il figlio dell'uomo si parla di crescita». Le emozioni, dunque, sono importantissime: «Nella mia esperienza, lavorando con gli adolescenti, vedo che quando i ragazzi perdono la capacità di sperare, di aspettare, perché sono rimasti intrappolati in qualche tornante evolutivo, allora a loro "muore il futuro". Resta solo il presente, e diventano dei "presentificatori", che rifiutano poi qualsiasi pensiero del futuro, ma anche la responsabilità e così via, con sofferenze molto gravi. Questa tensione al futuro è importante, fortissima nell'infanzia, con tutte le nostre aspirazioni. Ecco, i presentificatori non ne hanno: sono messi molto peggio rispetto a tutti gli altri».
La scrittrice Laura Bosio, che è autrice del libro D'amore e di ragione. Donne e spiritualità in edicola per la collana dall'11 dicembre, mostra però l'altra faccia della medaglia, proprio a proposito della parola «presente», che in ambiti diversi ha valenze assai diverse. «Non vuole essere un gioco di parole — spiega la scrittrice —, ma la parola che scelgo per il futuro è proprio "presente". Oggi, in questa condizione di grande confusione e soprattutto di stallo, quando siamo pieni di "cose" e privi di speranza, dal futuro ci attendiamo l'apocalisse. Temiamo di perdere le "cose" e vorremmo invece trovare un senso. È del presente che dovremmo accontentarci. Invece ci perdiamo in tempi che non ci appartengono e fuggiamo il presente, che ci ferisce. Preferiamo rifugiarci da un'altra parte, e il mondo intanto resta estraneo. Occorrerà, secondo me, una riflessione sul presente».
Chiude infine, con uno scherzo che non è uno scherzo, lo scrittore Stefano Bartezzaghi (il cui saggio L'elmo di Don Chisciotte. Contro la mitologia della creatività sarà in edicola dal 2 ottobre): «La parola per il futuro sarà "sebbene"». Poi però aggiunge, spiegando: «A parte le battute, la parola per il futuro potrebbe essere proprio "parola", poiché sarà centrale per il futuro proprio interrogarsi sul rapporto tra "parole" e "cose". Se si fa un sondaggio, emerge subito che la parola più amata è "amore", mentre le parole "odio", "guerra" e così via, sono odiatissime. Ma attenzione: certo che sono brutte cose, però sono bellissime parole, e c'è una bella differenza tra parole e cose. "Sebbene", è una parola, ma anche "amore" è una parola. Ora che le parole hanno una funzione molto diversa (basti pensare alle password) diventa importantissimo capire — è questo è vero anche in ambito politico — che assai spesso maneggiamo più parole che cose».
l’Unità 30.8.13
Pasolini e la sua Africa
di Gianni Borgna
qui
Repubblica 30.8.13
«Una frattura che ha inciso sul pensiero nel Novecento»
È Carlo Sini a rievocare quella burrasca intellettuale
Allievi e maestri
Husserl e Heidegger, duello fra giganti
di Leonetta Bentivoglio
La frattura tra Martin Heidegger e Edmund Husserl riflette una divaricazione d’interessi, o un tradimento del primo nei confronti del secondo, che ha inciso profondamente su certe crisi del pensiero nel Novecento. Autore di un’opera significativa come Essere e tempo(1927), Heidegger fu allievo di Husserl, fondatore della fenomenologia. Questo termine può suonare misterioso alle orecchie dei digiuni di filosofia. Ma non c’è nulla di criptico nella storia della rottura che separò le sorti dei due filosofi: quel tradimento ha una portata la cui vastità tocca territori tutt’altro che specialistici, poiché è giunto a segnare con estrema concretezza lo sviluppo delle prospettive riguardanti il cambiamento del rapporto dell’uomo con la natura e il divorante espandersi della scienza e della tecnologia.
In questa serie di articoli sui traditori e le loro vittime, il contrasto tra Heidegger e Husserl, e l’onda lunga degli effetti che ne conseguirono sul pensiero del mondo manifestato dalla civiltà occidentale, ci vengono raccontati da uno dei massimi filosofi italiani, Carlo Sini, che ha insegnato per molti anni Filosofia Teoretica all’Università di Milano e che è un esperto riconosciutodei due pensatori.
Perché Heidegger tradì il suo maestro Husserl?
«Sembra che a rompere i rapporti sia stato Husserl, sconcertato dall’adesione di Heidegger al nazismo. Vale comunque la pena di rammentare che Heidegger dedicò a Husserl Essere e tempo e glielo consegnò a Friburgo nel giorno del suo compleanno. Husserl, al momento, non lo aprì nemmeno. Lo fece tempo dopo, quand’era cresciuta la fama del suo allievo. E commentò che si trattava del suo stesso pensiero “ma senza fondamento”. Lo considerò un tradimento della fenomenologia, che non fu mai abbandonata da Husserl ».
Può spiegare il termine “fenomenologia”?
«E’ il tentativo di tornare alle “cose stesse”, mettendo tra parentesi le teorie sulle quali abbiamo edificato i nostri saperi. Si vuole fare ritorno all’essere del mondo così come questo si manifesta, in modo genuino e primario, riesaminando, riosservando e ridescrivendo i fenomeni originali. Secondo Husserl dobbiamo aderire alle cose, non nasconderle, servendoci della lingua che ricostruisca una ragione descrittiva. Questa teoria ha plasmato diversi metodi d’approccio scientifico. Ad essa si è ispirata la fenomenologia psichiatrica, dove il paziente viene descritto così com’è, nel suo apparire, e la terapia trova il proprio motore nei dati immediati dei suoi gesti e dei suoi atteggiamenti ».
Qual era la posizione di Heidegger?
«Si convinse che un programma filosofico, pur apprezzabile, che avesse a fondamento l’immediatezza delle cose stesse, fosse già fallito a partire da Platone. Quella filosofia nata per il dominio del logos uccideva se stessa. Da qui la sua critica alla metafisica. Il tentativo fu perciò di ritrovare una verità della realtà in qualcosa che preceda la filosofia, e trovò quel qualcosa nella poesia. Nel “pensiero poetante”, come amava ripetere. Non a caso lavorò molto su Rilke».
In che modo Heidegger, in principio, aderì alla fenomenologia?
«Per molti versi vi restò ancorato fino all’ultimo. Negli anni Sessanta (Husserl era morto nel ’38), Heidegger scrisse di considerarsi legato alla rivelazione fenomenologica, che doveva in gran parte a Husserl. Ma è grande il divario tra i due filosofi, a partire dalle rispettive formazioni. Heidegger proveniva da studi classici, mentre Husserl era un frutto delle scienze matematiche. I suoi riferimenti erano l’illuminismo e Cartesio: era un ebreo votato al culto della ragione. Heidegger invece prendeva le mosse da Aristotele, che arrivava a considerare un fenomenologo più profondo del suo maestro. In sostanza Heidegger è un romantico, e vede la modernità come un pericolo enorme che ha preteso di sostituirsi a Dio e d’impadronirsi della nal’India.tura. Il suo è un pensiero genialmente reazionario».
Husserl, a sua volta, non ebbe forse un rapporto problematico con la modernità?
«Sì. Nella sua ultima opera rimasta incompiuta, La crisi delle scienze europee, Husserl evoca i rischi della specializzazione scientifica, che può far perdere il senso della ragione umana e portare l’Europa a divenire un fenomeno meramente antropologico, come la Cina o Ciò che ha determinato la filosofia occidentale attraverso l’impresa della modernità, da Galileo a Cartesio, si mostra solo come volontà di potenza. Anche per Heidegger è necessario abbandonare la ragione devastatrice che rende la terra un deserto. Ma la divergenza dei due filosofi coincide con un’opposizione epocale. Per Husserl il nichilismo, cioè la caduta nella barbarie della scienza che ha perso l’unità del potere, diventa un impegno ulteriore per la ragione, da ricondurre ai suoi compiti veri, in quanto l’illuminismo ha promulgato una ragione incapace d’imporsi. Secondo Heidegger invece, lo svelamento di un essere enigmatico che si sottrae alla ragione occidentale rischia di gettarci nel “futuro della bomba atomica”. L’uomo che si autoproclama signore della natura ha compiuto un sacrilegio nei confronti dell’essere, e ci sospingeverso la devastazione».
Heidegger è convinto che l’uomo, con un eccesso d’uso della scienza, abbia tradito il proprio ruolo nella vita?
«Esatto. E legge l’avvio di tale tradimento nella filosofia platonica. Si comincia a scambiare l’essere delle origini con una sorta di entificazione, riducendo la rivelazione degli esseri a cose che si possono manovrare, misurare, produrre. Husserl e Heidegger concordano nel sostenere che ridurre l’ente alla sua misura matematica, come fa Galileo, è insufficiente. Però l’uno vuol scavare sotto e andare all’indietro, mentre l’altro si propone di scavare avanti e andare oltre. Heidegger aveva intuito una cosa non chiara a Husserl, e cioè la natura tecnologica della vita moderna: aveva compreso che la tecnica non è un’applicazione della scienza, ma che quest’ultima è una conseguenza della tecnica, laddove Husserl era ancora della vecchia idea che prima si fa la teoria e poi si costruisce la pratica. Per Heidegger il porre l’uomo al centro della natura e farne il suo legislatore è la tragedia dell’Occidente, mentre per Husserl la filosofia equivale alla ragione, che in fin dei conti genera la democrazia. Le correnti nazionalistiche, infatti, tradiscono questo modo di pensare».
Non a caso Heidegger aderì al nazismo.
«Questa è stata una vergogna e una rovina per la filosofia. Un vero tradimento: uno dei più influenti filosofi del Novecento ha tradito l’essenza di libertà e umanità che la filosofia incarna. Husserl sosteneva che i filosofi sono i funzionari dell’umanità. Una visione democratico- illuministica intollerabile per Heidegger».
Ma Heidegger fu davvero nazista? Nella famosa intervista concessa alloSpiegel, “Ormai solo un Dio ci può salvare”, prende le distanze dal nazismo.
«Era un seguace del nazismo della prim’ora, un simpatizzante delle camicie brune. Da figlio di contadini, scorse nel nazismo delle origini una rivolta popolare che tornava alle forze della natura contro quelle che considerava le due degenerazioni della democrazia occidentale, cioè l’illuminismo e il marxismo. Ma quando ci fu “la notte dei lunghi coltelli” capì la pericolosità dell’hitlerismo. Resosi conto delle sue implicazioni, lo rinnegò e fu perseguitato per questo. L’anima nera di Heidegger fu la consorte Elfride, antiebraica e iscritta fin da giovane nei movimenti nazisti. E tanto per inseguire ancora il tema del tradimento, con una digressione in ambito privato, c’è da dire che Heidegger tradì molto sua moglie. Al di là della sua maschera di severa rispettabilità, il grande filosofo non solo visse una tormentata storia d’amore con la più illustre tra le sue allieve, Hanna Arendt, ma ebbe numerose relazioni clandestine».
La nozione di tradimento è frequentata dalla filosofia?
«Lo è nella forma nobilitata e un po’ idealistica del motto Amicus Plato sed magis amica Veritas. Ovvero: inevitabile che il buon discepolo tradisca. Sono amico di Platone, ma la verità è più amica. Il discepolo fedele è un ripetitore, ma ogni cosa ripetuta muore. L’eccesso di fedeltà produce un’imbalsamazione delle idee».