giovedì 29 agosto 2013

il Fatto 29.8.13
Il governo cambia il nome all'Imu Uno spot per Berlusconi
L'imposta verrà sostituita dalla "service tax"
La Chiesa continua a non pagare
di Marco Palombi


Con un gioco di prestigio per salvare se stesso, il governo fa sparire la tassa più odiata dal Pdl senza aver trovato la copertura per la rata di dicembre. E annuncia una Service Tax che dovrà garantire allo Stato almeno gli stessi soldi. Ma la Chiesa, in barba alle promesse, sarà esentata

L’Imu sulla prima casa e sui fabbricati agricoli è stata abolita. Cioè, più o meno: diciamo che è stata abolita a metà. Traduzione: il governo ha trovato i soldi per rinunciare agli incassi della prima rata, quella di giugno, vale a dire circa due miliardi e mezzo di euro. E la seconda rata? Per la seconda i soldi non si sono trovati, però nella relazione tecnica al decreto approvato ieri - spiegano fonti ministeriali - verrà messo nero su bianco “l’accordo politico” per la sua sterilizzazione nella legge di stabilità, il ddl che sostituisce la vecchia Finanziaria e che va presentato in Parlamento il 15 ottobre. Nella stessa sede, ha spiegato Enrico Letta, verrà istituita la service tax comunale che ingloberà Imu e Tares e si pagherà sempre sulla base dei metri quadrati: si chiamerà Taser, come quelle armi che immobilizzano i malcapitati con una scarica elettrica. Niente da fare invece per i capannoni industriali: pagheranno tutto, pagheranno caro (anche se c’è un vago impegno per rendere deducibile l’Ires in futuro). Ai comuni infine, come l’Anci chiedeva a gran voce, viene garantito il rimborso del mancato gettito 2013: in attesa di capire cosa succederà, infine, ai sindaci è consentito dilazionare la presentazione dei bilanci di previsione fino al 30 novembre. Purtroppo il governo non si è fermato alle pur affascinanti alchimie tra i desideri, la realtà e gli “accordi politici”: già che c’era ha pensato bene di annunciare che la Chiesa continuerà a non pagare un euro di Imu più di quanto abbia fatto negli anni scorsi (cioè poco).
Un favore a enti ecclesiastici, scuole e cliniche private
Il presidente del Consiglio, come niente fosse, in conferenza stampa ha anticipato che la futura service tax non riguarderà il no profit, che “oggi è stato pesantemente penalizzato dall’Imu” e andrà “completamente alleggerito in prospettiva futura” da questo onere improprio. Ebbene, la legge che regola l’Imu per il no profit è quella - varata dal governo Monti per evitare la multa dell’Unione europea - che ha assoggettato al pagamento anche gli immobili di proprietà degli enti ecclesiastici (scuole e cliniche private, alberghi, cioè quasi tutto il no profit italiano) secondo il principio della natura commerciale del-l’utilizzo. È bene ricordare che questa legge non è stata mai applicata, visto che tra ritardi del regolamento applicativo e mancanza della modulistica (ve di Il Fatto quotidiano del 7 giugno) nessuno sapeva se e quanto doveva pagare: per quest’anno fate come credete - fu la soluzione indicata dal Tesoro in una circolare - poi nel 2014 rifacciamo i conti. Saranno particolarmente facili: un liceo privato con una retta a quattro zeri non pagherà nulla esattamente come una mensa della Caritas. È tutto no profit. Va detto che, almeno in questo caso, non c’è da sudare sulle coperture: il governo ci credeva talmente poco che non ha mai messo a bilancio neanche un euro di gettito dalla tassazione di questi immobili.
Esodati, aiuti per la casa e Cassa integrazione
Nel decreto approvato ieri non si parla solo di Imu. Il governo ha infatti deciso di accontentare il Pd stanziando 700 milioni di euro dal 2014 al 2019 - ha spiegato il ministro del Lavoro Enrico Giovannini - per salvaguardare altri 6.500 esodati. Mezzo miliardo di euro, invece, è stato messo sulla Cassa integrazione, portando gli stanziamenti complessivi per quest’anno a 2,5 miliardi. Disposizioni, “se pur utili e importanti”, su cui è arrivata la mannaia della Cgil: “Così si lasciano irrisolti i temi della cassa integrazione e degli esodati: i fondi sono totalmente esigui, che servono a coprire solo l’immediata emergenza”. Non manca nemmeno l’ennesimo “piano casa”. Il Consiglio dei ministri ha infatti approvato interventi sul tema per 4,4 miliardi: quattro miliardi a carico della Cassa depositi e prestiti e 400 milioni di “interventi sociali”, tra cui le classiche agevolazioni per l’acquisto della prima casa per giovani coppie e lavoratori atipici sotto i 35 anni.
Le coperture vere, quelle “politiche” e il minicondono
Sono tre le fonti di copertura di questo decreto che vale all’i n-grosso tre miliardi e mezzo. La prima è una, corretta, partita di giro: vengono usati infatti gli incassi Iva dovuti al pagamento dei debiti commerciali della Pubblica amministrazione. A questo fine, è stata aumentata di dieci miliardi la dotazione dell’apposito fondo.
In secondo luogo c’è qualche taglio alle spese intermedie di ministeri ed enti locali e, come avevamo anticipato ieri, non manca nemmeno il condono mascherato a favore delle società concessionarie nel settore dei giochi. In sostanza potranno chiudere la partita pagando il 25% di quanto stabilito dalla condanna in primo grado: significa che le aziende coinvolte nello scandalo delle slot machine scollegate dal fisco tra il 2004 e il 2007 se la caveranno pagando 750 milioni invece di due miliardi e mezzo.

il Fatto 29.8.13
Pagheremo ancora di più
di Stefano Feltri


Il tentativo di salvare il governo dalla condanna definitiva di Silvio Berlusconi ha portato alla grande recita di ieri, intitolata “abolizione dell’Imu”. Come farà il Cavaliere a far cadere un esecutivo che ha realizzato l’unico punto del suo programma elettorale? Da Arcore sono arrivati segnali di giubilo. L’obiettivo politico è stato raggiunto, la stabilità è assicurata, il premier Enrico Letta annuncia che il governo non ha più una data di scadenza. Nel nome di un presunto interesse nazionale (la difesa delle larghe intese) i fatti sono stati aboliti. Per i pochi a cui interessano ancora, sono questi: l’Imu 2012 sulla prima casa non è stata restituita come promesso da Berlusconi, quella del 2013 è stata condonata a metà, la rata di 2,5 miliardi di giugno non sarà pagata a settembre, grazie a coperture molto creative. Ma gli altri due miliardi per compensare la rata di dicembre non sono stati trovati. C’è soltanto un accordo politico. Se ne riparla a ottobre, con la legge di stabilità per il 2014.
Il governo ha quindi fatto l’unica cosa in cui finora ha dimostrato una capacità ineguagliata: prendere tempo (o perderlo, a seconda delle valutazioni). L’Imu sulla prima casa doveva garantire all’erario ogni anno 4 miliardi. Abolire una tassa significa trovare una fonte alternativa di gettito per gli anni a venire o tagliare le spese in modo strutturale di pari entità. Il governo ha soltanto annunciato l’arrivo di una Service Tax comunque centrata sulla casa e che dovrà garantire all’erario circa le stesse risorse. O forse di più, perché a gestirla saranno Comuni con le casse vuote. Ma Letta promette che il carico fiscale sarà redistribuito. Il primo sgravio è per il non profit: la Chiesa, che già era riuscita a schivare l’Imu nel 2013 nonostante la riforma Monti, può stare tranquilla. Sei milioni di italiani senza lavoro aspettano che governo e Quirinale trovino il tempo di occuparsi anche di cose serie e non soltanto degli interessi di Berlusconi.

il Fatto 29.8.13
Il Pdl canta vittoria
Un regalo a B. nel tentativo di tenerlo buono
di Stefano Feltri


Mario Monti paragona l’atteggiamento del Pdl sull’Imu a un’estorsione: o togliete la tassa sulla prima casa, o cade il governo. I “toni estorsivi” (come dice l’ex premier) hanno funzionato. “L’Imu è finita”, annuncia Enrico Letta nella sala stampa di palazzo Chigi al termine di un Consiglio dei ministri molto breve. É scuro in volto, come sempre in camicia, per dare l’idea che nella riunione si è lavorato sodo, ma non ha voglia di rispondere ai cronisti. Anche se il suo governo, dice lui, “non ha più una data di scadenza”. DA ARCORE, INFATTI, è arrivata la nota trionfante di Silvio Berlusconi: “Il Popolo della Libertà ha rispettato il patto con i suoi elettori e il presidente Letta ha rispettato le intese con il Pdl”. Il Cavaliere ha vinto. O meglio, lo hanno fatto vincere. Il compromesso sull’Imu prima casa è fragile, i soldi per cancellare la seconda rata di dicembre non sono stati trovati (il problema è rimandato a ottobre), dal 2014 l’Imu cambierà forma, ma il suo gettito dovrà essere garantito da una Service Tax (“Taser”) sempre legata alle abitazioni. Soltanto l’esperienza da amministratore locale del ministro per gli Affari regionali Graziano Delrio (Pd) ha permesso di ammantare un’operazione tutta politica di una patina di serietà, presentando il passaggio da Imu a Service Tax come un riconoscimento di autonomia ai Comuni, grazie al legame tra imposta e servizi erogati sul territorio. Ma i contenuti sono secondari, conta il messaggio. E il messaggio che deve passare è la vittoria del Pdl, anche se Letta prova a ricordare che “è di tutto il governo”. Non è questo, ovviamente, quello che dice Angelino Alfano, vicepremier e, soprattuto, segretario Pdl. Su Twitter è il primo a esultare: “Cdm: missione compiuta! Imu prima casa e agricoltura 2013 cancellata. Parola Imu scomparira' dal vocabolario del futuro”. Il fatto che resti sulle seconde case e su altri immobili è un dettaglio oscurato dall’entusiasmo. C’è anche l’applauso di Alfano all’infaticabile capogruppo del Pdl Renato Brunetta: “Prezioso @renatobrunetta per accordo su Imu. Bravissimo! ”. Brunetta avrebbe voluto anche la restituzione dei quattro miliardi versati nel 2012, come promesso da Berlusconi in campagna elettorale, ma l’ex ministro si è da tempo convertito alla priorità di salvare il governo.
Lo scambio è evidente: a dieci giorni dalla riunione della giunta per le Elezioni del Senato che dovrà decidere sulla decadenza di Berlusconi da senatore, dopo la condanna definitiva, l’esecutivo permette al Pdl di intestarsi un risultato dall’alto valore politico. La speranza di Letta e Alfano (e probabilmente del Quirinale) è che questo dia un forte incentivo a Berlusconi a proseguire con le larghe intese. Qualunque sia l’esito del giudizio sulla decadenza.
IL PARTITO democratico subordina i propri interessi elettorali alla sopravvivenza dell’esecutivo. Prova a intestarsi gli stanziamenti di risorse per esodati e cassa integrazione straordinaria, provvedimenti comunque scontati. Ma sull’Imu abbozza. Il segretario del Pd Guglielmo Epifani si limita a dire che “la scelta sull'Imu è corretta, soprattutto in vista della riforma e della trasformazione nel senso di un’imposta federale a partire dal prossimo anno”. A ben guardare, la riforma dell’imposta immobiliare assomiglia molto di più a quello che proponeva il Pd in campagna elettorale (revisione del calcolo, più potere ai Comuni, immobili di lusso non esentati) che alla abolizione senza eccezioni promessa dal Pdl. Ma non si può dire, bisogna tutelare il governo. Giusto Scelta Civica, con Benedetto della Vedova, parla di “scelta di facciata”. Ma è soltanto il primo tempo: di Imu si tornerà a parlare presto, quando comincia la sessione di bilancio a ottobre e bisognerà trovare davvero i soldi per evitare la seconda rata. Ma per allora sarà già chiaro se Berlusconi avrà fatto saltare tutto oppure no.

l’Unità 29.8.13
Epifani: scelta giusta E il Pdl canta vittoria
di Ninni Andriolo

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il Fatto 29.8.13
Le tappe del processo parlamentare
“Lodo Violante”
Il Pd e il diritto alla difesa


In Giunta, al momento, non ci sono cedimenti. Tutti i senatori democratici - insieme a Sel, Scelta Civica e M5S - si dichiarano favorevoli alla decadenza di Silvio Berlusconi. Ma nel partito guidato da Guglielmo Epifani, il dibattito sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’ex presidente del Consiglio è ancora vivace. In particolare da quando Luciano Violante, ex magistrato e padre nobile del Pd, ha invitato i colleghi a rispettare “il diritto di difendersi” del Cavaliere. “Se ci sono i presupposti, potrebbe essere legittimo il ricorso alla Corte costituzionale”, spiega il giurista, che è anche membro dei 35 saggi chiamati da Enrico Letta per discutere delle riforme costituzionali. Non è la linea del segretario Epifani, né del capogruppo al Senato Luigi Zanda. Ma, stando agli autorevoli commentatori che l’hanno sostenuta, non sembra dispiacere al presidente Giorgio Napolitano.

Corriere 29.8.13
«Il 9 settembre non succederà nulla» L’«alleanza» tra le colombe di Pdl e Pd
Aumentano i sì alla proposta Violante. Il segnale anti urne dei vescovi
di Tommaso Labate


ROMA — Adesso i primi a tirare il fiato sono proprio i ministri del Pdl. Quelle «colombe» che neanche una settimana fa sembravano essere state scavalcate dai «falchi». Perché alle 9 di ieri sera, quando abbandonano sorridenti Palazzo Chigi mentre Enrico Letta celebra un ritrovato patto di governo («Dopo oggi non c’è più scadenza»), qualcuno della delegazione pidiellina dell’esecutivo tira le somme della giornata «decisiva» appena trascorsa. E fa il punto su quelle che verranno. A cominciare da un primo risultato, che pare ormai messo in cassaforte: «Il 9 settembre, nella giunta per le elezioni del Senato, a questo punto non succederà nulla. E neanche il 10 e l’11...».
Il varco aperto da Luciano Violante con l’intervista al Corriere sta producendo i suoi effetti. Non a caso i difensori di Silvio Berlusconi, che nei giorni a cavallo di Ferragosto sembrava deciso a non presentare alcuna memoria difensiva a Palazzo Madama, hanno preso la tesi del «rinvio alla Consulta» della legge Severino e l’hanno fatta propria. «Dal punto di vista giuridico», ha detto infatti l’avvocato Franco Coppi al sito Affaritaliani, «il parere di Violante è ineccepibile». Come è quasi acclarato, aggiunge, che il 9 settembre in Senato non succederà nulla. Quanto alla richiesta di grazia, che è l’unica strada percorribile secondo dei paletti già fissati (li ha ricordati Giorgio Napolitano prima di Ferragosto), nessuna chiusura a priori. «Per il momento non è stata presentata. Il presidente della Repubblica deciderebbe solo a seguito di presentazione della stessa...». Un modo come un altro per lanciare un messaggio di distensione anche verso il Colle. Un modo come un altro per dimostrare che il Cavaliere riconosce che l’unica strada verso la clemenza passa attraverso un suo intervento diretto, o quello dei familiari.
Se l’assillo di Berlusconi è diventato rinviare il più possibile la decadenza in giunta, i «governisti» del Pdl sono convinti di riuscire a portarlo a casa. Ufficialmente, il Pd rimane per la linea dell’intransigenza. Non a caso, persino nelle conversazioni riservate, Guglielmo Epifani continua a sostenere che «la proposta di Violante ci ha provocato più noie che altro». Ma è un fatto che, anche dentro il Pd, ci sono prime file disposte a sottoscrivere il ragionamento dell’ex presidente della Camera. Come Beppe Fioroni, uno degli esponenti del partito che adesso è più vicino a Enrico Letta. «Proprio per evitare al Pd di apparire prevenuto, se il Pdl ha motivi seri e fondati si approfondisca pure la questione Berlusconi», ha detto l’ex ministro della Pubblica Istruzione in un’intervista rilasciata ieri al quotidiano Formiche.net . «Non cambierebbe molto decidere il 9 settembre o più i là. Per questo — ha aggiunto — valuto le parole di Violante come un’opinione seria».
Le «colombe» del Pdl celebrano la sconfitta dei «falchi». E nel Pd, nonostante la fermezza, si valuta la melina in giunta. Anche perché — come fanno notare nel triangolo tra Palazzo Chigi, Palazzo Madama e il Nazareno — «rinviare oltre la finestra elettorale del 15 ottobre, per esempio, vorrebbe dire togliere una volta per tutte ai falchi di entrambi i partiti la possibilità di agitare lo spettro delle elezioni anticipate». E consegnare al governo Letta un futuro sicuro, almeno fino a dopo il semestre della presidenza del Consiglio Ue che termina il 31 dicembre 2014.
Ecco perché, adesso, i governisti del Pd guardano con sospetto alle mosse di Massimo D’Alema e Matteo Renzi. «Con l’interdizione di Berlusconi la questione si risolve», ha detto il primo. Il secondo, che secondo molti deputati a lui vicini avrebbe già deciso di non ricandidarsi a Firenze, parlerà venerdì e probabilmente ribadirà la linea dura già espressa settimane fa: («Il Pd deve votare la decadenza»), magari insistendo sulla rapidità dei tempi. Il tutto mentre un assist al governo arriva da Oltretevere. «Il voto a breve sarebbe depressivo», ha sottolineato ieri il presidente dei Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco. Un assist non da poco.

Repubblica 29.8.13
La Costituzione dimenticata
di Gianluigi Pellegrino


IL MAGGIOR danno che si sta facendo al Paese è quello di dare per plausibile ciò che pacificamente non lo è. Plausibile che un Parlamento violi smaccatamente un norma anticorruzione che ha appena approvato.
Plausibile chiedere al capo dello Stato di abbuonare la pena ad un conclamato evasore fiscale, plurinquisito e pluricodannato in vari gradi di giudizio. E questo perché è «un leader politico al quale assicurare agibilità», costituzionalizzando cosi il principio che fare politica garantirebbe uno statuto legale privilegiato, una minore soggezione alla legge. E dimenticando che il presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale (art. 87 della Costituzione) e non può certo mettere i suoi poteri a servizio della pretesa di una parte politica che abbia pure il dieci, il venti o il trenta per cento dei voti.
I pareri affannosamente depositati ieri dalla difesa di Berlusconi in realtà già nel loro affastellarsi e nello sforzo comprensibilmente titanico dei redattori, finiscono con il dar conto di come davvero non vi sia nessuno spazio per il Senato, di non dichiarare la dovuta decadenza dal seggio di Silvio Berlusconi. Decadenza che peraltro è destinata a conseguire anche in via automatica non appena si sarà perfezionata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, rinviata dalla Cassazione con qualche generosità per l’imputato (che nessuno però sottolinea). E se è comprensibile che dalla parte del Cavaliere tutti si impegnino nel disperato tentativo, gli altri dovrebbero fare più attenzione prima di essere costretti a smentire e rettificare, a non cadere in trappole di strumentalizzazione buone sole a sbandare ulteriormente il grande pubblico dei non addetti ailavori. Perché non ha nessun senso dire che in astratto la giunta delle elezioni potrebbe rimettere la questione alla Consulta, se allo stesso tempo non si dice dove sarebbe questa pretesa incostituzionalità della legge che per semplicità chiamiamo Severino ma che in realtà l’intero Parlamento a larghissima maggioranza e lo stesso Pdl hanno confezionato e approvato pochi mesi addietro e ora si pretende di non applicare ad personam.
Sul punto i pareri prodotti da Berlusconi cercano di allegare una violazione dell’articolo 66 della Carta che attribuisce alla Camera di appartenenza l’accertamento della sussistenza della causa di decadenza. Ma basta leggere il precedente articolo 65 per trovarvi la disposizione che è «la legge» che «determina i casi di ineleggibilità e incompatibilità con l’ufficio di deputato e senatore ». Sicché la norma del 2012 altro non ha fatto che applicare la Costituzione che è l’opposto di violarla. E ha poi puntualmente rimesso alla giunta di accertare che in effetti la causa di decadenza si sia verificata come avviene per tutte le altre cause di incompatibilità. Dove sia quindi l’incostituzionalità risulta davvero misterioso.
Il secondo affannato argomento è quello della cosiddetta retroattività. Ma di retroattivo non c’è un bel niente atteso che la decadenza opererà in avanti, non certo indietro, e l’ordinamento, sol che venga rispettato, è ricco di norme che a tutela dell’interesse pubblico prevedono preclusioni per i soggetti condannati. Un esempio per tutti la disciplina in tema di pubblici appalti che nessuno si è mai sognato di applicare a corrente alternata in base a quando furono compiuti i delitti. Ciò che in realtà viene evocato dai pidiellini è la pretesa applicazione del favor rei, senza però citarlo per non ricordare che di un reo accertato si sta parlando e perché è noto che quel principio riguarda le pene, non certo le misure di salvaguardia istituzionale: nel caso a tutela del Parlamento e dell’interesse pubblico alla sua composizione.
Così crollata anche la seconda questione un giudice che sollevasse una inesistente eccezione di costituzionalità al solo fine di prendere tempo meriterebbe per questo un procedimento disciplinare. Lo facesse il Parlamento calpestando clamorosamente le sue stesse leggi, se ne imporrebbe lo scioglimento come per l’ultimo Consiglio comunale.
Il punto allora non è come finirà una vicenda dall’esito costituzionalmente dovuto; ma quanto sia ancora tollerabile questo dare tutto per plausibile, l’abbandono di ogni fermezza morale, il ritenere tutto negoziabile. Con la dialettica democratica strozzata dalle larghe intese, e con le istituzioni di garanzia assediate e costrette ad affermare elementari ma fondanti valori di una democrazia costituzionale, come «la legge uguale per tutti». È questa deriva di etica civica il colpo di coda di un ventennio che l’ha prosciugata e svilita; e che se non interrompiamo con un sussulto inequivoco, rischiamo di pagare tanto, anche molto più di un benvenuto risparmio di una rata di Imu.

Repubblica 29.8.13
Civati fuori dai dibattiti della Festa protesta dei militanti, lui li frena


GENOVA — Giuseppe Civati “oscurato” dalla festa del Pd. È infatti l’unico candidato segretario del Pd a non essere previsto nel programma della kermesse che inizia domani a Genova. Un gruppo di sostenitori del deputato — dopo un’occhiata approfondita al programma — ha iniziato ieri mattina a twittare e a postare su Facebook, gridando allo scandalo per «la scandalosa e provocatoria eliminazione di Pippo». Civati getta però acqua sul fuoco. «Calma e gesso - dice il canaidato-segretario -. Ne ho parlato con gli organizzatori della festa Zoggia e Paganelli, mi hanno proposto una data, ma ero già impegnato. Stiamo lavorando per trovare una soluzione onorevole per tutti».


l’Unità 29.8.13
Università, sempre più studenti scelgono Medicina
di Franca Stella
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l’Unità 29.8.13
La donna? Un’invenzione
«La» femmina non esiste perché con l’articolo determinativo si vuole catturare un’entità universale che non c’è, azzerando le differenze tra persone
di Nicla Vassallo

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l’Unità 29.8.13
Trotula De Ruggiero la prima ginecologa della storia
di Cristiana Pulcinelli

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La Stampa 29.8.13
I marziani siamo noi: la vita è cominciata lassù
di Giovanni Bignami


Secondo Benner, quindi, è lì che la vita è cominciata, ed è poi arrivata sulla Terra trasportata da uno (o più) meteoriti marziani.

Allora è vero: i marziani siamo noi! L’annuncio è stato dato ieri da un grande scienziato Usa, Steven Brenner, alla Conferenza Goldschmidt, a Firenze. Già un miliardo di anni dopo la nascita del sistema solare (la Terra e gli altri pianeti sono nati 4,6 miliardi di anni fa), le condizioni per la formazione della vita erano migliori su Marte che non sulla Terra.
La scoperta sta nella comprensione del ruolo che alcuni elementi metallici marziani hanno avuto nel facilitare la formazione di molecole organiche sempre più complesse, fino agli acidi nucleici (Rna e Dna), i veri mattoni della vita. Primo fra tutti, chi l’avrebbe detto, il molibdeno: un metallo simile al tungsteno, oggi, da noi, buono per irrobustire acciai. Ebbene, sono proprio dei composti ossidati di molibdeno, dei «molibdati», che hanno permesso il miracolo del passaggio da molecole organiche semplici (tipo anidride carbonica) a cose infinitamente più complicate fino, appunto, ai mattoni della vita. E di molibdati sul giovane Marte ce n’erano molti di più, per ragioni sconosciute, che non sulla Terra. Inoltre, sul giovane Marte c’era l’acqua, apparentemente nella quantità giusta per favorire la vita ma non affogarla, visto che Rna e Dna nell’acqua si «rompono» e per far partire la vita bisogna che il Dna sia capace di mettere l’impermeabile, come quello che protegge il materiale genetico delle nostre cellule. Insomma, tutto ciò successe su Marte, quasi quattro miliardi di anni fa. E il trasporto sulla Terra? Facile, succede ancora oggi. Quando un asteroide colpisce Marte, dal pianeta possono staccarsi pezzi che, vagando nello spazio interplanetario, hanno una certa probabilità di finire catturati dalla Terra. Abbiamo diverse decine di sassi marziani ben studiati e catalogati, con nessun dubbio sulla loro origine. Si può anche dimostrare che forme di vita elementare possono sopravvivere al viaggio, nascoste nelle crepe del sasso. Con miliardi di anni a disposizione, questa specie di inseminazione a distanza appare credibile, tutto sommato. Ma il bello viene adesso: finito il ruolo chiave del molibdeno marziano nel farli nascere, gli organismi elementari arrivati sulla Terra tirano un sospiro di sollievo: appena in tempo! Infatti, le condizioni favorevoli alla vita (se mai ci sono state) su Marte sono durate poco: l’acqua è scomparsa subito. Che colpo di fortuna essere arrivati sulla Terra, si saranno detti i protocoloni marziani: qui ci sarà poco molibdeno, ma pazienza, vuoi mettere quanta acqua, e poi fa un bel calduccio, il Sole è molto più vicino. Non dirò «l’avevo detto io», ma nel mio libro «I marziani siamo noi» (del 2010) c’era già tutta la storia, compreso il molibdeno. Spero proprio che Benner abbia ragione e che Exomars, la missione spaziale per Marte in costruzione a Torino, trovi Dna fossile simile al nostro. E’ sempre più probabile.

Corriere 29.8.13
Antischiavista ma non troppo
Lincoln non fu abolizionista e cercò il compromesso col Sud
di Antonio Carioti


Chi ha visto il film Lincoln di Steven Spielberg, con il protagonista impegnato allo spasimo per bandire la schiavitù dagli Stati Uniti con un emendamento costituzionale approvato nel gennaio 1865, rimarrà stupito nell'apprendere che il grande presidente «non fu mai un abolizionista» e che anzi nel 1860 venne eletto su una piattaforma politica che offriva agli Stati del Sud la salvaguardia della legislazione schiavistica, anche se «solo là dove essa già esisteva». Ma la storia non procede in linea retta: il compito degli studiosi di vaglia come Raimondo Luraghi, scomparso nello scorso dicembre, è appunto esplorarne a fondo le tortuosità. Senza cedere alla tentazione di semplificare, ma anche senza rinunciare a esprimere un giudizio interpretativo di sintesi.
Al grande conflitto che insanguinò gli Stati Uniti per quattro lunghi anni (1861-65) Luraghi, che verrà ricordato con un convegno a Torino il 10 settembre, aveva dedicato una ricostruzione molto ampia e minuziosa, divenuta un classico della storiografia. Nel suo lavoro La guerra civile americana (pagine 255, € 11), uscito postumo per la Bur, ha riassunto invece le sue valutazioni su quelle vicende e su alcuni dei maggiori protagonisti.
La posta in gioco nello scontro tra Nord e Sud, secondo Luraghi, era la direzione politica del Paese. Non l'abolizione della schiavitù, ma il rifiuto di estenderla ai nuovi territori che si andavano aggiungendo nell'Ovest, da cui sarebbero nati i prossimi Stati degli Usa, era il punto su cui Abraham Lincoln insisteva e non intendeva transigere. Da quel veto sarebbe derivato, con l'accrescersi dell'Unione, il progressivo isolamento dell'aristocrazia terriera meridionale, proprietaria d'immense piantagioni coltivate dai neri, a vantaggio della borghesia produttiva che dominava gli Stati settentrionali antischiavisti. Fino allora i latifondisti del Sud avevano esercitato una sostanziale egemonia sulle istituzioni federali. Con la rivoluzione industriale in corso era sorta però nel Nord una classe dirigente meno raffinata, ma assai più dinamica, che aveva «la ferma aspirazione a trasformare gli Stati Uniti in unico, vasto mercato nazionale da quella congerie di autonomie locali e di Stati con regimi sociali ed economici diversi che essi erano».
Lincoln non era solo un energico e visionario idealista. Era il rappresentante delle forze borghesi emergenti, proponeva un'idea degli Usa come grande nazione repubblicana, contro la quale i dirigenti sudisti, consapevoli della subalternità cui quel programma li condannava, giocarono la carta disperata della secessione. Infatti il Nord all'inizio lottò non per liberare i neri (va ricordato che alcuni Stati schiavisti rimasero fedeli a Washington), ma per salvare l'Unione. E lo stesso decreto di Lincoln che nel 1862 emancipò gli schiavi si riferiva solo a quelli che erano proprietà di confederati. Solo nel 1865 si arrivò alla svolta abolizionista narrata da Spielberg.
Il libro di Luraghi riserva molte altre sorprese al lettore inesperto della materia. Ricorda che Ulysses Grant, il generale che condusse il Nord alla vittoria, aveva lasciato l'esercito nel 1854. Vi rientrò solo dopo lo scoppio della guerra e all'inizio faticò ad essere riammesso: nel frattempo aveva vissuto una vita grama, facendo vari mestieri con scarso successo, fino a impiegarsi come commesso in un negozio gestito dal fratello. Interessante anche la figura del generale sudista Nathan Forrest, coraggiosissimo e all'avanguardia nelle tecniche militari, che fu tra i capi del Ku Klux Klan (per questo lo ricorda il film Forrest Gump, in cui il protagonista viene chiamato così proprio in suo onore), ma lo lasciò presto ed anzi «si adoperò per favorire l'attribuzione dei diritti civili agli ex schiavi».
La figura più tragica è però senza dubbio il comandante sudista Robert Lee: critico verso la schiavitù e contrario alla secessione, combatté soprattutto in nome del suo Stato, la Virginia, e ottenne vittorie incredibili contro un nemico superiore per numero e per mezzi. Non capì tuttavia, sottolinea Luraghi, le novità che la rivoluzione industriale aveva portato sul campo di battaglia, né lo sviluppo strategico complessivo del conflitto. Era un uomo del passato destinato alla sconfitta, sia pure onorevole, perché la lotta che si trovò a condurre non aveva più molto a che fare con l'epopea napoleonica delle grandi vittorie campali (come quella che Lee cercò invano a Gettysburg), ma preannunciava la stagione apocalittica della guerra totale novecentesca.

Corriere 29.8.13
Leonardo da Vinci
Mosso da «paura e desiderio»
Nella caverna delle leggi fisiche. Per creare le sue macchine
di Giulio Giorello


Ansioso di contemplare «varie e strane forme fatte dalla artifiziosa natura», come racconta lui stesso in un appunto del Codice Arundel (British Museum, Londra), Leonardo si addentra «in una gran caverna», provando insieme «paura e desiderio»: il timore è prodotto dalla «minacciosa e scura spelonca» ma è vinto dalla curiosità di «vedere se là dentro fusse alcuna miracolosa cosa». Tali «miracoli» non nascono per prodigi sovrannaturali ma in base a leggi fisiche di cui la mente umana, quando è accorta e sottile, sperimenta gli effetti e talora ne escogita l'imitazione nei congegni meccanici. L'intreccio di paura e desiderio intesse così tutto il cammino dell' «artista» tra osservazione del mondo e invenzione di macchinari. Come Leonardo ebbe a scrivere altrove: «non vedi tu questi diversi animali e così alberi, erbe, fiori, varietà di siti montuosi e piani, fonti e fiumi», che ci vengono offerti dalla natura, ai cui «artifizi» l'attività degli esseri umani aggiunge «città, edifizi pubblici e privati, strumenti opportuni all'uso, vari abiti e ornamenti»? A Ludovico il Moro, signore di Milano, aveva offerto i suoi servigi con queste parole: «occorrendo di bisogno farò bombarde, mortari e passavolanti di bellissime e utili forme», insomma «varie e infinite cose da offendere e difendere». L'arte dell'uomo è quindi capace di distruzione ma anche di costruzione.
Leonardo ha ben meritato il titolo — come ha dimostrato nei suoi studi Carlo Pedretti — di «eccellente architetto» per l'audacia dei suoi progetti, in particolare nella Milano del Duomo e dei Navigli. Affascinato dalle forme naturali, tanto in piccolo quanto nel grande universo, insisteva sulle somiglianze tra le strutture architettoniche e quelle presenti in natura, in particolare nella stessa anatomia umana.
Quest'ultimo aspetto è ben documentato nella mostra dedicata allo «uomo universale» alle veneziane Gallerie dell'Accademia. Leonardo lavora al suo Uomo Vitruviano, e qui dà campo libero alla sua magnifica ossessione per le proporzioni numeriche. Scrive infatti che Vitruvio aveva riconosciuto «che le misure dell'omo sono distribuite dalla natura», in modo che siano soddisfatti precisi rapporti matematici. «Tanto apre l'omo ne' le braccia, quanto è la sua altezza», annota Leonardo. E poi procede nei particolari: «la parte sedente, cioè dal sedere al di sopra del capo, fia tanto più che mezzo l'omo quanto è la grossezza e lunghezza dei testiculi».
Sa bene che la mente ha bisogno dell'occhio e della mano. Il primo è «la finestra dell'anima», la seconda è l'esecutrice che traduce nello schizzo sulla carta ciò che la mente ha scorto da quella finestra. A un mondo di forme corrisponde così il lavoro sulle figure. «Se tu poeta o matematico non avessi coll'occhio viste le cose, male le potresti riferire con le scritture» ammonisce nel Codice Atlantico.
Per Leonardo «chi sprezza (cioè disprezza) la pittura non ama la filosofia della natura», e corre il rischio di allontanarsi dalla vera devozione della mente: «poni scritto il nome di Dio in un loco e ponvi la sua figura a riscontro: vederai quale fia più riverita»! Le tradizioni religiose dell'Occidente hanno spesso coltivato la tentazione dell'iconoclastia, vedendo nel trionfo dell'immagine il tradimento della parola se non addirittura il peccato dell'idolatria; Leonardo «omo senza lettere» la pensava diversamente: senza troppo invischiarsi in discussioni teologiche riteneva che una «furiosa battaglia» o l'aspetto di una bella donna potessero terrorizzare o intimorire a distanza solo grazie alla rappresentazione pittorica, poiché il pennello prevaleva sulla penna. Così, i disegni sono veri e propri strumenti per pensare e risolvere problemi concreti, ed è sotto questo profilo che il pittore è davvero «un nipote di Dio» che è padre della natura.
Il commento scritto è importante ma è solo un aiuto per l'immagine. Del resto, aggiungeva polemicamente Leonardo, che il nome di qualsiasi cosa cambia con le lingue e le culture mentre la forma permane fino a che questa «non è mutata dalla morte». E se occhio e mano cooperano a fissare la dinamica incessante delle forme non riescono comunque ad aver vittoria definitiva sul mutamento. Il tempo rimane il «veloce predatore delle create cose» e nessuna bellezza è eterna. Il timore non è mai cancellato dal talento, e l'artista umano non è Dio. Egli «disputa e gareggia con la natura» ma può anche perdere la partita. L'unica vera soddisfazione è che valeva la pena comunque di impegnarsi nella gara.

Repubblica 29.8.13
Assopimenti, sogni, visioni e allucinazioni
I sintomi della malattia nascosti nella poesia
Il sonno di Dante
Perché la Divina Commedia è scritta da un narcolettico
di Giuseppe Plazzi


«Io non so ben ridir com’i’ v’intrai, / tant’era pien di sonno a quel punto / che la verace via abbandonai». Prime terzine dell’Inferno di Dante Alighieri e primo dei tanti indizi che troveremo nel suo lungo cammino: il viaggio nell’aldilà che il poeta sta per percorrere avviene in uno stato «pien di sonno ». Da questo momento in poi nellaDivina Commediasi ripeteranno sonnolenza, sogni, rapide transizioni dallo stato di veglia al sogno, sonnellini brevi e ristoratori, visioni e allucinazioni, comportamenti automatici in condizioni di torpore ed episodi di debolezza muscolare fino a vere e proprie cadute scatenate da forti emozioni.
L’insieme di questi segni, presenti anche in tutta l’opera letteraria di Dante, è tipico della narcolessia, una rara malattia neurologica descritta a fine Ottocento, della quale Dante potrebbe avere sofferto. Nel 1880 Jean-Baptiste-Édouard Gélineau, un avventuroso medico francese, coniò il fortunato termine narcolessia per descrivere una malattia di cui era affetto un giovane bottaio che presentava decine di episodi di sonno irresistibili, ma brevi e riposanti, ed episodi di cedimento del tono muscolare, fino all’improvvisa caduta a terra, scatenati dal riso, più tardi denominati cataplessia.
Nonostante il termine sia stato largamente abusato per indicare stati di sonnolenza patologica di diversa natura, esso si riferisce a una bizzarra malattia oggi di grande interesse nell’ambito delle neuroscienze, soprattutto a seguito delle recenti scoperte. Colpisce circa quattro persone ogni diecimila abitanti ed è clinicamente caratterizzata, oltre che da attacchi di sonno e cataplessia, da paralisi del sonno (la sensazione di non riuscire a muoversi al momento del risveglio, o all’addormentamento), da allucinazioni e da un sonno notturno interrotto da molti risvegli. Questi sintomi sono dovuti a una disfunzione del sonno REM, la fase del sonno caratterizzata dalla presenza del sogno. Da pochi anni sappiamo che la narcolessia dipende dalla scomparsa di un piccolo nucleo di cellule cerebrali che producono un neuro mediatore denominato orexina, che tra l’altro coordina numerose funzioni metaboliche.
Ma circa sei secoli prima della segnalazione di Gélineau, Dante Alighieri descrive, come tratto autobiografico, le caratteristiche cliniche della narcolessia. Benché sia verosimile che alcuni tratti delle sue opere siano espedienti letterari, è più difficile sostenere che la perfetta corrispondenza dell’insieme dei segni descritti conla narcolessia sia accidentale. Secondo i modelli narrativi medievali, il viaggio di Dante nell’aldilà, dall’Inferno al Paradiso, viene descritto all egorica-mente come una visione durante il sonno. Dante infatti cade addormentato all’inizio dellaCommedia, per svegliarsi spontaneamente al termine del suo viaggio.
All’inizio del poema, come visto, Dante è talmente stanco, anzi ha tanto sonno, da non ricordare come e dove abbia varcato la soglia dell’aldilà. Eppure Dante presta un’estrema precisione ai dettagli, colloca con esattezza l’inizio del viaggio nella notte prima del Venerdì Santo del 1300 e «Nel mezzo del cammin di nostra vita» (Inferno - I, 1),quando ha 35 anni. Ma sorprendentemente omette di spiegare la causa di tanta sonnolenza, come se il vagare in uno stato così estremo da non ricordare dove lo avesse portato il suo camminare, non fosse per lui una condizione inconsueta.
Durante laDivina Commedia Dante descrive il suo sonno come vero sonno e come tale viene testimoniato da chi lo osserva: al termine del poema, San Bernardo, guida nell’ultimo tratto del viaggio in Paradiso, si preoccupa di tagliar corto sulla descrizione di chi siano santi e angeliche affollano il Paradiso quando si accorge che Dante si sta risvegliando, e vuol concedere al poeta il privilegio unico della visione di Dio: «Ma perché ‘l tempo fugge che t’assonna, / qui farem punto, come buon sartore, / che com’elli ha del panno fa la gonna»: (Paradiso - XXXII, 132-139).
Ma non c’è solo il sonno. Ci sono le rapide transizioni dalla veglia al sogno, sogno che normalmente compare dopo almeno un’ora dall’addormentamento («e ‘l pensamento in sogno transmutai»: Purgatorio - XVIII, 145),ma che in una persona con narcolessia compare immediatamente. Ci sono sonnellini brevi e ristoratori, senza nessuna inerzia ipnica al risveglio («come persona ch’è per forza / desta e l’occhio riposato intorno / mossi»:Inferno - IV, 1-4).Ma, ancor più interessante per una lettura “medica” di questi segni, rari episodi di debolezza muscolare e vere e proprie cadute a terra scatenate da emozioni intense. Di fronte alla lupa Dante si sente improvvisamente debole: «Questa mi porse tanto di gravezza» (Inferno - I, 52);dopo aver ascoltato il commovente racconto della vita di Paolo e Francesca dalla stessa anima di Francesca da Rimini cade a terra per l’emozione: «E caddi come corpo morto cade» (Inferno -V, 142).L’insieme di questi segni evoca in modo suggestivo i sintomi cardinali della narcolessia: attacchi di sonno con l’immediato ingresso nel sonno REM, brevi episodi di sonno, ma ristoratori, infine la cataplessia.
L’ipotesi che la brillante creatività di Dante potesse essere sottesa a un tratto di personalità o a una vera e propria malattia ha trovato discreto spazio a fine Ottocento, suscitando spesso aspre reazioni da parte degli interpreti “classici” del poeta. Nel 1880 il dantista Giuseppe Puccianti suggerisce che sogni e sonni di Dante siano «vero sogno e vero sonno». Circa negli stessi anni Cesare Lombroso, il discusso inventore dell’antropologia criminale, asserisce che Dante soffrisse di epilessia, per le cadute improvvise e visioni, scatenando accese polemiche.
Gli episodi di caduta che Dante tuttavia presenta, sempre scatenati da intense situazioni emotive, sono ben diversi dalla crisi epilettica che devasta il corpo e la mente di Vanni Fucci («E qual è quel che cade, e non sa como, / per forza di demon ch’a terra il tira, / o d’altra oppilazion che lega l’omo, / quando si leva, che ‘ntorno si mira / tutto smarrito de la grande angoscia »Inferno - XXIV, 112-118). Con un’accurata descrizione, Dante non solo testimonia di conoscere molto bene l’epilessia, ma si addentra anche in teorie eziologiche e, attribuendo tale punizione a uno dei dannati, implicitamente stigmatizzando il connotato negativo che nella sua epoca aveva una manifestazione epilettica. Contesto e descrizione della crisi epilettica di Vanni Fucci sono ben diversi dalle cadute che Dante stesso presenta.
Sulle ipotesi mediche ritornano più recentemente alcuni studiosi di Dante: Marco Santagata rivaluta l’ipotesi dell’epilessia, Barbara Reynolds avanza l’ipotesi provocatrice che Dante assumesse qualche sostanza psicotropa, Mirko Tavoni interpreta le visioni dantesche come ispirate da veri sogni.
Sonno, sogni, cadute e allucinazioni possono però anche essere ritrovate in altre opera dantesche, fin dalla sua prima produzione, a diciott’anni, indicando un possibile filo rosso. NellaEpistola IV,scritta durante l’esilio al suo ospite Moroello Malaspina, Dante racconta un episodio allucinatorio; nella Vita Nuova, la maggior fonte d’informazioni autobiografiche sulla sua adolescenza e sulla gioventù, Dante racconta di episodi di sonno impellente a seguito di emozioni, anche ad orari inappropriati durante la giornata, della comparsa di attività onirica subito dopo l’addormentamento e, soprattutto, di nuovo di episodi di debolezza muscolare scatenati da emozioni intense. Sonnolenza ed emozioni sono infine una novità per ogni topos letterario medievale: il mal d’amore, l’amor heroicus, causa al contrario insonnia in chi ne è affetto.
Questo articolo è una sintesi diDante’s description of narcolepsy apparso suSleep Medicine. L’autore è ricercatore al Dipartimento di Scienze biomediche e neuromotorie dell’Università di Bologna

Repubblica 29.8.13
Elogio dell’amore senza principe azzurro
Il nuovo libro di Michela Marzano sulla ricerca dell’equilibrio sentimentale
di Leonetta Bentivoglio


Con L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore (titolo che prende spunto dai versi di Emily Dickinson), Michela Marzano ci consegna un nuovo libro sull’amore (l’uscita è oggi, e il 6 settembre sarà presentato al Festivaletteratura di Mantova). Ancora amore? Perché? Non è un soggetto scivoloso, banale e ad altissimo rischio? Non sono forse pericolosamente assillanti ulteriori prospettive su un tema che è stato sondato fino allo sfinimento? Non siamo già sufficientemente sollecitati da montagne di letteratura, poesia, filosofia, psicologia e semiologia, generate dal più inesauribile, fondamentale e a temporale argomento della vita? E tuttavia Marzano non arretra, anzi: osa di più. Sceglie la formula personalissima del récit: né un romanzo né un saggio, o forse entrambe le cose. Alla francese.
Su queste pagine scorre un diario che è una partita libera tra mente e cuore. Si definisce uno spazio dove la riflessione s’intreccia alla confessione. Un percorso irregolare e quasi spavaldamente eccentrico, che attinge a innumerevoli scenari intel-lettuali ed espressivi: le citazioni riguardano Stendhal, la Dickinson, Lacan, Zagdanski, Bauman (è onnipresente, nei testi sull’amore, la sua teoria sulla liquidità dei sentimenti nel nostro costume sociale). E ancora Winnicott, con la sua idea centrale di una figura materna che è necessario e sano interiorizzare nell’infanzia. Sarebbe l’unico modo, secondo Winnicott (e secondo la Marzano), per contenere il vuoto che ci si spalanca dentro quando restiamo soli, non soltanto da bambini, ma durante l’intera vita. Solo grazie a questa madre interna si placherebbe la nostra ansia della presenza accanto a noi dell’altro, insieme al dolore dell’intollerabilità dell’amore (perché è insopportabile il desiderio di avere continuamente accanto l’essere umano che accentra il nostro sentimento).
Qui non siamo dalle parti di Roland Barthes, con i suoi celebri Frammenti. Il viaggio nell’amore intrapreso da Marzano scansa l’“oggettivazione” del discorso amoroso. Non c’è un ritratto strutturale del significato dell’amore, nelle varianti di significato che ci invadono. L’autrice è del tutto autoreferenziale, e non teme il soggettivismo dell’impresa, così com’era già accaduto nel suoVolevo essere una farfalla, dedicato a una tragedia intima come l’anoressia osservata in base alla propria storia. Anche in quel libro il registro del memoir era intessuto a quello del saggio. Ora, con accresciuta determinazione, il tuffarsi dentro l’amore è una sfida compulsiva e abrasiva. Intrepida e decisamente spudorata. Pronta ad attraversare con piglio sprezzante l’esteso territorio del “luogo comune” in cui tradizionalmente abita l’amore. Marzano lo affronta giocando di sponda tra il sé più “denudato” e anche puerile (vedi il racconto della retorica del principe azzurro che l’ammaliò da piccola) e tutto ciò che ha accumulato e filtrato come filosofa, docente e studiosa di scienze sociali. In quest’altalenare cerca una prosa elastica, flessuosa, respirata, piantata nel quotidiano, «che mi permetta di partire dalla mia esperienza», dice, «per poi spiegare come sia sempre e solo per amore che agiamo. Soprattutto quando si ha la sensazione che sia troppo tardi.O troppo complicato. E che tutto sarebbe stato diverso se si fosse stati capaci di dirglielo, di trovare le parole giuste».
Cercando questa spiegazione la Marzano, oltre ai riferimenti culturali, parla molto dei propri uomini. Padre, fratello, amanti, compagni che l’hanno abbandonata e tradita, e che da lei si sono fatti tradire e abbandonare. È dall’aver sperimentato a fondo, e con sofferenza dichiarata, l’ansia incolmabile d’essere amata, così insidiosa e distruttiva per le relazioni, che la scrittrice edifica le sue attuali consapevolezze amorose. Proiettate in una chance risolutiva che si chiama Jacques, suo marito, «l’unico che mi ama sempre così come sono». Jacques è quell’ansia corrosiva dell’amore che si riversa finalmente nell’abbraccio di un’intelligenza autentica del rapporto. È il terrore d’essere in due che si scioglie nell’accoglimento. È il comprendere «che tra l’amore e il sempre non c’è differenza». Si sa che tutto ha un termine: la voglia, la tenerezza, la speranza. Tutto tranne l’amore, «che quando inizia ci accompagna per la vita. Anche se lui non c’è più. Anche se lei ci lascia. Anche se lui muore». Ecco perché, al contrario delle passioni che vanno e vengono, l’amore è eterno. È mutamento e dinamismo, ma non si cancella mai.
Marzano tocca la resistenza di quel “sempre” (l’essere insieme senza volersi fondere, il tempo buono di una “distanza di sicurezza”, il non vivere per l’altro e dentro l’altro, ma sapendo che «quando di amore ce n’è tanto il resto non importa») e capisce che il lieto fine delle fiabe ormai non le interessa più. Il “sempre” è Jacques. La meta di «un equilibrio precario». Forse l’amore è questo.

IL LIBRO
L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amoredi Michela Marzano esce oggi da Utet pagg. 208, euro 14 (nel prezzo è compreso l’ebook e il file audio di lettura integrale fatta dalla stessa autrice) La filosofa ne parlerà al Festival della letteratura di Mantova il 6 settembre con Stefano Levi Della Torre (ore 15 teatro Ariston)

Repubblica 29.8.13
Il caffè filosofico. Da Machiavelli a Husserl i giganti del pensiero in Dvd
Cacciari spiega “Il Principe”, Esposito rilegge Croce, Giorello fa i conti con Pascal, Bodei racconta Locke
Le riflessioni del passato per capire il presente La nuova collana di “Repubblica” e “l’Espresso”
di Raffaella De Sanctis


«Quella che mi interessa è una filosofia vera, anche se dolorosa». L’attenzione di Massimo Cacciari al pensiero di Machiavelli è un viatico in tempi di crisi, in cui l’urgenza della realtà non può più essere ignorata. In fondo è anche questo il compito del sapere filosofico: mettere la riflessione alla prova dei fatti, in una perenne oscillazione tra speculazioni e vita pratica, astrazioni e spunti pragmatici per indirizzare la nostra esistenza. La filosofia — lo dimostra il successo che sta avendo negli ultimi anni — non è più vista come una disciplina intimidente, ma come un mezzo utile per orientarci nel mondo.
Nessuno, dunque, più di Machiavelli, maestro nell’esigere efficacia al pensiero sul piano della prassi politica, poteva rappresentare un migliore inizio della nuova serie de Il Caffè filosofico: diciotto Dvd sui grandi protagonisti della filosofia, dal Rinascimento ai nostri giorni, raccontati da alcuni tra i più importanti filosofi contemporanei. La lezione di Cacciari su Machiavelli sarà in edicola domani a 7 euro più il prezzo diRepubblicao l’Espresso.
Le altre conversazioni usciranno ogni venerdì, ognuna corredata di un libretto con le note biografiche del relatore e un breve inquadramento dell’epoca e del filosofo analizzato. Ogni Dvd conterrà una traccia mp3 con l’audio della lezione e un riepilogo di Maurizio Ferraris sui temi affrontati.
Dopo la prima serie che attraversava la storia del pensiero occidentale a partire dai presocratici, le nuove conversazioni si arricchiscono di ulteriori percorsi, prendendo le mosse dall’autore delPrincipe,al centro, anche per la ricorrenza dei cinquecento anni dell’opera, di un rinnovato interesse per la lucidità della sua filosofia disincantata, aderente alla “verità effettuale”, pronta a riconoscere che gli uomini sono «ingrati, volubili, simulatori».
Cercare di conoscere la natura umana è uno dei rovelli della filosofia fin dalle sue origini, a cominciare da quella prima domanda “chi sono?” che fonda la riflessione dell’uomo sulla prodistruggerlopria condizione. Sarà però Cartesio a fare del dubbio e, dunque, del pensiero, il segno della nostra esistenza di uomini (seconda uscita il 6 settembre, a cura di Ferraris). Ma la ragione può rivelarsi delu- dente, può non bastare a chiarire i nostri interrogativi. Giulio Giorello illustra la lotta tra fede e ragione di Pascal, ben riassunta dalla sua massima più nota: «L’uomo è fragile come una canna, qualunque colpo di vento può ». Da qui la grande scommessa: credere in Dio conviene, perché se Dio esiste, si ottiene la salvezza. Se ci sbagliamo, abbiamo comunque vissuto meglio. E proprio la vita è al centro dell’opera di Spinoza, presentato da Cacciari, mentre Piergiorgio Odifreddi spiega il pensiero di Leibniz partendo dalla distinzione tra verità di ragione e verità di fatto. Seguono i Dvd di Remo Bodei su Locke, Andrea Tagliapietra su Voltaire e Umberto Galimberti su Schopenhauer: «La psicoanalisi non l’ha inventata il dottor Freud, ma Schopenhauer». È però a partire da Wittgenstein che la riflessione sul pensiero viene a coincidere con quella sul linguaggio (ne parla Odifreddi), mentre con Peirce il rapporto con la realtà diventa di tipo segnico (Ugo Volli). Con Husserl invece Roberta De Monticelli affronta la fenomenologia, tra “coscienza” e “oggetti della realtà” (decimo Dvd).
Alla filosofia italiana è dedicata la videoconferenza di RobertoEsposito su Vico e Croce, e quella tedesca le lezioni di Ferraris su Gadamer, di Giacomo Marramao su Benjamin e la scuola di Francoforte e di Adriana Cavarero su Hannah Arendt. Quindi arriviamo al postmoderno di Lyotard, affidato alla lezione di Ferraris, e a Rawls, trattato da Sebastiano Maffettone. Chiude la collana la riflessione sull’etica di Stefano Rodotà e si torna a una domanda cruciale: dove inizia e dove finisce la nostra libertà?

Repubblica 29.8.13
Sapere assoluto e discorsi da bar

di Maurizio Ferraris

Per i filosofi, come per i baristi, vale una prova molto semplice: ai baristi chiedete di preparare un caffè, ai filosofi chiedete di spiegarvi cos’è il sapere assoluto. Se il filosofo incomincia a snocciolarvi dei nomi propri e delle parole arcane, non sa, lui per primo, che cos’è il sapere assoluto, e c’è da sperare che sia almeno capace a fare il caffè. La divulgazione, che anche per Aristotele è la perfezione della filosofia, esige chiarezza, che a sua volta presuppone un lunghissimo esercizio. L’esempio del caffè mi viene ovviamente dal “caffè filosofico”, quello del sapere assoluto da un ricordo di giovinezza: Vattimo doveva spiegare il sapere assoluto in aula, ci pensò un poco, e alla fine disse: «È come sapere anche come son fatti gli ascensori».
Geniale e semplice, l’uovo di Colombo speculativo, il caffè filosofico di Vattimo, che si è rivelato un grande filosofo anche nel rendere chiara come il sole una nozione che filosofi meno grandi di lui avrebbero coperto di arzigogoli, quando non, addirittura, avrebbero dato per presupposta, assumendo che tutti sappiano che cos’è il sapere assoluto, o che magari lo possiedano, il che è quantomeno inverosimile. Questo, a mio avviso, è il senso della divulgazione in filosofia, e il suo ruolo capitale.
Una filosofia che fosse comprensibile solo per dieci persone non sarebbe filosofia, bensì un abracadabra per iniziati. Per questo non ho mai considerato la divulgazione filosofica una funzione estrinseca o ancillare rispetto alla filosofia in senso alto e nobile. Ne è una funzione costitutiva ed essenziale, e chi crede di essere un filosofo senza saper spiegare in parole semplici i concetti e il pensiero degli altri filosofi non è diverso da un barista che si creda un grande barista senza saper fare il caffè. O, peggio (succede anche questo) che fa un pessimo caffè e poi ti spiega con sussiego perché devi trovarlo buono.

Repubblica 29.8.13
Miracolo in provetta ecco il primo cervello creato in laboratorio
Vienna, ottenuto con le staminali: misura 4millimetri. “Servirà acapire le malattie”
di Elena Dusi 


È UN cervello, ma non sta in testa. La sua casa è il laboratorio. E a proteggerlo non c’è un cranio, bensì le pareti trasparenti di una provetta. Dopo cuori, fegati, cornee, reni, oggi la fabbrica degli organi ha creato addirittura un cervello umano. Il tessuto vivente più complesso dell’universo è stato costruito dagli scienziati usando come mattoni le meravigliose e controverse cellule staminali.
L’ESPERIMENTO dell’Istituto di Biotecnologia Molecolare di Vienna viene raccontato oggi da Nature. Il cervello artificiale ha un diametro di 4 millimetri: simile al grado di sviluppo di un feto di nove settimane. Per crescere nella provetta ha impiegato due mesi. Al suo interno si vedono alcune strutture tipiche dell’organo naturale: corteccia cerebrale, meningi, plesso coroideo, un abbozzo di retina. Ma regioni come l’ippocampo — fondamentale per la memoria — non sono invece apparse in nessuno dei 35 cervelli creati a Vienna in una serie di esperimenti successivi. E il motivo non è chiaro. Le staminali erano state prelevate da embrioni umani e da cellule adulte fatte regredire al livello di embrionali. «Anche aspettando più di 2 mesi, però, non siamo mai riusciti a superare i 4 millimetri di dimensioni» spiega il coordinatore degli scienziati, Juergen Knoblich. «Non avendo vasi sanguigni, una struttura più grande non saprebbe come recapitare ossigeno e nutrimento alle regioni più interne». I neuroni cresciuti in provetta sono perfettamente normali, in grado di attivarsi e comunicare fra loro. Eppure non si può sostenere che il mini-cervello viennese sia in grado di pensare. «Affinché i neuroni formino dei circuiti — spiega Knoblich — e il cervello riesca a processare delle informazioni, è necessario che riceva input dall’esterno, cioè dagli organi sensoriali. Dovremmo collegarlo a un occhio o a un orecchio artificiale. Ma siamo davvero lontani da questo livello di complessità. Si creerebbero serie questioni etiche. Né lo consideriamo fra i nostri obiettivi ». Difficilmente poi la tecnica potrà fornire pezzi di ricambio per le malattie del sistema nervoso. «Ilcervello — continua lo scienziato — è un organo altamente integrato. Ogni neurone stringe legami con altri neuroni. Ogni regione è collegata con le altre. È impensabile inserire dall’esterno una parte nuova, slegata dal resto dell’organo».
Ma allora qual è il senso dell’esperimento di Vienna? «Imparare come il cervello cresce e si struttura durante lo sviluppo embrionale. E capire quale meccanismo si inceppa in caso di malattie. L’uomo in questo è troppo più evoluto degli altri animali. Non potremmo mai condurre i nostri studi sui topi di laboratorio » spiega Knoblich. A conferma dei loro intenti, subito dopo aver creato dei mini-cervelli normali i ricercatori si sono cimentati con la microcefalia: una malformazione di origine genetica che dimezza le dimensioni del cervello.
Gli scienziati hanno preso cellule della pelle di un individuo colpito dalla malattia. Con la tecnica chiamata Ips (premiata con il Nobel l’anno scorso) hanno spostato indietro le lancette del tempo di queste cellule, riportandole dallo stadio adulto a quello staminale, ma mantenendo il difetto genetico all’origine della malformazione. Le staminali hanno poi iniziato a crescere in provetta, alimentate da un “brodo” di sostanze nutrienti. Questo terreno di coltura era mantenuto sempre in circolazione, come in una sorta di vasca a idromassaggio, affinché ogni angolo dell’organo ne fosse ben irrorato. Man mano che il cervello artificiale malato ha iniziato a strutturarsi in provetta, i ricercatori hanno osservato in diretta il meccanismo che ne frenava lo sviluppo. Nella normale crescita di un embrione, infatti, le staminali si moltiplicano fino a raggiungere la “massa critica” di un organo. Poi iniziano a maturare, e assumono le funzioni tipiche di quell’organo (nel cervello per esempio le staminali prima si dividono, poi diventano neuroni). Nella microcefalia la maturazione avviene troppo presto, prima che le staminali si siano moltiplicate abbastanza da raggiungere la “massa critica”. «Il prossimo passo — annuncia Knoblich — sarà studiare malattie più complesse, come autismo o schizofrenia». La fabbrica degli organi permetterà anche di testare nuovi farmaci in provetta, senza usare cavie. «E poi ci fermeremo» promette lo scienziato. «Non abbiamo intenzione di creare un cervello in grado di pensare o provare sensazioni».