il Fatto 28.8.13
Pateracchio salva Caimano. Ora Violante spiazza il Pd
Ufficialmente i Democratici confermano il voto per la decadenza di B. da senatore. Ma sotto traccia si lavora per agevolare il rinvio della Severino alla Consulta proposta dal “saggio” del Colle. E Monti invoca la grazia
Berlusconi verso la vittoria. Per assenza degli avversari
di Peter Gomez
qui
L’Huffington Post 28.8.13
Trovato l’accrocco per Silvio
Il Pd fa la voce grossa ma non è contrario a concedere tempo a Berlusconi
Lodo Violante, ricorso europeo, commutazione della pena. Tutte le strade del salvataggio
qui
il Fatto 28.8.13
Matteo Orfini
“Rinvio alla Consulta: il Pd dirà di no”
di Wanda Marra
La legge Severino è costituzionale e il Pd deve dire no all’ipotesi di sottoporla alla Consulta”. Matteo Orfini, esponente di spicco dei Democratici, da sempre all’ala sinistra del partito, è netto.
Onorevole Orfini, ma allora Berlusconi alla fine lo salvate?
No, non lo salveremo, perché abbiamo chiaro che ci sono principi che vengono prima di tutto. La legge è uguale per tutti. Noi abbiamo detto prima della condanna che si dovevano scindere le vicende di Berlusconi da quelle del governo. E lui una volta che la sua condanna è definitiva deve pagare il suo debito con la giustizia.
Sì, ma ormai le aperture e i distinguo si moltiplicano. Violante al Corriere della Sera ha detto che rimandare la legge alla Consulta non sarebbe dilazione, ma applicazione della Costituzione. Non è d’accordo?
Io ho grande rispetto dell’opinione di tutti, soprattutto di quella di Violante, ma non la condivido. Non penso che la Severino sia incostituzionale, nessuno aveva mai fatto quest’obiezione prima della vicenda Berlusconi. Nemmeno il Pdl.
E quindi?
Ci si deve limitare ad applicare la legge e votare la decadenza. Vedo anch’io la peculiarità di Berlusconi come leader politico sostenuto da milioni di italiani, ma penso che questo ruolo si possa svolgere fuori dal Parlamento.
Come ha detto D’Alema, mettendo insieme Grillo e Berlusconi, in quanto “pregiudicati amati dagli italiani”.
Come Grillo. Ma anche come leader che pregiudicati non sono: D’Alema medesimo, Veltroni, Renzi.
Quella di Violante dunque non è la posizione del Pd?
No, è quella espressa dal segretario in giù sulla decadenza.
Però la questione del rinvio alla Consulta potrebbe essere una scappatoia. Anche per il Pd.
Chiunque ne vede la strumentalità. Il giorno dopo la sentenza si è gridato al colpo di Stato. Poi si è parlato di guerra civile. E poi di grazia, amnistia, salvacondotto. Tutti strumenti tirati in ballo per salvare Berlusconi. Per arrivare al rinvio alla Corte. La posizione del Pd non può cambiare e non cambierà.
Tra i favorevoli a una soluzione come questa, però, ci sono alcuni degli uomini più vicini a Napolitano, a partire da Ranieri. Non sarà che sanno che per il Colle è una strada percorribile, come peraltro scrive anche il Foglio?
Credo che sarebbe sbagliato attribuire al Quirinale volontà di questa natura. Escludo che il Colle faccia pressione in un senso o nell'altro.
Anche se ci sono una serie di costituzionalisti interpellati ad hoc che dicono che si può fare?
Sono generalmente contrario alla dittatura dei costituzionalisti. Ho trovato surreale la vicenda dei saggi che dovrebbero insegnarci come scrivere la Costituzione. La nostra Carta è stata scritta da persone che fino a poco prima tenevano il fucile in mano per difendere l’Italia.
Monti intanto chiede la grazia per Berlusconi.
Monti è piuttosto confuso ultimamente. È preoccupato di trovare uno spazio politico e quindi guarda agli elettori di Berlusconi.
Insomma, il Pd se qualcuno chiederà in Giunta il rinvio della Severino alla Corte, voterà no?
Sì. In un paese normale il Pdl chiederebbe scusa agli italiani e cambierebbe la leadership. Alfano ci chiede di comportarci come se Berlusconi fosse un nostro senatore. Noi col nostro Statuto non l’avremmo nemmeno candidato.
Ma voi con questo Pdl ci governate.
Sì, stiamo riuscendo a fare anche cose positive, come la stabilizzazione dei precari della Pa. Ma il governo può andare avanti se il Pdl scinde i piani, cosa che non mi pare stia facendo. La richiesta di iniziative volte a tutelare Berlusconi è irricevibile.
I Democratici al governo sembrano intenzionati a restarci. Fino a che punto si può forzare?
Non credo sia così. Il primo che non ha questo atteggiamento è il presidente del Consiglio. Che sulla decadenza di B. è stato fermo e condivisibile. I ministri del Pd sono impegnati in un una battaglia difficile sull’Imu.
Il Pdl non demorde: vuole togliere l’Imu a tutti.
Io credo che anche da questo punto di vista sia bene non accettare il ricatto. Chi può, deve continuare a pagare. Noi abbiamo bisogno di ridurre le diseguaglianze, non di aumentarle. E non possiamo accettare bandierine ideologiche.
Si parla di nuove maggioranze, di un Letta bis. Scenari possibili?
Mi pare difficile. Ma se saltasse tutto si dovrebbe comunque cercare una maggioranza per fare legge elettorale. Ma il Pd è l’unico a volerla cambiare. Grillo ha detto che dobbiamo mantenere il Porcellum, perché favorisce loro. Questo dimostra la sua malafede. Spero che i 5 Stelle se ne accorgano.
Il Pd però ha votato contro la mozione Giachetti per il ritorno al Mattarellum.
Quella era una mozione. Ora dal Pd è venuta un’accelerazione.
Repubblica 28.8.13
Ma la grazia rimane l’unica strada per sperare Silvio deve fare domanda
In gioco una “squalifica” dalla politica fino a tre anni
di Liana Milella
“LIBERO” di fare politica, ma da condannato. Il peggio, alla fin fine, per uno come Berlusconi. Pure con l’incubo della legge Severino. Costretto alla perenne gratitudine verso Napolitano. Cui comunque, lui o i suoi avvocati, questa mini-grazia dovranno necessariamente chiederla.
PERCHÉ, come ha scritto il presidente nella sua nota del 13 agosto, «questa è la prassi». Un atto tutto politico e poco giuridico che, lo diranno i sondaggi, potrebbe non piacere affatto alla gente comune.
Tra i poteri del capo dello Stato c’è anche quello di dare la grazia e scegliere che tipo di grazia dare?
Il Presidente, in materia di grazia, ha potere praticamente assoluto. Come insegnano le oltre 42mila grazie che si contano in Italia dal 1948 a oggi, il primo inquilino del Colle può agire di sua iniziativa, si può muovere su richiesta (la prassi più recente, dopo il caso Sofri), può scegliere che tipo di beneficio concedere.
Napolitano può decidere di non cancellare la condanna a 4 anni (ridotti a un anno per via dell’indulto2006) e intervenire solosulla pena accessoria?
Sì, può farlo. Deve indicarlo espressamente. Può lasciare intatta la pena principale e intervenire soltanto su quella accessoria, nel caso di Berlusconi l’interdizione dai pubblici uffici che la Corte di appello di Milano dovrà ricalcolare dopo lo stop della Cassazione.
Ma Napolitano “vuole” farlo?
Nella nota di agosto egli parlava solo di «pena principale» e i giuristi lessero il passaggio come espressione della sua volontà di non toccare le pene accessorie.
Quanto “pesa” l’interdizione di Berlusconi?
È ben pesante. In primo e secondo grado Milano aveva chiesto 5 anni. Il pg della Suprema corte ne ha proposti 3.
In che tempi il ricalcolo potrebbe essere definitivo?
Si può stimare che le motivazioni della sentenza Mediaset siano depositate per la metà, al massimo la fine di settembre. Tra Corte di appello e Cassazione l’interdizione sarebbe “chiusa” per gennaiofebbraio 2014. Ma gli avvocati del Cavaliere potrebbero non fare ricorso anticipando i tempi di un paio di mesi.
Berlusconi deve chiedere comunque la grazia anche per vedersi cancellare solo la pena accessoria?
Il passo è obbligato. Berlusconi recalcitra perché per lui chiedere la grazia è come ammettere la colpa. Ma Napolitano è stato perentorio con tutti quelli con cui ha parlato, niente domanda niente grazia.
Si può commutare anche l’interdizione?
Una condanna da scontare si può commutare in un corrispettivo in denaro che viene calcolato per ogni giorno di detenzione. Ma questo ovviamente non si può fare con l’interdizione che non può essere commutata, bensì cancellata.
Cancellare l’interdizione che valore ha?
Una potente valenza politica trattandosi di Berlusconi. Per la prima volta in Italia verrebbe consentito a un condannato per un reato grave come la frode fiscale di evitare l’interdizione solo perché egli è il leader di un partito. Sarebbe un precedente — questo sì giuridico — che peserebbe molto sui rapporti tra magistratura e politica.
La grazia cancellerebbe anche legge Severino?
No, perché essa è del tutto sganciata dall’interdizione, cammina su un binario parallelo per “punire” chi vorrebbe entrare nei palazzo della politica e rappresentare i cittadini pur avendo una fedina penale sporca. La Severino ristabilisce il principio dell’uguaglianza fissato dall’articolo 3 della Costituzione, come il cittadino condannato non può più fare il bidello, così lo stesso cittadino non può diventare deputato o senatore.
Berlusconi, graziato da Napolitano, potrebbe finire vittima della Severino?
Sì, con tempi diversi a seconda del destino della norma. Se la giunta e l’aula del Senato votano la decadenza, la grazia del Colle è inutile. Se la legge viene spedita alla Consulta Berlusconi guadagna tempo. Ma la Consulta potrebbe non ammettere il ricorso.
Berlusconi resterebbe a tutti gli effetti un condannato?
Assolutamente sì, in questo modo Napolitano realizzerebbe il compromesso di non cancellare la condanna definitiva della Cassazione e non smentirebbe i giudici, ma consentirebbe a Berlusconi di continuare a fare politica.
Berlusconi potrebbe ricandidarsi?
Per la legge Severino non potrà farlo per sei anni.
La Stampa 28.8.13
Il prof che ama le allieve indagato per la morte di una diciottenne
Saluzzo: era una sua ex studentessa, si uccise nel 2004
A casa del docente le lettere e le fotografie della suicida
di Andrea Garassino
L’inchiesta che ha portato all’arresto di Valter Giordano, 57 anni, ultra stimato professore di Saluzzo, per i rapporti sessuali, per le fotografie pedo-pornografiche scattate con due sue allieve, minorenni, parte da molto più lontano. Esattamente dal 2004, quando una ragazza si tolse la vita. Era sua allieva. Il suo nome era Paola Vairoletti, aveva 18 anni. Lui, il professore più amato di Saluzzo, «colto» e «passionale», la conosceva molto bene. Dopo di lei altri studenti di quell’Istituto Socio Pedagogico di Saluzzo e di una scuola d’Arte Bertoni si tolsero la vita in una catena spaventosa, proseguita fino al 2011.
Quando, dopo la morte di Paola, il professore fu interrogato dai carabinieri, non raccontò nulla di fondamentale. Anzi, rimase sul vago. Lo spiega bene il giudice per le indagini preliminari di Saluzzo, nell’ordinanza che ha portato in carcere il docente. E nella quale si svela anche che il «prof» è indagato per istigazione al suicidio. Di Paola. Ecco, da qui, scavando su questa storia si è scoperto che Valter Giordano aveva avuto più di una relazione con studentesse minorenni.
E allora tutto torna. Tutto si lega. A Saluzzo qualche mese fa esplose il caso delle ragazze morte suicide. Si parlò di Satanismo, di riti. Di Paola Vairoletti e di altri ragazzi ancora. La Procura ammise: «Stiamo indagando». Ma tutto finì lì.
Ecco, allora bisogna ripartire da qui, da questa morte. E da quel primo interrogatorio: «La conoscevo in modo superficiale». Poco dopo il decesso fu trovata una lettera di lei con il nome dell’amato professore sulla busta. Ma Valter Giordano fu richiamato dai carabinieri soltanto nel maggio 2012: «Ci spieghi il perché di tutto questo». Allora, e solo allora, consegnò un fascio di lettere grosso così di quella sua allieva. Documenti importanti nei quali lei annunciava la voglia di farla finita. Ed era molto di più di uno sfogo. Era la disperazione dell’anima. Era il baratro. Dal quale lui, che sapeva tutto, non ha fatto i passi opportuni per salvarla. Di qui l’avviso di garanzia per «induzione al suicidio». Ma c’è di più. Il professore aveva catalogato e datato «di suo pugno» per citare le esatte parole del gip nell’ordinanza che lo ha portato in carcere - tutte quelle lettere. Perchè? E già qualcuno si domanda se lui, il prof, non sapesse dove era andata a nascondersi Paola, per due giorni, prima di togliersi la vita gettandosi da un torrione.
E siamo ormai nel 2013. Per chiarire questo episodio il docente viene indagato. Partono le intercettazioni ambientali e telefoniche. E arriva un’altra sorpresa inquietante. A casa dell’insegnante viene sequestrata una scatola, con la foto della giovane morta nel 2004 attaccata sul coperchio, l’articolo de La Stampa che ne annunciava la morte e un altro dal titolo «Maestri e allieve, strane coppie» che faceva riferimento ad un’opera di copia di lettere scritte dalla vittima alla famiglia, alla classe che frequentava e allo stesso docente. Inoltre, un’agenda dove Giordano annotava i fatti dei giorni di quel 2004. Il 7 dicembre scrisse: Paola è morta suicida, il corpo è all’acquedotto di Savigliano. Ora l’avvocato del professore, Enrico Gaveglio, mette le mani avanti: «Il professore mi ha assicurato che aveva sempre informato la famiglia della ragazza dei suoi pensieri e dei suoi turbamenti». Compresa la volontà di togliersi la vita.
Con le intercettazioni, ascoltando le telefonate del professore viene fuori un intreccio di rapporti amorosi. Un torrente di sms, di telefonate al limite del decente. I numeri aiutano a comprendere: nella relazione durata due anni e 8 mesi ci sono stati 57 mila contatti, cioè 106 tra telefonate e sms al giorno. Con l’altra allieva, sua «amante» per 15 mesi ci sono stati 17 mila contatti: 88 al giorno. Le due ragazze vengono sentite. Si incaricano psicologi di fare perizie e gli inquirenti arrivano a una prima conclusione: «Con abuso di autorità e comunque abusando delle condizioni di inferiorità psichica le costringeva» al suo volere.
L’ordinanza di custodia racconta una storia complessa. Fatta di affetto, certo, ma anche molto carnale. Fin troppo. I messaggini sul cellulare sono più che espliciti, le intercettazioni - anche ambientali - non lasciano spazio a molti dubbi. Anzi. E il giorno dopo Ferragosto il professore che recitava Dante a memoria, è finito in galera. Salvo poi andare agli arresti domiciliari dopo pochi giorni. Arrivano le lettere di solidarietà Di affetto di stima: «Una sbandata può succedere».
Ma adesso si apre un nuovo scenario. E sullo sfondo resta il suicidio di quella ragazza del 2004 tanto che il gip nell’ordinanza scrive: «È probabile che i rapporti con la suicida siano stati simili a quelli» e cita le due allieve.
La Stampa 28.8.13
“Mi accompagnò in tv a lanciare un appello”
Parla la madre di Paola Vairoletti: “Mi fidavo di lui”
di Niccolò Zancan
E così si torna al suicidio di una ragazzina che si faceva chiamare «Vampire». «Paola era sensibile, ironica e profonda, brava scrittrice, sognava di diventare regista. Era molto più capace di me nel capire le cose della vita», dice la madre con un filo di voce dolce.
Paola Vairoletti diceva di odiare dio perché ci lascia liberi di sbagliare. Scriveva sul diario frasi lapidarie: «Ho paura. Il mondo è troppo brutto». Scappata di casa il 4 dicembre 2004, è stata ritrovata al fondo del pozzo dell’acquedotto di Savigliano tre giorni dopo. La madre Vanna non ha mai smesso di lottare per la verità: «In tutti questi anni ho sempre pensato che non fosse un suicidio normale. Si è parlato di satanismo, non lo so.... Io so che mia figlia era profondamente cambiata. Da sei mesi stava male. Soffriva tanto. Era irriconoscibile. Come se avesse dei sensi di colpa enormi, un fardello troppo pesante da sopportare. Ora, finalmente, quello che sta emergendo in questi giorni, forse potrà aiutarmi a capire...».
Ora sappiamo che il professor Valter Giordano è stato iscritto nel registro degli indagati per istigazione al suicidio di Paola. Questo è l’inizio dell’inchiesta. È aprile del 2012. I genitori di un’altra ragazza della stessa scuola, il liceo Psicopedagogico Soleri di Saluzzo, raccontano ai carabinieri i dubbi sulla morte della figlia: «Frequentava gruppi satanici». E per corroborare lo scenario, spiegano di aver saputo, attraverso l’insegnate di sostegno, che anche un’altra allieva era finita nello stesso ambiente otto anni prima. L’insegnante conferma: «Quella ragazzina si chiamava Paola. Aveva scritto una lettera al professor Giordano in cui diceva di essere satanista». Così nasce l’attenzione per il professore «stimatissimo».
Gli investigatori scoprono che Valter Giordano ha conservato molte lettere scritte da Paola Vairoletti prima del suicidio. Però le consegna ai carabinieri solo nel maggio del 2012. Non sa spiegare questa disattenzione: «Rilascia dichiarazioni piuttosto confuse sull’argomento». Eppure era già stato sentito nel 2004, quando era andato ad accompagnare proprio la madre di Paola a «Chi l’ha visto?» per lanciare un appello accorato: «Torna a casa...». Il professore era sconvolto: «Mi diceva che era una scomparsa incomprensibile». Ma nulla, neanche una parola sulla corrispondenza con l’allieva, lettere piene di dolore, paura e segreti. Ecco perché il 10 maggio del 2013 è stato iscritto nel registro degli indagati. «Perchè si ritiene che possa aver volutamente nascosto informazioni utili a meglio lumeggiare alcuni episodi e abbia volutamente nascosto le lettere e il diario di Paola, consapevole del loro contenuto. Tra l’altro - annota il gip dal diario risultavano mancanti e strappate alcune pagine....».
Insomma, i carabinieri si interessano al professore per capire meglio la sofferenza di Paola e si imbattono nella tragedia di altre due studentesse della stesso liceo. Siamo ad oggi. Le due allieve stanno con il professore, accettano tutte le sue richieste, ne sono succubi. Sono due ragazzine fragili. Fa male leggere la perizia psichiatrica depositata il 10 agosto. «Aspetti depressivi significativi presenti da anni; hanno di sé un’immagine svalutata, una chiusura relazionale significativa. Tutto il mondo ruota intorno alla figura del professor Giordano». «Ragazza con una quadro evidente di depressione cronica. La stessa relazione con l’indagato è nata a seguito di un episodio depressivo significativo. Il rapporto con il professore le dava maggiore sicurezza. Si ravvedono anche per lei elementi di inferiorità psicofisica rispetto al docente...».
Stanno con il professore, dipendono dal professore, soffrono per il professore. Una di loro fa registrare 30.810 contatti con il telefono di Valter Giordano, l’altra 11.948. Sono messaggini, preghiere, baci, lusinghe, appuntamenti, disdette, paure e - anche - minacce di suicidio. Quando succede, in un caso il professore risponde «invitando la ragazza a stare zitta». Altre volte chiede esplicitamente di cancellare messaggi e foto. Ecco perchè la disperazione del 2004 di Paola Vairoletti è di attualità oggi, così come le pagine strappate del suo diario.
A casa del professore i carabinieri hanno sequestrato articoli di giornale e altre tre lettere della ragazza. Anche un’agendina con annotato, sul 7 dicembre del 2004, la frase: «Paola è morta suicida». Il gip scrive: «L’indagato attribuisce al soddisfacimento degli istinti sessuali un’importanza fondamentale». È l’anello che tiene insieme il passato e il presente di questa storia terribile. La disperazione di alcune adolescenti, il ruolo distorto del professore. «Non sapevo che Valter Giordano avesse tenuto nascoste alcune lettere di mia figlia dice Vanna Vairoletti - non so davvero cosa pensare. È così stimato che è quasi impossibile anche solo poterlo mettere in discussione. Dopo il suicidio di Paola aveva voluto il diario di mia figlia, e io ero stata contenta di lasciarglielo per qualche giorno».
La Stampa 28.8.13
Tutti schierati con l’insegnante
Non una parola spesa per difendere quelle ragazze fragili
di Pierangelo Sapegno
Avevano scritto che parlavano di lui come di «una persona che aveva solo fatto del bene». E c’erano tante firme sotto, quasi tutte quelle degli studenti del liceo Solieri di Saluzzo. E c’erano anche le loro, quelle delle due allieve che si erano innamorate. Nessuno le conosce, per fortuna. Nemmeno noi. Perché negli abissi dell’assenza che raccoglie questa torbida storia, loro non sono soltanto le vittime più deboli, ma anche quelle che mancano, nelle parole e nei pensieri degli altri, nella ricerca della verità, dimenticate dal senso di giustizia nelle stradine sotto i portici, nelle loro complicate solitudini, nella finta e opprimente serenità della provincia. Perché se è vero che il professore alla fine sembra uno di quei personaggi di Simenon prigioniero della sua anima, dentro al velo opaco di questa piccola città dove ogni significato può essere dubbio e sfuggente, loro sono molto più importanti e molto più fragili, in balia di una giustizia a volte sorda e di tutti gli squali della cronaca. Eppure, nella strana storia del professor Valter Giordano, lo stimatissimo insegnante che sarebbe andato a letto con le sue allieve, nessuno ha levato una voce in loro favore. Neppure lui, che le ragazze hanno difeso così strenuamente.
Nel silenzio di questa piccola città, fra la macelleria Giordano e la piazza Dante Alighieri con il monumento a Giambattista Bodoni così pulito da sembrare appena lucidato, che cosa è rimasto della loro sconfitta, se non la paura per le loro debolezze, come ripete adesso la preside Alessandra Tugnoli, invitandoci «alla massima attenzione, alla prudenza, mi raccomando»? Ma se non c’è un peccato che riguarda anche loro, che cosa hanno perso e che cosa devono ancora pagare? Nelle pagine dell’ordinanza, secondo la Procura, il professore «approfitta delle loro condizioni di inferiorità psichica per indurle a degli atti sessuali». E questi rapporti costituirebbero «il prezzo per mantenere l’interesse dell’uomo che rappresenta ai loro occhi una figura di riferimento fondamentale». Questa è l’accusa che parla. Ma poi una delle due ragazze confessa che «qualche volta il professore mi ha anticipato la traccia dei temi di italiano. Questo in genere alla fine, dopo che stavamo assieme. Oppure mi dava qualche input sui temi di storia. Devo però dire che per lo più era una paura mia in quanto pensavo che se avessi smesso di vederlo avrebbe potuto reagire male...». Patrizia De Rosa, medico specialista in psichiatria e psicoterapeuta dell’età evolutiva, sostiene che probabilmente il rapporto con il professore dava a una di loro «una maggior sicurezza e le comportava una riduzione dei sentimenti di svilimento di sé». Cioè, stando assieme a lui, si sentiva più forte. E anche per l’altra ragazza «si ravvedono elementi di inferiorità psicofisica rispetto al docente». Una di loro quando le hanno chiesto se voleva costituirsi parte civile ha detto di no, «perché io ero innamorata». L’altra riconosce di «essere impazzita e di essere stata fuori di testa nel periodo iniziale e in seguito».
Fino a qui siamo ancora nel campo dell’insondabile. Ma se non ci fosse stata costrizione, qual è il limite morale e anche penale - di un rapporto fra l’insegnante e la sua allieva? Chi è che lo vuole e chi lo impone? La cosa che più ci colpisce è che non c’è stata una voce che non si sia alzata in difesa del professore. E nessuna, invece, per comprendere le ragazze, per spiegare e capire la loro sofferenza. Non mancano solo loro da questo posto con i portici e i ragazzi seduti oziosamente al bar Beppe, mancano anche le voci che le proteggano, che le aiutino. Durante il loro rapporto, una spiega che aveva «sempre dato del lei al professore», anche mentre stavano assieme, «sentendo un certo timore, come se vi fosse una barriera fra di noi». È come se quella barriera restasse pure dopo le pagine di questa tragedia che la vita sta scrivendo, come se ne scrivono ogni giorno in ogni parte del mondo. Il fatto è che non c’è niente di più lontano del potere, di qualsiasi potere, anche quello di un adulto, anche quello di una persona che conosce molte cose più di te. Per questo, adesso, Saluzzo sembra solo la quinta di una scena senza volti, solo un banco di cirri illuminati dal sole che si inarca verso il Monviso e sembra portare su nel cielo scaglie di vernice bianca, come se sopra di noi, anche in giorni come questo, la luce avesse qualcosa di candido da farci vedere. Alla fine, è proprio questo che ci chiediamo. Che cosa non possiamo fare agli altri che abbiamo il potere di fare? Ci sono degli anni nella vita di una persona in cui si è più puri, in cui quello che ti viene insegnato, o imposto, resta come un marchio indelebile per tutto il tuo tempo? Anche un uomo può far del male. Il professore, dalla sua casa famiglia qui vicino, avrà una finestra dove guardare, oltre il sole nascosto dietro le lenzuola di nuvole, e vedrà tutta questa gente che passa come una processione. Una di quelle processioni della domenica, dove ci sono tutti meno che Dio.
Corriere 28.8.13
Bolzano
La curia condannata a risarcire la vittima di un prete pedofilo
di Gian Guido Vecchi
ROMA — La diocesi di Bolzano e Bressanone e la parrocchia bolzanina San Pio X sono state condannate per responsabilità «oggettiva» a risarcire (700 mila euro più le spese legali) la vittima di abusi pedofili commessi — ma il caso è controverso — da un loro sacerdote. Ai legali della vittima e alla stessa Cei non risultano precedenti del genere in Italia: la sentenza, contro la quale peraltro si annuncia il ricorso della Curia, diventa un precedente ed evoca piuttosto le cause che negli Usa hanno mandato in fallimento diverse diocesi.
La decisione della prima sezione civile del tribunale di Bolzano riguarda il caso di don Giorgio Carli, assolto in primo grado «perché il fatto non sussiste», condannato a sette anni e mezzo in appello e infine protagonista di una sentenza che fece discutere: la Cassazione nel 2009 lo prosciolse perché era intervenuta la prescrizione del reato e insieme lo condannò al risarcimento delle parti lese. Tecnicamente innocente ma anche colpevole e viceversa, secondo le interpretazioni. Un caso divenuto famoso perché la vittima, una donna che denunciò di essere stata violentata tra i 9 e i 14 anni, aveva ricostruito le violenze da adulta, nel corso di 350 sedute di psicanalisi con un metodo chiamato «distensione meditativa» simile all'ipnosi. Don Carli venne arrestato nel 2003, quattordici anni dopo i fatti denunciati. La diocesi ha sempre difeso l'innocenza del sacerdote. Della vicenda si occupò anche il Vaticano: il processo canonico della Congregazione per la dottrina della fede si è concluso l'8 gennaio 2010 con il proscioglimento di don Carli.
Al di là dell'entità del risarcimento (500 mila euro alla donna, 200 mila ai genitori), l'essenziale sono le motivazioni della sentenza. Per il tribunale civile diocesi e parrocchia sono responsabili in base all'articolo 2049 del codice civile, quello che riguarda la «responsabilità dei padroni e dei committenti». Si chiama «rapporto di preposizione» e non è solo «di tipo aziendale», scrivono i giudici: i sacerdoti «agiscono in esecuzione del mandato canonico loro affidato». Il parroco aveva affidato a don Carli il catechismo dei ragazzini. Così diocesi e parrocchia hanno una responsabilità «di tipo oggettivo» perché «a capo degli enti ecclesiastici» in questione «vi sono il parroco e il vescovo, ai quali il diritto canonico attribuisce determinati poteri-doveri di direzione, vigilanza e controllo». E per questo vengono condannate al risarcimento, assieme a don Carli.
Per i legali della donna la sentenza «consente, almeno in parte, una forma di risarcimento morale». La diocesi si dice invece «sorpresa e delusa» e ribatte: «Risulta incomprensibile il motivo per cui si venga chiamati al risarcimento civile dei danni, dopo che nessuno è stato condannato». In tutto questo, il paradosso è che proprio la diocesi di Bolzano è all'avanguardia nella lotta contro la pedofilia nel clero: dal 2010, unica in Italia, ha nominato un «responsabile diocesano per le molestie» con tanto di sezione nel sito internet e mail (molestie@bz-bx.net) per inviare le denunce.
Repubblica 28.8.13
Il castigo e l’oblio
di Barbara Spinelli
ACCUSATO di aver perpetrato un massacro con armi chimiche, mercoledì scorso in due sobborghi di Damasco, e di aver forse bombardato il proprio popolo col gas nervino, il Presidente siriano Bashar al-Assad si è rivolto all’America e ai governi europei con parole sprezzanti,colme di scherno.
Ha ricordato loro i disastri delle recenti guerre contro il terrorismo globale e ha detto: «È vero, le grandi potenze possono condurre leguerre. Ma possono vincerle?» Ecco il dilemma che sta di fronte agli Occidentali, nel momento in cui alzano la voce contro Damasco, denunciano l’»oscenità morale» delle armi chimiche contro cittadini inermi (le parole sono di John Kerry, segretario di Stato), e affilano i coltelli nella convinzione che un intervento punitivo sia a questo punto necessario, dunque legittimo. Il dilemma esiste perché sulle conseguenze di un’offensiva nessuno pare avere idee chiare. Neppure sull’obiettivo c’è per la verità chiarezza, il che inquieta ancor più: in nome di quale disegno aggredire Assad? Ed esistono prove credibili che quest’ultimo abbia usato i gas, oppure Kerry ha dedotto le sue certezze consultando, come ammesso lunedì, i social network? È il motivo per cui, anche quando le prove spunteranno (ieri il portavoce di Obama le ha promesse fra breve), non è a una guerra che si pensa in America ma a un gesto simbolico, a un’affermazione di forza. Giusto per dire «Eccoci», e poi andarsene. Evitando, a parole, ilcambio di regime a Damasco.
È quanto fa capire l’ex capo di Stato maggiore Usa, Jack Keane, che da mesi preconizza più decisivi interventi ma che li ritiene improbabili. Intervistato dalla Bbc, dopo le parole di Kerry, il generale ha specificato che un semplice segnale castigatore, uncolpo di avvertimento, lascerebbe le cose come stanno. «Il giorno dopo Assad ricomincerà i bombardamenti sulle popolazioni civili, con armi chimiche o senza. I rapporti di forza fra regime e ribelli nella sostanza non muteranno». La coalizione dei volonterosi che Obama sta provando a raggruppare avrà detto la sua, ma l'ultima parola molto probabilmente non sarà lei ad averla e il controllo su quel che accadrà dopo neppure.
Lo stesso Keane ha detto in passato che la Siria di Assad non è la Libia di Gheddafi. Dispone di armi più sofisticate, le sue truppe di terra e di aria combattono i ribelli con notevole successo da due anni. E ha alleati assai potenti: l’Iran, la Russia, e dietro le quinte la Cina che come sempre sta a guardare, gigante che aspetta infinitamente paziente che l’America si rompa un osso dopo l’altro. Neppure il paragone con il Kosovo è pertinente. È vero, siamo davanti a un disastro umanitario la cui oscenità è evidente. Ma l’osceno avviene per sua natura «fuori scena»: non è visibile come lo fu in Kosovo, e la sicurezza esibita da Kerry è quantomeno labile, per ora.
Gli ispettori dell’Onu sono lì per verificare, come a suo tempo tentarono di verificare in Iraq l’esistenza di armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. A un certo punto l’America decise di entrare in guerra comunque, e gli ispettori vennero scaricati senza essere ascoltati. Hans Blix, che guidava il team dell’Onu, non cessa di evocare con amarezza la sordità dell’amministrazione Bush. Si parla di un’operazione simile al Kosovo perché cominciò allora la pratica della coalizione dei volonterosi, architettata sotto la guida di Washington per aggirare il Consiglio di sicurezza Onu e quindi Mosca. Ma Milosevic era già vinto quando scattò l’offensiva, mentre Assad no.
Sabato, sul New York Times, è intervenuto con un articolo singolare lo studioso di storia militare Edward Luttwak, a suo tempo difensore delle guerre antiterroristiche. Oggi scrive che meglio stare a guardare la Siria da fuori, aspettando che i contendenti si scannino a vicenda. Meglio lo stallo, prolungato ma tenuto in stato di continua incandescenza: aiutando massicciamente i ribelli anti-Assad, ma smettendo l’aiutonon appena questi diventino troppo forti e stiano per vincere. Il ragionamento si finge astuto, prudente. In realtà è perverso, e palesemente sprovvisto di ambizione politica. «L’America perde in ambedue i casi», conclude Luttwak. Nessun occidentale, e men che meno Parigi e Londra, ha in questa vicenda ambizioni politiche, oltre che intellegibili obiettivi. E quanto bluffano poi Parigi e Londra? Sarebbero pronte a intervenire senza America e a fianco di Israele, ripetendo la rovinosa spedizione contro Nasser a Suez, che Eisenhower provvidenzialmente bloccò nel ’56?
Questo significa che la Siria è un vespaio prima ancora che scatti l’eventuale attacco euro-americano. La questione morale apertasi con l’uso del sarin è innegabile, ma la catastrofe umanitaria non la si può combattere come la si è combattuta in Kossovo, o peggio in Iraq. E non solo perché mancano prove inoppugnabili che attestino le responsabilità di Assad, non solo perché i più forti, tra i ribelli, sono al momento le milizie di Al Qaeda, e la scelta è tra la peste e il colera. Solo forze di interposizione Onu potrebbero proteggere i civili siriani da nuovi attacchi (sferrati da Assad o dai ribelli) e agire in nome del divieto di ricorrere a armi chimiche. La coalizione dei volonterosi è incompatibile con la via dell’Onu, e si propone altro. Cosa, precisamente? Forse per questo il ministro Bonino si mostra dubbiosa: «L'Italia non prenderebbe parte a soluzioni militari al di fuori di un mandato del Consiglio di sicurezza dell'Onu».
L’analista Yagil Levy, studioso del peso esercitato dai militari nell’edificazione dello Stato israeliano, enumera le tre ragioni per cui la questione morale non può esser risolta da interventi militari (Haaretz 26-8). In primo luogo perché farebbe un gran numero di vittime e distruggerebbe le infrastrutture del Paese, come già accaduto in Kossovo e Libia. In secondo luogo perché non placherebbe la guerra fra regime e ribelli ma la acuirebbe. Terzo motivo, cruciale: l’intervento tenderebbe a «favorire un cambio di regime artificiale». Dipendente da aiuti esterni, il futuro potere sarebbe senza radici.
La storia delle guerre negli ultimi 14 anni (Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia) conferma le inquietudini di Yagil Levy. Nessuna di esse ha creato nuovi ordini stabili, tutte sono finite in pantani diabolicamente gelatinosi, nei quali non si distinguono le persone fidate dalle inaffidabili. I costi in termini di vite umane, una volta sconfitto Gheddafi, sono già oggi enormi: i morti del dopo-guerra sono quasi equivalenti alla metà dei caduti prima dell’uccisione del rais.
Fanno bene le democrazie, fanno bene Parigi e Londra, a indignarsi per l’uso eventuale di gas. Ma l’indignazione morale suona falsa, quando non calcola le conseguenze delle proprie azioni e neanche sa bene chi sia il colpevole. Quando il passato non insegna nulla, e cadono nell’oblio le false prove date da Colin Powell contro Saddam, e sono senza peso le sconfitte cui sono andate incontro le guerre umanitarie lungo gli anni. Non si esportano la democrazia e la stabilità, quando a uno Stato fallimentare si sostituisce uno Stato ancora più sfasciato di prima. Non si esporta neppure la morale, con attacchi simbolici che soddisfano solo l’orgoglio di chi li sferra e non aiutano i veramente minacciati. Se il pericolo in Medio Oriente è la degenerazione siriana, e al tempo stesso il potere esercitato nell’area dall’Iran o da Hezbollah in Libano, se è la fatiscenza del regno giordano, la rigidità di Israele, il ritorno in Egitto di un regime corrotto che si gloria di abbattere nel sangue l’integralismo dei Fratelli musulmani: se tale e così vasto è il nodo cui si pensa in America ed Europa, non è con un mortifero bel gesto contro Assad che lo si scioglierà.
Corriere 28.8.13
Rimbaud-Verlaine, geni e follia
«Mi ha sparato». «Ero innamorato di lui e sono pazzo»
di Pierluigi Panza
È un ragazzotto di Charleville, ha sedici anni e invia i suoi versi a Paul Verlaine, tra i più affermati giovani poeti di Francia. Come ha già scritto al suo professore, Georges Izambard, anche lui vuole diventare poeta e «veggente». Verlaine, che da mesi ha attaccato il cappello nella casa dei suoceri — dove vive con la moglie Mathilde e il neonato Georges — lo invita a Parigi. Lo incontra... e la sera del 30 settembre 1871 lo presenta a una cena nel mezzanino dei Vilains-Bonshommes a Saint-Sulpice (il salotto buono) dove, dopo il dessert, il ragazzino Arthur Rimbaud declama i suoi versi: «Comme je descendais des Fleuves impassibles...».
Verlaine se ne innamora. Viene colpito dall'esplosione panica che scatena quel giovane fauno dai bei capelli castani, dalle narici tonde e all'insù, dalla bocca carnosa, l'espressione dura e le mani contadine. Un metro e sessanta di sensibilità. Per lui, decide di lasciare la moglie Mauté — che precipita nella disperazione — e si getta in una vita «invasata di malafrenia».
Sono due battelli ebbri, Verlaine e Rimbaud, che ondeggiano nel fondale limaccioso della Francia fin-de-siècle: assenzio, cimiteri, teatri e lupanari. L'ironia borghese subito li addita. Edmond Lepelletier, vedendoli una sera al Théatre Français scrive il giorno successivo sul «Peuple Souverain»: «Tra gli uomini di lettere che assistevano alla rappresentazione della pièce di Coppée si distingueva il noto poeta Paul Verlaine che offriva il suo braccio a una graziosa giovinetta, Mademoiselle Rimbaud».
Voilà! In fuga dalla vita, i due diventano fuggitivi in Belgio e poi su, fino alla perfida Albione. Sono un'esplosione di lirica: Verlaine compone Romances sans paroles e Rimbaud, dopo un litigio, si rifugia dalla mamma nella fattoria di Roche e scrive Une Saison en Enfer: «Amavo… la letteratura fuorimoda, il latino di chiesa, libri erotici senza ortografia, i romanzi dei nostri avi, racconti di fate...».
Nell'estate del '73 Verlaine abbandona Rimbaud, deciso a tornare dalla moglie: se non mi riaccetta, dice, «mi sparo». Trasloca a Bruxelles, la «capitale delle scimmie» e dei belgi «torbidi» odiati da Baudelaire. Rimbaud lo raggiunge, persuaso che, tanto, non avrebbe il coraggio di spararsi. Ma quando poi se ne vuole andare via la situazione precipita. E qui, il racconto dello scrittore e critico d'arte Giuseppe Marcenaro dedicato al rapporto tra i due (Una sconosciuta moralità. Quando Verlaine sparò a Rimbaud, Bompiani) raggiunge una precisione da entomologo, poiché segue i documenti del processo intentato a Verlaine, il cosiddetto dossier di Bruxelles (per la prima volta in italiano).
Sono le otto di sera del 10 luglio 1873. Rimbaud arriva al commissariato di Bruxelles per denunciare Verlaine. Verbale 746: Rimbaud è stato ferito e «motivo del ferimento — riferisce — è il rifiuto da parte di Verlaine, con il quale e con la mamma di lui convive da un annetto, di lasciarlo tornare a Parigi». Rimbaud racconta che quel giorno, dopo esser stato minacciato da Verlaine («Parti e vedrai»), questi è andato a comprare un'arma verso mezzogiorno. «Siamo poi andati alla Maison des Brasseurs, Grand Place, dove abbiamo seguitato a discorrere della mia partenza; rientrati verso le due al nostro alloggio ha chiuso a chiave la porta e vi si è seduto davanti; poi ha caricato la pistola e ha tirato due colpi dicendo: Prendi! Ti insegnerò io a partire!». Uno dei due colpi lo ferisce, ma non gravemente.
Anche Verlaine è dalla polizia e, per difendersi, punta sulla pazzia: «Vedendomi infelice voleva lasciarmi — riferisce —: ho ceduto a un attimo di follia e gli ho sparato... ma sulle prime non mi ha denunciato... e mia madre gli ha dato venti franchi per il viaggio».
Una storia di stalking con lesioni gravi (oggi sarebbe pena da tre a sette anni), adattissima per i quotidiani up-to-date. Si sentono alcuni testimoni, come la madre di Verlaine che depone il 12 luglio. Dichiarazione strappalacrime: il figlio aveva perso il lavoro a causa dell'adesione alla Comune, riferisce, e dal dispiacere si era messo a bere. «Otto giorni fa», aggiunge, poiché la moglie non gli rispondeva, mi aveva scritto che «si sarebbe ucciso. Lo trovai disperato. Qualche giorno dopo fummo raggiunti da Rimbaud, l'amico di mio figlio che da due anni vive a suo carico... Giovedì scorso, durante una di queste discussioni mio figlio era completamente ubriaco e non sapeva più cosa si facesse; ha tratto fuori dalla tasca una pistola e ha ferito Rimbaud. Gli manifestò subito il più profondo dispiacere...». E per accreditare lo stato d'animo in cui si trovava Verlaine, tira fuori una lettera inviata dal figlio alla madre di Rimbaud nella quale scriveva che voleva uccidersi. Insomma, si punta alla parziale infermità.
La condanna è a due anni. Chi più ama, più ci rimette. Lascia intuire che i sentimenti siano questi anche una nota del 21 agosto 1873 del prefetto di polizia, che tratteggia Paul come una vittima dei comportamenti dell'altro: «Questo Rimbaud non tardò a manifestare i suoi gusti depravati e il suo disprezzo per le persone che, prima, s'erano interessate a lui. Quanto all'incolpato, preso da una passione turpe per il nominato Rimbaud, nel luglio scorso lasciò Parigi con lui, abbandonando la sua giovane moglie e un infante. Altrimenti è descritto senza cattive frequentazioni».
Verlaine entra nel carcere di Petits Carmes, con «ceffi da far paura, molti tedeschi… qualche italiano, com'è giusto» (sic!). Poi lo trasferiscono nel carcere modello di Mons: gli arrivano i pasti dall'esterno pagati dalla madre. Condotta esemplare: esce il 16 gennaio 1875. Primo desiderio? Rivedere Rimbaud. Appuntamento a Stoccarda.
Ma tutto è mutato e Rimbaud scompare dalla sua vita: in amor vince chi fugge. Lui, invece, non lo dimentica... e dopo altri dolori e altre bottiglie, e prima di nuove pene (detentive), nel 1884 pubblica le poesie del ragazzino di Charleville nell'antologia I poeti maledetti. E lo chiana «enfant Sublime».
La documentazione di Bruxelles non era stata resa disponibile per molti decenni. Ancora il 10 maggio del 1968 il Procuratore generale aveva negato al conservatore della Biblioteca reale di Bruxelles di poter prendere visione del dossier.
l’Unità 28.8.13
I cent’anni di Boris Pahor
Una vita nella Storia
Domani Trieste celebra l’intellettuale «resistente», l’uomo in rivolta, il poeta
di Paolo Di Paolo
qui
l’Unità 28.8.13
Non si servono due padroni
Il settimo comandamento (non rubare) nella società dominata dalla finanza
di Enrico Chiavacci, prete e teologo
qui
La Stampa 28.8.13
Lo ius primae noctis? Non è mai esistito
Molti degli stereotipi legati al Medioevo sono un’invenzione dei secoli successivi Nelle testimonianze letterarie e artistiche dell’epoca non se ne trova traccia
di Alessandro Barbero
Il «diritto del signore» Né Boccaccio né le molte raccolte di novelle medievali in cui si parla di sesso con grande franchezza citano mai lo ius primae noctis . Si comincia a parlarne con insistenza a partire dal ’500. Nell’immagine, Lancillotto e Ginevra sorpresi da Artù, in una miniatura del XIV secolo
La paura dell’Anno Mille Folle atterrite, in attesa della fine del mondo? Ma il 31 dicembre 999 il papa Silvestro II confermava i privilegi di un monastero per molti anni a venire... (foglio dell’Apocalisse di San Severo, manoscritto francese dell’XI secolo)
In uno dei primi capitoli di 1984, George Orwell descrive la reinvenzione della storia sotto il regime del Grande Fratello. Al popolo si insegna che nel brutto, lontano passato esistevano creature malvage chiamate i capitalisti, che opprimevano il popolo con le pretese più infami. «C’era anche una cosa chiamata lo ius primae noctis, che probabilmente non si menzionava nei libri di testo per bambini. Era la legge per cui ogni capitalista aveva il diritto di andare a letto con qualunque donna che lavorasse nelle sue fabbriche». Il procedimento immaginato da Orwell, creare un’immagine tenebrosa del passato allo scopo di esaltare il presente, è stato praticato davvero in Europa, dal Rinascimento fino all’Ottocento: vittima designata, il Medioevo. Umanisti e artisti rinascimentali orgogliosi della loro nuova cultura, riformatori del XVIII secolo in lotta contro il feudalesimo, positivisti dell’Ottocento intenti a celebrare il progresso e combattere la superstizione, si sono trovati tutti d’accordo a dipingere con le tinte più nere il millennio medievale.
Sono nate così alcune istantanee, chiamiamole così, che tutti visualizziamo facilmente, tanto sono inseparabili dall’immagine popolare del Medioevo. Le folle atterrite che riempiono le chiese negli ultimi giorni prima dell’anno Mille, nella certezza che il mondo sta per finire; i dotti, in realtà ignorantissimi, che credono che la Terra sia piatta, o comunque non osano insegnare il contrario per paura di essere puniti dalla Chiesa; e naturalmente lo ius primae noctis evocato da Orwell, la legge infame per cui il signore del villaggio ha diritto alla verginità di tutte le ragazze, e biecamente riscuote quel che gli è dovuto la sera di ogni festa di nozze.
Lo storico si sente un po’ un guastafeste quando, dopo lunghe e accurate verifiche, gli tocca sentenziare che tutte queste immagini così pittoresche sono false, e che nulla di tutto ciò è mai accaduto davvero. Eppure è proprio così: se si va a controllare si scopre, con non poco stupore, che di queste cose nel Medioevo non si parlava affatto, e che sono tutte state inventate dopo. I terrori dell’anno Mille? Ma il 31 dicembre 999 il papa Silvestro II su richiesta dell’abate di Fulda confermò i privilegi di quel grande monastero, per lui e per i suoi successori, a patto che in futuro ogni abate, quando veniva eletto dai monaci, si facesse consacrare dal Papa: quei due, almeno, non credevano che il mondo stesse per finire. La terra era piatta? Ma ogni imperatore medievale si faceva raffigurare con in mano il simbolo del suo potere sul mondo: un globo sormontato dalla croce. E lo ius primae noctis ?
Ecco, qui la storia è un poco più complessa. Anche quello, beninteso, non lo incontriamo mai, se lo cerchiamo dove ci aspetteremmo di trovarlo. Il Medioevo ci ha lasciato un’infinità di novelle come quelle del Boccaccio, in cui si parla di sesso con grande franchezza, con realismo e critica sociale, in cui si mettono in scena mariti gelosi e potenti dissoluti, si evocano situazioni scabrose e beffe riuscite attorno al tema di sesso e potere: ma non c’è nemmeno un autore medievale che abbia pensato di trarre profitto da uno spunto così succulento come lo ius primae noctis, di cui oggi sceneggiatori del cinema e autori di romanzi storici si servono continuamente. Il Medioevo ci ha lasciato un’infinità di lagnanze dei contadini contro i loro signori, lunghi elenchi di usi e abusi, resoconti di rivolte e memoriali di avvocati; conosciamo dettagliatamente gli innumerevoli obblighi, imposte e gabelle di cui i contadini si lamentavano e che cercavano di far abolire: un obbligo come lo ius primae noctis non è mai menzionato.
E dunque, quand’è che si comincia a parlarne? Questo diritto imbarazzante comincia a essere citato alla fine del Medioevo, e poi è evocato sempre più spesso a partire dal Cinquecento, secondo uno schema preciso e che è sempre il medesimo: come qualcosa che capitava ai brutti vecchi tempi. Nel Medioevo molte città sono state fondate da gruppi di contadini che in protesta contro i loro signori si sono riuniti, hanno abbandonato i villaggi e edificato un nuovo luogo in cui abitare liberi. In Italia questo fenomeno si è verificato particolarmente spesso in Piemonte: sono nate così Cuneo, Alessandria, Cherasco e tanti altri centri minori. Ebbene, proprio in queste città, nel Rinascimento, gli eruditi locali che a distanza di secoli rievocano quelle origini si divertono a immaginare quanto dovevano essere cattivi quegli antichi signori: ai loro sudditi imponevano ogni sorta di angherie. È qui, nella fantasia di eruditi creduloni che descrivono un passato leggendario, che comincia a circolare questa storia incredibile: quel passato era così barbaro che i signori pretendevano addirittura di godersi le spose dei loro servi nella notte delle nozze.
Il Medioevo, insomma, prima di finire ha fatto in tempo a inventare lo ius primae noctis, ma non come una pratica reale; bensì come una leggenda associata a un lontano passato. Oppure, in alternativa, come qualcosa che esiste tra i selvaggi, e che ne dimostra l’inferiorità rispetto a noi, cristiani e civilizzati. Il Quattro e Cinquecento sono l’epoca delle scoperte geografiche: portoghesi e spagnoli si spingono nell’oceano, circumnavigano l’Africa, scoprono le Americhe. Ovunque i conquistadores riferiscono di aver trovato popolazioni selvagge, barbare, incivili: è logico, bisogna pur giustificare il fatto di averle ridotte in schiavitù. E ovunque, dalle Canarie al Messico, navigatori e conquistatori, per convincere il pubblico che quei popoli sono davvero dei selvaggi, raccontano che son gente senza pudore e senza onore, e praticano usanze ignobili: quando si sposa una ragazza, il capo del villaggio ha diritto a giacere con lei prima del marito. Decisamente è una fortuna che siano arrivati gli Europei a civilizzarli.
Lo ius primae noctis, insomma, è lo stigma dell’altro. Non esiste nessuna testimonianza di qualcuno che affermi di vivere in una società in cui quell’usanza è praticata, e di trovarla normale. Tutti quelli che ne parlano, dalla fine del Medioevo in poi, la associano a un’alterità barbarica, all’esotismo dei nuovi mondi, o a quell’altro esotismo, di gran fascino, che è l’esotismo del passato. Ed è il motivo per cui da queste leggende è così difficile liberarsi. Non importa se da cent’anni nessuno storico serio le ripete più, e se grandi studiosi come Jacques Le Goff hanno insistito tutta la vita a parlare della luce del Medioevo. Nel nostro immaginario è troppo forte il piacere di credere che in passato c’è stata un’epoca tenebrosa, ma che noi ne siamo usciti, e siamo migliori di quelli che vivevano allora.
Repubblica 28.8.13
“Gli interessi economici ogni giorno di più rischiano di prevalere sulla cura del malato” La denuncia di un grande oncologo
Soldi e salute
Andreoli: “Avidità e potere nemici della scienza”
di Leonetta Bentivoglio
Tra le aree della nostra vita in cui il tradimento esercita la propria tossica invadenza c’è la medicina, che a parere dell’oncologo Claudio Andreoli «è stata spesso tradita nelle sue regole e nei suoi principi etici e deontologici». Lo afferma con furore e con passione questo grande medico piemontese operativo in Lombardia, e noto come uno tra i massimi esperti internazionali del suo campo, il tumore alla mammella. Già attivo per quindici anni (dall’80 in poi) nell’Istituto Nazionale per lo Studio e la Cura dei Tumori, Andreoli fondò nell’84 con Umberto Veronesi la Scuola Italiana di Senologia, di cui ha preso la direzione dieci anni dopo. Dal 2010 lavora presso il Cancer Center dell’Humanitas nelle strutture ospedaliere di Rozzano (Milano) e di Castellanza (Varese), dov’è responsabile della Breast Unit. Combatte ogni giorno in prima linea sul fronte dell’universo complesso della malattia, con devozione e proiettandosi totalmente nelle proprie responsabilità di medico. Certe zone oscure dei percorsi di alcuni tra coloro che praticano il suo mestiere, certe sacche di compromessi, certi equivoci occultati dall’indifferenza o dalla malafede, tolgono sonno alle sue notti. Perciò sta elaborando un libro-inchiesta dedicato ai tradimenti che avvengono nel mondo della medicina. E ne anticipa gli argomenti in questa conversazione. «Partiamo dal presupposto che negli ultimi anni la medicina è cambiata molto», attacca. «Oggi si è affermata la convinzione che tutto debba basarsi sull’evidenza scientifica».
Non è stato sempre così?
«Prima contava di più l’impostazione personale del medico, e i giudizi erano formulati in base a piccole casistiche. Invece la medicina odierna si basa su terapie ed esami diagnostici che danno risultati sicuri, cioè ottenuti sempre e ovunque a condizione che siano rispettate certe caratteristiche. Ma nell’ambito di tale approccio si verificano numerosi tradimenti».
Può dare qualche esempio?
«Ce ne sono due eclatanti, uno nel passato prossimo e l’altro di questi giorni. Il primo, che risale a fine anni Novanta, è il caso della terapia Di Bella, riguardante la cura dei tumori. All’epoca si scatenarono giornalisti, politici e magistrati. Sull’onda dell’opinione pubblica, condizionata dal clamore mediatico sviluppato intorno alla vicenda, il ministero commissionò uno studio clinico, finanziato con soldi pubblici, che ha finito per dimostrare la mancanza di scientificità della terapia. Il secondo esempio è il caso Stamina, venuto di recente alla ribalta grazie a un servizio televisivo de “Le iene”. Si tratta di una cura che promette d’intervenire su alcune malattie degenerative come la Sla con l’infusione di cellule staminali, e fino a poco tempo fa la proponeva un ospedale di Brescia. Non si basa su alcun presupposto scientifico dimostrato. Ma anche qui è stata così forte la pressione mediatica che in luglio è partita una sperimentazione alimentata dal denaro pubblico. Il sen-sazionalismo e l’enfatizzazione di dati poco controllati rischiano di disorientare i pazienti, alcuni dei quali lasciano terapie utili per infilarsi in trattamenti privi di fondamento scientifico».
La cattiva informazione si allea con i traditori?
«Oggi la cassa di risonanza può essere enorme, il che può ingigantire i danni. Inoltre può succedere che gli studi sperimentali su un farmaco o una terapia non abbiano più, come motore trainante, la forza speculativa, e questo è un altro tradimento».
Si riferisce ai conflitti d’interesse?
«Sì. La questione è spinosa, capillare e molto più estesa di quanto si voglia ammettere nel nostro campo. Capita di anteporre all’onestà della ricerca e al benessere dei pazienti il proprio tornaconto, che sia economico, accademico o di potere politico. Negli ultimi anni si è cercato di arginare il fenomeno introducendo limiti nelle sponsorizzazioni elargite dalle industrie farmaceutiche e imponendo ai medici di dichiarare l’assenza di conflitti quando partecipano a congressi o pubblicano articoli scientifici. Ma per capire le dimensioni assunte dal problema basta considerare che i finanziamenti destinati alla ricerca biomedica dalle industrie sono un terzo della cifra investita dalle aziende nel marketing e nella promozione».
Cosa fa una casa farmaceutica che si rende conto d’aver finanziato una ricerca i cui risultati confliggono con i suoi interessi?
«Si trovano sempre dei piccoli escamotage per nascondere quanto emerge dallo studio, che per esempio viene interrotto con il pretesto dell’esaurimento dei fondi. Oppure i dati vengono pubblicati in ritardo rispetto al momento in cui erano disponibili, così come altre volte, se gli esiti sono favorevoli, li si pubblica con troppo anticipo».
Parliamo di medicine “alternative”. Pensa che rappresentino un tradimento della scienza?
«Non la vedrei così. I veri traditori, secondo me, sono i contestatori a senso unico. Non ho pregiudizi verso alcuna pratica: un prodotto omeopatico, naturale o di sintesi, va valutato per quanto garantisce obiettivamente. Ma non capisco perché certi certe voci critiche, con superficialità retorica e populismo, si scaglino solo contro l’industria del farmaco e non contro i giri d’interessi miliardari dei produttori di medicine alternative. Come se esistesse a priori un mondo buono e uno cattivo. Massiccio, poi, è il tradimento della medicina da parte della politica, che si dimostra interessata più alla gestione dell’apparato sanitario che alla pianificazione di programmi di sviluppo e ricerca riguardanti la salute pubblica».
Ci sono prove concrete di tale tradimento?
«Basta guardare la distribuzione delle risorse economiche che privilegia spesso scelte di morte rispetto a oggetti di vita. Parlo dell’acquisto da parte del governo italiano di novanta aerei caccia F35 per tredici miliardi di euro, cifra con cui si potrebbero rinnovare le apparecchiature diagnostiche della maggioranza degli ospedali italiani. Da questa carenza di fondi statali dipende il fatto che molte ricerche possano essere finanziate solo grazie ai contributi dei sostenitori privati dicharity come Telethon e l’Airc. Senza di loro non si andrebbe avanti. Oppure intervengono le case farmaceutiche, coi rischi che s’è detto. Non dimentichiamo inoltre che la scarsa considerazione dimostrata dalla politica nei confronti della medicina comporta ricaschi gravi sulla situazione della mobilità dei ricercatori».
Sta lamentando l’esodo degli scienziati italiani all’estero?
«Non vorrei essere frainteso: la mobilità è sempre esistita ed è una grande opportunità di crescita e di arricchimento culturale. Ma andrebbe sfruttata meglio agevolando il ritorno dei ricercatori in Italia, il che purtroppo non accade. Quattro vincitori di Nobel per la medicina, Rita Levi Montalcini, Salvatore Lauria, Renato Dulbecco e Mario Capecchi, hanno meritato il premio per ricerche realizzate interamente fuori dai nostri confini».