Il Manifesto, 29.12.05
Storace: «Cambiamo la legge 180»
Dopo quella sull'aborto, il ministro della Salute prende di mira la legge 180 che portò alla chiusura degli ospedali psichiatrici. «Ci sono cose che dopo trent'anni vanno ridiscusse»
LEO LANCARI
Dopo la 194, la 180. Dopo l'attacco alle donne e alla possibilità offerta loro dalla legge di fare ricorso all'interruzione di gravidanza, adesso nel mirino sono finiti i diritti delle persone affette da una malattia mentale, quei «matti» che la destra più reazionaria vorrebbe tornare a chiudere dentro un manicomio. E' questa l'ultima uscita del ministro alla Salute Francesco Storace, che a meno di quattro mesi dalle elezioni ha annunciato ieri di voler «mettere mano» alla legge simbolo dell'antipsichiatria, quella 180 conosciuta anche come legge Basaglia, dal nome dello psichiatria che 27 anni fa si battè per la sua approvazione e che portò alla chiusura dei manicomi nel nostro paese. Il governo «metterà mano alla legge 180, perché si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie» ha detto ieri Storace, precisando che non è però sua intenzione «toccare l'impalcatura della legge». «Tuttavia - ha aggiunto - ci sono cose che dopo trent'anni vanno ridiscusse». Parole che non mancano di suscitare polemiche anche dure nei confronti del ministro, accusato da più parti di aver sollevato un problema solo a fini elettorali e perdipiù senza aver prima ascoltato le persone - famiglie, ma anche esperti - direttamente interessate. Una valanga tale di critiche da costringere, nel pomeriggio, il ministero a una rettifica che suona come una secca frenata rispetto al progetto annunciato. «Le affermazioni rilasciate oggi sulla legge 180 - è scritto nella precisazione - si riferiscono evidentemente a ipotesi di programma per il futuro, che saranno precedute da un'ampia, seria e approfondita consultazione con tutti i soggetti interessati».
Che l'uscita del titolare della Salute sia soprattutto una manovra elettorale, ci sono pochi dubbi. Lo scioglimento delle camere è già fissato infatti per il prossimo 29 gennaio e il governo non avrebbe materialmente il tempo di modificare la 180 neanche se tutta la maggioranza fosse d'accordo con Storace (e non è così, visto che oppositori al progetti del ministro ci sarebbero anche all'interno della stessa An). Dunque il riferimento a un problema pure reale, come le situazioni di disagio e sofferenza vissute dai familiari di molti malati psichici, è suonato ieri ai più come puramente strumentale. Del resto, e forse non a caso, Storace si guarda bene dall'entrare nei particolari dell'eventuale riforma di una legge che in Italia riguarda 600 mila malati gravi, 50 mila dei quali resistenti alle cure. L'unico disegno di legge di modifica della 180 discusso in questa legislatura è quello presentato dalla deputata di Forza Italia Maria Burani Procaccini. «Una legge che rilancia le strutture private come luoghi in cui effettuare il trattamento sanitario obbligatorio, ma soprattutto che consente ricoveri coatti senza limite di tempo», attacca il presidente nazionale di Psichiatria democratica Rocco Canosa. «Di fatto sarebbe un ritorno in breve tempo agli ospedali psichiatrici e un attacco alle libertà personali».
Non la pensa diversamente neanche Rosi Bindi, che in passato ha difeso senza riserve la 180. L'ex ministro della Sanità, oggi esponente della Margherita, prima ironizza: «Ieri la 194, oggi la 180: Storace gioca a tombola». Poi, più seria: «E' solo propaganda elettorale, perché Storace non parla della 180 come ha parlato della legge sull'aborto, perché non dice che la legge va applicata? Gli desse i finanziamenti di cui c'è bisogno e vedrà che la legge funziona. Sono i detrattori della 180 che non la fanno funzionare». D'accordo con Storace si è detto invece il sottosegretario alla Salute Elisabetta Casellati: «Quello che è mancato - spiega - è stato un aiuto alle famiglie che accoglievano i loro cari all'uscita dall'ospedale; famiglie impreparate a fornire un adeguato sostegno e sulle quali esclusivamente pesava il carico assistenziale dei loro malati». Divise, infine, le associazioni dei familiari dei pazienti psichiatrici: mentre l'Arap, l'Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica, plaude all'annuncio del ministro, per l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale si tratta solo di «una sciocchezza» motivata «da ragioni elettorali».
Il Manifesto, 29.12.05
LEGGE 180
L'ultimo spot del ministro
MARIA GRAZIA GIANNICHEDDA
E'dall'inizio della legislatura che il centrodestra, per dirla con le parole di oggi del ministro Storace, «vuole mettere mano alla legge 180» ma finora l'operazione non è andata in porto. Ci aveva provato per prima la onorevole Maria Burani Procaccini di Forza Italia, sostenuta da un tecnico, lo psichiatra Cantelmi, a cui Storace aveva affidato la responsabilità della salute mentale nella regione Lazio; ci ha riprovato la stessa parlamentare con l'ausilio del deputato Cè della Lega Nord, firmatari di un nuovo testo, anch'esso bloccato in commissione affari sociali della camera da pesanti contraddizioni interne al centro destra, oltre che dal lavoro dei parlamentari dell'opposizione e dalle critiche puntuali della maggioranza dei familiari e degli operatori. La marea di critiche dagli opposti versanti aveva così obbligato la commissione della camera ad avviare un'indagine conoscitiva «sull'attuazione del progetto obiettivo salute mentale», indagine tutt'ora in corso, anche se l'ultima seduta è del 12 febbraio 2002. Qual è allora la trovata del ministro, visto che quando il centro destra dichiara cosa vuol fare della salute mentale neppure al suo interno riesce a trovare un consenso minimo? Non dire più in quale direzione ci si vuol muovere, con la scusa di avviare «una grande campagna di ascolto», che dovrebbe verosimilmente ascoltare quegli stessi che i deputati hanno già ascoltato e che hanno detto ciò che il ministro Storace può leggere, come ogni cittadino, nel sito web della camera. Ma il parlamento è una sede scomoda, ci sono le opposizioni, bisogna ascoltare tutte le campane, occorre tener conto di dati e fatti e portare almeno qualche argomento, mentre a colpi di spot elettorali e di comunicati si può dire qualunque cosa per cavalcare un disagio che questo governo ha fatto crescere e che mai è stato legato ai diritti affermati dalla «180», ma sempre alle politiche delle regioni e delle aziende sanitarie, che sono oggi la sede vera dei poteri e sono i luoghi in cui i diritti possono o no diventare servizi per le persone, culture della accoglienza e della convivenza.
E' su questo terreno concreto che il centro sinistra deve spostare il confronto, facendo il contrario del ministro Storace, indicando cioè nettamente in quale direzione intende indirizzare le risorse umane e finanziarie del servizio pubblico. Da molto tempo non è più vero lo slogan dei primi anni della riforma psichiatrica - la legge 180 è buona ma non è applicata perché mancano i servizi. Oggi i servizi ci sono, ancora insufficienti soprattutto al Sud, ma neppure qui è più questione di risorse ma di qualità, di modelli organizzativi, di culture degli operatori. Non basta dire no al manicomio: questo è ormai senso comune al punto che persino Storace ribadisce che «non si mette in discussione l'impalcatura delle legge». Occorre affermare con chiarezza che al posto del manicomio ci vuol ben altro che una rete di ambulatori con medici che prescrivono soprattutto o solo psicofarmaci, che lavorano su appuntamento e non vanno a casa dei pazienti; occorre riconoscere che è stato uno degli errori dell'ideologia aziendalistica separare gli interventi di tipo sociale da quelli sanitari e rincorrere la specializzazione dei servizi e la frammentazione delle prestazioni.
E' necessario dunque che anche le regioni storiche del centrosinistra, e quelle che il centro sinistra ha appena conquistato, intraprendano seriamente la strada della trasformazione dei servizi di salute mentale e dell'intero welfare, cercando di fare tesoro delle esperienze di trasformazione di cui l'Italia è ricca. Altrimenti il manicomio rinasce, e lo vediamo, e sarà più facile legittimarlo di nuovo nella legge.
Il Manifesto, 29.12.05
«La legge va rispettata»
Parlano i familiari dell'Unasam
ELEONORA MARTINI
«La legge 180 non si tocca. E' una legge di grande civiltà che il mondo ci invidia e che il nostro paese si è conquistato con tanta fatica». Non ha dubbi Gisella Trincas, presidente nazionale dell'Unasam, l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale, la federazione italiana che raggruppa oltre 150 organizzazioni dei familiari di malati psichici.
Eppure c'è il problema della solitudine delle famiglie. Allora qual'è il punto?
Il punto è una grave, colpevole, criminale, mancata applicazione della legge 180 che prevedeva centri di salute mentale aperti 24 ore al giorno; luoghi di ricovero ospedaliero umanizzanti, in grado di accogliere il malato e rispondere alla crisi; servizi capaci di sostenere adeguatamente le famiglie e di abbattere stigmi e pregiudizi. Ci sono territori in Italia, come Trieste, ma non solo, in cui i familiari non si sentono abbandonati perché sanno a chi rivolgersi e ottengono risposte immediate, di giorno come di notte.
Cosa suggerisce allora al ministro della salute Francesco Storace?
Se il ministro vuole rispondere alle sollecitazioni delle famiglie, non deve mettere mano alla legge 180, ma al portafoglio. Lo stato deve sostenere l'applicazione della norma con i finanziamenti adeguati. Quello che in questi 27 anni di legge non è mai stato fatto. La salute mentale è una priorità e deve essere posta come tale nei piani sanitari regionali. La 180 ha stabilito delle cose importanti: ha chiuso i manicomi e ha trasferito sul territorio la cura e l'assistenza delle persone con sofferenza mentale. Dobbiamo solo applicarla.
Perché oggi Storace pensa di poter mettere mano alla legge 180?
Il ministro utilizza in modo strumentale la questione della sicurezza delle famiglie. Per dare loro una prospettiva di sicurezza e rispondere ai problemi che si pongono durante la crisi del malato, bisogna finanziare i servizi e le piccole residenze di cura, dove le persone possono intraprendere un percorso di ripresa individualizzato.
L'intenzione è di ripescare la proposta di legge Burani-Procaccini...
La Procaccini prevede, per esempio, che i trattamenti sanitari obbligatori si possano fare anche nelle strutture private. Ripropone luoghi «altri», chiusi e separati, come erano i manicomi. E' sbagliato pensare di concentrare i malati in grandi strutture, dove i sanitari sono costretti a tenere insieme tante persone con gravi e differenti problemi psichici.
Dalla malattia mentale si guarisce?
Questo è il punto: se pensiamo che non si guarisca, allora diamo ragione a chi vuole chiudere i pazienti in grandi istituti. Ogni anno migliaia di famiglie chiedono un posto dove i malati possano andare a vivere:se il rapporto diventa conflittuale, per guarire è necessario separarsi. Il malato ha diritto di essere curato, come anche le famiglie hanno il diritto di non impazzire.
Il Manifesto, 29.12.05
«Ma l'esperienza di Trieste è un esempio per tutti»
«Se per sicurezza delle famiglie Storace si riferisce alla certezza delle cure, sono d'accordo con lui»
MATTEO MODER
«Se il ministro Storace parlando di maggiore sicurezza per le famiglie, intendeva certezza delle cure, garanzia dei diritti, nella libertà e nel rispetto della dignità del cittadino, per le persone che soffrono di disturbo mentale, non posso che dirmi d'accordo con lui». Giuseppe Dell'Acqua, direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, psichiatra che lavorò con Basaglia fin dalle prime esperienze triestine, non ha dubbi su questi punti. «Certamente se per sicurezza si vuole intendere che le persone con disturbo mentale sono pericolose e in quanto tali vanno separate dalle famiglie, dal contesto sociale, stigmatizzate ulteriormente, non potrei certo trovarmi d'accordo. Voglio sperare - spiega Dell'Acqua - che si tratti della prima interpretazione e d'altra parte credo che quando Storace dice che non vuol mettere mano alla 180 penso che dica bene. La nascita due anni fa - prosegue Dell'Acqua - del Forum nazionale per la salute mentale, infatti, ha voluto sottolineare proprio questo aspetto: cioè la legge ha garantito dei diritti che ormai fanno parte del nostro codice genetico». «Evidentemente esiste una forte distanza tra queste affermazioni e le garanzie dei diritti e di libertà rispetto alla carenza, alla trascuratezza, alla violenza che vige in questo settore in quasi tutte le regioni italiane». Per Dell'Acqua sono proprio le regioni che hanno la maggiore responsabilità in questo settore assieme ai governi locali. «Quando dico che in tutte le regioni ci sono cattive pratiche - afferma - intendo dire che anche regioni di sicura tradizione democratica sono fortemente in ritardo rispetto alla legge 180, ovvero rispetto a quei livelli di cura che siano dignitosi. Basta pensare che nella maggior parte dei servizi di diagnosi e cura in Italia le persone vengono contenute, vengono legate. Basterebbe pensare che l'organizzazione triestina in questo settore, che è riconosciuta dall'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) come l'organizzazione modello rispetto alle forme della salute mentale comunitaria, è disattesa in moltissime regioni e aziende sanitarie. Non sono equamente diffusi in Italia, benché il numero sia in crescita, centri di salute mentale aperti 24 ore su 24 capaci di farsi carico dei cittadini con disturbo mentale e delle loro famiglie, di attivare percorsi abilitativi e riabilitativi, così forti come a Trieste».
Trieste ha scelto dimensioni di piccola scala. Ci sono quattro centri di salute mentale, uno ogni 60.000 abitanti, aperti 24 su 24, ciascuno con 8 posti letto. C'è un servizio ospedaliero di diagnosi e cura con pochissimi posti letto, ci sono delle strutture residenziali in numero limitato proporzionato alla popolazione e ci sono programmi di sostegno articolati per le persone con disturbo mentale e programmi di collaborazione con le cooperative sociali - che ormai datano circa 30 anni di vita - con capacità di inserimento nei percorsi di formazione lavoro e di lavoro estremamente significativi. «Circa 4.500 persone ogni anno - sottolinea Dell'Acqua - vengono in contatto con i servizi di salute mentale e su questo numero soltanto 6 su 100 mila sono i Trattamenti sanitari obbligatori (Tso), e ciò vuol dire poco meno di 14 persone rispetto alla media italiana di 35 per 100 mila». Il Dipartimento di salute mentale di Trieste riesce ad avvicinarsi al 5 per cento della spesa sanitaria regionale, mentre in Italia si sta sul 2,5 per cento «e questo - precisa lo specialista - solo per la sciatteria e la disattenzione dei governi locali e delle regioni. C'è un operatore per ogni mille abitanti, cioè abbiamo 248 operatori per 246.000 triestini. Siamo ovviamente al di sopra dell'indicazione minima che il progetto obiettivo della Bindi, nel 1999-2000, dava e cioè un operatore ogni 1.500 abitanti».
Altro risultato importante, frutto di una strategia che ormai riguarda tutta l'assetto dei servizi di salute territoriali, è il modello basagliano di de istituzionalizzazione. «Sia a Trieste sia per la Regione - dice Dell'Acqua - è il modello per la salute comunitaria centrata sul distretto sanitario». La spesa a Trieste è tutta per i servizi pubblici, non esistono privati: Il 96 per cento dei 16 milioni di euro destinati alla salute mentale va per attività territoriali. Altre regioni, pur contando sulle stesse somme, spendono moltissimo per cliniche e strutture private che forniscono bassissimi livelli di assistenza. «Questa organizzazione di servizi funziona - ha concluso Dell'Acqua - e funziona là dove è stata adottata come Aversa, Livorno e in alcune aree della Campania. Dove funziona c'è soddisfazione dei familiari, delle persone con disturbo mentale, delle amministrazioni locali e non ci sono rischi di pratiche violente».
Corriere della Sera, 29.12.05
Il quotidiano porta in edicola un libro con il commento di don Vitaliano, il «prete no global»
Le parabole di Gesù in vendita con «Liberazione», lettori divisi
Il direttore: Cristo non ha nulla a che fare con l’offensiva di Ratzinger
ROMA - Non che ci sia stata una levata di scudi ma a più di un lettore del quotidiano comunista Liberazione non è andato giù che in vendita con il giornale, il direttore Piero Sansonetti abbia portato in edicola un libretto dal titolo «le parabole di Gesù Nazareno», scelte e introdotte da don Vitaliano della Sala, il combattivo «prete no global» della provincia di Avellino. E non perché il curatore sia don Vitaliano, che piace molto alla sinistra per le sue battaglie a favore degli emarginati, dei poveri. Ma perché a «parlare» era Gesù. Ieri però, è arrivata lettera, dopo almeno una quindicina di repliche indignate, di una lettrice che non si è sentita «offesa» dalla pubblicazione. «Io, che mi definisco serenamente atea - scrive la signora Frangioni -, non mi sono sentita offesa o manipolata. Il messaggio di Gesù non è patrimonio esclusivo dei credenti». Parole che Sansonetti ha pubblicato con sollievo. Eppure, quindici a uno, continua a vincere quella cultura di sinistra che respinge un pensiero sentito pregiudizievolmente estraneo. Oppure no?
«Probabilmente sì - risponde il direttore di Liberazione - ed è per questo che abbiamo dedicato un’uscita della nostra collana sul "pensiero forte" a Gesù, peraltro inaugurata con il Manifesto di Marx e continuata con scritti di Beccaria, Robespierre, Rosa Luxemburg. Ci sarà anche san Francesco, io stesso farò l’introduzione, credo che non si possa prescindere, se si vuole parlare di non-violenza, da lui che l’ha praticamente fondata». Francesco-uomo forse non preoccuperà i lettori del quotidiano comunista più di Gesù-Dio. «Gesù - continua Sansonetti - non ha nulla a che fare con l’offensiva clericale di Ratzinger e di Ruini. C’è chi lo considera dio ma non mi riguarda, sono ateo. E però Gesù resta uno dei personaggi della storia che fa parte del pensiero forte. E il pensiero forte non appartiene soltanto ala cultura della sinistra».
E’ contento don Vitaliano. Il prete non più parroco per le sue idee, è certo che qualcuno, da lassù, ci abbia messo un «santo» zampino. «Mi avevano proposto un libro su di me ma io desideravo farne uno su Gesù, lo avevo confidato proprio il giorno prima ad un amico. Ebbene, il giorno dopo mi chiama Sansonetti e mi propone il libretto. Ho subito accettato».
Una sfida, parlare al popolo comunista, ateo e anticlericale? «Sono certo che Sansonetti l’abbia messo in conto qualche dissenso - dice don Vitaliano -. Ma mi sembra simpatico che si dialoghi con chi si professa comunista e ateo su una figura così forte. Si può leggere Gesù anche senza porsi il problema della fede. Il libretto l’ho dedicato a mio padre. Era di sinistra e profondamente laico; ho saputo dal barbiere, il giorno della mia ordinazione, che non era molto contento. Io non gli ho mai chiesto, quando era in vita, se credesse in Gesù-Dio ma so per certo che apprezzava il Gesù uomo».
Mariolina Iossa
LE INTERVISTE DI PresS/Tletter, 29.12.05
Continuano le interviste a personaggi impegnati nel campo dell’architettura e dell’arte. L’intervista e tutte le numerose altre comparse in questa rubrica sono raccolte all'interno della sezione Interviews di Channelbet e nel sito dell’Ordine di Roma: www.architettiroma.it Risponde Paola Rossi
1. Una auto-presentazione in quattro righe...
Donna …architetto: nell’ordine? Dipende.
Ho studiato architettura anche per sfuggire ad una particolare attitudine che mi voleva studiosa di matematica. Ho cercato disperatamente la fantasia e forse ci sono riuscita. Non sono io a poterlo dire ma certo il foglio bianco non mi fa più paura. Ogni volta è una nuova sfida e soprattutto un profondo cimento con me stessa.
Amo il cantiere e anche coprirmi di polvere : il momento più ” erotico” è quando si elimina per costruire, è l’inizio, è una promessa, poi cominciano i problemi……. Il momento più appagante è guardare le foto del lavoro compiuto anche se lì viene la voglia di ricominciare con un altro progetto . . . !
Punto di svolta sono stati l’incontro con l’analisi collettiva di Massimo Fagioli ed il rapporto con lui.
2. Ti sei occupata a lungo dei concorsi di architettura. Ce ne vuoi parlare?
Ho inventato e coordino da oltre sette anni l’Areaconcorsi dell’ordine degli architetti di Roma.Ho fatto quello che avrei voluto qualcun altro avesse fatto per me …Perché in Italia, ancora nel 1997, il concorso di architettura non esisteva. Era un’occasione per pochi, una eccezione che confermava la regola. E la regola era “ grandi concorsi per architetti gia ‘grandi’ “. Avevamo visto la stagione dei concorsi francesi e assistito all’epico periodo barcellonese che aveva proposto la possibilità di trasformare intere aree urbane ed offerto possibilità a tanti architetti. In entrambi i casi il progetto, e non il progettista, era al centro dell’attenzione, il fine la qualità degli spazi che si volevano creare. Ho pensato di affrontare il problema, per cominciare, con due proposizioni di lavoro : per primo riuscire a dimostrare che il concorso non era un ostacolo ai tempi di realizzazione (scusa molto spesso addotta dalle amministrazioni recalcitranti) e successivamente riuscire a costruire dibattiti e confronti sul fare architettura. Ho raggiunto la prima meta. Per quanto riguarda la seconda, in Italia, e soprattutto a Roma che conosco bene, si è proprio perso il senso della ricerca.
3. Sempre sui concorsi di architettura. Così come sono fatti, sono una truffa? Cosa si può fare?
No, non penso che siano una truffa, piuttosto, in alcuni casi, i presupposti e le persone possono farli diventare tali. Certamente come tutte le cose possono e devono essere migliorati.
Ma se vogliamo denunciare una truffa, questa sta nel fatto che l’aumento dei concorsi non corrisponde all’aumento delle realizzazioni, ancora oggi vengono realizzate solo le grandi opere o poco più mentre la più parte, dopo i fuochi d’artificio dei risultati concorsuali, resta sulla carta … Insomma da questo punto di vista siamo ancora agli inizi.
Si riescono a modificare i fatti ma le mentalità sono difficili a cambiare!
4. Cosa ne pensi dell’ architettura in Italia oggi ...
L’Italia è uno dei paesi più ricchi di storia e architettura. La qualità e l’armonia degli spazi, la bellezza degli edifici si vivono ad ogni passo nei centri storici delle nostre città.
Ma questa identità storica con tutta evidenza non è stata elaborata fino a diventare una certezza di potere e saper fare mentre negli altri paesi europei il rapporto con l’architettura è più coraggioso. Mi chiedo se scuole ed accademie si siano interrogate sul perché questo avviene.
5. Il nome di un architetto italiano vivente al quale faresti costruire casa tua...
Difficile delegare : ogni volta che qualcuno si affida a me per realizzare lo spazio dove vivere penso che sia una persona coraggiosa perché disposta ad affrontare un rapporto che mette a confronto idee e immagini, e in tema di creatività nessuno è disposto a rinunciare a priori alla propria.
Lo spazio della casa deve corrispondere, diciamo rappresentare, qualcosa che esiste all’”interno” del suo abitante, e per far questo è indispensabile il rapporto interumano.
In questo senso è ancora più difficile ideare uno spazio per se stessi : un artista che realizza un autoritratto rappresenta qualcosa di sé in quel momento, se poi sbaglia può sempre girare il quadro contro il muro! Ma un’architettura è fatta di mattoni, se si sbaglia non si torna facilmente indietro e vivere in uno spazio che non corrisponde profondamente è una condanna.
Allora, chiederei di pensare/immaginare la mia casa a Massimo Fagioli, il solo che, per la sua ricerca e la sua realtà umana personalissima, saprebbe interpretare, diciamo, la mia realtà interna e magari regalarmene una più bella … e poi mi divertirei a costruirmela !
6. Il nome di una star internazionale alla quale faresti costruire casa tua...
Sempre per i motivi detti non affiderei la mia casa a nessuna star.
7. Il nome di un edificio famoso che non ti piace affatto.
Corviale, che, senza ombra di dubbio e al di là di qualsiasi giudizio sul disegno architettonico, è un crimine contro l’umanità.
Non vorrei essere troppo sintetica e rischiare di non essere compresa ma non si può pensare una casa per un altro essere umano considerandolo e imponendogli l’identità di ... un pollo in batteria. E’ una violenza che ovviamente può causare altra violenza . Dimostrazione ne sono gli incendi delle banlieues parigine.
Serve un pensiero realmente nuovo per immaginare e proporre spazi vitali e accoglienti o almeno un po’ di amore e rispetto per gli altri.
8. Un edificio che ti piacerebbe realizzare... Insomma quale sarebbe l’incarico dei tuoi sogni?
E’ una sfida. Mi piacerebbe poter progettare un pezzo di città. Lo so che non esiste ricetta e che ogni tentativo, nella storia, è fallito in ipotesi astratte. Ma penso alle città medioevali, spazi coesi fatti di piazze, di vie, di trattorie… fatti dagli uomini per gli uomini mentre nell’architettura e soprattutto nell’urbanistica contemporanee si è persa l’immagine dello stare insieme a favore di un funzionalismo esasperato e disumano.E’ un progetto impossibile?
9. Ci vuoi parlare della tua collaborazione con Fagioli? In che modo architettura e psicanalisi possono convivere?
Mi hai letto nel pensiero! Le città pensate dai geni solitari sono fallite forse perché erano immagini individuali, mentre oggi esiste l’immagine dell’Analisi collettiva di Massimo Fagioli. Quindi vorrei progettare un pezzo di città con Massimo Fagioli.
E’ proprio di questi giorni una riuscita importante della mia collaborazione con lui: il Palazzetto bianco è di fronte agli occhi di tutti in via S. Fabiano nel quartiere Piccolomini.
Partecipo ai seminari di Analisi collettiva di Massimo Fagioli dal 1982. Nel 1985 Fagioli mi chiese di realizzare la ristrutturazione della sede dei seminari e di colpo mi trovai di fronte ad un cimento impossibile e affascinante insieme: perché il luogo di quel setting era qualcosa di assolutamente rivoluzionario. Solo nel rapporto con lui ho potuto progettare una forma architettonica che potesse rappresentare e contenere l’Analisi collettiva. Nell’agosto 1986 abbiamo realizzato la ristrutturazione della sede in via di Roma Libera.
“Le realtà psichiche si avvicinavano l’una all’altra per fondersi in una struttura intera che rappresentava la curva continua di un legno unico ricavato da un albero impossibile” ha scritto Fagioli nella quinta premessa al suo libro “Teoria della nascita e castrazione umana” nel 1989 . Così ho capito di essere riuscita e di avere scoperto una fonte inesauribile di immagini !
Ma tutto questo è storia, Fagioli nel 2001 ha completamente trasformato, ampliandolo, il setting di via Roma Libera.
10. Esiste una scuola ispirata al pensiero di Fagioli? Ci vuoi citare alcune opere?
Qui a Roma ci sono alcune opere pubblicamente visibili e vivibili da tempo: la libreria Amore e Psiche, inaugurata nel 1992, il restauro di un palazzetto nel centro storico di Roma, in via S. Andrea delle Fratte ultimato nel 1996, le due sculture-fontane di Largo E. Rolli e di piazza N. Cavalieri, entrambe ultimate nel 2000 e infine il Palazzetto bianco. E poi tante altre opere private. Tutti questi progetti , realizzati insieme agli architetti sono anche stati esposti in una mostra che ha toccato le maggiori capitali del mondo dal ‘93 al ’98.
Ma non esiste ne è esistita una scuola in senso accademico.
Possiamo piuttosto parlare della ricerca, unica nel suo genere, di un gruppo di architetti nei riguardi di una straordinaria fonte di idee e di immagini. Abbiamo vissuto una esperienza certamente fuori dal comune assieme allo psichiatra dell’analisi collettiva, che con noi ha ideato, disegnato, plasmato, raccontato, composto.
Questa ricerca, che ha indagato sulle radici del processo creativo in architettura e ha delineato un itinerario ricco di suggestioni tra architettura e linguaggio, si rapporta alla teoria innovativa dello psichiatra, ma anche alla realtà umana di Fagioli che non ha avuto paura di rispondere a chi gli chiedeva . . . il coraggio delle immagini.
E dal 1998 stiamo a guardare e direi “studiare” quest’uomo particolarissimo che continua a ideare disegnare progettare, ormai senza il nostro aiuto. Pochi giorni or sono è stata installata una sua opera, la “Scultura blu” nel cortile della Facoltà di Studi Orientali, nel cuore dell’Esquilino.
11. L’università italiana...la consiglieresti? E se si in quale città? E a Roma?
Si, con un suggerimento. L’architetto in formazione deve cercare ed esigere dalla scuola il massimo delle conoscenze tecniche e teoriche e della sperimentazione anche formale.
La dimensione artistica, la creatività, sono fatti assolutamente personali e spontanei che non possono essere insegnati e tanto meno imposti.
12. La tua visione dell’architettura: autodefinisciti: reazionaria, tradizionalista, moderata, progressista, sperimentalista, avanguardista ( o altro purchè la definizione sia al massimo di un paio di parole e non cercare di scappare alla domanda dicendo che sei oltre le sigle...)
Irrazionale ……e . spero, libera.
13. Eisenman, Koolhaas, Moss, Hadid, Herzog e de Meuron, Gehry, Coop Himmelb(l)au, Fuksas, Piano, Anselmi, Purini,Cellini, Casamonti, Portoghesi, D’Amato, Dardia. Devi organizzare un importante concorso a inviti di architettura e ti danno l’incarico di invitare cinque architetti Chi scegli?
Hadid , per una potenza di rappresentazione che non ritrovo in nessun altro e vorrei vederne la realizzazione corrispondente.
Gehry, per vedere se la sua architettura si adatta ad ogni luogo.
Purini, per il rigore delle sue impostazioni teoriche e progettuali e per la sua curiosità intellettuale. Ed infine Piano perché il mestiere non è acqua…
14: Saranno famosi: fammi tre nomi
Non ho mai capito i criteri con i quali si giunge alla fama. Se sapessi fare dei nomi vincenti giocherei piuttosto al Superenalotto!
15: Un libro che consiglieresti a uno studente, uno a un architetto, uno a un critico
La fonte meravigliosa di Ayn Rand a un architetto.
Amate l’architettura di Giò Ponti ad un critico.
Saper vedere l’architettura di Bruno Zevi ad uno studente.
Posso dirne un quarto?
Bambino, donna e trasformazione dell’uomo di Massimo Fagioli a studenti, critici e architetti.
16: Tre parole oggi importanti
FARE . FINALMENTE . ARCHITETTURA .