Liberazione, 28.12.05
“Liberazione”
Io, atea, non mi sento offesa dalle “Parabole”
Cara “Liberazione”, ho letto sul nostro giornale alcune critiche relative alla pubblicazione del testo “Parabole di Gesù Nazzareno” commentate da don Vitaliano della Sala. Sinceramente io che mi definisco serenamente atea e sottolineo il serenamente, non mi sono affatto sentita offesa o manipolata da questa pubblicazione che tra l’altro non era obbligatorio acquistare: il messaggio di Gesù di Nazareth non è patrimonio esclusivo dei credenti e tanto meno delle gerarchie ecclesiastiche, è un messaggio universale chiaro e semplice, incentrato sui valori della pace dell’amore, del rispetto della dignità di ogni persona. Ho acquistato il testo ed ho apprezzato molto l’introduzione di don Vitaliano ed i suoi richiami ad alcune canzoni di Fabrizio de Andrè che considero uno dei maggiori poeti del
‘900Essere laici, atei, comunisti non deve impedirci di valorizzare messaggi positivi solo perché non sono “nostri”: le nostre menti ed i nostri cuori devono essere aperti ad ogni contributo di idee e di sentimenti, se questi possono arricchirci o comunque sono in sintonia con i nostri valori. Ricordo di aver sentito il compagno Bertinotti, in una trasmissione televisiva rispondere così a chi gli chiedeva il senso di dirsi ancora comunisti dopo i disastri del socialismo reale nei paesi dell’est europeo: «Dire che i valori del comunismo non esistono più perché è esistita la tragica realtà del socialismo reale, equivale a dire che il messaggio di Gesù non ha più valore perché sono esistiti le crociate, l’inquisizione, i roghi degli eretici». Mi scuso con il compagno Bertinotti se la mia citazione contiene delle inesattezze, ma il concetto era questo e mi sembra si adatti benissimo anche a questo caso.
Sandra Frangioni
Massa Marittima (Gr)
Liberazione, 27.12.05
Dopo la marcia di Natale oggi il dibattito alla Camera
La corsa all’amnistia nel paese dove i soli liberali sono i comunisti
di Piero Sansonetti
In Italia, ma anche in gran parte dell’occidente, l’espressione “tolleranza zero” è considerata una espressione positiva. E’ uno slogan che viene usato con entusiasmo per far funzionare le campagne elettorali.
La parola “perdonismo” invece è una specie di ingiuria, si pronuncia con disprezzo e anche con schifata ironia.
Eppure Tolleranza e Perdono sono le due parole fondamentali - dovrebbero esserlo - delle culture dalle quali proveniamo. Tolleranza è la chiave di volta dell’illuminismo.
Perdono è un termine che racchiude in se la sostanza profonda del cristianesimo e dell’insegnamento di Gesù. E’ curioso, ma è così: nella politica italiana tutto è permesso, fuorché ragionare rifacendosi ai pilastri del pensiero illuminista e cristiano. Chi lo fa è considerato un comunista sovversivo e pericoloso. O un anarchico.
La parola tolleranza è anche il fondamento del pensiero liberale moderno. E il fatto che più o meno i quattro quinti del parlamento italiano dichiarino di ispirarsi al liberalismo e considerino, i propri partiti, partiti liberali (da Forza Italia, alla Margherita, ai Ds, forse persino ad An...) non impedisce alla maggioranza del Parlamento e dei partiti di rifiutare qualsiasi politica liberale.
I vecchi maestri del liberalismo dicevano che in alcune occasioni è possibile, per salvare il liberalismo, rinunciare al liberismo economico.
Perchè ritenevano che il fondamento del liberalismo, prima ancora della libertà economica, fosse la salvaguardia e lo sviluppo della libertà individuale, dei diritti e della tolleranza. Oggi succede il contrario: una parte molto consistente dei partiti liberali rinuncia al liberalismo, lo sacrifica per salvare il liberismo. E’ così sul tema dell’amnistia. L’amnistia è uno strumento liberale per eccellenza.
In Italia, nei decenni passati, se ne è fatto grande uso. Centinaia di amnistie dai tempi dell’Unità, cioè poco dopo la metà dell’ottocento.
Sia per risolvere problemi carcerari, sia per chiudere periodi “storici” di lotte o guerre o violenze, sia per attenuare la durezza delle leggi.
Sull’amnistia concessa dal ministro Palmiro Togliatti nel ’47 ai fascisti si costruì la riconciliazione nazionale.
Oggi invece concedere una amnistia è quasi impossibile.
Perché? Perché nel marzo del 1992 il Parlamento, sulla spinta “giustizialista” di Tangentopoli, decise di abolire, di fatto, questo strumento giuridico. In che modo lo fece? Modificando la Costituzione e stabilendo, con legge costituzionale, che per concedere l’amnistia occorre il voto dei due terzi degli aventi diritto in ciascuna delle due Camere. I due terzi degli aventi diritto vuol dire quasi l’unanimità. Bastano 150/200 deputati, o 75/100 senatori per far saltare tutto.
In questi giorni una parte del mondo politico si sta mobilitando per forzare questa situazione e ottenere lo stesso l’amnistia, anche perché - per ammissione di tutti - le carceri italiane esplodono, gonfie fino all’inverosimile di donne e uomini accusati di piccoli reati, in gran parte legati alla miseria o alla condizione infernale dell’immigrazione clandestina. Chi, più di tutti, conduce questo sforzo, sono i radicali, il piccolo partito socialista, e Rifondazione, cioè un partito comunista.
Non è un paradosso questo? E cioè che alla prova dei fatti finiscano in un esiguo schieramento liberale i partiti comunisti, in lotta contro partiti moderati che si definiscono liberali ma fanno dell’autoritarismo, del decisionismo, del pugno di ferro e della tolleranza zero le loro bandiere fondamentali? E’ un paradosso fino a un certo punto. E’ inutile che facciamo finta di vivere in un altro “paese politico”. Noi viviamo nel paese dove persino in una città di sinistra come Bologna, il sindaco, ex capo dei sindacati e poi dei “Girotondi”, invoca il rispetto della legge e la repressione verso lavavetri, migranti e clandestini. E dice che questo legalitarismo e questa repressione devono essere il collante della sinistra. E il presidente del Consiglio, liberale, inizia la sua campagna elettorale con giganteschi manifesti nei quali annuncia di avere infilato in ogni quartiere, e in ogni condominio, più poliziotti e più carabinieri. Non facciamo finta di credere che solo la Lega e Borghezio sono forcaioli: il mondo politico italiano, in modo assai trasversale, riconosce quello della “sicurezza” - cioè del legalitarismo, cioè dell’ordine pubblico - come il valore fondamentale e come l’argomento decisivo di qualunque programma politico.
Ci si può stupire se un mondo politico di questo genere non riesce a trovarsi a suo agio nella battaglia per l’amnistia? E allora: perdiamo ogni speranza? No, restano delle speranze, perché c’è un settore
della politica italiana - sia al centro (radicali, socialisti, un pezzetto dei ds) sia a sinistra (comunisti) sia in zone cattoliche (della Margherita, dell’Udeur, forse dell’Udc) - che è molto combattivo, ha partecipato l’altro ieri alla marcia di Natale e si darà da fare oggi nel dibattito alla Camera - convocata in seduta straordinaria per questo scopo. Però sappiamo benissimo una cosa: o si riuscirà a convincere della necessità dell’amnistia tutta la sinistra - compreso il pezzo più giustizialista dei Ds - o le possibilità di riuscita sono zero. Solo se la sinistra, a quasi 15 anni da Tangentopoli, riuscirà a ritrovare la sua vecchia e tradizionale ispirazione garantista, sarà possibile tentare una alleanza con qualche settore non reazionario della destra e provare a toccare il limite dei due terzi del Parlamento. Altrimenti vinceranno loro: i nemici del liberalismo, della Tolleranza, del Perdono. Cioè la destra illiberale e gli amanti dell’autoritarismo.
Liberazione, 27.12.05
Il primo Natale di Benedetto XVI
Uomo tecnologico, terrorismo, armi, povertà
di Fulvio Fania
Natale senza Wojtyla, il primo di papa Ratzinger. Piazza san Pietro sotto le nubi e la pioggia, con il gigantesco albero austriaco e il grande presepe, induce ai ricordi e ai confronti ma in realtà lo stile del nuovo pontefice, lontano dalla teatralità comunicativa del predecessore, ha già finito di stupire e si impone per se stesso. Benedetto XVI dà un taglio alla babele di oltre sessanta lingue su cui si arrampicava a fatica anche il più anziano Giovanni Paolo II. Ratzinger, dopo la benedizione Urbi et orbi di mezzogiorno, si è accontentato di appena 32 idiomi, dall’arabo all’ebraico, dal suhaili al georgiano. Dicono che a Pasqua compenserà i linguaggi finora taciuti. Al nuovo papa interessano certo i “segni” del pontificato, perfino alcuni abiti che ripesca a sorpresa dalla tradizione, ma a parte questo gusto un po’ regale, ciò che gli preme sono soprattutto i discorsi, un intreccio accortissimo di teologia e messaggi per il presente. La serie natalizia era cominciata giovedì scorso con i saluti alla Curia, un testo fondamentale per comprendere la rilettura ratzingeriana del Concilio Vaticano II - ridimensionato a «riforma» necessaria ma non «rottura» - nonché del rapporto mai risolto tra Chiesa e modernità. All’inizio di quel “saluto” aveva posto una frase dell’amato San’Agostino, la stessa che ha ripetuto nell’augurio di Natale pronunciato in latino dopo il messaggio al mondo in cui è tornato sulle sue preoccupazioni: l’uomo «dell’era tecnologica » finisce vittima della propria intelligenza e cade in una «atrofia spirituale»; «l’età moderna» è stata presentata come «risveglio dal sonno della ragione», però la luce razionale «non basta a illuminare il mondo» se non è sorretta dalla fede in Cristo. Per Ratzinger, che pensa soprattutto all’Europa, la Chiesa deve costituire una costante «contraddizione» rispetto al pensiero contemporaneo. Ieri, giorno di Santo Stefano, il Papa ha ribadito il medesimo concetto dal punto di vista del martirio e del sacrificio. «Come non riconoscere - ha detto dalla finestra del suo appartamento appena ristrutturato - che anche in questo nostro tempo in varie parti del mondo professare la fede cristiana richiede eroismo?». Benedetto XVI allude a paesi asiatici come la Cina o arabi come l’Arabia saudita, ma è allarmato anche dalla condizione religiosa nelle società “secolarizzate”. «Come non dire - aggiunge infatti - che dappertutto, anche là dove non vi è persecuzione, vivere con coerenza il Vangelo comporta un alto prezzo da pagare?».
Benedetto XVI è molto attento a dare fondamento religioso ai propri appelli alla pace. A mezzogiorno di Natale questa è stata la sua invocazione: «Uomo moderno, talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prendere per mano dal Bambino di Betlemme» per impegnarti «nell’edificazione di un nuovo ordine mondiale fondato su giusti rapporti etici ed economici», di fronte ai «preoccupanti problemi del presente»: il terrorismo, «le condizioni di umiliante povertà in cui vivono milioni di esseri umani», la proliferazione delle armi, le pandemie e il degrado ambientale «che pone a rischio il futuro del pianeta». Terrorismo e corsa agli armamenti sono i temi prescelti dal nuovo Papa per la prossima giornata cattolica della pace.
Collegato in mondovisione attraverso 111 reti tv, Ratzinger ha ricordato la «tragica situazione umanitaria» del Darfur e di altre regioni dell’Africa centrale e ha pregato per «il dialogo in Corea» e in altre aree dell’Asia; per «la pace e la concordia » in America latina e perché «i segni di speranza, che pure non mancano » ispirino «lealtà e saggezza» in Terra Santa, Iraq e Libano.
In questo elenco, così preciso, non può sfuggire la citazione della Corea. La diplomazia vaticana sa che dalle parti della Cina e dell’Estremo oriente, insieme alla possibilità di nuovi spazi per la Chiesa, si stanno addensando grossi rischi di future tensioni mondiali. Ciò non distoglie lo sguardo papale dal Medio Oriente, un territorio che Benedetto XVI scruta con un misto di inquietudine politica e religiosa. E’ quella infatti la culla del cristianesimo sempre più abbandonata dalla minoranza cristiana.
E’ inoltre la terra di Israele, con tutto ciò che significa per il cattolicesimo postconciliare e ancor più per un papa tedesco.
Ecco dunque che il dramma della Terra santa ha fatto irruzione nell’omelia della messa di mezzanotte, come sempre rigorosa nella spiegazione filologica delle sacre scritture e stavolta incentrata sulla figura dei pastori. «Vogliamo pregare - ha detto il Papa - per la pace in Terra Santa: guarda Signore quest’angolo della terra che, come tua patria, ti è tanto caro»
La Stampa Tuttolibri 28.12.05
Dopo la pillola di Laborit
UN FARMACO ANTISTRESS USATO PER I MILITARI FRANCESI DURANTE LA GUERRA D’ALGERIA E’ DIVENTATO LA PRIMA ARMA PER FRONTEGGIARE LA SCHIZOFRENIA. SVILUPPI SUCCESSIVI
RARAMENTE da una guerra nasce qualcosa di buono per l’umanità. La guerra d'Algeria ha portato invece la possibilità di curare per la prima volta la schizofrenia con dei farmaci. Negli Anni 50, in piena guerra d’Algeria, divenne necessario il trasporto costante per aereo dei più gravi tra i soldati francesi feriti da Algeri agli ospedali militari parigini. Benché il viaggio fosse breve, erano frequenti le perdite di pazienti dovute allo stress del viaggio. Il farmacologo francese Laborit, alla ricerca di "una ibernazione famacologica" per ridurre lo stress durante l’anestesia, era venuto a conoscenza di una molecola chiamata RP4560, un prodotto sintetizzato a Parigi nei laboratori della ditta francese Rhone-Poulenc come anti-istaminico. Chiamato clorpromazina, l’RP4560 fu subito scartato perché causava sonnolenza e abbassamento della temperatura corporea. La clorpromazina usata con scarso successo per il trasporto dei militari francesi, destò invece un vivo interesse in alcuni psichiatri. La sua prima utilizzazione in pochi casi di schizofrenia e mania fu resa nota nel 1952 da Delay e Deniker.
Dal 1954 al 1956 la notizia del primo trattamento farmacologico delle psicosi, chiamato drammaticamente da Henri Laborit "lobotomia chimica", si diffuse da Parigi al resto del mondo. La notizia fu accolta dapprima con molto scetticismo e in seguito, dopo i primi successi, con entusiasmo. L’introduzione della psicofarmacologia ha rappresentato una vera rivoluzione nella psichiatria moderna provocando un atteggiamento completamente nuovo verso i pazienti psichiatrici non solo da parte degli psichiatri e degli infermieri ma di tutta la società. Si tratta non solo della prima possibilità di migliorare la qualità di vita di un paziente condannato all’isolamento ma anche di ricuperarlo all’attività lavorativa. Ciò ha contribuito più di ogni altra cosa alla graduale chiusura dei manicomi.
I successi clinici della psicofarmacologia si sono succeduti in parallelo alle grandi scoperte dei neurotrasmettitori cerebrali. Dall’introduzione degli antipsicotici negli Anni 50 fino ad oggi il trattamento della schizofrenia si è basato sul bersaglio dei ricettori della dopamina (vedi il Premio Nobel del 2003 al farmacologo svedese Arvid Carlsson) di tipo D2. L’uso dei farmaci che bloccano i ricettori D2 abbassa l’intensità delle allucinazioni e modifica le idee deliranti permettendo il passaggio a un trattamento ambulatoriale anziché la segregazione a vita del paziente in istituto. Gli antipsicotici di nuova generazione con una maggior affinità per i ricettori D2 della clorpromazina si sono rivelati farmacologicamente più potenti della prima. L’efficacia clinica di questi ultimi non è però aumentata in parallelo in quanto si tratta di molecole agenti sullo stesso meccanismo farmacologico della clorpromazina (cioè sui ricettori dopaminergici D2). Un problema non indifferente è il fatto che il blocco di questi ricettori provoca a lungo andare sintomi molto simili a quelli del Parkinson (rigidità) e poi la comparsa di movimenti involontari non controllabili.
Una nuova molecola degli Anni 70, la clozapina, con un effetto più debole sui ricettori D2 pur mantenendo l’efficacia contro i sintomi della schizofrenia, diminuiva notevolmente il rischio di sintomi parkinsoniani. La clozapina si rivelava però anche più tossica delle precedenti molecole. Dopo la scoperta della clozapina l’industria farmaceutica mondiale si è concentrata sullo sviluppo di farmaci antipsicotici con la stessa efficacia della clozapina senza averne però gli stessi effetti tossici.
Sono nati poi antipsicotici di seconda generazione (rispetto alla clopromazina) o atipici. Nuovi interrogativi sono sorti dopo l’introduzione di questi farmaci. Principalmente: si può dimostrare una efficacia maggiore rispetto ai farmaci di prima generazione? Valgono il prezzo notevolmente più alto (in certi casi 10 volte maggiore) dei primi? Inoltre, pur diminuendo il rischio di sintomi parkinson-simili, gli atipici provocano altri inconvenienti come l’aumento di peso corporeo (con maggiore rischio cardio-vascolare), del diabete e del colesterolo. Questi quesiti sono stati messi in evidenza da farmacologhi e psichiatri italiani. Silvio Garattini, dell’Istituto Mario Negri di Milano, ha messo chiaramente in luce e valutato il pro e il contro della terapia farmacologica delle psicosi. L’Istituto Nazionale di Sanità Mentale degli Stati Uniti ha promosso uno studio in doppio cieco su 1500 pazienti psichiatrici trattati in 53 centri per una durata di un anno e mezzo. Lo scopo era paragonare un farmaco di prima generazione simile alla clorpromazina, la perfenazina, a quattro farmaci di seconda generazione in uso corrente in USA ed Europa (olanzapina, risperidone, quetiapina e ziprasidone). I risultati pubblicati di recente sul “New England Journal of Medicine” dimostrano che oltre il 70% dei pazienti ha sospeso il trattamento prima del termine dei 18 mesi o per scarso beneficio o per effetti collaterali non tollerabili. Esistevano alcune differenze minori tra i vari farmaci. I farmaci che si rivelavano più efficaci nel diminuire i sintomi della malattia erano anche quelli che provocavano un maggiore aumento di peso, di tasso di glucosio e di colesterolo.
Sono dati certo non incoraggianti.
Il problema degli effetti collaterali è più serio nei pazienti ad esordio precoce della malattia, talvolta prima dei 13 anni. Questi giovani pazienti giungono per la prima volta all’attenzione dei pediatri a causa di problemi scolastici, poca attenzione e inizio delle allucinazioni: sono tra quelli che più traggono profitto dalla terapia farmacologica, che li riporta a condizioni di vita accettabili. L’aumento di peso invece può portare a smettere la terapia anche a costo di una ripresa violenta dei sintomi psichiatrici.
Ezio Giacobini
La Stampa Tuttolibri 28.12.05
Crisi socioeconomica, l’uomo soffre di più
RISPETTO ALLA DONNA HA 4 VOLTE PIU’ PROBABILITA’ DI SVILUPPARE DISTURBI MENTALI E PSICOLOGICI
GLI uomini soffrono per i peggioramenti della loro situazione socioeconomica più delle donne. Sebbene queste ultime statisticamente abbiano due volte più probabilità di discendere nella scala sociale nell’arco della loro vita, il cosiddetto sesso forte patisce quattro volte di più di problemi mentali quando ciò accade: è il risultato di uno studio condotto da un gruppo di ricercatori inglesi dell’Università di Newcastle nell’arco di cinquant’anni su un campione di un migliaio di uomini e donne nati nella cittadina britannica.
Il gruppo di persone osservato, costituito dai nati nei mesi di maggio e giugno del 1947, ha vissuto il generale miglioramento negli standard di vita che ha toccato la Gran Bretagna nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Ma dai tardi Anni 70 in avanti c’è stato un ampio spostamento da una economia basata sulla manifattura ad una basata sui servizi. Ciò ha contribuito a ridurre i tassi di impiego tra gli uomini (particolarmente durante gli Anni 80) e, per contro, ad aumentare i livelli di impiego tra le donne, solitamente dedite ai lavori del terziario. a tendenza è stata più pronunciata in zone come l’Inghilterra nord-orientale, che include la città di Newcastle, dove l'economia locale aveva contato tradizionalmente sulle occupazioni manuali esperte e parzialmente qualificate effettuate principalmente dagli uomini, con implicazioni evidenti sulla definizione dei ruoli sociali tra i sessi.
I dati raccolti e interpretati dai ricercatori, pubblicati di recente sul «Journal of Epidemiology and Community Health», tengono conto quindi dei significativi mutamenti sociali intervenuti negli anni. L'équipe psichiatrica di Paul Tiffin ha seguito fino all’età di cinquant’anni uomini e donne, considerando il loro stato sociale a partire dall’occupazione del capofamiglia. Gli uomini che avevano sperimentato una discesa sociale sono risultati quattro volte più predisposti alla depressione o a malattie di tipo ansioso rispetto a quelli che invece avevano migliorato il proprio status, mentre fra le donne non è stata notata una differenza significativa simile nella salute mentale. Questi risultati sarebbero parzialmente spiegabili con la capacità delle donne di trarre soddisfazione e autostima in altri campi della vita, mentre per gli uomini, tradizionalmente abituati a considerare il lavoro e lo status economico familiare come indice del proprio valore, sarebbe più difficile affrontare quella che viene sentita come una sconfitta del proprio ruolo. La ricerca inglese mette in evidenza i riflessi sulle politiche di welfare da mettere in atto, sostenendo che, in periodi di crisi economica, è opportuno ripensare le strutture di sostegno e riabilitazione delle persone colpite distinguendo tra uomini e donne. A noi che leggiamo, rimane ancora una considerazione: chissà se per le donne nate dopo la rivoluzione degli Anni 70, sempre più legate al lavoro e alla carriera, sarà ancora così.
Per chi fosse interessato ad pprofondire l’argomento, ecco i dati sull’articolo originale: «Social mobility over the lifecourse and self reported mental health at age 50: prospective cohort study», di Paul A Tiffin, Mark S Pearce, Louise Parker, in Journal of Epidemiology and Community Health 2005 n°59 pp.870-872
Marina Palumbo
Liberazione, 28.12.05
Una imponente mostra sul Dadaismo internazionale al Beaubourg di Parigi fino al 9 gennaio, e poi a Washington fino all’11 settembre 2006. Tra le opere. la famosa Fontana di Duchamp, le invenzioni di Picabia, le materie di Arp
Dada, l’arte del rifiuto. L’improvvisazione contro tutti e tutto
di Roberto Gramiccia
Sull’etimologia dell’espressione Dada è inutile spremersi le meningi. Semplicemente non c’è. Hans Arp (uno dei padri del movimento) sosteneva che il termine venne pronunciato per la prima volta al Caffè Terrasse di Zurigo da Tristan Tzara (altro padre spirituale del gruppo) il 18 febbraio 1916. L’incendiario intellettuale moldavo (Moinesti 1896 – Parigi 1963) raccontava di aver scovato il termine per caso
nel dizionario Larousse, fra le pagine entro le quali casualmente era scivolato un tagliacarte proprio dove questa paroletta tagliente-irriverentedivertente e, vedremo, esplosiva come una bomba a mano era segnalata.
E’ Tzara stesso che ne denuncia l’assenza di significato, a parte l’utilizzo fattone dalla tribù africana dei Kru che con questa parola indicano la coda della vacca sacra, a parte l’assonanza con la “tata” della nostra tradizione e il dada che in russo significa due volte sì.
Era giusto peraltro che la parola fosse incontaminata, come una tovaglia nuova di zecca perché il movimento, l’Avanguardia, a cui dette il nome non aveva rapporti con il passato. Anzi con il Passato e il Modernismo ruppe tutti i ponti, denunciandone l’insopportabilità, il conformismo e la soggezione alle convenzioni borghesi. Dada fu un pensiero, prima ancora che un gruppo e un movimento, che gridò ai quattro venti il suo essere “contro tutto e tutti”. Contro la letteratura, contro la poesia, contro l’idea del bello e la concezione dell’artista-demiurgo e ispirato da dio, contro la perfezione, contro l’eterno stabile o “ritornante”. Contro le avanguardie storiche, persino, che pure esprimevano il massimo dell’energia innovativa per il tempo (parliamo dei primi due decenni del secolo scorso).
«Basta con le accademie cubiste e futuriste, laboratori di idee formali», diceva Tzara, denunciando la discontinuità anche con il Futurismo. Quest’ultima avanguardia, infatti, sorta solo pochi anni prima, pur condividendo la furia iconoclasta dei dadaisti, perseguiva un suo pensiero estetico: il dinamismo plastico cantore delle meraviglie della meccanica moderna e della velocità. Perseguiva un suo pensiero politico elitario e bellicista.
Dada era contro ogni estetica, contro ogni banalizzazione positivistica sulle magnifiche sorti e progressive della modernità. Era contro il principio di disciplina, di gerarchia e autorità. Dada era aconfessionale ed anarchico. E soprattutto era contro la guerra.
E’ impossibile capire il significato di questo ciclone artistico e culturale se non ci si riporta al particolare momenti in cui nacque, i tempi sanguinosi ed orribili della prima guerra mondiale. La “comare secca” che aveva seminato stragi ed orrori fino ad allora mai visti in tutta Europa. Il ripudio della guerra era il tessuto connettivo che teneva insieme le cellule di un tessuto fatto di anarchia, individualismo e ribellione. Che si trattasse di un sentimento comune a molti è dimostrato dal fatto che la rivolta culturale che produsse il movimento esplose contemporaneamente in posti diversi e lontani: Zurigo, New York per poi estendersi in Germania, in Francia e in buona parte dell’Europa. A Zurigo fu il Cabaret Voltaire il luogo di incontro destinato a divenire memorabile dove si incontravano, oltre a Tzara e Arp, Hugo Ball, Marcel Janco, Richter e Hulsenbeck, intellettuali e artisti che non volevano solo “imboscarsi” per fuggire alla guerra, ma alla guerra volevano reagire nel modo più radicale e liberatorio.
A New York i nomi furono quelli di Picabia, Man Ray, Duchamp.
Quest’ultimo artefice della rivoluzione più profonda della storia dell’arte di tutti i tempi - dopo quella di Caravaggio - la rivoluzione dei readymade, gli “oggetti di uso comune” destinati a sconvolgere assetti linguistici e formali consolidati da centinaia di anni.
La grande esposizione, “Dada”, curata da Laurent Le Bon, e allestita meticolosamente presso il Beaubourg rappresenta lo sforzo di raccogliere e catalogare una parte cospicua dell’enorme mole di documenti ed opere che il prolificissimo movimento seppe produrre.
La collaborazione con la National gallery of art di Washington (nella quale la mostra sarà trasferita dal 19 febbraio all’11 settembre), e con il Moma di New York ha consentito di fare le cose in grande, molto in grande.
Anzi, se c’è un’osservazione che rispettosamente può essere avanzata (ci riferiamo al rispetto che merita un’impresa titanica) è che il numero di reperti ordinati con cartesiana precisione in 38 box, senza considerare l’ambiente introduttivo e la Dada Galerie, è talmente grande da produrre quasi inevitabilmente, complice la grande folla sempre presente, uno spaesamento più o meno accompagnato dai sintomi tipici della Sindrome di Stendhal.
Insomma, si potrebbe dire che questa imponente mostra sia piegata sulle ragioni di quel sistema che i dadaisti avrebbero voluto far saltare in aria. Ragioni di sistemazione tassonomica e di natura commerciale evidentemente.
Resta il fatto che poter ammirare la ricostruzione di ambienti tipici del Cabaret Voltaire, piuttosto che quelli parigini, newyorchesi e tedeschi è più unica che rara. Come quella di vedere da vicino la famosa Fontana di Duchamp (il celeberrimo orinatoio capovolto) e gli altri suoi “oggetti di uso comune”, le invenzioni di Picabia, le opere polimateriche di Arp, le immagini fotografiche di Man Ray ottenute senza macchina da presa (rayographs), i lavori pre-surrealisti di Max Ernst e ancora le decine e decine di opere di Richter, Eggeling, Grosz, Schwitters, Hausmann e tanti altri.
Quello che resta alla fine nella testa è una gran confusione che tuttavia non ci sembra estranea a quelle che pensiamo dovevano essere le atmosfere dadaiste. Queste atmosfere, infatti, fecero un programma di lavoro e di ricerca del caos e dell’improvvisazione, rifiutando qualsiasi progettualità in cambio di un’idea di libertà insofferente a qualsiasi fine ultimo o anche intermedio.
Pur senza negare la potenza eversiva e liberatoria di questo movimento, non possiamo, tuttavia, non nutrire una riserva.
Quella che in qualche misura il Dadaismo, e in particolare il pensiero di Duchamp, abbiano, involontariamente, fornito materiale (opere e soprattutto idee) prezioso e abbondante usato per “giustificare” nel corso dei decenni la produzione di opere completamente disinteressate all’idea di qualità, all’idea di valore. Con lo sviluppo caotico e impetuoso della tecnologia, del mercato globale e del liberismo spregiudicato e bellicista (tutte cose che nemmeno Duchamp poteva prevedere) il caos produttivo del Dadaismo si è trasformato nell’ideale terreno di cultura di un’arte che spesso, al giorno d’oggi, è la brutta copia della pubblicità.
Liberazione, 27.12.05
“Liberazione”
Noi e la religiosità
Caro Sansonetti, sto seguendo con molto interesse il dibattito vivace su realtà umana e religiosità. Sono stata contenta l’altro ieri di leggere, in risposta alle lettere di Simona e Laura a proposito del libro sulle parabole di Gesù pubblicizzato su “Liberazione”, la tua affermazione «io sono ateo».
Poi ancora un’altra risposta sullo stesso tema, ad Andrea, in cui accenni al rapporto uomodonna.
Mi viene in mente il tuo editoriale del 6 dicembre quando critichi duramente il papa perché nelle sue arringhe decreta che ha dignità umana solo chi stabilisce «una relazione libera e consapevole con il suo creatore», pensiero
che, convieni, giustifica il razzismo. Più volte in questi giorni specifichi che Gesù non è il papa né i cardinali. Mi viene in mente anche la lettera di Massimo Fagioli del 26 novembre in cui, accettando la tua proposta di rispolverare le tre parole libertà, uguaglianza, fraternità, invita a cercare di dare un senso reale alle parole.
Sono nata e cresciuta in una famiglia cattolica praticante, conosco bene la figura di Gesù; e ti dirò che fin dalla prima adolescenza, quando stavo male e mi sentivo diversa perché, pensavo io, non riuscivo ad accogliere quel “dono della fede” che mi proponevano, la figura di quel Gesù a tratti mi affascinava.
Allora, per una esigenza di coerenza, cercai di coniugare l’idea di comunismo con la religione cercando in quel cosiddetto “cattocomunismo” che mi sembrava proponesse la soluzione. Stavo peggio. Penso che cercavo la verità sulla natura umana, forse per questo ho poi fatto Medicina. Il nodo potrebbe essere che Gesù “il figlio di Dio” sarà pur stato un uomo particolare, forse strano chissà, a volte diceva parole accattivanti, ma certo non aveva nessuna teoria sulla realtà umana. Che gli esseri umani si debbano voler bene e non distruggere lo dicono in tanti, ma noi abbiamo bisogno di un pensiero profondo, nuovo per comprendere cos’è l’amore, cos’è la violenza, che significa ateismo, qual è il senso dei rapporti interumani in cui si realizza il massimo della realtà mentale umana. Ritorniamo allora al tema “idee o parole” e continuiamo a discuterne.
Claudia via e-mail
Liberazione, 21.12.05
“Liberazione”
Lasciamo stare le parabole
Caro direttore, ho trovato molto interessante la lettera di Marco pubblicata sabato scorso, nella quale il lettore si definiva sbigottito dal fatto che “Liberazione” pubblicizzasse un libro di parabole del vangelo. Confesso che anche a me la cosa aveva creato una certa confusione; e questa confusione è andata aumentando nel leggere la sua risposta, dove lei afferma che il papa non c’entra con Gesù. Mi domando se sia davvero possibile considerare ciò che la chiesa dice e fa oggi ( comprese le criticabili posizioni del Vaticano su politica, sessualità, otto per mille ecc…) qualcosa di estraneo al pensiero religioso che la ispira da duemila anni. Un pensiero secondo il quale l’uomo nasce con il peccato originale per colpa di Eva, ed è quindi condannato ad essere violento e cattivo in un mondo dove Caino uccide Abele, in una immutabilità della storia che non permette alcuna trasformazione, e che concede come unica consolazione la morte come porta dell’aldilà. Il vuoto teorico lasciato dal crollo del comunismo e dalla crisi dell’ideologia marxista è enorme, ma non per questo dobbiamo farci prendere dall’angoscia per poi cercare conforto nella religione. Possiamo quindi lasciar stare le parabole , e orientarci verso proposte teoriche senz’altro più valide e interessanti alle quali il suo giornale ha dato spazio, come gli atti dell’incontro di Bertinotti e Ingrao con l’analisi collettiva a Villa Piccolomini. Dobbiamo e possiamo ribellarci alla rassegnazione e al fallimento solo cercando idee nuove, approfondendo la ricerca sull’uomo, sulla realtà mentale, sui rapporti interumani. E allora “Liberazione” rappresenterà ancora una speranza per me, per Marco, e per moltissimi altri…
Simona via e-mail
Non credo Simona che bisogna contrapporre Bertinotti e Ingrao a Gesù. Amo ingrao e ho enorme stima di Bertinotti: non li considero incompatibili con Cristo… ( Piero Sansonetti)
Non deludete gli atei e le atee
Caro Sansonetti, non si possono deludere gli atei e le atee di questi tempi, è già cosi difficile la nostra vita adesso più di sempre. Spiegami, se puoi, non solo la necessità di pubblicare le parabole di Gesù ma anche di illustrare questa iniziativa con un’immagine kinksize in ultima pagina di gusto da santino. Mi dicono che ieri era accanto al titolo, in prima pagina, non ho comprato il giornale, aspeto un chiarimento prima di rischiare ancora.
Laura via e-mail
Laura, io sono ateo. Però mi piace Gesù di Nazareth. Ti dirò, Laura, che credo che piaccia più me che a Camillo Ruini… prova a leggere il libro di don Vitaliano Della Sala e vedrai che non resterai delusa. Un saluto affettuoso( p.s.)
Liberazione, 21.12.05
Lessico Familiare: Draghi, Montezemolo e padre Chemeri
di Piero Sansonetti
I candidati più accreditati alla successione di Antonio Fazio, al vertice di Bankitalia, sono Tommaso Padoa Schioppa e Mario Draghi. Professionisti eccellenti, colti, dalla carriera brillante. Come si dice sempre in questi casi: indipendenti. Cosa vuol dire indipendenti? Che non si conoscono loro appartenenze di partito. Nessuno mai si chiede - di un professionista, di un giornalista, di un economista, di un qualunque uomo pubblico - se per caso appartiene a un’aera “economica”. Cosa intendo dire? Dico che esiste il potere politico, ed è un potere manifesto e piuttosto potente. Poi c’è il potere economico che non si esprime mai in modo palese, cioè non è manifesto, ed è parecchio più potente del potere politico. Spesso lo domina.
Questo significa che personaggi come Padoa Schioppa o Draghi prendono ordini da un determinato gruppo di potere economico? Certamente no. La loro professionalità li salva. Nemmeno Sandro Curzi prende gli ordini da Rifondazione, né Rizzo Nervo dalla Margherita e neppure Malgeri da An né Rognoni dai Ds: sono indipendenti perchè sono giornalisti di grande spessore, grande storia e grande autonomia: eppure spesso vengono indicati come uomini di partito.
Vi raccontiamo un aneddoto che non significa niente, o forse qualcosa significa sulla struttura di comando del potere in Italia. Negli anni sessanta c’era un gruppo di ragazzi che andavano tutti a scuola insieme, avevano la stessa età e facevano la stessa classe. Prima le medie, poi il ginnasio e il liceo. Grandi amici. La scuola era una delle più prestigiose di Roma, l’Istituto Massimiliano Massimo, retto dai padri gesuiti. Stava all’Eur (è ancora lì). Nella classe di questi ragazzi, il professore di lettere, alle medie, si chiamava Padre Chemeri, un latinista fine e un personaggio molto carismatico coi giovani. Il professore di matematica si chiamava Sideri, era un omino silenzioso e sonnolento che appena entrava in classe faceva chiudere tutte le finestre e gridava: "Silenzio!". Forse non sapeva troppo bene la matematica. Tra questi allievi di Chemeri e Sideri uno si chiamava Luca (Cordero di cognome, e più tardi iniziò a farsi chiamare Montezemolo, il cognome della madre), un altro si chiamava Mario (Draghi di cognome), un altro ancora Gianni (di cognome faceva De Gennaro), un altro ancora si chiamava Cristiano (Rattazzi).
Avrete capito che Luca da grande fece il presidente della Fiat, Gianni il capo della polizia, e Mario, forse, il governatore centrale. Cosa c’entra - direte - con tutto questo, il povero Cristiano? Poco e niente. Era il più studioso, era un ottimo ragazzo e come tutti i ragazzi voleva bene alla mamma e - immagino - anche agli zii. La mamma si chiamava Susanna, detta Suni, gli zii Gianni e Umberto (tutti e tre di cognome facevano Agnelli).
Non c’è nessuna morale in questa storia. Solo sembra un po’ la conferma che il capitalismo italiano è un po’ familista, un po’ asfittico, e che alla fine - girala come vuoi - tutti i poteri della borghesia finiscono nel quartiere generale, che è sempre quello: Torino, Corso Marconi.
Liberazione, 23.12.05
Parabole
Chiesa e sessualità
Caro Sansonetti, possono piacere Gesù e Don Vitaliano, Vendola può intitolare l'aeroporto di Bari a Karol Wojtila e può andare a messa tutti i giorni, ma se dal canto loro gli atei non hanno idee chiare, o non le rivendicano, allora siamo fregati. Perchè oggi, rispetto all'offensiva della chiesa e allo strapotere del capiutalismo è anzitutto necessario un salto culturale. In modo specifico è necessario acquisire la consapevolezza che il cristianesimo distrugge l'identità umana. Perché? Semplice, perché considera la sessualità peccato...La sessualità umana non equivale al bere e al mangiare, o alla ginnastica, né è legata alla procreazione come quella animale, ma è rapporto interumano e forma l'identità come immagine interiore maschile e feminile. Per questo i cristiani la vogliono distruggere. "Liberazione" ha ospitato un interessante dibattito sulla violenza contro le donne e, unico giornale in Italia, si sta ponendo un problema legato all'identità degli uomini e delle donne. Tu scrivi editoriali che contengono acute osservazioni. Ma se non si approfondisce la ricerca e non si diffonde il pensiero radicalmente diverso da quello cristiano sulla realtà non materiale umana, tutto ciò non porta molto lontano...
Andrea Ventura via e-mail
E' molto interessante quello che dici. Continuiamo a discuterne. Io però voglio ricordarti una cosa: Gesù ( e noi stiamo parlando di Gesù, non della storia della Chiesa) è forse il primo maschio che di fronte al linciaggio di una prostituta si oppone e lo impedisce. Poi si accompagna - sfidando il senso comune- con quella prostituta. A me sembra che Gesù non assomigli ne a Ruini ne a Ratzinger, ne alla grande maggioranza di cardinali e vescovi. Ti saluto con affetto
Piero Sansonetti
LaStampa Tuttolibri 24.12.05
Quando la preghiera diventa farmaco
Un medico credente riflette sulla necessità di un’empatia con il paziente: non basta affidarsi alla tecnologia e alle iperspecializzazioni
Eugenia Tognotti
CHE la preghiera sia la «medicina» non convenzionale più diffusa a tutte le latitudini e in tutte le religioni, è risaputo. Di fronte alla terribile prova della malattia e del dolore, un'esperienza tutta individuale, la gente, pur confidando nelle prodigiose risorse della scienza medica, cerca qualcosa di più e di diverso, speranza e conforto. Meno noto è che la «preghieraterapia» sembra produrre effetti terapeutici reali. Tanto che gli scienziati hanno cominciato ad interrogarsi sui suoi meccanismi d'azione. E ora la research on prayer è diventato un vero e proprio campo di studi, che negli Stati Uniti è munificamente finanziato dal governo. E i risultati di diversi studi condotti in reparti ospedalieri e pubblicati su autorevoli riviste scientifiche sembrano dare ragione a coloro che sostengono il potere terapeutico della preghiera: i gruppi di malati che pregavano durante la cura avrebbero richiesto dosi inferiori di farmaci e sarebbero andati incontro ad un più rapido processo di guarigione. A questo filone di ricerca - che sta facendo discutere - fa riferimento, tra l'altro, nel suo breve, ma denso saggio Credere e curare, Ignazio Marino, chirurgo italiano di fama internazionale trapiantato a Philadelphia, dove dirige il prestigioso centro trapianti della Thomas Jefferson University. La sua però non è la voce dello studioso che prende posizione in un'astratta disputa accademica. E neppure quella di un paziente che racconta un vissuto di malattia e un itinerario di cura e di preghiera. E' la testimonianza forte di un medico credente, che nella pratica clinica si confronta ogni giorno con quell'evento esistenziale, ma anche naturale, che è la malattia. E che lo fa - aiutato dalla propria fede - in uno dei templi della tecnologia medica avanzata e in un Paese come l'America, culla del materialismo. La sua riflessione - maturata in un quarto di secolo d'esperienza di lavoro in Europa e negli Stati Uniti - lascia affiorare il paradosso della medicina moderna: attrezzata come non mai, dal tempo d'Ippocrate in poi, sul piano diagnostico e terapeutico; provvista, grazie all'informatica, di nuove possibilità, che fino a qualche tempo fa sarebbero parse fantascientifiche (come quelle di un intervento chirurgico a distanza), la medicina vive oggi una drammatica crisi d'identità. Che si manifesta anche nel rapporto medico-paziente, impoverito dalla crescente complessità della strumentazione tecnologica e in cui immagini di pellicole, schermate di numeri, prescrizioni, sostituiscono la comunicazione, la parola del medico, il tocco della mano, l'ascolto degli stati d'animo, oltre che dei sintomi del paziente. Viene così a mancare quel reciproco coinvolgimento, quella «empatia» tra due esseri umani che nessun esame - scrive Marino - per quanto perfetto può sostituire. Come si muove un medico che crede nella scienza e nella medicina come missione in una realtà dominata dalla tecnocrazia produttiva, dalle pressioni del mercato, dai dilemmi posti dalle applicazioni delle scienze della vita? La fede - dice - può rappresentare una «bussola» per i medici in crisi d'identità, stretti tra un apparato tecnologico sempre più complesso e un'iperspecializzazione che sta erodendo i pilastri portanti del rapporto medico-paziente della tradizione ippocratica Un medico credente ha un vantaggio - spiega - rispetto a chi non lo è: le sue «regole morali» sono già scritte e comprendono quelle risorse aggiuntive, intangibili e preziose della cura che sono, l'umanità, la partecipazione, l'attenzione. Un punto di vista che, di certo, farà discutere. Una cosa è certa. Se - come dice un antico aforisma «Un buon medico, è la prima medicina» è da qui che occorre partire per curare una medicina smarrita e in crisi, a dispetto dei suoi trionfi.
LaStampa Tuttolibri 24.12.05
Giovani, benestanti, istruiti: sono gli adepti dei nuovi culti religiosi
Non sono vittime di un «lavaggio del cervello», non si tratta di «conversioni forzate», i casi di violenza fanatica rappresentano l’eccezione: le benevole e controverse tesi del sociologo Dawson
Franco Garelli
L’INTERESSE per i nuovi culti e movimenti religiosi non accenna a ridursi, anche se il fenomeno sta vivendo una stagione controversa. Questi gruppi non crescono più con il ritmo del passato, mentre si rafforza un'opinione pubblica e una letteratura ostile alle sette. Tuttavia l'attenzione dei mass media si mantiene alto e le conferenze e i corsi universitari sul tema continuano a riempirsi di gente e di iscrizioni. Da sempre le scelte estreme o più radicali costituiscono un oggetto di grande richiamo sia per le persone comuni che per gli studiosi di discipline diverse. Perché molti individui sacrificano oggi i valori dell'indipendenza e dell'autorealizzazione per far parte di gruppi religiosi particolarmente esigenti? Che chiedono loro rilevanti sacrifici economici, fisici e anche psicologici? Che cosa li spinge ad abbandonare le prospettive di una buona carriera, di una confortevole vita normale, per seguire capi carismatici o modelli di gruppo esotici e controcorrenti? Allo stato di salute de I nuovi movimenti religiosi è dedicato il volume di Lorne L. Dawson, docente di sociologia e di studi religiosi nell'Università di Waterloo, Canada. Uno dei punti qualificanti del lavoro è la sistematizzazione delle conoscenze sul fenomeno. Qual è anzitutto l'appeal dei nuovi movimenti religiosi, tenendo conto che i culti di successo odierni sembrano «setacciare più la crema che la schiuma della società»? A detta degli studiosi, chi si orienta verso questa esperienza sta vivendo una condizione di deprivazione, o di tipo affettivo-psicologico o sociale. Da un lato non ci si riconosce più nei valori dominanti nella società, dall'altro lato si è alla ricerca di ricompense (in termini di amore e di affetto, più semplicamente di significato) maggiori di quelle di cui si può disporre nella vita quotidiana. Di qui l'incentivo ad unirsi a un movimento religioso che promette cambiamento e compensazione, aprendosi ad un processo di «conversione» religiosa che può manifestarsi in varie tappe e livelli di coinvolgimento. Nel complesso, le persone reclutate dai nuovi culti sono in larga parte giovani, meglio istruite rispetto alla media, che provengono dai settori privilegiati della società. Per contro, non c'è un genere più incline di un altro a questa esperienza, così come il retroterra religioso di queste persone appare assai variegato. Nella maggioranza dei casi non si è di fronte a particolari indizi di patologia, anche se i membri di questi gruppi hanno perlopiù alle spalle esperienze difficili di separazione dalla loro famiglia, passaggi di vita complicati, forti tensioni di crescita in una società ostile, carenza di relazioni di intimità. Oltre a descrivere le caratteristiche e gli orientamenti prevalenti dei membri dei nuovi movimenti religiosi, questo libro affronta anche gli interrogativi più inquietanti che oggi si addensano su questo fenomeno. I loro seguaci sono vittime di un «lavaggio del cervello»? Si entra così nel cuore della controversia contemporanea sui culti. Questa accusa è al centro di molte contese di tribunale, sollevata da genitori che intendono riappropriarsi di figli «deboli» che si sono improvvisamente convertiti a nuove credenze e comportamenti o evocata da ex-membri di questi movimenti alla ricerca di forme di risarcimento per i «danni» ricevuti. Questi movimenti usano davvero tecniche sofisticate di «controllo della mente» o di «persuasione coercitiva» per procurarsi e mantenere i loro seguaci? Oppure tali accuse nascondono la debolezza delle proposte delle famiglie, la non accettazione che i figli facciano delle scelte religiose e di vita libere anche se sgradite e scioccanti? Sulla base degli studi del settore e delle sue ricerche empiriche, Dawson non condivide l'idea che i nuovi culti sottopongano i propri adepti a condizioni repressive e coattive, anche se questa opinione è assai diffusa nella società. Così dopo aver riassunto gli argomenti pro e contro la pratica della conversione coercitiva esercitata da parte dei nuovi movimenti religiosi, egli si sofferma sulla questione di chi continui a beneficiare del mito della conversione forzata. Molti gruppi (formati da genitori, professionisti della salute mentale, religiosi, ecc.) possono oggi aver interesse ad alimentare una coalizione anticulto, proprio per difendere interessi ed equilibri minacciati dal nuovo stato delle cose. Un'altra questione calda è rappresentata dal perché alcuni dei nuovi movimenti religiosi diventino violenti. Di tanto in tanto la cronaca porta alla ribalta storie drammatiche di violenza legata ai culti, come la morte (nel 1993) in uno spaventoso incendio del leader e di molti seguaci della setta del Daviniani a Waco, nel Texas, assediati nel loro quartier generale da agenti federali; o come il suicidio (nel 1994) di oltre 50 membri dell'Ordine del Tempio Solare in tre località della Svizzera e del Canada, scelta estrema a cui essi sono giunti dopo aver bruciato le loro case. Non mancano in alcuni casi leader paranoici e condizioni squilibrate, ma i comportamenti devianti sono delle drammatiche eccezioni, non la regola, nel variegato mondo dei nuovi culti. Del resto, forme di violenza attraversano anche gruppi e istituzioni religiose più consolidate nella società, che nessuno oserebbe mettere in discussione per casi anomali particolari. In sintesi, l'atteggiamento dell'autore di questo studio è benevolo nei confronti dell'esperienza dei nuovi movimenti religiosi. Se si depura la questione degli aspetti più controversi (e anche meno empiricamente verificati), emerge un fenomeno caratterizzato da un'indubbia rilevanza sociale e che ha molto da dirci sulle tendenze culturali emergenti. Se ci si libera dai pregiudizi verso le forme della nuova religiosità, non pare giustificato ritenerle delle esperienze irrazionali. Per molti adepti, questi gruppi rappresentano luoghi di una nuova ricerca, ambienti in cui offrire investimenti e sacrifici per ottenere servizi e soddisfazioni.
La Repubblica, 24.12.05
COMMENTO
Preghiera laica nel giorno di Natale
di EUGENIO SCALFARI
IL PRESENTE, il futuro, il passato. La libertà, la necessità. Nell'imminenza d'una ricorrenza dedicata alla vita che nasce, allo stupore felice del mistero d'una vita che nasce, meritano qualche riflessione quei cinque concetti che ho appena indicato. I primi tre delimitano il fluire del tempo, gli altri due le modalità del nostro vivere, antinomiche l'una rispetto all'altra, eppure così compresenti e coesistenti l'una con l'altra e tali da configurare completamente la condizione umana e il tempo entro il quale essa è chiamata ad operare.
Il giorno della Natività induce a riflettere sul mistero della vita che è senza alcun dubbio la conseguenza di un atto di libertà. Ma è altrettanto vero che questo atto di libertà compiuto da due persone pone il nuovo nato fin dall'inizio di fronte a elementi di necessità: il colore della sua pelle, il luogo in cui nasce, la condizione sociale, l'ereditarietà dei geni che presiedono alla sua struttura psico-fisica. Il nuovo nato è libero e condizionato al tempo stesso e questa dicotomia si rifletterà in ogni suo atto e in ogni suo pensiero dal momento in cui è nato a quello in cui morirà, che è incognito ma inevitabile.
IL NUOVO nato al quale è dedicata la ricorrenza cristiana del Natale vide la luce - così racconta la tradizione - in un villaggio della Giudea. La tradizione racconta che l'evento ebbe luogo in una stalla riscaldata dal fiato degli animali. Ne furono casualmente testimoni alcuni pastori. E questo è tutto; pochissimo, eppure sufficiente a stabilire fin dall'inizio di quella vita mortale alcune condizioni entro le quali il nuovo nato avrebbe vissuto e agito. Era maschio, era ebreo, era povero, correva il primo anno d'un calendario che dalla sua nascita ebbe inizio e che ora conta duemila e cinque anni. Questo è il flusso temporale decorso fin qui ma la sua nascita affonda in un passato che aveva alle spalle centinaia di migliaia di anni di evoluzione della nostra specie.
SPESSO accade che si discuta quale dei tre periodi che scandiscono la nostra vita sia più importante: se il presente o il futuro oppure il passato, fermo restando che futuro e passato vengono comunque immaginati e vissuti, o rivissuti, dal punto di vista del presente nel quale si trova il soggetto pensante.
IL PASSATO ha dalla sua il privilegio di fondarsi su fatti accaduti. Il passato è dunque un dato di fatto rivissuto per mezzo della memoria. Ma qui dobbiamo avvertire che la memoria è originariamente individuale, quindi soggettiva; per di più essa è mutevole nella mente d'uno stesso individuo.
Esiste anche una memoria collettiva, formatasi attraverso le "gesta" della "polis", della comunità cui apparteniamo. Vi apparteniamo non per nostra libera scelta ma perché così ha voluto il caso, quindi la necessità e non la libertà. Io sono nato in Italia e da genitori italiani, qualsiasi cosa ciò possa significare. Ma debbo sapere che una moltitudine di miei simili è venuta alla luce in quello stesso giorno in una quantità di altri luoghi in tutte le latitudini e le longitudini del pianeta, clima diverso, stelle diverse, diverse culture.
IL BAMBINO nato a Betlemme duemila e cinque anni fa fu fatto nascere dalla libera decisione di suo padre e sua madre in quel luogo e in quel tempo. Chiunque fosse suo padre (lo Spirito Santo secondo la dottrina della Chiesa) quella decisione fu libera. Nello stesso giorno nacquero altri bambini in Africa in Europa in Asia in America in Oceania e Australia. Il caso (o suo padre dall'alto dei cieli) decise le condizioni della sua vita. Ma egli, Gesù il Nazareno, diventato precocemente adulto decise di lanciare un messaggio che superava le condizioni delle genti in mezzo alle quali viveva; superava la legge che regolava la sua comunità.
Un messaggio indirizzato a tutti, uomini e donne, liberi e servi, poveri e ricchi. Un messaggio profetico proveniente dalla terra profetica dove era nato, la terra di Ezechiele, di Daniele, di Geremia, di Isaia, del Battista. La terra che Mosè aveva promesso agli schiavi in cattività egiziana.
Era possibile che un figlio di Dio nascesse in quel tempo e in un luogo che non fosse la terra profetica di Israele? Era possibile che nascesse ad Atene o ad Alessandria o a Roma o in qualunque altro luogo del pianeta? E che il suo
messaggio trovasse consenso e convocasse discepoli? E poteva riecheggiare nel mondo per mezzo di loro e attraverso i secoli?
No, non era possibile. Perché in quel piccolo villaggio della Giudea, e soltanto lì, esistevano le condizioni accumulatesi nel passato affinché il seme gettato fruttificasse e si spandesse nel mondo.
L'atto della nascita fu libero, effettuato in quel presente, ma le possibilità del futuro si verificarono grazie a quel passato. Senza quel passato, senza quella storia non ci sarebbe stato quel futuro.
Altri individui si sono certamente immaginati e pensati figli di Dio. Una moltitudine di individui l'ha immaginato e lo immagina, ognuno a suo modo in qualche sprazzo della propria natura lo immagina senza necessariamente esser pazzo. Ma lì soltanto e in quel momento ne esistevano le condizioni di realizzabilità.
L'evento ha avuto i suoi riflessi in larga parte del mondo e li ha tuttora su di noi. Su ciascuno di noi, che sia credente cristiano o credente di altra religione o non credente. Dunque l'atto libero cui si deve quella nascita ha posto ciascuno di noi a duemila anni di distanza di fronte a elementi dati, elementi di necessità dai quali nessuno di noi può prescindere perché fanno parte della nostra condizione storica nel nostro presente. si diceva del presente, del futuro e del passato.
SI DICEVA che il passato è affidato alla (mutevole) memoria soggettiva e a quella (altrettanto mutevole) della comunità a cui ciascuno di noi appartiene. Aggiungo che il passato è un'epoca determinata perché determinato e non infinito è il tempo della memoria.
Anche il futuro è determinato poiché è il frutto possibile della nostra immaginazione. La quale spazia in un tempo anch'esso finito. Quella individuale è solitamente più breve di quella collettiva, affidata alla classe dirigente di quella specifica comunità. Il tempo breve dell'immaginazione individuale e quello solitamente più lungo della classe dirigente della comunità, che si assume la responsabilità di operare per il bene comune.
Accade però talvolta che l'immaginazione della classe dirigente sia ancora più breve dell'immaginazione individuale, quando la responsabilità del futuro sia stata assunta da un tiranno o da una classe dirigente scellerata che anteponga la propria felicità alla felicità collettiva e si appropri delle risorse comuni per soddisfare i propri appetiti.
La storia ci offre infiniti esempi di siffatta appropriazione e d'una immaginazione che si riduce al motto "dopo di me il diluvio".
Passato e futuro vivono comunque nella nostra mente entro uno spazio temporale determinato. Non così il presente.
Il presente ci sembra ristretto ad un solo attimo che immediatamente si trasforma in passato, incalzato dall'attimo seguente che proviene dal futuro.
Ma, a rifletterci più a fondo, il presente è in realtà eterno nel corso di tempo assegnato alla nostra esistenza. Il flusso scorre continuamente ma la sua percezione è affidata all'attimo del presente e a quello soltanto, che nella sua istantaneità è dunque eterno.
Si tratta tuttavia d'una eternità fragilissima perché dipende sia dall'immaginazione del futuro sia dal ricordo del passato. Se per ipotesi la mente d'un individuo fosse del tutto priva d'immaginazione e anche di memoria, il suo presente cesserebbe di esistere come stato di coscienza.
L'individuo umano regredirebbe allo stato dell'animale che vive anch'esso in un eterno presente ma non ne ha coscienza, animato soltanto da istinti e pulsioni.
Ciò che accade agli individui accade anche alle comunità. Se esse recidono il passato dalla loro storia collettiva e cessano d'immaginare il futuro limitandosi a soddisfare gli appetiti attuali, regrediscono ad uno stato di ferinità che in breve dissolve ogni regola e inaugura la condizione dell'uomo-lupo hobbesiana.
Questa considerazione sul tempo è pertinente alla ricorrenza della Natività; essa infatti ci stimola a riflettere sul futuro e sul passato della vita che nasce qui e oggi e dell'infinita moltitudine di vite nate nel loro qui e oggi e di quelle che nasceranno nel loro oggi e nel loro qui. Memoria del passato, immaginazione del futuro danno senso al nostro presente e lo riscattano alla sua umanità. Le società che trascurano memoria e immaginazione si disumanizzano. Occorre dunque impedire questa trascuratezza, occorre ravvivare la memoria del passato e la
sollecitudine verso il futuro. Occorre scacciare il diabolico che dissipa il futuro per alimentare i godimenti del presente e cancella il passato rifiutandone il lascito e azzerando la memoria.
TALVOLTA accade che il presente sia così poco soddisfacente, così moralmente povero, così eticamente scadente da indurci a disertarlo, raccogliendoci in un presente solitario, in una solitaria preghiera, religiosa o laica che sia. (I religiosi forse ignorano che anche i laici pregano invocando la propria coscienza).
Per concludere userò qualche verso di una lirica molto pagana ma inopinatamente molto religiosa nel suo struggente evocare l'eternità d'un attimo consapevole.
Il giorno, disse, non potrà morire.
Mai la sua faccia parve tanto pura.
Non ebbe mai tanta soavità.
A me basta per dare senso alla vita.
Avvenimenti, 22.12.05
L’ora di religione
Privilegi porporati e programmi scolastici dettati dalla Cei. Dove è finito lo Stato laico?
di Simona Maggiorelli
L’inizio è nelle pagine di storia: l’insegnamento della religione cattolica fece il suo ingresso ufficiale nelle scuole italiane nel 1923 con la riforma Gentile. Una scelta rafforzata poi dal Concordato del ’29. Ora però, a più di cento anni di distanza, il ministro dell’Istruzione Letizia Moratti insiste su un inattuale ritorno a un modello confessionale della scuola pubblica. Lo raccontano l’assunzione in ruolo di 10mila insegnanti di religione varata dal governo Berlusconi e il fatto che le assenze degli studenti all’ora di religione ora vengono segnate e interpretate come penalità, eludendo il “particolare” che si tratta pur sempre di una materia facoltativa. Ma non solo. La commissione guidata da monsignor Tonini, incaricata dalla Moratti di stilare un manuale deontologico, ha appena concluso i suoi lavori e, presto, ne avremo il pensum ad uso di tutti gli insegnanti, non solo quelli dell’ora di religione. Mentre il vicepresidente del Cnr, lo storico Roberto De Mattei, con il compito di riformare la ricerca nel settore delle materie umanistiche, lancia proclami per un riscatto della società cristiana e contro i progressi della scienza, come fondatore dell’associazione Lepanto. E non si tratta, purtroppo, di un film in costume sul ritorno dei crociati. Basta andare sul sito www.lepanto.org per rendersene conto. Si tratta di scelte vere e pesanti, di cui si colgono già le ricadute sui programmi scolastici e sulla ricerca. Lo si è già visto con il tentativo del ministro Moratti di fare spazio al creazionismo nei programmi di biologia, ostracizzando l’evoluzionismo di Darwin. Un tentativo fermato dalle dure accuse mosse dall’Accademia dei Lincei già nell’aprile del 2004, ma poi approdato alla nomina ministeriale di una commissione presieduta da Rita Levi Montalcini e incaricata di decidere dell’utilità dell’insegnamento di Darwin, i cui documenti finali sono stati pesantemente manomessi, come aveva denunciato ad Avvenimenti il professor Vittorio Sgaramella, docente di biologia molecolare dell’università della Calabria e membro della commissione Montalcini e come racconta MicroMega nel nuovo numero “Chi ha paura di Darwin?”.
Abbiamo chiesto a Mario Staderini, insieme all’associazione radicale anticlericale.net, attento studioso di cose vaticane e autore di un libro sull’8 per mille, di raccontarcene radici e conseguenze.
«In questo viaggio, partiamo dall’insegnamento della religione cattolica all’interno della scuola pubblica - suggerisce Mario Staderini -. Si tratta di un privilegio concesso dallo Stato in base al Concordato, una norma di favore riservata alla sola Chiesa cattolica con cui si fa della scuola uno strumento di promozione di una confessione religiosa, peraltro discriminando tutte le altre».
Come si traduce in concreto?
Lo Stato è obbligato ad inserire l’insegnamento della religione cattolica all’interno dell’orario scolastico, e paga i docenti. Oggi sono circa 20mila ed è il vescovo a designarli, rilasciando (e revocando) il certificato d’idoneità in virtù di un giudizio etico e morale. C’è, dunque, un potere di controllo nei confronti di dipendenti statali da parte della diocesi e della Cei, la Conferenza episcopale, che dà le direttive.
L’intesa firmata nel 2003 fra ministero e Cei ha aggravato questa situazione?
Si è consentito alla Cei di fissare gli obiettivi dell’insegnamento, controllandone così i contenuti. Negli ultimi anni è in corso una vera e propria deriva clericale. Dopo numerosi tentativi di eludere la facoltatività dell’ora di religione, sono state approvate leggi unilaterali, come quella varata dal governo Berlusconi per l’immissione in ruolo degli insegnanti di religione. Ne sono già stati inseriti 10mila e si arriverà a 15.383 entro l’anno prossimo. Ma il Concordato non prevedeva nulla del genere.
E con quali costi per lo Stato?
Non c’è ancora una stima precisa, ma lo si può facilmente calcolare considerando uno stipendio medio di 2mila euro lordi: moltiplicato per 20mila si arriva a 500 milioni di euro a carico dello Stato ogni anno. Questo solo per gli insegnanti, senza contare il valore e le spese per le strutture.
Gli insegnanti di religione entrano nei consigli di classe. Quanto incide il loro giudizio?
Con la riforma Moratti si tenta di equiparare anche il valore didattico, inserendo la valutazione in pagella. I sindacati denunciano che, da qui al 2008, ogni tre docenti assunti dalla scuola pubblica, uno sarà di religione. La loro immissione in ruolo, poi, apre scenari paradossali: ammettiamo che non venissero più giudicati idonei all’insegnamento e revocati dal vescovo, perché divorziati o perché, supponiamo, hanno votato sì al referendum sulla fecondazione assistita, essendo di ruolo, passerebbero a insegnare quelle materie umanistiche in cui la loro formazione confessionale giocherebbe un preciso peso.
Già adesso nell’ora di religione non si studiano le crociate o la controriforma, spiegandone il peso storico.
Si studiano i Vangeli, la figura di Gesù e la vita della Chiesa cattolica, mentre le altre confessioni religiose sono considerate solo in rapporto subalterno a quella cattolica. È un insegnamento confessionale proprio perché segue un preciso carattere religioso e identitario. Ad esempio, tra gli obiettivi specifici stabiliti nell’Intesa vi è quello di far “comprendere che il mondo è opera di Dio”.
Con la riforma Moratti il pensiero religioso impronta i programmi di più materie?
Indubbiamente c’è un tentativo. Lo stesso Cardinal Ruini, nel messaggio di saluto per i nuovi insegnanti di religione di ruolo, disse esplicitamente che quello era il primo passo per far uscire l’insegnamento della religione cattolica da un ruolo marginale nella scuola pubblica, ed assumere finalmente un ruolo determinante nella crescita globale dei bambini e dei ragazzi. Un obiettivo che ha trovato appoggio nelle scelte del ministro Moratti e di una lunga serie di ministri cattolici che l’hanno preceduta. Gli strumenti utilizzati sono l’ora di religione, il codice deontologico dei docenti affidato al cardinal Tonini, l’ostracismo alla storia precristiana e all’evoluzionismo in biologia, così come la presenza di riti religiosi cattolici che ancora si celebrano, a vario titolo, nelle scuole pubbliche italiane. Un aumento di imput confessionali, dunque, a fronte invece di una quasi totale scomparsa dell’insegnamento dell’educazione civica. Non c’è poi da stupirsi se nel paese si va perdendo il senso civico e istituzionale, la conoscenza stessa dell’istituto referendario ad esempio, mentre aumenta, complice lo strapotere mediatico, l’attenzione ai messaggi criminalizzanti su aborto e fecondazione assistita delle gerarchie vaticane e delle associazioni integraliste. La scuola ha una precisa responsabilità.
In questo quadro, allora, è tanto più grave il finanziamento concesso dallo Stato alle scuole private cattoliche.
Al meeting di Comunione e liberazione dell’agosto 2001, il ministro Moratti affermò che non deve più esistere il monopolio pubblico dell’istruzione. Personalmente non avrei pregiudizi rispetto all’affidamento anche a soggetti privati del servizio pubblico scolastico. Il problema è che la libertà di insegnamento, negata nella scuola pubblica agli insegnanti di religione, è ancor più compressa nelle scuole confessionali. Finanziare le scuole private, in Italia, significa finanziare soprattutto le scuole cattoliche, di qui la strumentalità di questi provvedimenti. Nel 2004, il finanziamento pubblico alle scuole non statali, introdotto nel 2000 dal governo D’Alema, è stato di 527 milioni di euro. L’esenzione dall’Ici disposta dall’ultima legge finanziaria è un ulteriore tassello di una strategia per fare delle
scuole cattoliche private delle scuole d’élite, in cui formare le future classi dirigenti del paese. Ma anche nell’università la situazione è privilegiata.
In che senso?
L’articolo 10 comma 3 del Concordato stabilisce che le nomine dei docenti dell’Università cattolica del Sacro Cuore (che gode di finanziamenti pubblici) siano subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica. Ciò significa vincoli per i professori ed una formazione particolare per gli studenti, della facoltà di medicina ad esempio; non senza conseguenze esterne: basti pensare che il Policlinico Gemelli è parte integrante della Università Cattolica. La messa sotto tutela dell’insegnamento, dell’università e della ricerca ha sempre una ricaduta sulla vita pubblica e dei cittadini. Tanto che l’Italia si colloca agli ultimi posti nell’utilizzo della terapia del dolore, nelle garanzie per i cittadini rispetto ai medici obiettori, mentre anche l’utilizzo della Ru486 è pervicacemente ostacolato. E dal 2004 ci ritroviamo con la legge sulla fecondazione assistita più proibizionista del mondo.
Ma il paese reale si ha la sensazione non sia poi così cattolico integralista come la Cei.
Infatti. Il filosofo cattolico Pietro Prini, in un suo libro, parla di “scisma sommerso” per descrivere la distanza tra la dottrina ufficiale e la coscienza dei fedeli. Ma non è detto che, con il ripetersi di politiche e strategie clericali, la distanza non si riduca.
E in Europa, c’è qualche paese che viva una situazione come quella italiana?
Sul fronte scolastico, la riforma di Zapatero sta liberando la scuola pubblica spagnola da influenze confessionali; in Germania è ancora forte la dimensione pubblica della Chiesa, così come in Portogallo. L’ Inghilterra, dove la religione anglicana è religione di Stato, ci fornisce un modello opposto: lo Stato non dà un penny alla Chiesa. Stati “a rischio”, per cosi dire, sono i nuovi paesi della Ue, specie quelli dell’ex Urss e dell’ex Jugoslavia. Il Vaticano, infatti, da anni sta conducendo una politica neoconcordataria con l’obiettivo di ottenere il riconoscimento di norme speciali.
Attraverso il meccanismo dell’ 8 per mille si finanziano le scuole religiose?
Non tutte. Con i fondi dell’8 per mille vengono finanziate facoltà teologiche e istituti di scienze religiose, nonché associazioni cattoliche come Age e Agesci, che ritroviamo poi presenti nelle commissioni ministeriali. Complessivamente, con l’8 per mille, 1 miliardo di euro finisce ogni anno nelle casse della Cei, nonostante oltre il 60 percento dei contribuenti italiani non esprima alcuna volontà in tal senso. Chi non firma l’apposito modulo, infatti, si vede prelevato comunque l’8 per mille delle sue imposte e destinato alla Cei in base alla percentuale delle scelte espresse dalla minoranza di italiani che hanno firmato. Insomma, una questione di ignoranza indotta.
La Stampa, 19.12.05
L’ITALIA INCAPACE DI SOSTENERE LA NATALITÀ
Mamme sfavorite, culle vuote
di Chiara Saraceno
L’Italia è un paese in cui esiste un clima fortemente sfavorevole alla maternità, a tutti i livelli. È quanto emerge chiaramente da una recentissima ricerca effettuata dall’Istat per la Commissione Parità Uomo Donna.
In primo luogo, l’Italia rimane un Paese in cui la divisione del lavoro e delle responsabilità tra uomini e donne, tra padri e madri, rimane fortemente asimmetrica. Una moglie-madre occupata svolge oltre il 78% di tutto il lavoro domestico e di cura per la sua famiglia, aggiungendo così diverse ore di lavoro non pagato a quelle di lavoro pagato. Nonostante i padri giovani oggi dedichino più tempo ai figli che una decina di anni fa, si tratta di un aumento molto contenuto (16 minuti al giorno in più in 14 anni), che lascia intatte le responsabilità delle madri. A distanza di cinque anni dalla approvazione della legge che lo consente, sono ancora molto pochi i padri che prendono un periodo di congedo di paternità. Spesso sono loro a non volerli chiedere. Ma spesso sono i datori di lavoro a scoraggiarli vivamente dal farlo: secondo i dati rilevati dall’Osservatorio sulla famiglia nella Pubblica Amministrazione, a 77 mila padri è stato negato l'utilizzo del congedo.In secondo luogo, i servizi, specie per la primissima infanzia, sono largamente insufficienti e costosi. È vero che negli ultimi anni vi è stato un forte aumento della offerta di nidi, che oggi accolgono il 15% dei bambini nella fascia di età 0-2 anni. Si tratta tuttavia di un aumento ancora lontano dal fabbisogno, dato che oltre il 50% delle mamme di bambini di quella età è occupata. Ed è dovuto quasi tutto all’aumento di offerta di nidi privati. Questi ultimi sono notoriamente molto più costosi di quelli pubblici; e soprattutto le loro rette non mutano con il reddito dei genitori. La frequenza a un nido privato in una città come Torino può costare fino a seimila euro l’anno: quasi dieci volte la cifra massima che la legge finanziaria 2006 prende in considerazione a fini di detrazione fiscale e sei volte l’ammontare del bonus una tantum per i neonati. E rimane il problema delle vacanze, sempre più lunghe delle ferie, delle malattie e così via. Se non ci fossero le nonne, molte madri non riuscirebbero proprio a stare sul mercato del lavoro. E anche così, la partecipazione al mercato del lavoro crolla quando le donne hanno un figlio: sono occupate l’87% delle giovani nubili, il 55% delle loro coetanee con figli.Per altro, le nonne disponibili a tempo pieno stanno diventando una risorsa scarsa: sia perché loro stesse si troveranno sempre più spesso nel mercato del lavoro; sia perché dopo lunghi anni di accudimento della famiglia, inclusi gli anziani fragili, anche le nonne desiderano un po’ di tempo per sé. Non stupisce allora del tutto che le madri delle giovani donne oggi non siano poi così favorevoli a che le loro figlie facciano un figlio in più: ne conoscono i costi per le loro figlie, ma forse anche ne temono i costi per sé. In ogni caso, anche dentro la cerchia familiare le giovani donne, lungi dallo sperimentare una pressione culturale alla maternità, come era successo ancora alle loro madri, oggi sperimentano piuttosto resistenze, avvisi di cautela.
È soprattutto nel mercato del lavoro che il clima è particolarmente sfavorevole alla maternità. Gli orari di lavoro sono rigidi e l'utilizzo della flessibilità «amichevole» poco diffuso. L’offerta di part time, ancorché cresciuta, continua a essere molto ridotta rispetto agli altri paesi. Allo stesso tempo, la diffusione del contratti di lavoro atipici impone il part time a donne che viceversa desidererebbero lavorare a tempo pieno. E in generale le esclude di fatto o di principio da quegli istituti (congedi, servizi aziendali) che sostengono le madri nel difficile esercizio di conciliare le loro diverse responsabilità. Quando rigidità degli orari di lavoro e della divisione del lavoro in famiglia si sommano, il sovraccarico e la tensione appaiono quasi insopportabili. È il caso ad esempio delle operaie dell’industria, ma anche delle lavoratrici autonome nel commercio.
Accanto alle piccole e grandi vessazioni che molte donne sperimentano sul luogo di lavoro quando diventano madri, continuano, infine, a verificarsi casi di interruzioni del lavoro o di licenziamenti/dimissioni di donne in gravidanza, soprattutto, ma non solo, al Sud. È inutile fare proclami sulla necessità di sostenere la natalità, se nulla si fa per incidere sulle condizioni che rendono così sfavorevole il contesto in cui le donne - e di conseguenza le coppie - compiono le proprie scelte di avere o meno un figlio, e soprattutto di averne uno in più.
Corriere della Sera, 28.12.05
Un’iniziativa Microsoft
Alla ricerca della memoria perfetta
Da quattro anni Gordon Bell registra su supporti digitali ogni istante della propria vita. Per non dimenticare nulla
SAN FRANCISCO (Stati Uniti) – Gordon Bell ha 71 anni. Ma, a differenza di molti suoi coetanei, non deve preoccuparsi della progressiva perdita di memoria connessa all’età. Della sua vita, il buon Gordon non dimenticherà proprio nulla. Grazie alle tecnologie digitali ogni singolo pezzo della sua esistenza è infatti registrato e conservato su MyLifeBits, un database del Microsoft's Bay Area Research Centre, dove Bell lavora come ricercatore.
A SPASSO CON IL GPS – Per registrare la massima quantità possibile di informazioni su se stesso lo scienziato gira il mondo equipaggiato di una mini fotocamera digitale che scatta una foto al minuto, indossa alcuni sensori in grado di captare differenze di luce e di calore e di tenere traccia del dato, non dimentica mai di portare con sé registratori che non si perdono nemmeno una conversazione mentre tutti i suoi spostamenti, ovviamente, sono seguiti tramite un dispositivo Gps. Una vera vita a prova di oblio, in cui Bell è immerso dal 2001, da quando prese la decisione di sottoporsi come cavia ad un progetto che tenta di mettere in pratica il sogno, tipico dell’era digitale, della memoria infinita
QUANTO E’ GRANDE UNA VITA? - In quasi cinque anni di un’esistenza, che tanto assomiglia a quella descritta da Steven Spielberg nel film Minority Report, Bell ha inserito nel proprio database la bellezza di 1.300 video, 5.067 file audio, 42 mila fotografie digitali, 100 mila e-mail, 67 mila pagine web. Più recentemente, l’archivio digital-esistenziale dello scienziato si è arricchito di dati riguardanti la sua salute, dalle calorie ai battiti del cuore. Ma quanto è grande, digitalmente parlando un’esistenza individuale? Secondo i ricercatori della società di Bill Gates, tutte le informazioni di una vita possono trovare posto in un terabyte di memoria (mille miliardi di byte). A patto, però, di escludere i video. Nel caso fossimo spinti dal desiderio di tenere una cronaca visuale della nostra esistenza ci vorrebbero altri 200 terabyte di memoria.
RISCHI E APPLICAZIONI - Dal punto di vista di Microsoft l’aspetto più interessante del progetto è quello di trovare un sistema intelligente ed efficiente di organizzare questa sterminata massa di frammenti di vita personale. Una sfida che non serve solo a spingere più in là i limiti dell’informazione ma potrebbe avere applicazioni anche in medicina. Un simile esperimento è attualmente condotto in un piccolo gruppo di pazienti affetti da malattie degenerative del cervello.
Raffaele Mastrolonardo
Corriere della Sera, 28.12.05
L'Udienza generale davanti a 30 mila fedeli
«Dio posa il suo sguardo sull'embrione»
Il Papa: «Le piccole creature umane non nate sono formate dalle mani del Signore e circondate dal suo amore».
ROMA - «Gli occhi amorevoli di Dio si rivolgono all'essere umano, considerato nel suo inizio pieno e completo». Anche se «ancora informe nell'utero materno», «l'embrione è una piccola realtà ovale, arrotolata, ma sulla quale si pone già lo sguardo benevolo e amoroso degli occhi di Dio».
Benedetto XVI riprende il ciclo di catechesi durante l'udienza generale del mercoledì e, di fronte ad oltre 30mila fedeli, affronta il tema dell'embrione e «dell'azione divina all'interno del grembo materno», un «capolavoro che è la persona umana, pur percossa e ferita dalla sofferenza».
Parlando dell'embrione, il Papa ha sottolineato come «è vero, sono imperfetti e piccoli, tuttavia per quanto riescono a comprendere, amano Dio e il prossimo e non trascurano di compiere il bene che possono».
Dunque, «anch'essi - spiega il Papa - contribuiscono, pur collocati in posto meno importante, all’edificazione della Chiesa, poiché, sebbene inferiori per dottrina, profezia, grazia dei miracoli e completo disprezzo del mondo, tuttavia poggiano sul fondamento del timore e dell'amore».
«Estremamente potente - ha aggiunto il Pontefice - è l'idea che Dio di quell’embrione ancora informe veda già tutto il futuro: nel libro della vita del Signore già sono scritti che quella creatura vivrà e colmerà di opere durante la sua esistenza terrena».
Corriere della Sera, 28.12.05
«Si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie»
Storace: «Rivedere la legge 180»
Il ministro della Salute: «Dopo 30 anni andrebbero ripensati alcuni aspetti». I verdi: «Per fortuna la legislatura è al termine»
ROMA - «Credo che sia giunta l'ora di mettere mano alla legge 180 (quella sui manicomi ndr), perché si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie. Non metto in discussione l'impalcatura della legge, probabilmente ci sono cose che trent'anni dopo vanno ridiscusse». Lo ha detto il ministro della salute Francesco Storace a margine dell'insediamento del presidente della Croce Rossa Italiana Massimo Barra.
CONTRARI I VERDI - «Per fortuna il Governo ha i giorni contati ed i propositi di Storace di rivedere la 180 non possono essere realizzati, ma quello che preoccupa è il nuovo tentativo di speculare sul dolore di migliaia di persone che si confrontano con il disagio mentale con l'obiettivo di rimettere in discussione la legge 180, conquista basilare della moderna psichiatria, secondo gli insegnamenti di Basaglia», ha affermato il coordinatore della segreteria dei Verdi, Paolo Cento, che ha aggiunto: «Il problema non è tornare al manicheo scontro tra basagliani e tobiniani, ma andare avanti ed estendere il sostegno alle famiglie che soffrono questo disagio, potenziare le strutture residenziali pubbliche e private e la loro integrazione nel territorio come peraltro prevede una proposta di legge avanzata proprio dai Verdi».
PERPLESSI GLI PSICHIATRI -È «fondamentale mettere mano alle attuali disfunzioni del sistema, attraverso progetti-obiettivo mirati, piuttosto che pensare ad un intervento sulla legge 180». È questa l'opinione del presidente della Società italiana di psichiatria (Sip) Carmine Munizza che, commentando l'annuncio del miniastro della Salute Francesco Storace circa l'intenzione di «mettere mano alla 180», ha rilevato come «non sarà certamente una nuova legge a garantire che i servizi nel settore della psichiatria funzionino». La legge Basaglia sulle malattie mentali, ha affermato Munizza, «è una legge di civiltà e di principio». Quanto alla volontà di rivederla espressa dal ministro Storace, Il presidente Sip avanza delle riserve: «Il punto - ha spiegato - è sicuramente quello di migliorare la qualità dei servizi; questo, però, non lo si fa toccando la legge, bensì stabilendo un nuovo progetto-obiettivo. L'ultimo - ha precisato - è scaduto nel 2000 e per questo riteniamo urgente l'emanazione di un nuovo progetto per dare risposta alle esigenze dei tempi». Insomma, una nuova legge, secondo Munizza, «sarebbe inutile, mentre più sensato sarebbe realizzare progetti mirati e prevedere magari dei commissari per le Regioni che non dovessero applicarli». Così come totale, ha ricordato il presidente Sip, è l'opposizione alla proposta di legge Burani che mirava appunto ad una riforma della 180: «In questo caso - ha concluso Munizza - non si faceva altro che riproporre sotto altre vesti il vecchio modello manicomiale».
ASSOCIAZIONI DIVISE - Le associazioni dei familiari dei pazienti psichiatrici si dividono dopo l'annuncio da parte del ministro della Salute Francesco Storace di «mettere mano alla legge 180»: positivo il commento dell'Arap (Associazione per la riforma dell'assistenza psichiatrica), una delle maggiori associazioni dei familiari dei malati di mente che da oltre 20 anni si batte per la revisione della 180, mentre per l'Unione nazionale delle associazioni per la salute mentale Unasam l'idea di ritoccare la legge è «una sciocchezza» probabilmente motivata da «ragioni elettorali». L'Arap ha affermato di «salutare con gioia» la notizia che il ministro Storace ha annunciato l'intenzione di provvedere a una revisione della legge 180 che «assicuri alle famiglie la sicurezza personale e l'aiuto cui hanno diritto». «La legge 180, descritta dai suoi fautori come la più avanzata del mondo - ha commentato l'associazione - secondo i familiari dei malati ha spesso lasciato nell'abbandono i malati stessi e le famiglie, aprendo così la strada ad una ridda di violenze che ha prodotto, a tutt'oggi, varie migliaia di vittime tra i congiunti dei malati e molte centinaia di suicidi tra i malati stessi». L'Arap ha assicurato dunque al ministro la «piena collaborazione dei familiari affinchè, alle assicurazioni verbali da lui formulate, segua una riforma concreta e rapida della legge psichiatrica, concordata anche con le famiglie». Sicuramente, ha spiegato Emilio Covino dell'Arap, «non si pensa neppure lontanamente alla riapertura di strutture manicomiali, bensì a garantire il funzionamento di strutture adeguate all'interno degli ospedali. Altro punto - ha aggiunto - è poi quello di prevedere anche l'obbligatorietà di cura per i malati gravi non consenzienti, una situazione che oggi mette spesso le famiglie in gravissima difficoltà». Definisce invece una «sciocchezza» l'idea di mettere mano ala legge 180 il presidente onorario dell'Unasam Ernesto Muggia: «Si tratta di una stupidaggine - ha detto - soprattutto a un mese dalla scadenza delle Camere, una manovra elettorale». Secondo Muggia, infatti, «non ha senso andare a modificare la legge 180 che è una legge quadro e che, addirittura precorrendo i tempi, riconosce alle Regioni l'autonomia nell'organizzazione dei servizi di salute mentale, stabilendo semplicemente dei principi base». Dunque, è la posizione dell'Unasam, «va semplicemente messo in atto ciò che la legge prevede, ovvero servizi territoriali diffusi che oggi non sono assolutamente adeguati alle esigenze. Il punto - ha concluso Muggia - è che i servizi di salute mentale vanno finanziati meglio e, soprattutto, vanno garantiti su tutto il territorio nazionale».
Le Scienze, 26.12.05
Un microRNA regola la durata della vita
I geni che controllano la tempistica della formazione degli organi durante lo sviluppo governano anche il momento della vecchiaia e della morte e forniscono le prove dell'esistenza di un meccanismo biologico di invecchiamento. Lo rivela uno studio pubblicato sulla rivista "Science".
"Nonostante esista una grande variazione nella durata della vita da specie a specie, - commenta il biologo Frank Slack, uno degli autori dello studio - i processi dello sviluppo e dell'invecchiamento condividono alcuni aspetti genetici. Utilizzando l'organismo modello C. elegans. un verme molto semplice ma geneticamente ben studiato, abbiamo identificato i geni coinvolti direttamente nella determinazione della lunghezza della vita. Gli esseri umani possiedono geni quasi identici a questi".
Un microRNA e il gene dello sviluppo che esso controlla, lin-4 e lin-14, influenzano gli schemi di sviluppo cellulare a stadi molto specifici. Slack e colleghi dell'Università di Yale hanno scoperto che le mutazioni di questi geni alterano sia la durata delle fasi dello sviluppo sia la longevità dei vermi.
Per determinare la loro funzione, i ricercatori hanno prodotto organismi con versioni mutate di entrambi questi geni. Gli animali con una versione non funzionante di lin-4 presentavano una durata della vita significativamente più breve rispetto al normale. Quelli con una versione sovraespressa di lin-4, al contrario, tendevano a vivere di più. Una perdita di funzione di lin-14, il target di lin-4, causava invece l'effetto opposto: una longevità superiore del 31 per cento.
Secondo Slack, questi risultati sono le prove dell'esistenza di un "orologio biologico intrinseco" che governa l'invecchiamento così come il normale sviluppo degli organi. Lo studio dimostra che i programmi di sviluppo regolati da questi geni vengono modulati attraverso la segnalazione di insulina, dimostrando la connessione fra il metabolismo dell'insulina e la vecchiaia.
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Le Scienze, 25.12.05
L'origine dell'usanza dei doni
Anche nelle società primitive era presente l'altruismo
Uno studio di prossima pubblicazione sul numero di febbraio 2006 della rivista "Current Anthropology" esamina le origini dell'usanza di fare doni in occasione delle festività e rivela che anche i membri delle società primitive erano frequentemente altruistici.
"La reciprocità - spiega Michael Gurven dell'Università della California di Santa Barbara - è probabilmente la base fondamentale della cooperazione fra gli esseri umani. Una delle caratteristiche centrali della reciprocità è la relazione contingente fra l'atto del dare e quello del ricevere in un ambito sociale. La contingenza è importante, perché stabilisce le regole per definire chi imbroglia in una relazione di scambio".
Lo studio, che rappresenta un tentativo rigoroso di quantificare l'estensione di differenti forme di vantaggio nelle relazioni di scambio, potrebbe risultare fondamentale per mettere la parola fine ad annosi dibattiti sulla funzione dell'altruismo nelle società di cacciatori-raccoglitori. Le forme strette di contingenza richiedono il meccanismo del "do ut des", mentre le forme più indulgenti enfatizzano l'importanza dei contributi relativi di ciascuno. Gurven ha esaminato gli scambi di cibo in due società non commerciali su piccola scala, un contesto classico per comprendere l'evoluzione della cooperazione condizionata negli esseri umani.
"Senza un qualche tipo di guadagno, - afferma - l'altruismo può essere un comportamento molto costoso nelle piccole società che si sostengono con cibi selvatici. Questo studio dimostra che in effetti le persone condividono più risorse con coloro che a loro volta sono disposti a donarle. Ma le famiglie che non possono produrre molto cibo, i parenti prossimi e i vicini talvolta ricevono più di quello che danno".
Michael Gurven, "The Evolution of Contingent Cooperation." Current Anthropology 47:1.
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Le Scienze, 25.12.05
La civiltà è scritta nei geni
Le impronte dell'evoluzione sono osservabili su tutto il genoma umano
Uno sguardo dettagliato al DNA dell'uomo ha rivelato che una percentuale significativa dei nostri geni è stata plasmata dalla selezione naturale negli ultimi 50.000 anni, probabilmente in risposta ad aspetti della cultura umana moderna come la nascita dell'agricoltura e lo spostamento verso insediamenti più densamente popolati.
Uno dei modi per cercare i geni che sono stati cambiati recentemente dalla selezione naturale è quello di studiare i polimorfismi di singolo nucleotide (SNP), differenze di una sola lettera nel codice genetico. Il metodo consiste nel cercare coppie di SNP che si verificano più spesso di quanto ci si attenderebbe se fossero dovute al rimescolamento genetico casuale e inevitabile di generazione in generazione. Queste correlazioni sono note come "linkage disequilibrium" (associazioni alleliche non preferenziali), e possono verificarsi quando la selezione naturale favorisce una particolare variante di un gene, selezionando contemporaneamente anche il SNP vicino.
Robert Moyzis e colleghi dell'Università della California di Irvine hanno cercato queste associazioni in una raccolta di 1,6 milioni di SNP sparsi in tutti i cromosomi umani. Hanno studiato con attenzione tutte le mutazioni cercando di distinguere le conseguenze della selezione naturale da altri fenomeni, come inversioni casuali di segmenti di DNA. L'analisi, descritta in un articolo pubblicato sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences", suggerisce che circa 1800 geni, il 7 per cento del totale del genoma umano, siano cambiati negli ultimi 50.000 anni sotto l'influenza della selezione naturale. Una seconda analisi con un altro database di SNP ha fornito risultati simili. Si tratta quasi della stessa proporzione di geni del mais alterati da quando gli esseri umani hanno modificato la pianta a partire dai suoi antenati selvatici.
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Le Scienze, 20.12.05
La divergenza fra umani e scimpanzé
La separazione sarebbe avvenuta fra 5 e 7 milioni di anni fa
Un gruppo di ricercatori ha proposto nuovi limiti per il periodo in cui sarebbero vissuti gli antenati comuni più recenti degli esseri umani e dei loro parenti più prossimi, gli scimpanzé. Gli scienziati dell'Arizona State University e della Pennsylvania State University hanno posizionato il momento della separazione fra i 5 e i 7 milioni di anni fa, una finestra molto più stretta di quelle fornite dai precedenti studi molecolari e dalle ricerche sui fossili, che si limitavano a indicare un periodo compreso fra i 3 e i 13 milioni di anni fa.
Sudhir Kumar e colleghi hanno analizzato il più ampio set disponibile di dati sui geni che codificano per proteine e hanno usato un nuovo approccio computazionale da loro sviluppato, che tiene maggiormente conto della variabilità - o dell'errore statistico - nei dati rispetto agli studi precedenti. Per affrontare il problema è necessario studiare i geni perché l'interpretazione dei primi fossili di umani al confine fra uomo e scimmia è tuttora controversa. Inoltre non è stato trovato quasi nessun fossile di scimpanzé. "Nessuno - spiega Kumar - aveva finora tenuto conto di tutti gli errori nella stima del tempo con il metodo dell'orologio molecolare". Lo studio è stato pubblicato online sulla rivista "Proceedings of the National Academy of Sciences".
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AprileOnLine, 24.12.05
Tutte le donne del presidente
Stati Uniti. Dalle signore di guerra a quelle della politica a stelle e strisce. Il 2005 Condi Rice, Harriet Miers e Karen Hughes
di Stefano Rizzo
Il 2005 non è stato un buon anno per le donne americane. Non ci riferiamo al fatto che, come in molti altri paesi del mondo, anche in America il loro reddito pro capite continua ad essere più basso di quello degli uomini di almeno il 30 per cento, né che costituiscono la maggioranza delle vittime della violenza, in guerra e in pace, né che le decisioni più importanti riguardo alla loro vita sessuale o riproduttiva vengono prese da altri (padri, mariti, preti, rabbini, imam). Tutto questo avviene da sempre e non sembra destinato a diminuire nel prossimo futuro.
Ci riferiamo piuttosto alle donne "famose", a quelle che sono assurte agli onori (o al disonore) della cronaca per i più svariati motivi. Innanzitutto le donne in guerra. Qui sembra che esse abbiano ormai raggiunto una invidiabile parità con i loro commilitoni maschi. Come dimenticare le torturatrici di Abu Ghraib: Sabrina Harman, la biondina dal sorriso ammaliante, Lynndie England, la brunetta con la simpatica zazzera, la soldatessa semplice Megan Ambuhl, la generalessa comandante del carcere Janis Karpinski, la comandante dell'intelligence militare Barbara Fast -- tutte all'altezza dei loro compagni maschi e forse anche in percentuale superiore alla loro? E' vero che gli eventi di cui parliamo si riferiscono al 2004, ma le poche miti condanne e le molte assoluzioni e proscioglimenti sono stati decisi nel corso di questo 2005 A queste signore si è aggiunta di recente la tenente colonnello Debra Harrison, attualmente agli arresti per avere preso bustarelle e regali vari (tra qui una cadillac e una piscina) per un importo superiore al milione di dollari da varie ditte incaricate della ricostruzione in Iraq. Sciocchezze in confronto ai miliardi lucrati dalla Halliburton del vicepresidente Cheney o dall'influente membro repubblicano della commissione difesa Cunningham, ma si tratta pur sempre della prima volta di una donna presa con le mani nel sacco lucroso delle forniture militari.
Ci sono poi le donne in politica. E qui c'è da mettersi le mani nei capelli (non in quelli, dio ci scampi, di Condi Rice, sempre assolutamente in piega). Nessuno si immaginava che la volitiva signora, una volta divenuta segretario di stato, si sarebbe trasformata in una liberal pacifista. Dopotutto era stata lei nella sua qualifica di consigliere per la sicurezza nazionale ad avvalorare le inesistenti ragioni della guerra e approvare i metodi spicci per trattare con i combattenti catturati. Era tuttavia difficile prevedere che inanellasse un così elevato nulero di gaffes e di errori diplomatici quanti ne ha accumulati nel corso del 2005. Dall'infelice battuta, di fronte alle migliaia di negri abbandonati a sé stessi nell'inferno di New Orleans, che "il razzismo in America non è più che un fenomeno residuale", fino alle recentissime dichiarazioni sulle torture, le carceri segrete e i rapimenti di presunti terroristi che hanno fatto infuriare le cancellerie europee. Nonostante le umili condizioni di partenza, grazie alla sua intelligenza, alla determinazione, all'enorme capacità di lavoro e al sacrificio della propria vita privata la Rice ha potuto raggiungere un ruolo politico che poche donne al mondo hanno mai avuto. Ma proprio per questo risulta incomprensibile come abbia potuto piegarsi con così totale adesione al volere del suo presidente e della "cricca" (il termine è di un repubblicano influente, Brent Snowcroft) di potere che lo circonda.
Diverso è il caso di Harriet Miers, diverso e patetico. Una fulgida carriera all'ombra di George W. Bush, da un oscuro incarico di responsabile della commissione del lotto dello stato del Texas a consigliere personale del presidente e poi capo del suo ufficio legale, in pratica incaricata di filtrare ogni decisione riguardante la politica della giustizia e le numerose nomine di giudici federali e della corte suprema. Anche in questo caso non si può imputare alla signora Miers di avere cambiato casacca, da democratica a repubblicana, né religione, da cattolica a evangelica. Né le si può imputare l'assenza di cultura giuridica, a parte il fatto che è stata presidente degli avvocati della città di Houston. Ciò che lascia stupefatti è il grado di piaggeria, di subalternità, nei confronti del presidente da risultare imbarazzante perfino per coloro che appartengono alla sua parte politica. Il quale presidente l'ha contraccambiata con pari sprezzo delle istituzioni nominandola giudice della corte suprema per poi essere costretto a ritirare la candidatura di fronte alla critiche infuriate piovute da ogni dove.
Appena merita di essere menzionata un'altra amica di vecchia data di George W. e della moglie Laura, Karen Hughes, premiata dal presidente per essergli stata accanto in tutte le canpagne elettorali e nella vita familiare. La signora Hughes è stata nominata sottosegretaria agli esteri (vice della Rice) con il delicato e importantissimo compito di risollevare l'immagine alquanto appannata degli Stati Uniti nel mondo. La cosiddetta "public diplomacy" condotta da una mamma e da una donna di casa doveva avere particolare effetto presso il pubblico femminile del mondo islamico. Ma così non è stato e in una sfortunata serie di viaggi in Turchia, Arabia Saudita e Libano la Hughes è stata contestata proprio dalle donne islamiche che le hanno ricordato che il modo migliore per rispettarle consiste innanzitutto nel non ammazzare, imprigionare e torturare loro e i loro figli.
(Di fronte agli insuccessi della Hughes deve avere gongolato il virile ministro della difesa Rumsfeld che, per parte sua, ha lanciato un più segreto programma di public diplomacy, comperando giornalisti iracheni, finanziando testate giornalistiche e reti televisive per magnificare le virtù della democrazia occidentale portata sulle canne dei fucili.)
Ma poiché non si pensi che ce la prendiamo solo con le donne repubblicane ricordiamo la più illustre democratica, Hillary Rodham Clinton, la futrura candidata (forse) alla presidenza degli Stati Uniti. La quale sta facendo di tutto per fare capire agli elettori di destra che non rischiano nulla con una donna come lei: non rischiano il pacifismo, non rischiano l'aborto, non rischiano i privilegi dei ricchi. Sarebbe lungo fare l'elenco delle posizioni «rassicuranti» assunte recentemente dalla signora Clinton; basti ricordare l'ultima proposta di legge da lei presentata sulla bandiera nazionale. Fin dai tempi del Vietnam la Corte suprema aveva più volte sentenziatoi che bruciare la bandiera in pubblico è una manifestazione costituzionalmente protetta della libertà di espressione. Ora la Clinton vuole porre fine a questo permissivismo e mandare in galera chi brucia la bandiera a stelle e strisce, anche se da svariati anni nessuno più l'ha fatto.
Di fronte a questo elenco di cattivi esempi al femminile qualcuno dirà: e allora? Cosa ti aspettavi? Perché mai le donne dovrebbero essere migliori degli uomini? Non sai che via via che le donne conquistano posizioni di influenza o di potere, che diventano più uguali, si comportano esattamente come i loro compagni maschi? Come loro potranno essere sadiche e ladre, ciniche e opportuniste – questo è appunto il significato di uguaglianza; non si è uguali solo nel bene, ma anche nel male.
A questa obbiezione si potrebbe rispondere che invece qualcuno, anzi moltedi coloro che hanno fatto la storia del femminismo hanno creduto, sperato e lottato perché con il miglioramento della condizione femminile migliorasse anche la qualità etica della società: una società più femminile – dicevano – sarebbe stata anche una società meno aggressiva, meno competitiva, più attenta ai bisogni della vita di tutti i giorni, alla cura delle persone, dei deboli, dei malati. Insomma una società più uguale è anche una società più giusta.
E allora, come augurio di Natale per tutti noi, uomini e donne, vogliamochiudere ricordando due donne la cui vita, a differenza di quelle fin qui citate, contiene una speranza per il futuro. Due donne diversissime, una bianca e una nera, una giovane e una molto anziana, una morta in modo improvviso e violento, l'altra serena nel suo letto. La
prima è Marla Ruzicka uccisa ad aprile a Baghdad nello scoppio di una bomba. Marla si trovava in Iraq per assistere le vittime dei bombardamenti; lo faceva già da due anni senza concedersi un giorno di riposo e per farlo aveva lasciato la sua vita agiata di ricca californiana. L'altra è Rosa Parks, la donna nera che mezzo secolo fa « vinse una battaglia stando seduta », rifiutandosi cioè di lasciare il suo posto sull'autobus ad un uomo bianco. Con il suo rifiuto Rosa dette nuova vita al movimento per i diritti civili; senza di lei donne come Condoleezza Rice e uomini come Colin Powell non avrebbero mai potuto occupare i posti che, nel bene e nel male, hanno occupato. Rosa e Marla: dopotutto ci sono almeno due donne da ricordare per il 2005, due eroine che fanno sperare.
AprileOnLine, 23.12.05
La Digos di Torino ferma un gruppo di femministe. Avevano manifestato in difesa della 194
Laicità. Riesumato il reato di ''vilipendio alla religione'' per una protesta nei pressi della Curia. Un vecchio slogan sembra tornato d'attualità: ''Tremate, tremate le streghe son tornate''
Roberto Mastroianni
Molti credevano che il femminismo fosse morto, e molti altri che il Medioevo fosse finito. Tutte e due le ipotesi vengono smentite dalla cronaca.
Mercoledì 21 dicembre 2005 un gruppo di studenti universitari, alcuni ragazzi dei Collettivi e dei Centri sociali hanno affisso due striscioni fucsia ai lati del portone di ingresso della Curia torinese. Sugli striscioni era scritto: “Più autodeterminazione, meno Vaticano” e “Poletto (Arcivescovo e Cardinale di Torino n.d.r.) stai zitto l’aborto è un diritto”.
E' finita in farsa, quella che sembrava essere una semplice manifestazione di contrasto alle politiche sulla procreazione assistita e sull’aborto di questo governo e alle ingerenze delle gerarchie ecclesiastiche nella vita politica italiana. Alcune manifestanti sono, infatti, state fermate alcuni minuti dopo la fine dell’azione dimostrativa dalla Digos di Torino che le ha portate in questura, in stato di fermo di polizia, per notificare il pericoloso reato 404 del Codice penale, ovvero, il “vilipendio alla religione”.
I ragazzi fermati sono stati denunciati a piede libero per aver organizzato una manifestazione non autorizzata e aver oltraggiato la religione. La pericolosa offesa perpetuata da queste eversive femministe, e da alcuni maschietti con loro conniventi, consiste nell’aver incollato alcuni preservativi affianco al campanello della Curia. Il Codice penale punisce le offese lesive dell’integrità e del decoro del sacro, dobbiamo quindi immaginare che il campanello della curia di Torino sia una specie di reliquia e che la sacralità del cattolicesimo si spinga ad ammantare ogni aggeggio che un sacro prelato ha sfiorato. Per evitare eventuali e futuri oltraggi alla sacralità vaticana, d’ora in poi sarà consigliato ai barbieri vaticani di raccogliere e custodire ogni capello tagliato a un chierichetto e a un prete o ai baristi e ai ristoratori di trattare con ogni riguardo le posate toccate da un prelato. Non vorremmo che un barista disattento venga accusato di oltraggio per aver lavato in modo non opportuno una posata toccata da un monsignore.
Oppure è da ipotizzarsi un reato di vilipendio al Vaticano, la cui sacralità in questo paese non può essere toccata neanche durante una manifestazione politica con un "offensivo" striscione che intoni “Più Autodeterminazione e meno Vaticano”. Ma le manifestazioni di libero pensiero, probabilmente, ledono l’aura sacrale che ormai cinge, come nel Medioevo, ogni stabile in possesso di Santa romana chiesa. I ricordi di uno Stato laico tendono a svanire, sembra normale, allora, che lo Stato pontificio assuma una dimensione metafisica e che la Repubblica italiana, oltre non esigere che gli immobili curiali paghino l’Ici, ne difenda l’integrità morale e sacrale. Le giovani femministe torinesi non si erano accorte che la regressione storica le avesse riportate indietro di un migliaio d’anni e che chiedere autodeterminazione equivalesse a compiere sacrifici umani, reato di eresia e stregoneria.
Parlando con Chiara, del collettivo femminista Mafalda, scopriamo che la manifestazione davanti alla curia torinese è stata indetta contro le modifiche della 194 proposte dal ministro Storace e che “il volantinaggio era stato organizzato davanti alla Curia e non davanti a una chiesa proprio per evitare di offendere i credenti”.
Ma in questo revival medievalista, che sembra aver investito l’Italia, dopo aver visto il grande inquisitore diventare Papa e il potere temporale (citando un presidente del Senato a caso, verrebbe in mente Pera) difendere strenuamente l’Occidente cattolico in pieno scontro di civiltà con le orde islamiche mancava di assistere al ritorno delle streghe. Ora che abbiamo visto le denunce di “vilipendio alla religione”, attendiamo i roghi in Campo de' Fiori. Se le streghe son tornate, d’ora in poi dovremo difenderci anche da loro e non solo dagli islamici che vogliono annientare la nostra civiltà. Le persone di maggiore cultura aspettano di sentire cosa ne pensa in merito la “Signora Fallaci”.
Tra un’amenità e l’altra, si prepara il funerale della laicità dello Stato e per molti cattolici quello del Concilio Vaticano II. Senza scomodare fini teologi come lAdriana Zarri, molti di noi guardano con preoccupazione all’involuzione reazionaria di Papa Benedetto XVI. I credenti disperano per la deriva autoritaria di un papato sempre meno attento alla contemporaneità, alla povertà globale, al celibato dei preti e al sacerdozio femminile ma sempre più attento alle abitudini sessuali dei cittadini italiani. I cittadini italiani sono disperati per le pieghe assunte dagli apparati di Stato in merito ai diritti civili. Se la Digos può fermare e schedare incensurati per il semplice fatto di aver manifestato contro le ingerenze delle gerarchie ecclesiali, la libertà di espressione nel nostro paese è messa fortemente a rischio.
Non ci resta che gridare “Tremate, tremate le streghe son tornate”. E sperare che nuovi movimenti, in prima istanza quello femminista, rivitalizzino la nostra democrazia malata.
AprileOnLine, 23.12.05
La reliquia di Violante
C’è una notizia relegata in un piccolo box sul "l’Unità" (pagina 9) di ieri e sottaciuta da quasi tutti gli altri giornali. Mercoledì scorso i gruppi Ds e Margherita della Camera hanno avuto la felice idea di “cominciare a lavorare insieme”.
Non si tratta di una razionalizzazione del lavoro parlamentare, ma di un importante passo simbolico e pratico teso alla scomparsa delle forze organizzate della sinistra, e ancor più del socialismo. Perché nessuno vorrà negare che, dopo i Gruppi parlamentari, sarà la volta dei partiti (almeno così devono pensarla alcuni).
Luciano Violante, capogruppo della Quercia alla Camera, regalando a Pierluigi Castagnetti, capogruppo della Margherita alla Camera, un orologio con il simbolo dei Ds (quindi non del Gruppo ma del partito) gli ha raccomandato di conservarlo perché è “una reliquia".: "Dal prossimo anno – ha aggiunto – il nostro gruppo non esisterà più”. Castagnetti ha replicato con un invito a brindare al Natale nella sede del Gruppo della Margherita (anch'esso provvisorio).
Grazie alla regola della "par condicio", ieri è apparsa un'intervista di Violante su "Europa", quotidiano della Margherita, e un'altra di Castagnetti su "l'Unità" (quotidiano fondato da Antonio Gramsci). In Aula, invece, quando si è votata la legge sul risparmio voluta dalla destra, Quercia e Margherita hanno parlato con una voce sola per fare le prove di quello che potrebbe accadere già nei prossimi mesi del 2006. (un'unica dichiarazione di voto contro la fiducia al governo, un'unica voce sul merito del provvedimento)
"l’Unità", a scanso di equivoci, chiosava così nel suo box quello scambio di regali tra Violante e Castagnetti: si tratta di “un percorso che porterà al gruppo unico e al partito democratico”. A questo siamo, alla sinistra e a una storia ridotti a “reliquia” in nome del vecchio nuovismo del “partito democratico”.
A parte ogni valutazione di opportunità circa il fatto che a tre mesi dalle elezioni si comunichi all’elettorato l’impressione di essere in liquidazione (al Senato si voterà ancora per i simboli di partito, non per delle “reliquie”), bisognerebbe che almeno la sinistra Ds reagisse.
Urge rendere chiaro al partito della Quercia che se fino ad ora si è potuto scherzare con federazioni, unioni, liste uniche, partito riformista e poi democratico, eccetera eccetera, adesso siamo al redde rationem. Il tempo per rendere visibile una alternativa allo scioglimento è questo?
AprileOnLine, 22.12.05
Non solo sangue. Ovvero mestruazioni e dintorni
Editoria. Un libro di Raffaella Malaguti sul ciclo mestruale, vissuto da milioni di donne ogni mese ma di cui non si parla mai
Barbara Romagnoli
Di alcune cose non si parla. Così ci viene insegnato da piccole, specialmente se si tratta delle “nostre cose”, quelle che arrivano solo a noi donne una volta al mese, circa, che quando arrivano la prima volta ci fanno diventare “signorine”, anche se siamo ancora bambine nel corpo e nello spirito e abbiamo tanta voglia di giocare alle bambole e rotolarci a terra con i nostri amichetti maschi.
È storia vecchia, sono duemila anni e più che di queste cose, benedette e maledette assieme, non si dovrebbe parlare. Raffaella Malaguti lo fa, oddio che scandalo - di questi tempi poi -, e ne parla in modo divertente e ironico. In “Le mie cose. Mestruazioni: storia, tecnica, linguaggio, arte e musica” (Bruno Mondadori, 13 euro, 2005) cerca di spiegare e descrivere cosa è successo in questi duemila anni. Non entra nel dettaglio, è certamente un libro didascalico e divulgativo il suo, ma fa bene leggere questo piccolo ma denso libro: solleva dei veli, sollecita ricordi e stimola riflessioni.
Malaguti, giornalista di professione, scrive in modo chiaro e diretto, non si perde in elucubrazioni velleitarie e quando dice la sua lo fa con lo sguardo di chi è abituato per mestiere a interrogare la realtà e a offrire risposte con dati e testimonianze.
Per questo il percorso seguito dall'autrice si muove dalla storia e la letteratura per approdare, con un finale riuscito alla perfezione, all'eco delle note di una canzone Blood in the boardroom - Sangue in consiglio di amministrazione, della straordinaria Ani Di Franco.
Già, perché è di sangue che si parla in questo libro e di tutti gli annessi e connessi e conseguenti ricadute simboliche nel quale è stato precipitato. Di un sangue che significa dolore, gioia, turbamento ma anche impurità, inferiorità, maleficio, stregoneria... Insomma, una storia, quella delle nostre cose, che va di pari passo con quella delle donne in generale, relegate per parecchio tempo ad essere comparse e non protagoniste del discorso ufficiale.
Eppure, è proprio l'aspetto linguistico, su come è stato costruito il discorso sociale attorno alle nostre cose, quello che più rimane impresso della lettura. Come gli eschimesi hanno tanti modi per nominare la neve, elemento primario nella loro sopravvivenza, così molteplici e diversissimi sono i modi (singole parole o complesse perifrasi) per nominare queste strane cose che dovrebbero riguardare solo le donne. Malaguti racconta di un museo virtuale delle mestruazioni (www.mum.org), visitando il quale veniamo a scoprire che negli Stati Uniti, patria del museo, per definire il ciclo si usa Surfing the crimson wave (fare surf sull’onda rossa) oppure i più familiari aunt Martha, aunt Rosie o aunt Flo (gioco di parole con flow che significa flusso). In Gran Bretagna e in Australia si usa l'espressione I’ve got the painters (ho gli imbianchini a casa), in Brasile “il marziano” o “visitante”, in Canada si dice I’m occupied (sono occupata) o The moody monthly (l’umore mensile), nella Repubblica Ceca si usa il politicizzato “Primo maggio” e l’elfico “fenomeno delle fragole”, simile al finlandese "giornate del mirtillo rosso, così come in Cina si dice “piccola sorella rossa", “il generale rosso ha bussato alla porta” e il più bello "acque lunari".
Insomma la fantasia non manca e dovunque andremo troveremo un eufemismo, una metafora, una immagine che rimanda a questa esperienza vissuta da milioni di donne, spesso, ancora oggi, nella totale ignoranza sul che fare e su una conoscenza vaga del proprio corpo.
Malaguti non si sofferma solo su un ragionamento letterario-linguistico nel quale riporta anche le mutazioni avvenute con la rivoluzione culturale del femminismo e le ricadute sulle nuove generazioni, ma affronta anche le cifre di un fenomeno che è diventato business e pubblicità (sul tema della comunicazione pubblicitaria molto interessanti sono i brani di interviste riportate dall'autrice e il cambiamento dei messaggi utilizzati per vendere i prodotti che riguardano le mestruazioni).
Chi ha mai pensato quanti sono gli assorbenti che utilizza una donna in media nella propria vita? O che nel 1999 in Gran Bretagna sono stati gettati nel wc ogni giorno circa 2,5 milioni di tamponi, 1,4 milioni di assorbenti esterni e 700mila salvaslip? Che impatto ha tutto questo sull'ambiente se si pensa che, scrive l'autrice, «per fabbricare i 18 miliardi di pannolini per bambini venduti ogni anno nel mondo si utilizzano 82mila tonnellate di plastica (che non sarà mai riciclata), 1,5 milioni di tonnellate di polpa di legno (anch’essa non sarà mai riciclata) e 14 miliardi di litri di olio, senza considerare le migliaia di megawatt di energia impiegata per la produzione». E Malaguti ci dice anche che questo è solo un esempio per immagine del business intorno a assorbenti, tamponi, salvaslip ecc. visto che su questo non c'è uno studio accurato. Come poco si sa della composizione con cui vengono confezionati questi prodotti per le donne. Ma state tranquille, almeno una notizia è smentita: quella, arrivata attraverso una mail girata a lungo in rete, che parlava della presenza di amianto. A quanto indagato finora non c'è traccia. Ma questo non rassicura del tutto le sostenitrici della dea madre, che fanno della “naturalità” delle mestruazioni la loro religione. Accanto ai loro rituali, in questo libro incontriamo anche le mestruo-attiviste e le cyberfemministe, chi sostiene l'uso del tampone e chi lo rifugge come la peste, chi ha disegnato l'assorbente leopardato e chi preferisce i filtranti in garza. Malaguti ha trovato un modo originale e diverso per parlare di sangue e dintorni, senza risposte definitive ma con domande sane e intelligenti.
AprileOnLine, 21.12.05
I ''poteri forti'' superstiti
Zoom. Partito democratico? Appuntamento per il 2008, firmato ''Corriere della Sera'' e ''Repubblica''
Leo Sansone
Partito democratico? L’appuntamento per l’esordio è fissato nel 2008, firmato “Corriere delle Sera” e “Repubblica”. I “poteri forti” in Italia si sono trasformati in “poteri deboli”, alle volte più deboli dei partiti in caduta verticale da più di dieci anni. E’ il caso della Banca d’Italia, un tempo onnipotente istituzione che governava in modo esclusivo sulla lira e con poteri quasi monarchici sui vari settori dell’economia (in particolare il credito e le banche).
Ora tutto è cambiato. Antonio Fazio, dopo gli scandali delle tentate scalate della Banca Popolare Italiana alla Antonveneta e dell’Unipol alla Bnl, è stato “azzoppato” dalle accuse di reati avanzate dalle procure della Repubblica di Milano e di Roma. La maggioranza e l’opposizione hanno dato il “benservito” al governatore della Banca d’Italia, al quale Giampiero Fiorani voleva dare “un bacio in fronte” in cambio del sì alla sua Opa (Offerta pubblica d’acquisto). Incredibile. Appena qualche anno fa, si era parlato di Fazio addirittura come di un possibile candidato alla presidenza del Consiglio sia per il centrodestra sia per il centrosinistra.
Ma se molti “poteri forti” crollano o vacillano, qualcuno regge. E’ il caso dei due maggiori gruppi editoriali del paese: la Rcs-Corriere della Sera e l’Espresso-Repubblica. Il primo è controllato dalla cosiddetta “galassia del nord” con al centro sempre la Fiat, molto indebolita rispetto all’era di Gianni Agnelli, ma ancora con un forte ruolo grazie a Luca Cordero di Montezemolo. Il secondo gruppo editoriale (e radiofonico con ambizioni televisive) è invece di proprietà di Carlo De Benedetti, un tempo grande antagonista di Gianni Agnelli. I due grandi gruppi editoriali rimangono fra i pochi “poteri forti” superstiti (gran parte della grande industria, compresa la Olivetti dell’ingegnere, non ha retto alla sfida internazionale della competitività) e da sei mesi “marciano divisi per colpire uniti”, come avrebbe detto il generale Karl von Klausewitz.
Tutti e due i gruppi, che pure si combattono dal 1976 (l’anno in cui Eugenio Scalfari fondò “Repubblica”), hanno deciso di ridisegnare il sistema politico italiano uscito dieci anni fa dal terremoto di Tangentopoli. In particolare, dopo le elezioni politiche di primavera, chiedono la nascita del partito democratico, il futuro perno riformista del centrosinistra. Paolo Mieli, ad un convegno della Margherita tenuto sabato, ha sollecitato Romano Prodi ad indicare “giorno mese ed anno in cui nasce il partito democratico”. Comunque il direttore del “Corriere della Sera” ha fissato al 2008 il traguardo limite per dare il via alla nuova formazione politica che avrà come “motore” i Ds e la Margherita. Dovrà essere, ha precisato, “un incontro virtuoso” tra cattolici, laici e postcomunisti in cui nessuna anima sia subalterna. Analogo il discorso di Ezio Mauro. Il direttore di “Repubblica” si è detto “interessato” al progetto del partito democratico. “La stagione grigia del postcomunismo –ha osservato– deve finire, la pratica delle annessioni va abbandonata”.
Non si tratta di semplici considerazioni di due autorevoli giornalisti ad un convegno, ma di un preciso progetto politico. Mieli il 16 dicembre, in uno dei suoi rari fondi di prima pagina, ha sollecitato un drastico cambiamento del sistema politico italiano. Il varo di due “formazioni unitarie” sia nel centrodestra (leggi il partito unico dei moderati) e sia nel centrosinistra (il partito democratico), ha scritto, “sarebbe una salutare novità”. Le manette della magistratura, ha aggiunto, non scatteranno per i politici in seguito agli scandali bancari, al contrario di quanto avvenne con “l’incubo” di Tangentopoli nel 1993. Ma è bene, ha avvertito, che i maggiori partiti delle coalizioni cambino, dando vita a metà della prossima legislatura a due grandi formazioni moderne in grado di raggiungere il 35% dei voti e di respingere i ricatti delle “estreme” rispettive.
Gli editori di Mieli tacciono, ma è evidente che il direttore del “Corsera” ha un mandato pieno a teorizzare la ristrutturazione del sistema politico. Mieli ha conquistato sul campo un ruolo di protagonista con due vittorie. La prima. A luglio ha respinto, con un’infuocata campagna di stampa, l’insidiosa scalata miliardaria (in euro) di Sergio Ricucci e degli altri immobiliaristi (in gran parte finanziata dalla Bpi di Fiorani) al quotidiano di via Solferino. La seconda vittoria. Con la sua direzione ha rivisto nei contenuti e nella veste grafica il giornale, restituendogli smalto e lettori (nonostante costi 1 euro contro i 90 centesimi dei concorrenti) e ristabilendo così il suo primato fra i quotidiani italiani.
Un analogo discorso ha fatto De Benedetti, dopo tanti articoli di “Repubblica”, qualche settimana fa (il 30 novembre in un convegno della Margherita e il 2 dicembre in una intervista al “Corsera”). Per il partito democratico ha invitato a “fare presto. O nasce durante la prossima legislatura o non nasce più”. Non solo. Il proprietario di l’Espresso-Repubblica ha anche indicato la necessità di fare largo a Walter Veltroni e Francesco Rutelli per realizzare “le riforme profonde”. Se prenderanno il timone i due cinquantenni allora, ha annunciato, “la tessera numero uno del partito democratico la prendo io, se volete”.
Mieli usa il fioretto e De Benedetti la scure, ma il risultato non cambia: indicano tempi, modi e contenuti per riformare il sistema politico. E’ un pressing comune. Il direttore del “Corsera”, in particolare, dà le indicazioni ai due schieramenti (anche se il piano dettagliato è per l’Unione) per rinsaldare il bipolarismo. L’ingegnere, invece, si dedica unicamente al centrosinistra arrivando addirittura a chiedere il cambio della leadership di Prodi in nome del ricambio generazionale. Una volta erano i congressi, cioè gli iscritti, a decidere la sorte dei partiti, votando programmi e segretari. Ora sono sempre di più i giornali (e le loro proprietà industriali e finanziarie) a svolgere una funzione di “supplenza”. Il giornalismo, sempre parafrasando von Klausewitz, sembra essere la prosecuzione della politica con altri mezzi. Del resto già nel 2000 “Repubblica” lanciò e impose Rutelli come il candidato del centrosinistra alla presidenza del Consiglio (Giuliano Amato, che era a palazzo Chigi, si fece da parte) nelle elezioni politiche del 2001. Ma non finì bene e Silvio Berlusconi vinse le elezioni divenendo il re dei “poteri forti” (televisioni, giornali, editoria, cinema, pubblicità, finanza e guida del governo).
Ma il progetto del partito democratico, fortemente voluto da Prodi, potrebbe diventare una corsa a ostacoli. Rutelli contro i Ds, sempre al convegno della Margherita di sabato, è tornato a brandire l’arma della questione morale, dopo la messa in stato di accusa da parte della magistratura di Giovanni Consorte, l’amministratore delegato dell’Unipol, artefice dell’Opa sulla Bnl. Il presidente della Margherita dice basta al collateralismo fra partiti e soggetti economici, cooperative comprese. “La Margherita –ha detto– ha visto giusto nella vicenda del Monopoli bancario”, ed ha ricordato quando sul ‘Corsera’ sollevò “dubbi su operazioni finanziarie nelle quali c’era del marcio e nessuno poteva immaginare fosse così profondo”. Accuse pesanti alla Quercia, che dà sempre ha rapporti con la Lega delle cooperative. Certo non sono una buona premessa per costruire né il partito democratico né delle liste comuni Ds-Margherita alle elezioni politiche.
AprileOnLine, 21.12.05
Legge 40, due priorità per l'Unione
Interventi. Una mobilitazione a Firenze per riaffermare l'autodeterminazione delle donne e l'indisponibilità a ''scambi politici''
Marisa Nicchi
Anche a Firenze si sta preparando una mobilitazione che riaffermi l’autodeterminazione delle donne come principio indisponibile ad alcun scambio politico. Pericolo di cui ci avverte anche un incontro svolto proprio a Firenze con esponenti politici del centro cattolico collocati all’opposizione e al governo, “Il Movimento della Vita” e un’ala dell’ambientalismo. Lo scopo dichiarato dell’iniziativa è promuovere “una nuova stagione di consapevolezza per la tutela della vita dopo il referendum sulla Legge 40”. La presenza di Francesco Rutelli, Luca Volontè, Carlo Casini desta preoccupazioni per le alleanze politiche che può prefigurare già sperimentate nella vicenda della legge 40. Ma, l’Unione e la lista unitaria, su almeno due priorità debbono essere chiare: il rifiuto di un uso ideologico della legge, e il diritto e il riconoscimento pieno della libertà /responsabilità delle donne sulla propria vita. Detto con semplicità. Lo Stato, attraverso le sue leggi, non può imporre a tutti/e una morale, una visione religiosa. Non ci possono più essere indugi e ambiguità sul considerare le donne responsabili, solo loro stesse, delle proprie scelte di vita. Non sono né da accompagnare per mano, né da riportare all’ordine “naturale” della procreazione e della famiglia. Non a caso il titolo del convegno fiorentino è “La natura e l’uomo”. Un ordine che lo Stato dovrebbe ripristinare con la prescrizione, mettendo al bando i comportamenti “innaturali”, vale a dire le relazioni affettive al di fuori del matrimonio fra un uomo e una donna, e riconoscendo soltanto la filiazione fondata sulla purezza genetica. Rientrano dalla finestra, per esempio attraverso il divieto di fecondazione eterologa, spettri molto simili a quelli che avevamo scacciato con il nuovo diritto di famiglia: bastardi, adultere, ragazze madri, figli illegittimi e non, genitori di serie a e di serie b, messi sul banco degli imputati per riaffermare il “modello naturale” violato.
Non c’è niente di innaturale nella concezione della famiglia che si evolve col mutare dei rapporti sociali, tra i sessi e le generazioni. Nella discussione aperta sui temi detti “eticamente sensibili” c’è un fondamento preliminare da tener fermo: in una società pluralista, in uno Stato laico, le scelte che riguardano la sfera più privata, l’amore, la generazione, la morte, la cura della salute, appartengono alla libertà/responsabilità personale. Invece, si è fatta strada, trasversalmente agli schieramenti e anche nel pensiero liberale, l’idea che in queste materie lo Stato sia legittimato a intervenire con norme restrittive delle libertà a cominciare da quella procreativa per finire a quella di ricerca.
Incide in queste posizioni la paura che il nuovo potere di cui le nuove conoscenze e tecnologie genetiche ci hanno dotato possa sfuggirci di mano. E’ il tema cruciale di un governo politico della rivoluzione ‘biotecnologica’ rispettosa dei diritti umani e delle libertà fondamentali anche delle generazioni future. Il movimento delle donne, riflettendo sulla tragedia di Cernobil, sollevò la questione della “coscienza del limite”, di nuove epistemologie fondate sull’ etica della responsabilità. Ma un equivoco affida questa vitale questione al divieto preventivo del diritto. Crede, irrealisticamente nell’epoca della globalizzazione, che basti una norma giuridica proibizionistica per metterci al riparo dalle possibili ricadute negative delle biotecnoscienze fortemente condizionate dagli interessi di mercato. Censurare la libertà della scienza è come impedire la libertà di pensare, la più profonda umiliazione umana. La sfida è un’altra, quella di valorizzare un discorso critico sul limite attraverso un’autocoscienza del mondo scientifico e politiche pubbliche in grado di garantire libertà, ma anche trasparenza sulle finalità, sui rischi e sulle opportunità. Lo scenario aperto dalle tecnologie riproduttive suscita inquietudini. Le donne avvertono un rischio di una deriva disumanizzante perché vengono cancellate come soggetto libero, responsabile, mediatore di vita. Cancellazione che unifica, in nome della difesa della vita, posizioni laiche e cattoliche, presenti anche al confronto fiorentino, quando si enfatizza il dato biologico e si riduce ad esso il concetto di “vita” che si deve comunque compiere, intangibile e sacra. Una vita che si vuole non più protetta dalla madre, ma dallo Stato chiamato a difenderne il diritto sin dal concepimento. Il sacro e la natura che, assunti come guida del comportamento dello Stato, “eclissano” la radice umana del nascere, del venire al mondo e finiscono per negare la relazione materna. Il fondamentalismo biologico-religioso usa e volge contro la donna ciò che le tecniche hanno reso possibile, l’autonomia del concepimento dai corpi. Ma non si può dimenticare che, nonostante ciò, senza la madre non vi è “vita” che possa svilupparsi, né vi è alcuna possibilità di nascere contro di lei. E la sua libertà e responsabilità non possono essere messe in discussione.
AprileOnLine, 20.12.05
Mieli e Mauro, direttori o leader?
Tra le troppe anomalie italiane (premier imprenditore con conflitti d’interesse, governatore di Bankitalia “a vita”, partiti dal logo prevalentemente botanico o simile a slogan sportivi, ingerenza della Conferenza episcopale nella legislazione, mezzi d’informazione privi di editori che fanno solo gli editori), c’è pure quella di giornali quotidiani che assomigliano indebitamente alle forze politiche e che hanno direttori vogliosi di dirigere più la politica nazionale che le proprie redazioni.
Sabato scorso ne abbiamo avuto la prova nel corso di un convegno a Roma promosso dalla componente della Margherita più filo “partito democratico” e ulivista, quella vicina al professor Arturo Parisi (a proposito, auguri a Parisi che è stato ricoverato per un lieve malore). Accanto agli interventi di dirigenti di Ds e Margherita, di personalità senza partito (l’ex premier Giuliano Amato) e di intellettuali, hanno fatto capolino i discorsi di Paolo Mieli (direttore del “Corriere della Sera”) e di Ezio Mauro (direttore di “Repubblica”)
Fin qui, niente di male: anche i direttori di giornale hanno tra i loro diritti civili quello di avere delle opinioni politiche e di poterle esternare, se ne sentono il bisogno. Il problema nasce dopo aver sentito quello che hanno detto nel corso del convegno in questione. I due direttori, infatti, oltre a rendere pubblico il proprio gradimento per l’eventuale nascita in tempi brevi del nuovo “partito democratico”, si sono spinti fino a dare dei veri e propri ultimatum all’auditorio che li stava ad ascoltare con Romano Prodi, Piero Fassino e Francesco Rutelli in prima fila.
Sintetizziamo il discorso di Mieli, copiando come ne ha riferito proprio il “Corriere”: “Il primo ostacolo che Paolo Mieli individua è ridurre a uno il Dna degli eredi del Pci e quello degli eredi della Dc, una storia di subalternità e non di compagni di strada che non può risolversi con l’equazione Cristo-Marx”. Di qui il primo suggerimento (davvero originale!): “Il partito democratico sia un incontro virtuoso tra cattolici, laici e postcomunisti in cui nessun’anima sia subalterna”.
Quanto all’intervento di Mauro, copiamo sempre il “Corriere”: “Il problema dell’Italia è aver avuto il più grande partito comunista di Occidente. La stagione grigia del postcomunismo deve finire, la pratica delle annessioni va abbandonata” (abbiamo così scoperto che per il direttore di “Repubblica” tutti i mali d’Italia affondano nella storia peculiare del Pci e non – come diceva il suo predecessore, Eugenio Scalfari – nell’essere rimasto quel partito troppo a lungo “in mezzo al guado” tra riformismo e comunismo, tra governo e opposizione).
Ma si è andati oltre. Mieli – lo riferisce sempre il suo giornale – ha spronato Prodi “a dichiarare giorno, mese e anno in cui nasce il partito democratico e fissa in due anni e mezzo il Big Bang della nuova formazione”. Mauro è stato più cauto nelle date (forse si è ricordato che fa il giornalista e non il veggente), ma non meno perentorio nel benedire il nascituro “partito democratico”.
Le cronache, a questo punto, non riferiscono di risposte date ai due direttori da parte di Prodi, Fassino e Rutelli. Del resto, la buona educazione vuole che non si replichi a degli ospiti che hanno avuto la cortesia di accettare un invito. Resta però il problema: tocca a Mieli e Mauro, come fossero dei leader politici, stabilire in che “giorno, mese e anno” deve nascere un nuovo partito?
Questa volta non tiriamo in ballo l‘argomento dell’auspicabile autonomia tra informazione e politica (“Corriere” e “Repubblica” sono i due quotidiani italiani più venduti). Anzi, capovolgiamo del tutto l’argomento: Ds e Margherita, come tutti gli altri partiti, sono autonomi dai grandi mezzi d’informazione?
La Stampa, 21.12.05
MA NON È DETTO CHE PER L’UMANITÀ SIA UNA CATASTROFE
Si realizza la profezia di Platone
di Maurizio Assalto
Nella parte conclusiva del Fedro, Platone racconta un mito. È la storia di un dio minore del pantheon egizio, un certo Theuth - inventore dei numeri e del calcolo, della geometria e dell’astronomia, del gioco degli scacchi e dei dadi, ma soprattutto della scrittura - che un giorno si presenta al faraone Thamous, a Tebe, magnificandogli le tecniche che intendeva distribuire agli uomini. Una su tutte: «La scrittura, o re, è la conoscenza che renderà gli egiziani più sapienti e più capaci di ricordare. Perché è stato scoperto come farmaco della memoria e della sapienza».
La risposta di Thamous, nella sua esaustiva concisione, equivale a un trattato di gnoseologia. No, replica, questa invenzione «apporterà l’oblio nelle anime di coloro che l’hanno appresa, per negligenza della memoria, in quanto, per fiducia nella scrittura, giungeranno a ricordare dall’esterno attraverso segni estranei, e non dall’interno autonomamente da se stessi».
Duemilaquattrocento e più anni dopo, la previsione pare avverarsi: nel passaggio dall’anima alla carta ai mondi impalpabili del Web, la catastrofe della memoria si compie nel definitivo smottamento che la porta a risiedere non soltanto all’esterno, ma in un supporto immateriale che c’è e non c’è. Che comunque risponde, risponde sempre. Provate a scrivere nella ricerca di Google un brandello di verso che non ricordate da dove viene, per esempio «armi cavalieri amori», e in 0,19 secondi avrete 240 mila risultati, alcuni dei quali riportano il verso esatto che volevate, l’incipit dell’Orlando furioso («Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori...»). A questo punto, il gioco è fatto. O forse, per la memoria, la frittata è fatta. Ma è davvero un quadro tutto in nero?
Platone rifletteva a non troppi decenni di distanza lo sgomento per la fine della civiltà orale e l’avvento della civiltà letteraria. Prima c’erano aedi che conoscevano a memoria l’Iliade e l’Odissea e altri poemi ancora, aiutati dalla forma narrativa, dalle iterazioni formulari, dal congegno ritmico. Con la scrittura, tutto ciò sarebbe stato relegato al passato, assieme alle qualità intellettuali che ne erano il presupposto. Ma la possibilità di srotolare il testo davanti a sé, su un papiro, consentiva di abbandonare la forma mitico-narrativa, che in precedenza serviva a mediare anche i contenuti sapienziali, e di sviluppare la capacità di astrazione. Soltanto grazie alla scrittura si poté arrestare la fluidità del racconto e fissare i concetti, allestendo una sintassi e un lessico adatti alla filosofia. Forse Platone non si rendeva conto di mettersi contro se stesso. È la filosofia il risarcimento dato all’uomo per la perdita dell’epos e della memoria orale: non solo una nuova disciplina, ma una forma mentale che, attraverso il pensiero razionale e la scienza, ha costruito un nuovo uomo e un nuovo mondo. Alla perdita che si consuma in questi anni, a causa di Internet, quale tipo di umanità seguirà?
Corriere della Sera, 20.12.05
Processo di Cogne, nuova udienza. Al via l'interrogatorio
«Stavo male la sera prima del delitto»
La Franzoni si sfoga con i giornalisti: «Condannatemi pure, ma sono innocente». Taormina polemizza sull'interprete inglese
TORINO - Stava male Annamaria Franzoni la sera prima della morte del piccolo Samuele. Lo ha dichiarato in aula la donna, imputata in appello per il delitto di Cogne, condannata in primo grado a 30 anni di reclusione.
«La sera prima mi sentivo in preda a uno stato di malessere. Avevo paura, perché in passato mi era capitato di svenire. Avvertivo pesantezza di stomaco, formicolio, fastidio a braccia e gambe. E durante la notte chiesi a Stefano (il marito - ndr) di chiamare un medico» ha raccontato la Franzoni che ha chiesto alla corte al Palazzo di Giustizia di Torino di essere interrogata. «Eppure - ha spiegato - al di là di quell'episodio stavo assolutamente bene. Ero la persona più felice. La nostra vita era bella così, eravamo contenti».
«SAMUELE PIANGEVA» - Annamaria ha raccontato che quella notte si svegliò di soprassalto perché sentì «un grande tonfo». «Quel mattino Samuele piangeva perché al risveglio non mi aveva ancora visto. A volte capitava. Mi chiamava: 'mamma, mamma ...' e se non mi vedeva subito piangeva» ha detto la Franzoni durante l' interrogatorio. «A parte questo - ha però aggiunto - era tranquillo». La donna ha riferito che mentre stava accompagnando fuori l'altro figlio, Davide, ha sentito «Sammy» piangere: «Sono scesa e l' ho messo nel lettone. Davide mi ha seguito per un pò ma è rimasto sulle scale. Non ha più visto Samuele».
«CONDANNATEMI PURE» - Poco prima, durante una pausa della nuova udienza, la Franzoni si era sfogata con i giornalisti: «Condannatemi a trent'anni, torturatemi pure, ma io sono e resto innocente. Mi sembra di essere in un sogno: spero che tutto finisca presto, a Samuele ci penso tutti i giorni, ho qui con me una sua foto» ha continuato commuovendosi.
PERIZIA - A chi le domanda il perché della sua decisione di non sottoporsi alla perizia psichiatrica Anna Maria Spiega: «Non voglio sottopormi a una perizia psichiatrica perché non ho bisogno di essere considerata matta per non andare in carcere».
A chi le fa osservare che dalla perizia potrebbero emergere delle prove di questa sua verità, Anna Maria Franzoni replica: «Non è vero che non ho nulla da temere perché i periti si inventano molto spesso qualcosa».
Quanto alla possibilità di ritornare a Cogne, il paese della Valle d'Aosta, dove il 30 gennaio del 2002 fu ucciso il piccolo Samuele: «A Cogne - dice - vorrei tornarci ma non per rimanerci perché l'incantesimo si è rotto. Davide (il figlio maggiore, ndr), invece, vorrebbe tornare, ne parla spesso. Tutti noi in famiglia ne parliamo spesso tanto che Gioele ne parla come se anche lui ci fosse stato».
SCINTILLE PER IL TRADUTTORE - La nuova udienza si è aperta con un acceso battibecco tra il presidente della Corte e la difesa. Motivo dello scontro la mancanza, lamentata dall'avvocato Taormina, di un interprete di lingua tedesca per tradurre le deposizioni del perito Herman Schmitter che dovrà relazionare sulle macchie di sangue rilevate dal video che i legali della Franzoni hanno consegnato alla Corte in una delle precedenti udienze. La Corte, nel conferire una perizia all'esperto Hermann Schmitter, ha infatti nominato un interprete di lingua inglese: «Eppure - ha detto - anche il mio consulente, Berndt Brinckmann, è tedesco». In primo grado, la lingua usata era stata l'inglese.
Al pubblico si sono aggiunti una trentina di familiari e amici della donna, arrivati dall' Emilia. Come primo atto, la corte ha disposto l'affidamento di una perizia a un esperto di informatica del Politecnico di Torino, Antonio Lioi, che dovrà esaminare le centinaia di fotografie scattate dai carabinieri sulla scena del delitto per capire il motivo per il quale ci sono dei «salti» nella numerazione.
Corriere della Sera, 19.12.05
È successo a Catania, protagonista un commerciante di 23 anni
«Niente patente a gay», accolto il ricorso
La sentenza del Tar: «L'omosessualità non è una malattia». Il ministero dei Trasporti dovrà pagare le spese processuali
CATANIA - «L'omosessualità non rientra nella categoria di malattia psichica». Con questa motivazione la seconda sezione del Tribunale amministrativo regionale di Catania ha accolto il ricorso del commerciante 23enne che a giugno si era visto mettere in dubbio la capacità di guidare dalla Motorizzazione civile solo perché è dichiaratamente gay. L'incredibile fatto era avvenuto su segnalazione dell'ospedale militare di Agusta, secondo i cui medici il giovane alla visita di leva, confessando di essere gay, era risultato non in possesso dei requisiti psicofisici richiesti per la patente. La richiesta di revisione era stata sospesa in via cautelare del Tar, che ha svolto una regolare udienza e emesso una sentenza con la quale ha condannato il ministero dei Trasporti al pagamento delle spese processuali, mille euro. Resta invece pendente, davanti al Tribunale civile di Catania, il processo per il risarcimento danni, da 500 mila euro, chiesto ai ministeri dei Trasporti e della Difesa dal legale del giovane, l'avvocato Giuseppe Lipera.
«DISTURBO DELL'IDENTITA' SESSUALE» - Durante il dibattimento, gli avvocati del ministero dei Trasporti hanno sostenuto che la revisione della patente era stata chiesta «non in considerazione del semplice accertamento dell'omosessualità, ma per le situazioni cliniche di sofferenza psichica». Per i giudici ha fatto testo invece la relazione del servizio di psicologia dell'Asl 3, secondo la quale «buone e integre appaiono le funzioni cognitive e la capacità di relazionarsi» del ragazzo. «Si aggiunga - scrive il Tar di Catania nella sentenza - che nel diario clinico dell'ospedale militare di Augusta si legge "all'esame psichico non turbe del pensiero e della percezione, diagnosi disturbo dell'identità sessuale"».