Liberazione, 31.12.05
Intervista a Bertinotti: «Il berlusconismo è finito. La sfida si giocherà tra noi e Montezemolo»
di Rina Gagliardi
Ma se dovessimo definire in modo molto sintetico, quasi con uno slogan, la nostra prospettiva in questo ormai imminentissimo 2006?
«E’ la nostra sfida a Montezemolo» spiega il segretario di Rifondazione comunista. Non c’è nessuna iattanza o megalomania, in questa
affermazione: c’è, piuttosto, la consapevolezza della partita che si apre, anzi che è già ampiamente aperta nel terremoto italiano
seguito alla fine del berlusconismo. «Quello delineato dal presidente di Confindustria è il progetto più pericoloso: perché, attraverso la
proposta di una nuova Costituente, concerne direttamente l’assetto del sistema politico e pone al suo centro il primato assoluto
dell’impresa, della logica di merce, degradando il conflitto sociale a mera pulsione conservatrice».Una filosofia molto apparentata alla Grosse Koalition di stampo tedesco. Una filosofia - mi viene da osservare - non poi così distante da quella che domina il gigantismo della Cina di Jintao, su cui Bertinotti si sofferma a lungo e propone alcuneriflessioni. In questa intervista, che vale un po’ come consuntivo di fine d’anno, il ragionamento spazia da Pechino a casa nostra, l’Italia anzi l’Europa, con una attenzione costante: la necessità strategica, ma anche, perfino, il “realismo” di un’opzione di alternativa, non limitata al cambio di governo e classe dirigente.
Cominciamo proprio dal tuo viaggio in Cina. Che cosa ti ha più colpito, non solo dal punto di vista politico,ma da quello psicologico e culturale? Quali sono i veri punti di distanza tra noi e loro?
Se ci cimentassimo a scrivere adesso - riscrivere - un pamphlet politico intitolato “Delle divergenze tra i compagni cinesi e noi”, dovremmo dire, prima di tutto, che «la Cina è vicina». Nel senso che, davvero, ad occidente come ad oriente, siamo immersi nella globalizzazione economica ben più di quanto non crediamo.
E il punto centrale del dissenso concerne, infatti, proprio la natura della globalizzazione: per i cinesi, essa è un processo sostanzialmente neutrale, quasi come un fenomeno della natura. Come tale, immodificabile nelle sue leggi di base: al massimo, si può provare a correggerne alcune conseguenze, quelle che a lungo andare rischiano di accentuare l’instabilità e la governabilità sociale oltre ogni possibilità di controllo. Ma al di là non si può andare, un po’ come nella cultura socialdemocratica.
Tu dici "globalizzazione", ed è chiaro che cosa vuol dire. Ma, nell’ottica di Pechino, c’è o no una differenza tra globalizzazione e capitalismo?
Ti rispondo così: proprio come il socialismo o è mondiale o non è, tutti i sistemi economici inseriti nella globalizzazione hanno una natura capitalistica. Nella visione cinese, questa è comunque l’unica alternativa praticabile alla povertà: il primato del mercato (e della logica d’impresa, dico io), che unisce est e ovest in una relazione stringente, costituisce per loro la leva portante per entrare nella modernità, nel progresso, nello sviluppo. Il mercato, insomma, viene considerato l’unico elemento dinamico, che ha consentito alla Cina un ritmo di crescita di quasi il 10 per cento all’anno e la fuoruscita dalla povertà per centinaia di milioni di persone.
Perciò parlano di se stessi come di “un Paese in via di sviluppo” - definizione solo in parte soddisfacente, dati i punti di eccellenza tecnologica raggiunti in molti comparti dall’innovazione cinese. Non si può, naturalmente, negare lo sviluppo che c’è stato e continua ad esserci in Cina, uno sviluppo che corrisponde a vera creazione di ricchezza. E nemmeno ci si può permettere, dall’alto della “pancia piena” di un occidentale, di impartire lezioni a chicchessia e a loro. Però, invece, non possiamo sottacere che, accanto e come conseguenza di questo sviluppo, c’è una grande diseguaglianza sociale e di classe. In Cina, temo, le distanze tra ricchi e poveri, tra zone sviluppate e ipersviluppate e campagne in crisi (ma non solo) sono enormi. Come tutto, in questo paese, è di dimensioni gigantesche.
Questi problemi sono o no all’attenzione dei governanti?
Sì, sono consapevoli, mi pare, delle drammatiche storture sociali che lo sviluppo ha creato in più di vent’anni. Solo che la natura del processo è tale da non accettare vere correzioni, come dicevamo. Per la prima volta nella storia moderna, accade che nel punto più avanzato, nel luogo che possiamo definire come la “locomotiva” dello viluppo, il massimo dell’innovazione si coniuga con il minimo dei salari: insomma, si è spezzata del tutto una relazione “progressiva” tra boom economico e benessere sociale che pure il capitalismo, in altre epoche, ha comunque garantito - anche grazie, certo, alla lotta di classe e alla crescita dell’organizzazione sindacale.
Perché questa involuzione?
E’ l’effetto obbligato della competizione economica mondiale, è cioè uno dei dati organici della globalizzazione: nello scontro che oppone tra di loro le borghesie di tutto il mondo, i salari divengono una pura variabile dipendente, e vengono inseguiti al loro livello, appunto, più basso, più “compatibile” con gli interessi immediati delle imprese.
E il “mercato socialista”? Che senso ha in questo contesto?
Un ossimoro. Una contradictio in terminis che dice dell’intenzione del gruppo dirigente cinese di intervenire con correttivi sociali e politiche di tipo equitativo e in parte redistributivo.
Se non avessero messo in atto questo livello di Welfare, il paese sarebbe sprofondato in una crisi senza ritorno. Solo che, anche qui, gli effetti concreti sono relativi, rispetto alle dimensioni d’insieme: è un po’ come tentar di svuotare il mare con un cucchiaino.
Il fatto è che, in un contesto che assolutizza il primato della produzione e, alla fin fine, della merce, la tragedia vera è quella del lavoro: che scompare, letteralmente, nel suo ruolo protagonistico. In Cina, paese cardine della globalizzazione, il lavoro e il conflitto sociale sono privi di valore, non hanno spazio, sono tendenzialmente espulsi dal processo: nel senso che il cuore del processo stesso è il primato assoluto della merce e l’interesse dell’impresa. Non è neppure come ai tempi dello stakhanovismo, quando si trattava di versare lacrime e sangue per aumentare il più possibile produzione e produttività. Non è neppure la logica di Mao del “grande balzo in avanti”. E’ la legge pervasiva e anzi totalizzante della strada imboccata.
Da questo quadro, non mi pare che la democrazia cinese ne esca tanto bene. Non solo e non tanto la democrazia delle istituzioni liberali, di cui si può dare per “scontata” l’assenza, ma la democrazia che forse dovrebbe caratterizzare un paese che ancora dichiara il socialismo come proprio obiettivo - quella operaia, sindacale, partecipativa.O No?
Certo, anche per me questo è forse il punto più dolente. Non dico, naturalmente, che la democrazia borghese sia irrilevante, penso in proposito l’esatto contrario, dico che il metro giusto con cui guardare agli sconvolgenti processi in corso in Cina non può essere il suo grado di “democratizzazione liberale”. E’ la negazione radicale del conflitto, invece, e la repressione durissima e sistematica che lo accompagna, quando e se si manifesta, che mi fa sentire distantissimo da questa Cina, pur così “vicina” – pur, dentro tante e gigantesche differenze, così simile a noi. Se non puoi agire il conflitto, non riesci neppure ad avviare un percorso di liberazione, di autentica “messa in valore” delle persone, della loro autonomia e libertà. Senza di questo, la globalizzazione e la disuguaglianza non solo impongono la loro logica, come macchine inesorabili, ma diventano cultura, nel senso più profondo del termine. E nessuna civiltà è al riparo da questo pericolo, da un esito di mera omologazione - nemmeno la Cina, purtroppo. Nella quale è pur vero che è cresciuto - chiamiamolo così - un “ceto medio” anche molto ampio, che garantisce al sistema un certo consenso diffuso. Ed è vero che Shanghai è una vetrina dello sviluppo perfino fantastica. Ma è vero altrettanto che, se continuerà su questa strada, la Cina si troverà di fronte a contraddizioni sociali gigantesche, a tragedie di massa, sempre più drammatiche. Sempre “più vicina” al modello occidentale….
Vogliamo trarre una prima pur parzialissima conclusione?
De te fabula narratur: ecco il pensiero fisso che ha accompagnato questo viaggio. A parte ogni altra considerazione, noi, Europa, non possiamo neppur vagamente sperare di farcela, a battere la Cina (e l’India): sul terreno della concorrenza e della competività la partita è perduta, non ne possiamo che uscire schiacciati. Anche per questo, è essenziale la prospettiva di un’alternativa economica e sociale - che del resto è fondativi dell’identità del Partito della sinistra europea - capace di sottrarsi al paradigma della globalizzazione. E la leva vera di questa alternativa - le sue gambe - è la democrazia partecipata, il dispiegarsi del conflitto maturo, la costruzione di spazi progressivi di libertà collettiva sottratti alla logica del mercato e dell’impresa.
Un’alternativa che va intesa, luxemburghianamente, come una “necessità storica”? Oppure una proposta anche in qualche modo eealistica?
Ma è la globalizzazione a non essere, più di tanto, “realistica”. A lungo termine, le contraddizioni esplodono dovunque, ad est come ad ovest, e le esperienze conflittuali sono destinate a moltiplicarsi - non solo quelle politicamente organizzate e organiche, come la Val di Susa o la lotta dei metalmeccanici, ma le rivolte “pure”, senza sbocchi e senza neppure obiettivi politici - come quella delle periferie di Parigi. In Cina, in un contesto dominato dall’ordine, ci sono state in questi ultimi anni più di settantamila rivolte contadine. Nel mondo, in forme diverse, c’è un’opposizione massiccia alla globalizzazione e alla sua natura socialmente regressiva: qui si colloca l’idea di un’altra Europa. Non un nobile ideale, o un’istanza utopistica, ma una proposta politica concreta. Del resto, quando parliamo di alternativa qui da noi, come possiamo pensarla se non un quadro europeo? Un quadro nel quale stanno prospettandosi battaglie di grande portata, come quella contro la direttiva Bolkenstein, o la miriade di esperienze “extramercantili”, i beni comuni, l’acqua, e così via. Un quadro che, domani, potrebbe riaprirsi anche a livello degli Stati: se in Germania va in crisi il governo Merkel, come molti segnali fanno pensare; se in Francia si riapre un processo a sinistra, sia pure tra molte ambiguità; se in Spagna l’era Zapatero prosegue e magari fa un salto di qualità, se in Italia, come speriamo, l’Unione batte il centrodestra, con una presenza significativa nostra e della sinistra radicale…. beh, allora, comincia una fase interessante.
A proposito dell’Italia, non possiamo sfuggire da un bilancio del 2005.Un bilancio politico, intendo.
L’anno che finisce (a proposito, i miei auguri affettuosi a tutti i compagni e ai lettori di Liberazione) è stato in realtà l’anno della fine del berlusconismo. Il centrodestra ha subito un crollo, un echec, come dicono i francesi, non solo come politiche di governo, ma come blocco di consenso. Da molti punti di vista, noi stiamo già vivendo da un pezzo la transizione ad un’altra fase - siamo già ampiamente nell’era del postberlusconismo. Da qui, il terremoto, il movimento caotico a cui abbiamo assistito e stiamo ancora assistendo: tutte le forze, e segnatamente quelle borghesi, sono investite dalla transizione, e si vanno riposizionando. Perché adesso, con Montezemolo, fanno finta di non aver mai avuto nulla a che fare con Berlusconi, ma non è certo stato così, fino a pochissimo tempo fa….
Quali sono le questioni su cui il tonfo del berlusconismo si è rivelato “irresistibile”?
Intanto, la politica internazionale. Il centrodestra ha fatto una politica filoatlantica “perinde ac cadaver”, di fedeltà e sottomissione totale a Washington - insomma, ha scommesso tutto su Bush. E’ pur vero che Bush è ancora al potere, ma la crisi di consenso e di certezze di cui soffre questa amministrazione sono oggi molto evidenti: anche sulla guerra all’Iraq stanno cercando una via d’uscita. E, se non l’unipolarismo, l’unilateralismo non è più una carta vincente. Insomma: se non vuole rimanere isolata, l’Italia di domani non potrà più seguire una politica di alleanza con gli Usa senza se e senza ma. Secondo: la politica economica. Mai un fallimento fu così clamoroso: il nostro paese ha perso tutte le competizioni, pur avendo tutto puntato sul minimo costo del lavoro e la massima flessibilità. E dicevamo prima, siamo esposti più di chiunque alla concorrenza di Cina e India. Infine, si possono citare le “riforme istituzionali”: altro che classico topolino partorito dalla montagna! Non si sa neppure se è meglio indignarsi, o non prenderle sul serio…. Insomma, sono queste le basi sulle quali mi sembra difficile che l’Unione perda l’occasione elettorale del prossimo aprile.
Ma sono anche le basi di quella complessa operazione - chiamiamola neocentrismo, “terzismo”, futuro Partito democratico - che punta a condizionare da destra la politica dell’Unione,e a caratterizzarla in senso moderato. E i leader non sono solo Rutelli,Veltroni o altri politici, ma esponenti diretti del mondo imprenditoriale, come Carlo de Benedetti e Montezemolo…
Sì, in questo riposizionamento d’insieme, il presidente di Confindustria si è spinto molto sulla strada del progetto di un nuovo partito della borghesia: ha lanciato la Costituente, un’idea politicamente molto ambiziosa, e punta a ridisegnare l’intero assetto politico. E a rendere il sistema tutto funzionale al primato del mercato, all’assolutizzazione della merce, dove il conflitto sociale è derubricato a forza obsoleta o conservatrice. Da questo punto di vista, possiamo dirla così: nella prossima fase, la sfida si giocherà tra noi e Montezemolo. Non noi, povero piccolo partito. Noi sinistra, noi sinistra di alternativa, noi che non abbiamo messo nel cassetto l’idea di un futuro socialista. E se vogliamo avere un ruolo non testimoniale, non possiamo che lanciare la sfida al partito neoborghese, comunque si chiamerà e comunque sarà composto, in costruzione.
Non ti sembri una domanda naive:ma perché è così pericoloso questo progetto? In fondo, tutti i suoi leader sono sinceri democratici, senza ironia alcuna.
La pericolosità non nasce dalla vocazione non democratica dei diversi soggetti che lavorano per questo obiettivo, o sono pronti a convergere su di esso, ma dai suoi contenuti: per un verso, un assetto politico che esclude organicamente la sinistra, qualsiasi istanza della sinistra, forse dalla rappresentanza e certo dal governo, per un altro verso, la centralità delle merci e la svalorizzazione del lavoro, nel nome della competività e dell’“unità dei moderni”. Il pericolo che io vedo, insomma, è che il partito neoborghese che si accinge a governare l’Italia non solo si limiti a razionalizzare, “ripulendola”, l’era del centrodestra, ma si spinga su una strada di sostanziale “totalizzazione” della politica. Rivedo ancora il sogno della “Grande coalizione” tedesca: tutto per l’impresa e contro il ruolo sociale dello Stato. Perché Montezemolo e gli altri capitani coraggiosi dell’impresa non dicono mai che uno dei fattori del declino italiano, e forse non uno dei più irrilevanti, è stato l’abbandono dell’intervento dello stato nell’economia? E’ anche la fine della grande impresa pubblica, oltre che i disastri della grande impresa privata? Perché, certo, se lo dicessero, smentirebbero se stessi, le scelte che hanno appoggiato ieri e appoggeranno domani, l’ideologia che hanno predicato e vanno predicando. Perché diventerebbero palesi le loro responsabilità, e l’inefficacia del neoliberismo.
Infine: dalle tue parole vedo una certa inquietante somiglianza tra la politica del governo cinese e i propositi di Montezemolo. Sbaglio?
Forse non sbagli. E comunque ancora auguri a tutte e a tutti.
Liberazione, 31.12.05
Migranti di via Lecco: un po’ di moralismo non fa male alla politica
di Piero Sansonetti
Trascrivo integralmente le poche righe di una lettera pubblicata ieri dal giornale Libero. E’ intitolata: Occupazioni abusive e impotenza”. Tralascio la firma, che sicuramente è di un onesto cittadino, il quale probabilmente non si rende ben conto di quel che scrive, e non è giusto esporlo all’indignazione della gente assennata. Ecco la lettera. “Milano: somali, eritrei, etiopici prima occupano uno stabile, ora la strada. Cosa vogliono? Le villette? Perché non viene usato un idrante per farli sgomberare? Gli italiani in strada e loro nelle case a carico nostro? Avanti, tanto c’è Bertinotti che li difende”. Segue firma. A cosa si riferisce questo lettore di Libero? Alla vicenda dei profughi - alcune centinaia, diverse famiglie, molti bambini - che vivevano sistemati alla meno peggio in un palazzo di via Lecco, a Milano, e che sono stati sfrattati e buttati in mezzo alla strada, al gelo, il giorno dopo natale. giornali e le Tv ne hanno parlato poco di questa storia tremenda. I profughi erano tutti rifugiati politici regolari, la loro condizione era stata riconosciuta dalle autorità italiane - che in genere concedono il diritto di asilo con enorme parsimonia - ma questo non è servito loro a niente. L’idea è: ti do il diritto all’asilo non puoi pretendere che dia a te e ai tuoi bambini anche il diritto a sopravvivere.
Come si può commentare la lettera Libero? D’istinto viene da chiedersi: ma come è possibile che una persona normale, probabilmente sana di mente, che ha quasi certamente una sua vita regolare, forse un buon lavoro, forse una famiglia, amici, relazioni sociali, magari persino qualche idea, come è possibile che di fronte ad alcune centinaia di persone disperate, senza casa, infreddolite, affamate, sfuggite per miracolo a guerre e carestie e finite a cercare di salvare la pelle in una città italiana, di fronte a tutto questo, ai bambini che tremano per strada, pensi (e scriva) senza il minimo senso di vergogna: “attaccateli con gli idranti, disperdeteli, metteteli in fuga”? A me sembra un esempio di ferocia e di odio per il genere umano, quasi esagerato in modo paradossale. Eppure chiaro che non è così. L’opinione di quel lettore - e l’ira, la furia, l’aggressività che esprime - non è affatto un fenomeno raro. Anzi, rappresenta bene l’idea che appartiene a un settore abbastanza ampio dell’opinione pubblica italiana. E infatti trova ospitalità e comprensione in un giornale a grande tiratura nazionale, come Libero, che tra tutti i quotidiani italiani, mi dicono, è quello che sta vivendo il maggior successo di vendite.
Faccio un salto e cambio giornale. Il Corriere della Sera, altro stile. Trovo una bella intervista al presidente dell’Inter Massimo Moratti, potente petroliere, il quale, sempre sulla vicenda drammatica di via Lecco, dice parole di segno del tutto opposto a quelle scritte dal lettore di Libero. Sostiene Moratti: «Tutta la città deve vergognarsi». Ha ragione. Però, vi confesserò, io a questo punto vengo colto da una vera e propria vampata di moralismo, forse un po’ bigotto, che mi viene dalle viscere e non riesco a trattenere. Dico: Moratti spende dai 100 ai 200 miliardi all’anno per comprare giocatori di calcio, paga ogni mese - se non sbaglio - tre o quattro allenatori che ha licenziato perché non gli piacevano troppo, e li paga, più o meno, 200 mila euro al mese, distribuisce analoghi stipendi a una trentina di suoi giocatori la maggior parte dei quali acquistata non per giocare ma per fare numero. Chiedo: sicuro che di fronte alla tragedia di via Lecco l’unica sua risorsa sia di rilasciare una bella intervista al Corriere? Ma cosa dovrebbe fare? Non so, per esempio mettere mano al portafoglio e con l’equivalente dello stipendio mensile di uno dei suoi allenatori in “cassa integrazione” risolverebbe il problema di via Lecco e non proverebbe più vergogna, né per se né per la sua città. Non è tenuto a farlo: potrebbe farlo. E comunque dovrebbe rendersi conto del fatto che un mondo che permette a una persona di disporre di diversi miliardi al mese e a un’altra persona di non avere né un tetto né una minestra, è un mondo molto ingiusto, e che le ingiustizie provocano vittime e beneficiari, e che di questa ingiustizia - diciamo così - lui non è una vittima.
Certo che il mio è moralismo un po’ populista, demagogico. Me ne rendo conto. Però mi viene il dubbio che a forza di dire che la politica non deve essere moralista, e che bisogna separare le persone e le loro idee, che l’azione politica non è carità, che non si devono giudicare i comportamenti individuali eccetera eccetera, si finisce per trasformare la politica in qualcosa che non ha più niente a che fare con le relazioni umane - cioè con la materia, immensa, della quale dovrebbe occuparsi - ma solo con il potere, con le strategie, coi profitti, con i soldi, le finanze, le banche e quelle cose lì. Non voglio parlare adesso del caso Consorte, dei Ds che hanno appoggiato la scalata alla Bnl confondendo una banca con una borgata, né del caso Fazio, Draghi, Montezomolo eccetera. Però ho l’impressione che se non accettiamo l’idea che almeno una piccola porzione di moralismo deve entrare in politica, alla fine resteremo del tutto privi di argomenti di fronte alla lettera del lettore di Libero. Cosa gli diciamo, quando lui chiede che sia sgomberato il suo marciapiedi, se non possiamo usare argomenti di morale e di etica? Come facciamo a convincerlo che un essere umano è un essere umano, e che se è etiope o eritreo o somalo, è uguale a sua sorella, sua moglie, suo figlio, sua madre e il suo capoufficio? Se accettiamo che la politica è solo tecnica e strategia (nel migliore dei casi), amministrazione ed economia, in che modo possiamo fissare dei principi e spiegare a settori vasti di opinione pubblica che i principi esistono in quanto tali, hanno a che fare con lo spirito, con la storia, con la filosofia, e non con il conto in banca, e che i principi non necessariamente coincidono con i nostri interessi individuali, o di ceto sociale, o di casta di nazione?
PS. Naturalmente la lettera a Libero è niente confronto a quello che successo ieri in Egitto. Dove la polizia ha ucciso ventina di profughi sudanesi. Perché? Perché erano profughi, erano senza permesso, erano illegali, dici illegali dici senza diritti, solo la legalità genera diritti e divide il mondo due categorie. Attenzione non pensare che l’Egitto lontano. Il comportamento tenuto da un governo sinistra europeo, come quello spagnolo, a Melilla, stato molto diverso comportamento del governo egiziano. E neanche logica nostra, dei Cpt, dei campi di concentramento per migranti, è lontanissima dalla logica Mubarak.
Liberazione, 30.12.05
Parabole
Un patrimonio di tutti
Cara “Liberazione” anche io, ateo, mi trovo perfettamente d’accordo con quanto scritto dalla compagna Sandra Frangioni di Massa Marittima nella lettera a “Liberazione” del 28 dicembre a proposito del libro di don Vitaliano della Sala “Le parabole di Gesù Nazareno”, in quanto i messaggi positivi devono essere patrimonio di tutti.
Davide Sacchi Bologna
Religione
Io preferisco pensare
Caro direttore, sto seguendo da qualche giorno questo avvincente dibattito su religiosità e realtà umana e ora sto pensando alla parola ateo, al suo significato culturale. E penso che questo fonema, ateo, non rappresenti bene l’essenza di chi non crede. La lettera a, privativa, ci parla di una mancanza. E, come genialmente faceva notare Sansonetti, secondo il Papa, a chi manca Dio manca la dignità umana. In effetti si può pensare che manchi il pane, che manchi il latte, ma non si può pensare che all’ateo manchi Dio per il semplice fatto che Dio esiste solo nella mente di chi crede. E penso, anche, che la parola ateo va sempre unita alla parola ribellione perché quando non ci si ribella ci si identifica. Non dire no ad un prete che legge Le parabole di Gesù Nazzareno significa identificarsi con qualcuno che crede all’esistenza di un figlio di Dio, con qualcuno che pensa a questa favola non come ad un mito, ma ci crede veramente. E quindi mi sento offeso da qualcuno che non vuole che io pensi ma che creda a ciò che lui ha nella mente. E, se vogliamo dare un vero senso alle parole, forse dobbiamo dire che la parola da contrapporre a credente non è ateo, non è nemmeno non credente, la parola è… pensante.
Gian Carlo via e-mail
Un veleno paralizzante
Caro direttore, mi fa tanto piacere che sulle pagine di “Liberazione” si sia aperto il dibattito sull’ateismo, tema che mi sembra fondamentale approfondire. Da parte mia vorrei porre l’accento sul fatto che per noi atei è relativamente facile denunciare la macroscopica ingerenza e violenza insita nella dottrina delle gerarchie cattoliche (il papa ci ha rivelato l’amore di dio per l’embrione e l’«azione divina all’interno del grembo materno»!); più difficile è scoprire e smascherare quanto il pensiero religioso che, attraverso la famiglia e la cultura ha colonizzato la nostra mente sin dalla prima infanzia, influisca e opprima gli aspetti più profondi e non coscienti della nostra vita privata, soprattutto nel campo degli affetti e della sessualità. Leggendo il toccante e incisivo commento di Massimo Fagioli del 24 dicembre “La sessualità non è procreazione, ma è identità tra diversi”, mi sono chiesta quanto la difficoltà di noi donne a vivere un rapporto libero e vitale con l’uomo sia frutto di quel veleno paralizzante che l’educazione cattolica ci ha inoculato da bambine: il peccato originale è la colpa di Eva, la sessualità è male, solo lo scopo procreativo la rende lecita… Forse, come tu dici rispondendo ad Andrea il 23 dicembre, Cristo era gentile con le donne e non le discriminava, ma io so bene quanto quella figura mitica e irreale (la cui storicità tra l’altro è controversa) ha contribuito a rendere confuso ed angosciato il periodo della mia pubertà e ha inibito la realizzazione della mia identità femminile. Io penso che siano le tante striscianti influenze ideologiche di questo tipo ad ostacolare la realizzazione della nostra piena identità umana e quindi la possibilità, ad esempio, di concretizzare le tre parole cardine su cui “Liberazione” vuole sviluppare la ricerca: libertà, uguaglianza e fraternità, che la rivoluzione francese aveva inventato e poi presto tradito con la violenza del Terrore…
Fulvia via e-mail
Corriere della Sera, 30.12.05
Indagine della Società Italiana di Andrologia
Italiani troppo «svelti» a letto
Ben il 40 percento dei maschi del Bel Paese soffrono di eiaculazione precoce. E il 12 percento di disfunzioni erettili
ROMA - Il 40 percento degli italiani soffre di eiaculazione precoce, il 12-13 percento di disfunzione erettile, il restante di disturbi legati al funzionamento della prostata e, per la prima volta, viene alla luce l'insoddifazione sessuale di coppia. Sono queste le prime indicazioni che emergono dalle risposte date dai circa 9 mila uomini al questionario messo a punto per la settimana di prevenzione andrologica (21-26 novembre 2005) dalla Sia, la Società Italiana di Andrologia.
«Sono dati non definitivi ma comunque dicono di una tendenza nuova: è la prima volta che emerge un'alta insoddisfazione sessuale di coppia così come l'eiaculazione precoce», spiega Vincenzo Gentile, presidente della Sia e docente di urologia all'Università La Sapienza, di Roma, per il quale «una sana e fattiva attività sessuale fa parte della salute generale della persona».
DEPRESSIONE MASCHERATA - L'aumento dei disturbi legati alla sfera sessuale riguarderebbero il 10% della popolazione. «In generale si tratta - precisa Gentile - di disturbi dovuti ad un calo di vitalità e pertanto di desiderio: spesso c'è una depressione più o meno mascherata, un'ansia latente, una situazione di forte stress». Certamente «ci sono spesso cause organiche - continua Gentile - ma la componente psichica ed emotiva ha la sua buona incidenza». Oggi ci sono farmaci efficaci che permettono una adeguata e sufficiente erezione per avere rapporti sessuali: «Sono farmaci che agiscono sull'aspetto organico - nota Gentile - e fisico: per funzionare comunque serve l'attrazione e lo stimolo sessuale insomma un pò di desiderio».
INSODDISFAZIONE - Quel che la Sia non s'aspettava dalle risposte pur non definitive al questionario è la comparsa dell'insoddisfazione di coppia dovuta ad una serie di cause: la routine, la noia, il calo dell'erotismo, il dormire nello stesso letto, lo stress della vita quotidiana.
«Bisogna poi eliminare tutti i fattori di rischio - aggiunge Gentile - ansia e depressione, ipertensione e diabete, obesità e stress: insomma uno stile di vita equilibrato e sereno». E questo dello stile di vita è il primo tassello.
«C'è poi il rapporto di coppia, ossia la relazione uomo-donna da vivere nel dialogo e confronto, nella confidenza e rispetto reciproci - prosegue Gentile - Solo così nella massima apertura e sincerità la sessualità si arricchisce di contenuti e non appassisce fino alla noia e routine: insomma più il rapporto e la relazione di coppia sono liberi e vissuti in profondità, più sono appaganti per entrambi». In un rapporto e relazione di coppia aperti e liberi, «è possibile raggiungere la sana sessualità che è parte integrante - conclude Gentile - della salute complessiva». Insomma, far sesso allunga la vita e soprattutto fa vivere meglio.
La Provincia di Sondrio, 30.12.05
Ad Harvard sono stati avviati esperimenti su persone prigioniere di memorie traumatiche ma subito si è imposta una questione etica In America preparano la pillola che cancella i brutti ricordi
Uno degli elementi più importanti nella composizione della personalità umana è costituito dalla memoria. Quello che l'essere umano è, come pensa, come si comporta è infatti principalmente frutto delle esperienze che egli ha vissuto, nella realtà o nella propria mente, e delle quali ha conservato una traccia. Se fino a qualche tempo fa non c'erano dubbi sull'immortalità dei ricordi, buoni o cattivi che fossero, oggi l'eternità della memoria è messa in discussione da un farmaco in grado di cancellare le dolorose reminiscenze. Lustrino della scienza, e croce dell'etica, la pillola per cancellare i brutti ricordi è allo studio di un gruppo di medici e di psichiatri dell'università di Harvard, persuasi che le memorie cattive non solo si possano ma in alcuni casi si debbano annullare. Il riferimento è agli eventi traumatici, quali incidenti quasi mortali, attacchi terroristici, esperienze di guerra, che imprimono nella mente dell'interessato suoni, immagini, odori, responsabili di un disturbo mentale noto come sindrome da stress post traumatico. «Troppa adrenalina dopo un evento traumatico crea una memoria eccessivamente forte, eccessivamente emotiva e troppo profondamente radicata. Il nostro obiettivo - hanno spiegato gli esperti di Harvard - non è quello di far dimenticare ma di trasformare questa memoria speciale in una memoria normale». In altri termini, modificare il contenuto della memoria. Per ridurre l'adrenalina indotta dal trauma i ricercatori di Harvard hanno somministrato a un gruppo di 40 pazienti per 19 giorni dopo il trauma un farmaco contro l'ipertensione chiamato propranololo che interferisce con l'azione degli ormoni dello stress a livello cerebrale. Il risultato è stato positivo: una settimana dopo la fine della terapia i soggetti che avevano preso la pillola erano in grado di raccontare l'evento traumatico di cui erano stati protagonisti senza sintomi di stress e, a distanza di tre mesi, con minore ansia. Allo stato attuale per la sindrome da stress post traumatico non esiste una cura vera e propria. Uno degli approcci più comuni e controversi è quello di far rivivere gradualmente ai pazienti le esperienze che essi hanno subito al tempo del trauma in un ambiente che considerano sicuro. La disponibilità di un farmaco che aiuti o addirittura assicuri il superamento dell'evento traumatico mediante la sua cancellazione è dunque ritenuta una valida alternativa. Un'alternativa, peraltro, non meno controversa della rimozione, per reviviscenza dell'evento, del trauma. A destare perplessità, dal punto di vista etico, è il metodo farmacologico in sperimentazione ad Harvard: l'interazione su strutture e processi cerebrali il cui effetto è quello di modificare il contenuto dei ricordi. Secondo il Consiglio di Bioetica della Casa Bianca «cambiare il contenuto delle nostre memorie alterandone le tonalità emotive, per quanto desiderabile per alleviare sensi di colpa o consapevolezze dolorose, potrebbe sottilmente cambiare chi siamo». Inoltre, ha ribadito il Consiglio di Bioetica, «cancellare la memoria di esperienze terribili rischia di renderci insensibili alla sofferenza e alle ingiustizie di cui sono vittima gli altri».
Elena Salvaterra
Liberazione, 29.12.05
Il ministro Storace annuncia che metterà mano alla mitica legge-Basaglia sulla psichiatria, uno dei vanti della cultura e della politica italiana degli anni ’70. E’ in atto una ondata reazionaria dinnanzi alla quale una parte della sinistra vacilla
Aborto, droghe, carceri e ora i manicomi
L’Italia sta tornando agli anni ’50
di Piero Sansonetti
Il ministro della Sanità Francesco Storace ha annunciato che metterà mano alle legge 180, cioè alla famosissima legge Basaglia, una di quelle grandi riforme che negli anni ’70 cambiarono la faccia dell’Italia, la fecero uscire dalla sua cultura paurosa, clericale e reazionaria, la fecero diventare un paese moderno e sotto certi aspetti di avanguardia. Franco Basaglia sapete tutti chi è: uno psichiatra di prim’ordine e uno dei maggiori intellettuali italiani del dopoguerra. Fu lui che fondò e diresse una scuola di pensiero e di lavoro che chiedeva - e sperimentava - la fine dei manicomi, cioè negava che esistesse una soluzione carceraria e repressiva ai problemi della psiche. La sua scuola ebbe una risonanza così grande nel mondo intellettuale e politico, non solo italiano, di quegli anni - che erano anni un po’ più vivaci di quelli che stiamo vivendo - da produrre addirittura una legge dello Stato che stabiliva la fine dei manicomi, realizzando così quel miracolo, assai raro, che è la trasformazione in leggi - cioè in atti concreti e che riguardano tutti – del pensiero e dell’elaborazione culturale. Miracolo che con una parola meno altisonante potrebbe definirsi così: “Politica”.
Non c’è da stupirsi se un uomo come Francesco Storace - che non ha costruito la sua educazione sui libri o nelle aule dell’Università, ma piuttosto nelle sezioni del Msi e nei circoli fascisti romani - non conosca bene Basaglia, il suo pensiero, e non abbia in simpatia le leggi che ha ispirato. Il problema è che l’iniziativa di Storace non è affatto isolata, sta dentro un disegno, più o meno organizzato e consapevole, della destra italiana: quello di cancellare la grande stagione delle riforme che hanno modernizzato questo paese tra il 1969 e il 1979, e di sospingere l’Italia, di nuovo, verso il grigiume mediocre e borghese degli anni ’50.
Vediamo quello che è successo nell’ultimo anno, o poco prima. La legge Fini sulle droghe, che mette una pietra tombale su ogni pensiero vagamente antiproibizionista.
L’offensiva della Chiesa sulla fecondazione assistita, e poi sull’aborto, che punta all’abolizione della legge sull’interruzione della gravidanza del 1978, e al ritorno di una idea subalterna e ancillare del ruolo della donna. Poi c’è stata la cancellazione della legge Gozzini, che aveva portato un po’ di umanità nel sistema delle pene e nella condizione dei carcerati.
Ora l’idea di cancellare Basaglia e di tornare ai manicomi.
Sullo sfondo l’attacco continuo allo statuto dei lavoratori e una riforma costituzionale che di fatto abolisce il servizio sanitario nazionale, cioè una delle più grandi conquiste ugualitarie di tutto il secolo scorso.
Qual è il filo comune, che unisce tutti questi passi e questi provvedimenti? E’ la concezione della politica e dello Stato secondo la quale compito essenziale – quasi esclusivo - dei poteri pubblici è proibire, reprimere, usare la legge per garantire la tranquillità della gente perbene e la “normalità” dei comportamenti. La civiltà sta nella “normalità” contrapposta alla “diversità” eversiva. E le possibilità di sviluppo sono affidate alla macchina economica, che funziona molto meglio in assenza di turbolenze culturali, di conflitti sociali, di sforzi per costruire beni comuni e per eliminare gli squilibri nella ricchezza.
E’ una offensiva restauratrice in piena regola. Per certi aspetti assolutamente italiana, per altri collegata alla ventata reazionaria dell’America di Bush. E la sinistra non sembra molto attrezzata alla controffensiva.
Si mostra titubante, impaurita, sembra pensare che almeno un po’ di restaurazione in fondo è giusta. Se la sinistra non esce da questo difensivismo, dalla subalternità, dalla paura di essere se stessa, rischia di subire una sconfitta storica.
Liberazione, 29.12.05
Quale marxismo per il XXI secolo?
Tornare a Marx non basta. Troppo produttivista
di Giuseppe Prestipino
Una recensione di Tonino Bucci a Sulle tracce di un fantasma. L’opera di Karl Marx tra filologia e filosofia, volume curato da Marcello Musto per la Manifestolibri 2005, contenente gli Atti di un convegno internazionale tenutosi a Napoli, ha offerto spunti per un dibattito, ospitato da questo giornale. Sono stato presente in quel convegno, so di un altro nutritissimo convegno sulla Mega (la nuova edizione delle opere di Marx ed Engels) organizzato in Giappone ed intervengo sollecitato dall’articolo scritto da Luigi Cavallaio nel quale, pur con la consueta competenza, egli non ha rinunciato a dichiarare i suoi noti rimbrotti per il cosiddetto "ecomarxismo", che a suo dire non potrebbe in nessun modo «rivendicare la propria discendenza da Marx».
Mi limito a due scarne notazioni: l'una sulla “discendenza”, ossia sul rapporto tra teoria (sociale) e politica; l'altra sul marxismo come scienza economica.
Vi sono teorie che possono guidare l’agire politico o esser fatte proprie da quest’ultimo. Ma, se tra la teoria e la politica che vuol appropriarsene, l’intervallo temporale oltrepassa l'arco di un “secolo lungo”, anche la migliore teoria dev’essere tradotta come dev’essere tradotto quel che è scritto, ad esempio, in portoghese per essere letto in un’altra lingua. E’ questo uno degli insegnamenti di Gramsci. E il buon traduttore-filologo pubblica la sua traduzione con il testo originale a fronte o, quanto meno, intercalando nella sua traduzione alcune parentesi contenenti parole-chiave in lingua originale. Fuor di metafora: il politico odierno non può proporsi, semplicemente, di “ritornare a Marx”; deve farci sapere su quale “traduzione di Marx” cade la sua scelta. Il passaggio da una teoria del XIX secolo a una politica d’oggi dev’essere mediato sul piano teorico prima che su quello politico. Ed è un falso problema quello che in un pensatore distingue (come fa, tra gli ultimi, Guido Carandini) lo scienziato dal profeta. Perché fare scienza è, nello stesso tempo, fare previsioni: che non è corretto chiamare profezie, se profeta è colui che parla in stato di semi-incoscienza, o colui per la cui bocca si rivelerebbe la parola di un dio. Le previsioni di Marx, come quelle di tutti i grandi, sono geniali ma contraddittorie: per certi aspetti si sono avverate per altri no. E anche Il Capitale, nel quale Marx non fa esplicite previsioni, ma compie soprattutto una rigorosa analisi sul suo tempo, «non è esente da contraddizioni » (Maria Turchetto).
Vengo al marxismo come scienza economica. Ogni scienza economica ha per oggetto scambi: di merci o, più in generale, di beni dei quali sia presupposta una scarsità. L’economia, prima che economia politica, sarà dunque economia ecologica, perché l’ecologia assume come suo oggetto precipuo la scarsità o l’esauribilità, oltre che dei beni prodotti dall’uomo, anche di quelli disponibili nell’ambiente naturale.
Consideriamo gli scambi tra gli esseri umani e l’ambiente in generale. L’animale umano non si adatta più all’ambiente, ma adatta a sé l’ambiente. Se l’uomo comincia a mettersi in testa di poter trasformare febbrilmente anche se stesso, nei propri bisogni e caratteri biologici e psichici, costringendo la natura a inseguire, e persino a precedere, quelle sue metamorfosi (o “metastasi”) esistenziali, allora una sorta di follia suicida si impadronisce degli umani e sembra impadronirsi anche dell’ambiente naturale. Gli umani intervengono dapprima sulla natura, per appropriarsene, mediante artifici. In un secondo tempo, trasformano in larga misura la natura stessa, facendone, per così dire, una natura artificiale. Ma, da ultimo, tendono a creare esseri umani artificiali.
Marx, il cui oggetto di studio è il modo capitalistico, deve a buon diritto prescindere dalla “natura fisica” dei prodotti, benché, nella Critica al Programma di Gotha, dichiari: «Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è fonte dei valori d’uso (e di tali valori consta la ricchezza reale!) come il lavoro che in sé è soltanto espressione di una forza naturale». Ma, quando il Marx dei Grundrisse scorge le prime avvisaglie di un processo che può preludere al superamento di quel modo di produzione, egli prevede allora il ruolo crescente della scienza tecnologizzata come nuova forza produttiva, per effetto della quale diverrebbe cosa «miserabile» l’equazione tra valore e quantità di lavoro umano salariato. Non prevede, invece, il crescente impiego della natura e delle sue risorse, che è strettamente correlato agli sviluppi portentosi di quelle tecnoscienze.
E, prefigurando la società futura, scrive che la «vera ricchezza» consisterà, non più nei valori di scambio derivati da quell’equazione, ma nei valori d’uso; anzi - così interpreta Charles Bettelheim - nell’«accrescimento dei valori d’uso».
Ed ecco il punto debole dell’economia critica, ovvero il debito involontario di Marx proprio verso la da lui criticata realtà capitalistica: l’«immane raccolta di merci», che è l’immagine emblematica con la quale si apre la sua opera maggiore, diverrebbe pur sempre, nella società futura, un «immane» accrescimento, invece che di valori di scambio, di valori
d’uso? Ma, allora, l’accusa che Bettelheim rivolge all’economia sovietica, di accogliere una forma-valore capitalistica per adattarvi presunti contenuti socialistici, una simile o meglio una simmetrica accusa non meriterebbero forse anche gli iniziatori del materialismo storico, per aver fatto proprio l’anelito capitalistico verso un illimitato «accrescimento», inteso di fatto come un vino vecchio da riversare (o occultare) entro una botte nuova, ossia entro una (presunta) forma comunistica?
Sia chiaro che gli ambientalisti seri non intendono demonizzare l’accrescimento dei valori d’uso come se fosse il Male assoluto. Raniero La Valle ha detto: chi governa il mondo s’è accorto che, se a parer suo il tenore di vita statunitense «non è negoziabile», l’ambiente restringerà inevitabilmente gli spazi di vita per gli umani; perciò chi governa il mondo ha scelto un suo pensiero “apocalittico” in base al quale i pochi si salveranno e i più saranno reietti o dannati. Una tale opzione “apocalittica” è venuta dopo gli anni dell’euforia neo-liberista e della globalizzazione capitalistica incontrastata, allorché si predicava che prima o poi, chi più chi meno, tutti avremmo direttamente o indirettamente beneficiato del nuovo exploit della “libera” economia, tutti saremo divenuti più o meno ricchi. Ebbene la messa in guardia da un indiscriminato accrescimento dei valori d’uso - non soltanto delle merci o dei valori di scambio - nasce dal fondato timore che tutti possano ritrovarsi (più o meno) poveri a breve scadenza: che tutti siano condotti controvoglia all’ascetismo.
In Sulle tracce di un fantasma, André Tosel ci fa capire che certo marxismo prolunga l’hegeliana cattiva infinità o persino l’hegeliano Spirito Assoluto, insiti nella moderna illimitata volontà di dominio tecno-capitalistica. La prolunga, sia pure soltanto come volontà di dominio sulla natura, e non più di dominio proteso anche sugli esseri umani. E, aggiungo (rimando al volume Accadde domani.Tra utopia e distopia, Edizioni Aracne, 2005), se il dominio è accompagnato sempre da una qualche forma di violenza, la nonviolenza non dovrebbe estendersi anche a quel che è fragile e/o esauribile nella natura extra-umana? Dovremmo sognare una liberazione senza alcun dominio. E quindi connotata dalla coscienza del limite. Non vorremmo regnare-sul-mondo o avere-il-mondo, ma essere-nel-mondo.
Liberazione, 29.12.05
Intervista al professor Gigi Attenasio, psichiatra di lungo corso, sulle ultime esternazioni del ministro della Salute. «Difendo la legge Basaglia, una conquista di civiltà»
«Storace non tocchi la 180, l’Europa ce la invidia»
di Frida Nacinovich
Buongiorno professor Attenasio. Sa che il ministro Storace vuole mettere mano alla legge Basaglia? L’ha detto giusto due ore fa. «Cosa? ne è sicura». Le leggo la notizia di agenzia: “Il governo metterà mano alla legge 180, si tratta di dare una prospettiva di sicurezza alle famiglie”.
Breve silenzio dall’altra parte del telefono. Poi Gigi Attenasio, medico-psichiatra di grande esperienza, fa sapere di essere «preoccupato, veramente preoccupato. Proprio non mi aspettavo una notizia del genere. Non capisco come mai si voglia mettere mano a una legge che ci è invidiata in tutto il mondo». Eppure Francesco Storace l’annuncio l’ha dato, in pompa magna. E chi se ne frega se fra un mese si scioglieranno le Camere in vista delle elezioni politiche di aprile.
Gli ultimi giorni del governo Berlusconi sembrano una corsa impazzita. Dalla legge elettorale a quella sull’aborto, per finire ora con la 180 sulla tutela del disagio mentale. Tutto da rivedere, tutto da (contro) riformare. Indietro tutta. «Incredibile - dice Roberto Musacchio, eurodeputato di Rifondazione comunista – La legge Basaglia è una conquista di civiltà che viene apprezzata in tutta Europa e rappresenta un vero e proprio punto di riferimento.
Per questo le dichiarazioni del ministro Storace sono inqualificabili e da respingere ». Il Verde Paolo Cento scuote la testa: «Per fortuna il governo ha i giorni contati ed i propositi di Storace di rivedere la 180 non possono essere realizzati».
La legge 180, meglio conosciuta come “legge Basaglia” è stata approvata ed è entrata in vigore nel 1978, è passata alla storia come il provvedimento che ha chiuso i manicomi in Italia. Essa ha vietato le nuove ammissioni in manicomio e sancito che non si costruissero più ospedali psichiatrici. Dal 1978 in poi, così, sono stati vietati nuovi ricoveri e si sono istituiti i centri d’igiene mentale (prima dell’entrata in vigore della legge, invece, bastava una firma del medico per rinchiudere per sempre in manicomio un malato considerato pericoloso «per sé e per gli altri»).
«Una legge democratica, di civiltà, di libertà», dice il professor Attenasio.
Trent’anni dopo l’approvazione della legge Basaglia, qual è il bilancio?
Sono stati chiusi posti non solo violenti ma anche dannosi da un punto di vista terapeutico.
Abbiamo ancora davanti agli occhi i devastanti esiti dell’internamento a vita. Non so cosa Storace intenda con quel «mettere mano». Bisognerebbe mettere mano al fatto che c’è stata una carenza di risorse.
Eppure il governo taglia i fondi al servizio sanitario nazionale, alla sanità pubblica.
Noi siamo per un servizio assolutamente pubblico. Il problema della salute mentale non è mercificabile. E’ un bene collettivo, così come lo è la salute.
Qualcuno ha detto che la 180 era una legge quadro e non dava strumenti concreti. Non è vero. Nei posti in cui sono stati messi in piedi i centri sono stati fatti molti passi avanti. Ci sono esperienze esemplari. Penso ad Arezzo, dove ho lavorato per molti anni e dove si è arrivati ad un superamento effettivo del manicomio. L’équipe del professor Pirella portava avanti l’esperienza del superamento dell’Ospedale psichiatrico. Mi viene in mente Trieste e tante altre realtà dove la legge è stata applicata alla lettera e se ne è dimostrata la bontà.
Il ministro Storace è stato chiaro:«E’arrivato il tempo di ridiscutere la legge Basaglia».
Lo ripeto: questa notizia mi sconvolge e mi preoccupa. Lo stravolgimento della legge elettorale, l’attacco, gravissimo, alla 194: stanno cambiando tutto quello che riescono a cambiare. Invece di mettere mano alle risorse, si cerca di cambiare la filosofia delle leggi.
A 20 giorni dallo scioglimento delle Camere,pare che Storace più che a confrontarsi seriamente con i problemi del paese pensi alla sua campagna elettorale.
Siamo andati a Strasburgo, invitati dal parlamento europeo, il presidente Borrel ci ha ascoltato con attenzione e poi ha detto che voleva fare in Europa quello che si è fatto in Italia.
Psichiatria democratica è diventata psichiatria democratica europea. In Italia abbiamo una legge conquistata non in paludati convegni ma nelle assemblee generali, nelle piazze, con la gente. Basaglia diceva che la legge è diversa dalle altre perché è stata fatta con la gente. Non c’è stata una trasformazione politica a tavolino, la legge è stata fatta sulla base delle lotte nei manicomi.
Più che mettere mano alla 180,il governo dovrebbe mettere mano al portafoglio per applicarla.
Spero che il mondo democratico, intellettuale, dei tecnici, dei politici, della cultura si ribelli. Personalmente mi auguravo che nell’ultimo mese prima dello scioglimento delle Camere i ministri del governo Berlusconi stessero più tranquilli.
Invece si profila una nuova crociata del ministro della Salute.
Cambiare la 180? Spero non ci riusciranno, sarebbe veramente grave. Tutti i ministri della salute dall’ottanta fino ad oggi - e non erano tutti comunisti, estremisti del bene comune - quando andavano all’estero venivano visti come portatori di una novità importante.
I vari tentativi di cambiare la legge Basaglia, penso ad Altissimo, a De Lorenzo, non sono andati in porto. Spero che Storace vada in Europa e ascolti quello che hanno da dirgli.
Liberazione, 29.12.05
«Dio ama l’embrione». L’«informe» è già uomo
Papa Ratzinger all’udienza generale: «L’essere umano considerato nel suo inizio pieno e concreto». Dossier vaticano contro l’aborto «strage degli innocenti». Il cardinale Trujillo tesse le lodi di Fallaci e Pera e dice che gli aborti sono peggio della guerra
di Fulvio Fania
Dio ama l’embrione. L’aria in piazza San Pietro è gelida ma l’argomento è surriscaldato e il Papa alza la fiamma. Parla infatti dell’embrione già come creatura umana, di «azione divina all’interno del grembo materno », di esseri ancora «informi» nell’utero e tuttavia già conosciuti ed amati da Dio.
Benedetto XVI si ripresenta davanti alla basilica coperto dal mantello rosso e da quel copricapo purpureo ornato di ermellino, tanto simile al berretto di babbo natale, che era rimasto deposto nei bauli dai tempi di Giovanni XXIII. Non è però uno scherzo la “catechesi” letta da Ratzinger. E’ il commento alla seconda parte del salmo biblico 138: Dio omnisciente tutto vede e tutto sa dell’universo e del suo vero «prodigio», che è proprio l’uomo. La Sacra scrittura canta così le lodi del Signore: «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era già scritto nel tuo libro». Il Papa spiega che l’espressione ebraica è stata interpretata «da qualche studioso della Bibbia» come riferita precisamente all’embrione, «piccola cavità ovale e arrotolata ». Ed eccoci dunque balzati dalla poesia del salmista alla fisicità della gravidanza.
Come sempre Ratzinger è attento all’esegesi filologica e stavolta mette in evidenza anche le parole del salmo che descrivono la «tessitura» del corpo in formazione e la forma che esso va assumendo come per maestria di un vasaio. Aggiunge però una frase a braccio e così fa ben intendere che cosa gli prema davvero. Questa la sua sottolineatura: «Appare la grandezza di questa piccola creatura umana non nata, formata dalle mani di Dio e circondata dal suo amore. Un elogio biblico dell’essere umano fin dal primo momento della sua esistenza».
Non fa alcun cenno diretto all’aborto; risulta tuttavia chiarissima l’equivalenza tra uomo ed embrione, tutte creature seguite dallo sguardo amorevole di Dio. L’embrione, insomma, sarebbe già uomo o donna. Violarlo sarebbe un’offesa a Dio. A trarre le conseguenze del concetto provvede subito l’agenzia Fides, organo di Propaganda fide. Nelle stesse ore, infatti, la potente congregazione vaticana diretta dal cardinale Crescenzio Sepe, pubblica un lungo dossier contro l’aborto. Il documento punta alle emozioni forti, alla maniera del Movimento per la vita: «Strage degli innocenti», breve nota sulla rappresentazione artistica degli infanticidi e del massacro di Erode. Dunque l’aborto sarebbe assassinio e così lo giudicò la Evangelium vitae di Giovanni Paolo II. Il dossier elenca i principali testi del magistero papale e segnala in particolare le posizioni del cardinal Ratzinger che nel 1987 si domandò appunto perché l’aborto non suscitasse la stessa indignazione dell’infanticidio.
Come prefetto della Dottrina, il teologo bavarese si occupò a lungo dei vescovi suoi connazionali e dei consultori cattolici che facevano parte della rete pubblica nei vari Lander della Germania. Fu un lungo braccio di ferro; da un lato Wojtyla, il Vaticano e il cardinale di Colonia Meisner, dall’altro il presidente dell’episcopato tedesco Lehmann e la maggioranza dei vescovi. Alla fine scattò l’ordine: abbandonare il sistema consultoriale visto che per legge vi si rilasciano certificati di consulenza necessari per abortire. I cattolici tedeschi hanno tuttavia aggirato l’ostacolo costituendo nuove strutture non controllate dalle diocesi ma da associazioni del laicato.
Quella è stata comunque una memorabile battaglia per il cardinale Alfonso Lopez Trujillo, capodicastero vaticano per la famiglia, colombiano amico dell’Opus Dei e dei conservatori e sostenitore di Ratzinger al Conclave. C’era molto di suo nel discorso che il 3 dicembre Benedetto XVI ha rivolto ad un gruppo di vescovi latino-americani, un durissimo attacco al «crimine dell’aborto » e alle coppie di fatto dai toni immediatamente politici. Trujillo, che sta preparando un incontro mondiale delle famiglie per il 2006 in Spagna, sa di poter influire sui temi a lui cari. Nel dossier di Fides compare anche una sua intervista. Il succo è che la Chiesa di Ratzinger deve andare oltre la “Humanae vitae” di Paolo VI assumendo appieno le convinzioni del nuovo Papa. «Se l’embrione è essere umano - sostiene il cardinale – deve essere al contempo persona umana». Quindi sopprimere le cellule embrionali è un omicidio e gli aborti sono «qualcosa di spaventoso più di una guerra» e vanno giudicati nei tribunali. Meno male, per Truijllo, che ci sono “laici” come Oriana Fallaci e Marcello Pera, pronti ad associarsi alla «ribellione contro questo crimine». Che importa poi se hanno appoggiato la guerra in Iraq con tutti i suoi massacri? Completamente diversa l’atmosfera in mezzo alla neve che è caduta a Milano dove si affollano decine di migliaia di giovani cristiani - cattolici, protestanti, ortodossi uniti nella Comunità di Taizé. Arrivano da paesi e chiese differenti d’Europa, ogni fine anno in una città diversa. Questo è il primo appuntamento senza il fondatore, fratello Roger Schutz, assassinato il giorno dopo Ferragosto. Al suo posto ora c’è frère Alois; la guida di questo movimento ecumenico e di pace è passata ad un cattolico ma continuano a giungere gli auguri dei patriarchi di Costantinopoli e di Mosca, dell’arcivescovo di Canterbury, del Consiglio ecumenico delle chiese. Dal Vaticano è partito un messaggio non del Papa ma a suo nome. «L’esempio del fondatore di Taizé e la testimonianza di Giovanni Paolo II a favore del dialogo e della pace - vi è scritto - vi incoraggi ad essere artigiani di pace».
Liberazione, 29.12.05
Parabole
Chi sono i veri cristiani
Caro direttore sto seguendo con attenzione e con interesse il dibattito che si sta sviluppando attorno alla pubblicazione del libro delle parabole di Gesù e della sua pubblicità sul nostro giornale. Premetto che io sono credente, ma non praticante, e credo nelle molte anologie che ci sono tra la dottrina cristiana e il comunismo. Parlo di dottrina appunto per dividerla dall’operato di alcuni alti prelati che nel corso dei secoli hanno scritto pagine indegne della storia della chiesa. Personalmente penso che la pubblicazione di quelle parabole sia anche un ringraziamento a chi ha davvero colto il senso dell’essere cristiano e mi riferisco in particolare ai vari teologi della liberazione e ai migliaia di preti di strada che danno la loro vita per i più sfortunati… Lo spirito della pubblicazione, immagino, non era quella di giustificare l’operatività della chiesa come istituzione ma di mettere in rilievo che moltissime volte il pensiero di Gesù è molto più vicino al modo di agire di un comunista che di un uomo di chiesa. E’ ovvio che il nostro giornale come il nostro partito, cosa che fanno ampiamente, si debbano sempre battere affinché si raggiunga una vera laicità dello Stato e che l’ingerenza della chiesa negli affari italiani diminuisca sempre di più.
Roberto Longobardi
Torre Annunziata (Na)
Liberazione, 29.12.05
Questione cattolica e sinistra alternativa
di Domenico Jervolino
Da alcuni anni e per diverse ragioni è riemerso con forza nella vita politica italiana un dato che appartiene ai tempi lunghi della storia del nostro paese, vale a dire quel complesso di problemi che con una formula divenuta quasi classica si riassumono nel termine di “questione cattolica”. Questa riemersione è avvenuta paradossalmente nello stesso tempo in cui entrava in crisi l’assetto materiale della costituzione repubblicana che era stato caratterizzato per quasi un cinquantennio dalla presenza maggioritaria del partito di ispirazione cattolica. Un vasto retroterra cattolico è venuto allo scoperto allorché non ha avuto più una mediazione politica che in qualche modo funzionava anche da filtro. Fatto è che si è registrato un intervento sempre più diretto delle gerarchie ecclesiastiche nella vita pubblica e un ricompattamento del variegato mondo cattolico sotto la guida non solo pastorale ma anche politica della Conferenza episcopale mentre si è consolidata la posizione di privilegio dell’istituzione ecclesiastica, anche per effetto del nuovo concordato e del finanziamento dell’otto per mille gestito in modo fortemente centralizzato. Tutto ciò ha coinciso con una nuova rilevanza del fenomeno religioso nella società contemporanea, a livello globale, e con una particolare virulenza dei diversi integralismi che si sono rivelati capaci non solo di incidere nella vita quotidiana e nella società civile ma hanno avuto un impatto politico forte ed inedito fino a suggerire l’idea di uno scontro di civiltà o di nuove guerre di religione. Anche se si rigetta e anzi si contrasta questo tipo di teorizzazione, come è giusto fare, non si può non rilevare a) che occorre comunque fare i conti col ruolo delle ideologie e del simbolico nel mondo d’oggi b) che il solo fatto che il tema di un conflitto fra culture e religioni venga agitato dà corpo a questa prospettiva e le conferisce una capacità d’incidenza sotto molti aspetti paradossale (come quella di spettri in se stessi inconsistenti, ma che diventano fattori reali di paure e di comportamenti socialmente e storicamente rilevanti).
Questione cattolica (in Italia ma con riflessi e interazioni globali, se non altro per il ruolo mondiale della Chiesa cattolica e del papato) e questione religiosa (a livello più generale) non coincidono ma hanno sicuramente molti punti di contatto e interrelazioni.
Sotto molti aspetti la cultura laica e di sinistra è apparsa sprovveduta di fronte a tale complessa problematica. Inoltre pesa nel nostro paese una diffusa ignoranza in materia religiosa e teologica, che sotto molti aspetti è stata alimentata dalla stessa istituzione ecclesiastica, che ha rivendicato per sé il monopolio di tale cultura.
In fondo la quasi identificazione fra cristiano, cattolico, uomo di fede o di religione, finisce per essere assunta come un dato scontato, laddove esso non lo è affatto.
Questo ha significato soprattutto subalternità e conformismo, rispetto alla forma prevalente del cattolicesimo clericale, e come fenomeno di reazione la ripresa di forme di anticlericalismo rozzo che sembravano appartenere al passato. Dal punto di vista di una sinistra alternativa e di una forza comunista moderna, questa situazione di debolezza teorica e pratica mette in questione un patrimonio prezioso che si era configurato soprattutto a partire dalla fase postconciliare e dal 68-69, vale a dire il dato della militanza a pieno titolo di credenti nel movimento operaio, non semplicemente come alleati o compagni di strada ma come soggetti che scelgono di giocare e di verificare la propria identità al vaglio del conflitto di classe e dell’impegno politico. In questa prospettiva la critica dell’alienazione religiosa (che può essere svolta anche in una prospettiva di fede) e della commistione fra chieseistituzioni e potere apre la strada di una nuova laicità che accomuna piuttosto che dividere credenti o no, impegnati in una stessa lotta di liberazione. Questo patrimonio sta per molti aspetti alle nostre spalle, in parte è certamente datato, ma l’esperienza dei movimenti degli ultimi anni per la pace e per un altro mondo possibile indurrebbe piuttosto a rivisitarlo che a cancellarlo. E’ vitale riprenderlo se si vuole veramente far crescere una sinistra alternativa in Italia.