un nuovo libro di Fausto Bertinotti
il manifesto 16.11.05
All'orizzonte della sinistra una sfida chiamata Europa
In libreria per Ponte alle grazie esce un libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni titolato «L'Europa delle passioni forti»
Valentino Parlato
Non c'è bisogno di scomodare Spinoza per dirci che attraversiamo una lunga stagione di «passioni tristi» e per aggiungere che anche le speranze europeiste (di quasi tutti i colori) si sono piuttosto afflosciate. Non solo, ma anche per tutto ciò, questo libro di Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni (un dialogo fitto e sempre problematico) risulta particolarmente utile, utile nel senso del vecchio Brecht delle «Storie di ME-TI». Il senso e l'obiettivo del libro sono dichiarati nel titolo e nell'audace fotomontaggio di copertina. Contro le «passioni tristi l'Europa delle passioni forti» con la famosa immagine del soldato sovietico che sventola la bandiera rossa sul tetto del Reichstag, solo che nella nostra copertina il soldatino impugna la bandiera d'Europa. Morale della favola: se vogliamo un'Europa che controbilanci il monopolarismo Usa e che sia dei popoli e non delle multinazionali ci vuole un grande investimento di idee e di lotte. Sempre per stare all'iconografia, mi viene da aggiungere che la situazione presente potrebbe però essere rappresentata da uno dei tanti dipinti sul «Ratto d'Europa»: una donna bellissima e un po' discinta trascinata dal potentissimo Giove, che ha assunto le sembianze di un grosso toro. Ma il libro non si ferma alla copertina: si articola in cinque densi e problematici capitoli, corredati dalle «note» preziose di Alfonso Gianni, e da appendici di particolare interesse, che comprendono il testo completo dell'appello di Ventotene per un'Europa libera e unità», quella dell'agosto del 1941 firmato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni. Innanzitutto, ci si chiede nel libro, che cosa è l'Europa, quale la sua effettiva identità storica e culturale? Senza fermarsi alla contestazione delle «radici cristiane», che non vengono negate, ma immesse in quel crogiuolo di formazione culturale che è stata l'Europa, tale che - è un accenno di Bertinotti - la sovrastruttura ha agito sulla struttura, quasi a dire che l'Europa non è riducibile ai suoi rapporti di produzione. E Bertinotti, a proposito di radici, anche qui ribadisce la sua passione per «il salto della tigre» dell'amato Benjamin.
Ma che quali sono, oggi, le effettive potenzialità dell'Europa e la sua identità? Qui, a mio parere, il giudizio dei due autori è piuttosto negativo. Non condividono l'ipotesi di Rifkin, quella di un modello europeo, più sociale di quello americano. Rifkin - scrivono - è ancora legato a un passato, all'Europa del «compromesso democratico», che fu un prodotto della seconda guerra mondiale. L'attacco al welfare europeo costruito nel secondo dopoguerra è sotto gli occhi di tutti e ora c'è piuttosto una americanizzazione dell'Europa, un'Europa peraltro indebolita dallo spostamento a est del baricentro dell'economia mondiale. Tutto questo risulta aggravato dal trattato europeo e dagli accordi di Maastricht. La normativa europea è tutta orientata al mercato e non alla società. E, tuttavia, questa normativa (per esempio i parametri di Maastricht) fa acqua da tutte le parti, il rallentamento dell'economia costringe gli stati nazionali a superare le soglie di deficit consentite dalla UE e a tagliare ulteriormente la spesa sociale.
Questa Europa appare sempre meno desiderabile e il no della Francia (molto diverso da quello dell'Olanda) mette in evidenza non solo il rifiuto da parte del mondo del lavoro, ma anche di larghi strati popolari, che Fausto Bertinotti definisce come «nuova plebe», il mondo del ceto medio impoverito e del precariato. Ma - e non è di poco peso - tutto questo malessere non diventa ancora volontà politica, quella che si esprime nei partiti, nei giornali; e anche nei sindacati è diviso. Diviso tra chi (Giuliano Amato per esempio) sostiene che l'obiettivo primario, irrinunciabile, è l'unità europea e, quindi, bisogna aver pazienza sulle cose che non vanno e chi invece come la maggioranza dei francesi (ma in Francia c'è stata una grave divisione dei socialisti) dice no. Tuttavia - sostengono nelle conclusioni i due autori - non bisogna rinunciare all'obiettivo dell'unità europea, come condizione necessaria per una politica di pace e un nuovo welfare.
Questa è la sfida per tutte le sinistre europee e in particolare per il partito della sinistra europea che il problema Europa ha posto al centro del suo congresso ad Atene. Vedremo. Come si dice: «se sono rose fioriranno».
Francia /1
il manifesto 16.11.05
Come sempre
Rossana Rossanda
Sulla Francia la stampa, specie italiana e anglosassone, ha dato i numeri. Sabato scorso Parigi doveva bruciare, le periferie l'avrebbero invasa e distrutta. Nulla di questo è successo e le testate di lunedì non sono uscite con un veritiero «forse non avevamo capito», ma parlando d'altro. Se Chirac non avesse inflitto ai francesi un nuovo discorso, oggi Parigi sarebbe dimenticata. Parigi non è bruciata ma qualcosa di stupefacente è accaduto. L'intera sinistra non ha neanche finto di opporsi allo stato d'emergenza che viene da una legge del 1955 durante la guerra di Algeria e porta la macchia di una giornata del 1961, in cui l'allora prefetto Papon spinse ad annegare nella Senna duecento algerini. Dopo di allora di emergenza non si era più parlato, forse per vergogna, finché non è stata resuscitata in questi giorni per difendere le auto dai casseur. Soltanto qualche associazione - la Lega dei diritti dell'uomo, Sos racisme - ha indetto una protesta ma non è riuscita a raccogliere dietro di sé, ancorché autorizzata, abbastanza gente. L'opposizione non si è legata urlando ai banchi dell'Assemblea per contestare l'oltraggioso provvedimento. Il partito socialista che si dilania su tutto si è compattato sul «prima ristabiliamo l'ordine». Ieri l'emergenza è stata prolungata per tre mesi, vedremo quale eroica lotta sosterrà in Assemblea.
La febbre del sabato sera è stata a Parigi tale e quale sempre. Il quartiere latino, un tempo più reattivo, era pieno di giovani che delle banlieues non discutevano affatto. La polizia era del tutto assente. Né le periferie si sono fatte vedere in centro, primo perché non sono kamikaze, secondo perché se Parigi centro se ne frega di loro - scusate l'espressione - loro se ne fregano di Parigi centro. Del resto non hanno in mente di fare la rivoluzione, ne hanno fin sopra i capelli di come sono trattati, senza prospettive, discriminati nel lavoro, in quartieri desolati. Ma continueranno a fare qualche fuoco visto che non c'è modo di farsi ascoltare se non c'è una cinepresa a riprendere pompieri e poliziotti. Del resto nel 2004 più di ventitremila auto sono andate in fumo. Qualche fuocherello si è acceso in altre città, per cui i titoli «Parigi brucia» sono trasformati in «la Francia brucia». Marsiglia, la città di più forte immigrazione, che si è bloccata contro la privatizzazione di un traghetto per la Corsica, non ha battuto ciglio. La grande maggioranza dei sindaci non ha chiesto il coprifuoco neanche nelle «periferie sensibili», grazioso eufemismo. Solo la magistratura imperversa su un centinaio di ragazzi arrestati, processandoli per direttissima, condannando a uno, due, sei mesi dei ventenni che non ne usciranno certo più devoti alle istituzioni. C'è chi ha scritto, e non solo a destra: la repubblica non ha sparato sui suoi figli. Come se lo avesse ritenuto fastidioso ma possibile. Scordavo: una cosa è avvenuta, che il ministro degli interni Sarkozy, andato sugli Champs Élisée per ispezionare la polizia incaricata di difendere la capitale è stato fischiato non dai casseur ma dai passanti e si è dovuto ritirare in fretta.
Perché l'importante è che non succeda niente, che tutto continui come prima. Sono state velocemente restaurate le poche misure che il governo Jospin aveva preso in favore di quei quartieri e che l'attuale governo aveva abolito in nome del risanamento del bilancio, solfa europea. Filosofi e sociologi hanno invaso la scena poco disposti a rilevare l'evidente concreto disagio sociale. Egdar Morin è rimasto neutro, il nostro amico Jean Luc Nancy ha divagato sulla destrutturazione della repubblica, André Gluksmann ha sostenuto che quei ragazzi non protestano perché sono poco integrati ma perché lo sono troppo. E la Francia è rissosa per natura. E giù altri con la diatriba sul modello francese o anglosassone di integrazione su cui le parole di maggior buonsenso sono state scritte da Tommaso Padoa-Schioppa come se, duole dirlo, la Banca centrale avesse i piedi per terra più di altri. Nulla è risolto e nulla è finito. La brace resta accesa. L'estrema sinistra discuterà a lungo se quei ragazzi farebbero meglio ad avere un progetto o se è più rivoluzionario che non ne abbiano nessuno. La vita continua.
Francia /2
il manifesto 16.11.05
Conflitti globali
La feccia svela gli abiti nuovi della République
Notti di fuoco
Yann Moulier Boutang
LA RIVOLTA nelle periferie francesi è un atto d'accusa contro una politica di integrazione che in nome dei diritti universali ha ridotto ad una condizione di sudditanza una parte della società. Lo stato ha risposto con la repressione e inasprendo le leggi sul mercato del lavoro con la speranza che l'ordine possa così essere ripristinato
La «feccia» ha rovinato la festa a un sistema politico chiuso in se stesso. Ma la posta in gioco in Francia è il superamento di un modello europeo di governo del cosiddetto «transcomunitarismo»
Le scuole devastate mostrano come non esista un'«eccezione francese» al multiculturalismo. E i giovani delle banlieue appaiono come i discendenti degli schiavi importati con la forza
I grandi eventi non sono necessariamente belli, né festosi. Colgono di sorpresa, non sono necessariamente fusionali e le ragioni che li determinano non spiegano mai l'istante della loro esplosione. Sono sovradeterminati, come la goccia d'acqua che fa traboccare il vaso. Nel caso di una rivolta, c'è sicuramente una lunga gestazione che arriva ad una soglia critica oltre la quale si smette di obbedire e, spesso, si spacca tutto. Raramente, un'insurrezione è entusiasmante. I suoi protagonisti sono in genere oscuri, confusi, non sempre sono degli eroi. Un'insurrezione è pervasa da una violenza indistinta, senza fini prestabiliti. Contrariamente alle guerre o alle rivoluzioni, i morti che trascina o abbandona nel suo solco non saranno mai decorati. «Melanconia», «disperazione», «nichilismo», «perdita del rispetto di sé»: la destra meno stupida non ci ha messo molto a recitare variazioni all'esercizio obbligatorio di condanna dell'insurrezione delle banlieues francesi di queste settimane (Le Figaro, 7 novembre). Ma sono stati giudizi che hanno apportato pochi ritocchi al bagaglio retorico del pensiero conservatore. Ma è l'imbarazzo della sinistra che lascia invece senza fiato. Forse conserva il ricordo della sua partecipazione all'approvazione delle leggi emergenziali della guerra d'Algeria, che questo governo ha riattivato, dimostrando così che l'emendamento votato in parlamento a difesa degli «aspetti positivi» della colonizzazione, presente nei manuali di storia, non era un incidente di percorso.
L'onore perduto degli intellettuali
Eppure, contro questa oscena mattanza dell'intelligenza, alcune voci isolate cominciano a farsi sentire, come dimostrano l'appello firmato da Etienne Balibar, Bertrand Ogilvie, Monique Chemillier Gendreau, Emmanuel Terray e Fethy Benslama del 10 novembre o gli interventi di Esther Benassa o di Pierre Marcelle (Libération del 9 novembre). Ma sono isolate prese di parola che salvano l'onore di quel che resta degli intellettuali francesi dopo vent'anni di nauseante restaurazione. In Francia, il clima dominante della discussione pubblica ricorda lo sbraitare contro gli «arrabbiati» di Nanterre o le invettive contro i «casseurs» di Saint-Lazare nel `79. In entrambi i casi, la valanga è stata il segno precursore di un cambiamento enorme nella vita pubblica (il Maggio `68, l'alternanza). Di fronte all'insurrezione delle banlieues, la prudenza è finita.
Potrebbe darsi, come osservava Françoise Blum in una coraggiosa tavola rotonda de le Monde l'11 novembre, che questi giovani «apolitici» cambiano la realtà delle cose più dei proclami declamati in questi ultimi trent'anni e che abbiano iniziato a liberarci dell'ingombrante e insopportabile Sarkozy. Cosa che la sinistra «politica e responsabile» impantanata nelle sue cucine presidenziali si è rivelata incapace di fare.
Bisogna difendere la società dall'ordine. Bisogna difendere gli insorti dalla stupidità. E la loro, denunciata fino allo scoramento, non è certamente la più grande in campo. I nostri governi, e qualcuno dei nostri candidati a governare, nelle ultime due settimane hanno assemblato arroganza, cecità sociale, ottusa ostinazione, erronea perseveranza, ricerca affannosa di un consenso tanto assurdo quanto vuoto.
Formiamo una società umana, e non un termitaio, nella misura in cui noi (dico appunto noi) siamo capaci di rabbia (che è sempre una follia) e di insurrezioni. Insurrezioni, esattamente. Basta guardare qualunque manuale di storia. Nella misura in cui siamo capaci di produrle innanzitutto attraverso una lunga e ripetuta cecità e poi di riconoscere in esse i nostri figli (e non quelli degli «esclusi», degli «altri», degli «stranieri» che rispediamo indietro in aereo). Capaci, poi, di rispettare il dolore di ogni essere che condivida con noi un lembo del pianeta Terra; capaci di collera contro l'assurda razionalità dei dispositivi giuridici che permettono l'esistenza di una pena di morte «indiretta» in un'Europa che l'ha bandita come strumento di stato. Capaci, anche, di controllare un terrore panico di fronte a quel gelido futuro che è già il nostro presente e di cui questi insorti ci consegnano il ritratto crudele. Capaci, infine, di reagire con intelligenza di fronte a questo evento brutale, di tener conto di quello che viene detto, della sua posta in gioco.
La soglia del silenzio
Nelle società della comunicazione la soglia dell'udibile si è fatta elevata. Il setaccio della notizia pertinente costa caro. Basta vedere quanto costa la pubblicità ai potenti. Gli umiliati, gli offesi non hanno questi mezzi. Affinché la società mediatica iniziasse a sentire i messaggi subliminali degli insorti, ci sono voluti cassonetti carbonizzati, tram incendiati, due, tremila auto bruciate, qualche scuola saccheggiata e un centro commerciale derubato; ma anche tre morti, cosa incommensurabile, e, fatto non meno catastrofico, centinaia di giovani arrestati, decine di espulsi (senz'altro torneranno a Ceuta e Melilla, a tentare di scalare i fili spinati della fortezza Europa per tornare a casa loro, ovvero in Francia). Insomma, di fronte a quanto accaduto nelle città francesi il ricorso a una legge che proclama lo stato d'eccezione e il coprifuoco appare niente altro che una scaltra e al tempo stesso insopportabile mossa giuridica.
Le notti di fuoco hanno mandato un messaggio alla società francese tutta. E se poi i giovani si rifiutano di parlare, il loro silenzio è da considerare anch'esso un messaggio. Qualunque insegnante lo sa. Occorre meritarla, la parola che ci viene rivolta. Presuppone fiducia, amore, rispetto e non dichiarazioni di guerra. Il linguaggio da guerra del ministro dell'interno, annunciato da un vigliacco e fascistoide «faremo una bella pulizia nei quartieri», ha ottenuto la risposta che meritava. Il ministro incaricato dell'integrazione, Azouz Begag, non si è astenuto dal dirlo diverse volte durante la crisi. E avremmo persino potuto vedere di peggio.
Tenuto conto dei quotidiani «incidenti» della polizia, del razzismo, della disastrosa e feroce discriminazione nell'accesso al mercato del lavoro e della casa, senza contare le altre discriminazioni culturali che fanno altrettanto male, la Francia può ritenere di essersela cavata a buon mercato (a questo proposito si vedano i lavori di Richard Alba e Roxane Silberman che hanno comparato la condizione delle «seconde generazioni» sulle due sponde dell'Atlantico: il risultato francese è catastrofico, con un tasso di disoccupazione giovanile tra i più alti d'Europa). Davvero, gli insorti non ascoltano nessuno? Il loro era un mutismo da imbecilli? È difficile crederlo, quando ogni provocazione del governo (Sarkozy che il 30 ottobre parlava di feccia e tolleranza zero, le misure annunciate dal capo del governo Dominique de Villepin il 1 novembre) ha comportato un allargamento dell'ondata di esasperazione.
E' molto più che un sospetto ritenere che il brusio delle istituzioni sull'ordine e l'autorità da restaurare, sull'universalismo della legge mirava a saturare le deboli capacità uditive e analitiche del quarto potere. Vi è però riuscito in parte, visto che i pur pochi reportage dalle banlieues erano invece terribilmente eloquenti.
Grazie a questa insurrezione, è divenuto difficile nascondere la cecità della Francia di fronte ai nodi razziali, «sessuali» della question sociale, argomento considerato cruciale per la comprensione della globalizzazione, come testimoniano i lavori di Giovanni Arrighi, Immanuel Wallerstein e del Fernand Braudel Centre.
E se non è proprio cieca, la Francia è quantomeno blind colour - come dicono crudamente gli inglesi -: le televisioni evocano quotidianamente i problemi di integrazione nelle banlieues, mostrando giovani neri, spesso francesi o originari delle nostre ex colonie (ad esempio la Costa d'Avorio, dove ci sono truppe francesi), ma i commentatori continuano a parlare di maghrebini e di Islam, mentre i «portavoce» del potere statale, imperturbabili, dichiarano che nello spazio pubblico francese non esistono comunità, in opposizione alla cattiva concezione anglosassone (in effetti protestante, ma questo non lo sanno) che riconosce l'appartenenza etnica comunitaria, dalla quale non si può prescindere se vogliamo ripartire dall'esistente e non da quel «popolo» stereotipato di cui parla il governo di Parigi.
I bastardi di Sartre
La Repubblica francese ha realizzato, in modo pessimo, la decolonizzazione esterna, ma non ha fatto grandi progressi nella decolonizzazione interna. Qualche insegnamento post-coloniale impartito agli alti funzionari e nelle scuole pubbliche sarebbe un primo passo verso il controllo democratico della sua polizia. Il dato agghiacciante del comportamento delle forze dell'ordine non viene dal poliziotto inesperto e impaurito (benché i ragazzini dei quartieri sappiano fare la differenza tra i poliziotti corretti e i veri «razzisti» - quelli che Sartre avrebbe chiamato «i bastardi»), ma sono le frasette dei responsabili di più alto livello che funzionano come promesse di impunità nei confronti di ogni supruso e violenza della polizia; e che producono meccanicamente un incremento degli «incidenti di polizia».
La Repubblica è nuda. Come un gruppuscolo di ricercatori, tra cui chi scrive, non ha smesso di dire in tutti questi anni, spesso parlando al vento, l'ideologia repubblicana francese assimilazionista non ha capito molto dell'integrazione «transcomunitaria» all'epoca della globalizzazione. È rimasta a quel «popolo» venuto al mondo col forcipe «identitario» con l'ausilio della sorveglianza coloniale. Un primo passo verso la miglior comprensione della question sociale potrebbe andare nella direzione di un'analisi serrata e «disincantata» del patchwork sociale, culturale, etnico delle periferie metropolitane. Si tratterebbe di devolvere una parte, piccola, dei finanziamenti dell'ennesimo piano per le banlieues, che senza un'innovazione teorica al problema non sposterà di una virgola questa moderna «cascata di disprezzo», alla quale Voltaire riduceva la società francese prima della Rivoluzione dell'89 e contro la quale hanno reagito gli insorti di oggi.
Loïc Wacquant e altri ricercatori in scienze sociali ci hanno spiegato, negli ultimi decenni, che le periferie francesi non erano le periferie americane, che non c'erano ghetti, che la Repubblica ci preservava dalla formazione di minoranze come è accaduto oltre Atlantico. Dominique Schnapper, in un libro sulla nazione, ci aveva spiegato che il modello francese universalista si opponeva a quello del Volk tedesco fondato sulla comunità linguistica e sul sangue. In realtà la vera posta in gioco riguarda il modello europeo di governo delle migrazioni. Quello vigente è: razzista perché rifiuta il diritto di permanenza della popolazione straniera; chiuso in se stesso perché raffigura l'Europa come una fortezza che delinea i suoi confini con il filo spinato. In oltre cinquant'anni, l'Europa ha prodotto minoranze etniche che assomigliano non ai figli degli immigrati negli Stati Uniti, ma ai discendenti degli schiavi importati a forza. I giovani delle periferie europee stanno diventando i neri degli Stati Uniti. Watts e Los Angeles non sono alle nostre spalle, ma sono il futuro che ci attende. Per un'ironia della storia, la Repubblica, che doveva proteggerci da questo destino, sta procedendo molto più velocemente di quanto abbia fatto il modello britannico.
La Repubblica, cioè la Francia è una democrazia incompiuta, così come sono incompiute le democrazie di molti paesi a tutte le latitudini. Non c'è, dunque, nessuna eccezione francese.
Nel celebre racconto di Hans Christian Andersen I vestiti nuovi dell'imperatore, alla sfilata in cui si pavoneggia un monarca inquieto, attorniato da una corte ossequiosa, basta la flebile voce di un bambino a rendere visibile ciò che è flagrante. Rivela il disordine dell'ordine e rimanda alla sua impostura: «"Ma non ha alcun vestito!" L'imperatore fu colto da un fremito, gli sembrava che il popolo avesse ragione, ma disse tra sé: "Devo tener duro fino alla fine della processione". E il corteo proseguì la sua strada e i ciambellani continuarono a portare lo strascico che non c'era».
Nella Francia del 2005 il carro dello stato, accompagnato dai gargoyl, dal monarca con i suoi principi primi e dal suo visir in incognito eppure molto ciarliero in televisione, va poco in quelle banlieues che ha lui stesso creato: preferisce il lustro degli Champs Elysées o l'efficacia birbona dei viaggi elettorali organizzati su misura in una provincia rurale o in un centro storico ristrutturato, a uso e consumo dei ricchi. E quando, ripreso da telecamere adulanti, si avventura al capezzale delle banlieues, è perché si è fatta attenzione a levare di mezzo quella «feccia» che non sta bene mostrare in televisione.
Questa volta la «feccia» si è invitata alla parata. E nessuno, tranne uno stato segnato da cecità, da sempre culla delle rivoluzioni, può dire di non averne sentito la voce. Di certo non è la voce dell'innocenza, ma quella meno confortante della verità sulla nostra società repubblicana e nazionale. Con totale incoscienza e disprezzo del pericolo, la «feccia» ha urlato con rabbia: «la Repubblica è nuda! Il razzismo è quotidiano. Perché valiamo tanto poco, da esser trattati come lobotomizzati?». Ma non siamo in un racconto di Andersen, ma in un paese raramente riformista, di tanto in tanto rivoluzionario, più frequentemente reazionario.
Ordine e lavoro
La «feccia» pagherà cara quell'insolenza. Migliaia le denunce, altrettanti i fermi e gli arresti, condanne a pioggia. Di che esasperare i magistrati, incaricati d'ora in poi di preservare un ordine che la polizia, con il suo lavoro sul campo, ha reso ingestibile con l'attiva benedizione di un candidato alle presidenziali 2007 intento ad adulare schieramenti «sovranisti», fronti razzisti e sinistra statalista. Una moltitudine insignificante, inafferrabile, che esprime un messaggio insieme muto e insopportabile, «pagherà con le espulsioni». E saranno espulsi immigrati con regolare permesso di soggiorno, come ha annunciato - con una noncuranza che ben traduce la sua scarsa cultura e il suo rispetto per il diritto - quello stesso ministro dell'interno che pure si era espresso per l'abolizione della double peine.
Se dietro il Sarkozy d'Orléan fa capolino una destra bonapartista, avida di potere, tra i neo-gollisti, dunque bonapartisti, prende piede il paternalismo padronale del XIX secolo. Dopo l'ordine, il lavoro (la famiglia dopo), la patria verrà senz'altro aggiunta. In tal modo il primo ministro ha scagliato un'arma invincibile contro le cause che alimentano l'esplosione della «feccia». Ci occuperemo di questi giovani: a 14 anni gli troveremo un lavoro da apprendisti, li iscriveremo alle agenzie di collocamento per proporgli quei bei contratti di lavoro che prevedono un terzo e la metà del salario minimo (tra i 300 e i 500 euro). L'ultima parola spetterà comunque alla legge, ripetono gli esponenti del governo e i funzionari statali. Come a convincersi di una storia alla quale hanno smesso di credere, questi servitori di una Repubblica vestita con il mirabolante costume dell'integrazione «alla francese» che non smettono di venderci ogni sorta di abito taroccato. Gridando rabbiosamente che la Repubblica è nuda, gli insorti hanno difeso la società. Anche noi sosteniamo, in modo fermo e posato, che «bisogna difendere la società». Perché sappiano che non sono soli.
Traduzione di Ilaria Bussoni
aborto
il manifesto 16.11.05
Scontro sulla Ru486
La Cei: «E' sempre un omicidio» Sinistre contro Storace, la Margherita difende Ruini
ROMA. Lo scontro che si aperto nel Paese sull'aborto e in particolare sulla sperimentazione della pillola Ru486 non accenna a diminuire. Ieri la Conferenza episcopale è tornata sull'argomento ribadendo il concetto già espresso lunedì dal cardinale Camillo Ruini, che aveva condannato la pillola abortiva: «L'aborto non può essere inserito tra i diritti civili», ha detto il segretario generale della Cei, monsignor Giuseppe Betori, mentre un altro prelato, monsignor Javier Lozano Barragan, ministro della Salute del papa ha sottolineato ancora una volta la posizione della Chiesa per la quale «un aborto, piccolo o grande sia, è sempre un omicidio della peggiore qualità». Parole dure, che mal si conciliano con l'intenzione manifestata dalla Santa sede di non voler polemizzare o interferire nella vita politica italiana. Sul fronte opposto, intanto, cresce il numero delle regioni che chiedono di poter sperimentare la pillola abortiva. Dopo Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria e Lazio, ieri si è aggiunta anche la Campania e questo nonostante i tentativi del ministro della salute Francesco Storace di fermare le strutture pubbliche in cui la pillola viene distribuita. Una scelta duramente criticata dalle opposizioni: «E' strabiliante - ha detto ieri Livia Turco, responsabile Ds per il Welfare - sentire dal ministro torace un'affermazione quale "C'è una gara fra le Regioni per non far mettere la mondo figli" quando lui e il suo governo stanno mortificando le famiglie italiane, soprattutto quelle numerose». Di «attacco incrociato» alla legge 194 parla invece Katia Belillo, responsabile Diritti per il Pdci. «Oggi, con le parole dei cardinal Ruini e Barragan, si torna a parlare di aborto con toni medievali e da Santa inquisizione, con argomenti che non hanno nulla si scientifico». Per la verde Luana Zanella, invece, è importante che continui a garantire l'applicazione della legge 194, mentre «è irresponsabile chi tenta di delegittimarla».
Compatto nel difendere la legge 194, il centrosinistra si divide invece sulle parole di Ruini che trova difensori nella Margherita. Come ilo capogruppo alla Camera Pierluigi Castagnetti: «Non c'è dubbio - ha detto - che l'uso di questa pillola è una modalità di realizzare l'aborto e non si può pretendere che la Chiesa rinunci alla sua posizione sull'aborto». Praticamente la stessa cosa la dice anche Rosy Bindi: «Ritengo che le parole pronunciate dal cardinal Ruini sulla pillola abortiva siano degne di rispetto e considerazione», è il parere dell'ex ministro della Sanità. «Per quanto mi riguarda credo che la pillola abortiva vada usata entro i termini della legge 194 e che non possa diventare una scorciatoia per aggirare i limiti imposti dalla legge.
Un appello ano fermare la sperimentazione arriva intanto da Etienne-Emile Baulieu, considerato il padre della Ru486. «La situazione n Italia è molto seria - ha detto il ricercatore - e per questo ho accettato di fare visita a fine mese ai miei colleghi italiani: non c'è nessuna ragione per fermare il medicinale, appartiene alle donne». Lo scienziato ha poi aggiunto che il farmaco si sta sperimentando anche per la cura di malattie come i fibromi.
cambiamento in Cina?
Corriere della Sera 16.11.05
Morì nell’89: un infarto durante una riunione molto tesa dell’ufficio politico. Per lui gli studenti scesero in piazza
Pechino riabilita il leader che ispirò Tienanmen
In coincidenza con la visita di Bush, cerimonia per il riformista Hu Yaobang
Fabio Cavalera
PECHINO - La Cina commemora e riabilita Hu Yaobang, il vecchio segretario comunista che negli anni Ottanta aveva tentato di democratizzare il Paese e che per questo era stato costretto a pagare con le dimissioni. Accadrà alla fine della settimana, probabilmente venerdì, nella sala della Assemblea nazionale del popolo alla presenza dei dirigenti del governo e del partito, in coincidenza con l'arrivo del presidente americano Bush.
Segnale politico importante che certifica la forza dell'attuale numero uno della gerarchia, Hu Jintao, il quale ha voluto imporre la cerimonia nonostante l'opposizione di 4 dei 9 membri del politburo, l'ufficio di comando della Cina, preoccupati dalla prospettiva di rimettere in gioco i settori più liberali della società. Alla fine di un confronto che è durato alcuni mesi, Hu Jintao è riuscito a prevalere accettando però una mediazione.
La riunione nel corso della quale sarà letto un discorso di rievocazione della figura di Hu Yaobang avverrà alla presenza di alcune centinaia di invitati, si dice tre-quattrocento, e non di una platea allargata come inizialmente Hu Jintao aveva ipotizzato.
L'attuale segretario e presidente cinese ha dovuto tener conto delle perplessità espresse dalle componenti conservatrici e, pare, persino da Wen Jiabao, il premier considerato l'ala più aperta della nomenklatura. Il risultato è comunque significativo. Quella di Hu Yaobang è stata una storia di coerenza e di coraggio rimasta sepolta per 16 anni. Il movimento democratico nel 1989 era sceso in piazza spinto dalla volontà di raccogliere l'eredità di un riformista convinto. Avevano chiesto di ricordare il loro eroe e si erano trovati i blindati. Hu Yaobang, il 15 aprile 1989, se ne era andato per un attacco di cuore. Gli era venuto nel mezzo di una agitata convocazione dell'ufficio politico, poche settimane prima delle manifestazioni poi represse dai carri armati.
Era stato un comunista illuminato, segretario generale dal febbraio 1980 al gennaio 1987, carica che fu costretto ad abbandonare perché disarcionato dalle componenti integraliste del partito. Hu Yaobang, negli anni Cinquanta, aveva salvato migliaia di piccoli proprietari terrieri e di intellettuali nelle «campagne contro la destra». Questo suo spirito di tolleranza e di rispetto delle opinioni diverse era riemerso e si era trasformato in un appoggio dichiarato alle posizioni innovative che stavano emergendo fra ’86 e ’89. Nei mesi che avevano preceduto i cortei di piazza Tienanmen si era opposto all’intervento dell’esercito. La tenacia gli costò cara. Fu accusato di «deviazionismo» e di tradimento. Lui, che quattordicenne aveva lasciato, nel 1929, la famiglia per unirsi al partito comunista. Che aveva compiuto la Lunga marcia. Che aveva guidato la Gioventù comunista diventando il «tutore» del leader di adesso, Hu Jintao. Che aveva infine appoggiato la svolta di Deng Xiaoping. Hu Yaobang era diventato un nome scomodo, da cancellare dalle memorie e dai libri. Oggi qualcosa è mutato negli equilibri del potere in Cina. Hu Yaobang sarà ricordato a pochi metri da dove i militari spararono sui ragazzi di Tienanmen nel giorno in cui arriva Bush. Non è poco.
Sabina Guzzanti
l'Unità 16.11.05
Da «Viva Zapatero» a «Rockpolitik». Ecco il racconto su come la Rai le abbia impedito di parlare di Andreotti. E i suoi dubbi su una parte della sinistra
Sabina: sono una rompiballe
e adesso vi spiego perché
di Toni Jop
Paolo Rossi ha da pochi minuti smesso di interpretare tutti gli hobbit di «Miracolo a Milano» davanti al pubblico dell’Ambra Jovinelli. E Sabina è seduta di fronte a me in un ufficio del teatro romano. Deserto, poche sigarette e una domanda che viene fuori da sola.
Sabina, in tanti non abbiamo capito cos’è successo sul palco di Celentano quando è toccato a te. Hai lamentato il fatto che sei stata censurata, che ti hanno impedito di dire e fare tutto quello che avresti voluto. Ma non era un’oasi di libertà televisiva, per di più su Raiuno, quel Rockpolitik?
Per certi versi lo è stato, non del tutto per me e non dirmi che la gente non ha capito: i miei “bip” in diretta erano chiari, in più sostenuti dalle didascalie di Celentano che confermava che non si trattava di uno scherzo ma di roba seria, c’era tensione...
Si vedeva, si intuiva: Adriano, per quel che ho visto, ha chiuso male mandando al diavolo la coda ultima della sua trasmissione, interrompendo la canzone, una doccia fredda per 14 milioni di spettatori...
Te l’ho detto, c’era tensione vera. Alle sette di sera stavo pensando di tirarmi indietro, di rinunciare. In sala c’erano tre funzionari Rai e non erano presenze passive: controllavano...
Una cosa alla volta. (Sabina si innervosisce con me che la interrompo, vuol completare pensieri e parole, ma tollera le interruzioni, fino a un certo punto). Perché te ne volevi andare?
All’inizio, dovevo fare anche il numero su Berlusconi, oltre agli altri e mi hanno chiesto di non farlo...
Chi te lo ha impedito?
Nessuno: non era un divieto. Dicevano che c’era troppo Berlusconi nella trasmissione, che l’eccesso avrebbe indebolito la scena. E poi si viveva nella paura che arrivasse la telefonata del premier. Ho accettato queste motivazioni, ma alle corde.
Che cosa avresti voluto fare?
Te l’ho detto: andarmene, ma quando è esplosa la questione Andreotti. C’era un clima che non aiutava: la richiesta dei tre funzionari, che non dovevano esserci e invece c’erano, di leggere il copione. Io che ho detto di no, io che spiego a Freccero che non mi va...
A Freccero? Non me lo vedo Freccero fare il pompiere...
Non mi interrompere. Neanch’io me lo vedo, ma non sta facendo il pompiere: riferisce da Raiuno. Ma non me ne vado, resto. Ho pensato a cosa sarebbe successo se me ne fossi andata, a cominciare dai giornali di sinistra che mi avrebbero bollata come una rompiballe di professione, quella che non gli va mai bene niente, nemmeno Rockpolitik...
Non solo: avresti offerto un bel bersaglio soprattutto alla destra, oltre che a una parte della sinistra pronti a ironizzare sullo “spazio di libertà” conquistato da Celentano...
Sì, e non se lo sarebbe meritato perché quel che ha fatto è importante. Anzi, non lo conoscevo ma devo dire che è stato una bella sorpresa: è un uomo buono, sincero, più veloce di quel che sembra nell’afferrare le cose, nascosto da quegli occhiali... E dagli con le interruzioni: stavo dicendo di Andreotti. Non volevano battute che facessero riferimento al fatto che la sentenza non era di assoluzione ma di prescrizione rispetto a questo reato: partecipazione ad associazione per delinquere con la mafia fino alla primavera del 1980. Niente da fare, questa è stata dura: conviene capirlo, eravamo comunque in casa di Raiuno. Ho dovuto aggirare l’ostacolo con quei bip che tutti hanno sentito, mi hanno tagliato l’intervista e tutto è finito. Del resto, chi si è mai preso la briga di spiegare agli italiani che Andreotti non è stato assolto ma riconosciuto colpevole fino a quella data?
Sabina, scusa, lo ha fatto, nel suo piccolo, l’Unità; ricorda per favore il titolo d’apertura della prima pagina di allora...
Ricordo.
Sabina, una domanda fessa: sei di sinistra?
Mah, ho votato sempre a sinistra, anche se...sinistra...che vuol dire oggi...non è così chiaro...
Come che vuol dire? Che si sta sempre dalla parte del più debole, che il potere appartiene al popolo, che vanno appoggiati tutti i gesti di liberazione dell’uomo...
Ecco, non sono mai stata marxista. Anzi, sono buddista, sono portata a vedere la liberazione dell’uomo più sotto il profilo culturale...mi pare che Marx non si muova molto in questo campo...
Senza offesa, non sta così, ma lasciamo perdere, le vie del signore sono infinite e ciascuno ha la sua, viva la diversità...
Vedi, mi disorienta il fatto che dentro la sinistra ci sia un pensiero che non sarà egemone ma si fa sentire e non mi sembra testimoniare quell’etica che dovrebbe essere necessaria nella pratica di quei concetti con cui disegnavi lo spirito della sinistra. È un pezzo di sinistra che pensa al potere, lo desidera, gli si concede...
Stai pensando alla sinistra che inquadri nel tuo film “Viva Zapatero”?
Anche, sì. Quando si fa così tanta fatica a riconoscere la durezza intollerabile del regime mediatico imposto da Berlusconi per esempio in Rai, qualcosa non funziona. Quel film sta andando bene. Vince un sacco di premi e lo stanno comprando in mezzo mondo. Speriamo che Prodi dia seguito alle sue riflessioni sulla necessità di sottrarre la Rai al controllo dei partiti.
Lella Costa
l'Unità 16.11.05
L’attrice è presidentessa del primo consultorio laico di Milano
«Chiesa e ministri alleati in una campagna d’odio misogino contro di noi»
di Massimo Solani
«Purtroppo in quello che sta succedendo non c’è niente di strano. Il minimo comune denominatore fra le parole del Cardinal Ruini e quelle del ministro Storace è una straordinaria misoginia, resa ancora più preoccupante da una ingerenza della Chiesa che non dovrebbe essere tollerabile. Invece alcuni rappresentanti di questo governo non solo la tollerano, ma si affrettano a recepirla rilanciando di continuo». Lella Costa si accalora, si arrabbia e grida quasi quando si inizia a parlare delle polemiche sulla pillola abortiva. Perché, oltre che artista, lei è anche la presidentessa del Cemp, il primo consultorio laico matrimoniale e prematrimoniale nella città di Milano.
Non trova che l’aspetto più incomprensibile di questa polemica sia il modo in cui sono tratte le donne che scelgono di abortire e che per farlo chiedono di vedersi assicurato un trattamento meno invasivo?
«Certamente. Si tratta di una misoginia vergognosa che spinge a pensare che per le donne sia un piacere abortire - prosegue - Ricordo che tempo fa un parlamentare della maggioranza propose di fare pagare un ticket alle donne che interrompevano la gravidanza dal secondo aborto in poi. Come se si ricorresse all’aborto così, con leggerezza... Trovo che cose di questo genere siano di una violenza inaudita. Se solo si provasse a capire che abortire è un trauma, un rischio e un dolore, forse si porrebbe fine a questo genere di corto circuiti. Anche da parte della Chiesa».
L’onorevole Carlo Casini, fondatore del “movimento per la vita” direbbe che le sue sono provocazioni veterofemministe...
«Ma per carità... Questa gente non sa di cosa parla. Che qualcuno li perdoni perché non sanno quel che fanno o quel che dicono. In Italia siamo ancora al “partorirai con dolore”».
Del resto secondo il cardinal Ruini l’uso della RU486 è «un ulteriore passo in avanti nel percorso che tende a non far percepire la natura reale dell’aborto, che è e rimane soppressione di una vita umana innocente».
«Certo... Piuttosto facciamo nascere comunque tutti i bambini. Ad ogni costo, senza preoccuparci di cosa ne sarà di loro. Lo sa il cardinal Ruini quanti sono i bambini in Italia che lavorano fra i 7 e 14 anni, lo sa quanti quelli che in Europa soffrono di disturbi psichici fin dall’infanzia? Sono il 20%, in Europa e non nel cosiddetto “terzo mondo”. Hanno così a cuore il loro nobile principio della vita che non gli frega un accidente della vita vera. “Metteteli al mondo, salviamo un principio purché sia”, dicono. Ma non si preoccupano di ciò che sarà di questi bambini. È terrificante, così come è terrificante chiedere alle donne di portare a termine una gravidanza che non si possono permettere di portare avanti per mille motivi che nessuno può di sindacare. Dicono: “Ma tanto poi lo si dà in adozione”, come se il legame che si crea con il parto non sia qualcosa che ti cambia la vita. Ripeto, stiamo parlando delle più vergognose manifestazioni di misoginia che si possano immaginare».
Ma non trova che sia più grave che posizioni come quelle di Ruini siano rintracciabili anche nelle azioni di un ministro della Repubblica?
«È proprio questo che è intollerabile e lascia senza parole. Quello che bisognerebbe ribadire spesso, anche se dovrebbe far parte dei fondamenti dello stato laico, è che abortire o divorziare non sono obblighi: sono scelte. Così come lo sarebbe stato far ricorso alla procreazione artificiale se si fosse licenziata una norma un po’ meno infame della legge 40. Non sei obbligata a farlo, ma lo puoi fare. E nessuno può permettersi di vietarti qualcosa che lui non farebbe. Siamo davvero molto lontani da Voltaire... ».
la minoranza ds contro Ruini
l'Unità 16.11.05
Fabio Mussi
Vicepresidente della Camera e dirigente Ds
«Così “invade” la politica. Ma l’Unione dica subito che non toccherà la 194»
di Wanda Marra
Onorevole Mussi, ieri Ruini ha parlato di «pallottole di
carta» a proposito della «pressione» verso i cristiani. È lecito usare un linguaggio del genere?
«Nello spazio pubblico occorre che il linguaggio sia sempre controllato, tanto più quando viene da un’autorità com’è il presidente della Cei. Non m’è piaciuta l’evocazione delle pallottole».
Ruini poi ha detto che stava scherzando...
«Ma sulla stampa troverà delle opinioni più o meno condivise, troverà le critiche, le polemiche che sollevano le sue posizioni, a maggior ragione visto che sempre di più Ruini e la Cei invadono l’autonomia della sfera politica. Quando si evocano pallottole se pure di carta si usa un linguaggio pericoloso e poco controllato. Ruini ha detto che la pace religiosa interessa soprattutto la Chiesa. Ma è un valore fondamentale in un paese democratico, che deve essere garantito dal rispetto tra le parti».
Sempre di più, però, sembra che questa garanzia da parte della Chiesa non ci sia, dall’intervento sul referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita, a quello sui Pacs e ora sulla Ru-486...
«Si deve distinguere tra ciò che è lecito, e ciò non lo è, e non lo decidiamo io o Ruini. È, infatti, regolato da un regime concordatario, che dà molti privilegi, alcuni persino esagerati, alla Chiesa, ma pone anche dei limiti: la Chiesa non può agire come attore politico intervenendo direttamente nella vita dei partiti e dello Stato».
Il Papa anche l’altro ieri ha detto che la Chiesa non lo fa, ma non può tacere sui valori...
«Questo non è vero, se si fa il referendum abrogativo della legge sulla fecondazione assistita, e la Chiesa dà indicazioni di voto. O se si danno pareri costituzionali sulle leggi dello Stato, come ha fatto Ruini. E per esempio nell’ultimo Sinodo si è detto che bisognerebbe dare indicazioni, affinché non si scelgano candidati favorevoli alla legge sull’aborto. Questo non è legittimo. Dopodiché la Chiesa naturalmente è libera di professare i suoi valori. Ma la legge dello Stato appartiene a un’altra sfera»
È vero che è in corso un’aggressione crescente alla 194?
«Mi pare che stia aumentando la pressione in particolare dopo il fallimento dell’ultimo referendum. La Chiesa deve dire quello che vuole dire. Il problema è la sfera della politica, che non può semplicemente assistere, deve dire la sua. Io sono stato con altri promotore di una raccolta di firme - che ha visto 227 firmatari tra deputati e senatori - in difesa della 194. Chiedo che l’Unione dica - e prima delle elezioni - cose chiare sulla 194. E lo chiedo anche più chiaramente alla lista dell’Ulivo che si formerà alla Camera».
Anche ieri però Sdi e Radicali da una parte e Margherita dall’altra non si sono trovati d’accordo rispetto alle parole di Ruini: c’è stata una forte critica dai primi, e dai secondi un violento invito a non polemizzare. Com’è possibile tenere insieme queste posizioni?
«Non voglio che si faccia un documento sul gradimento che riscuote Ruini, ma che si scriva che la 194, se noi vinciamo le elezioni, non sarà toccata. Come chiedo che l’Unione assuma il punto di vista della libertà per quanto riguarda i diritti delle persone, cominciando dalla questione dei Pacs. E voglio dire un’altra cosa sulla laicità. Papa Ratzinger, durante la sua visita al Quirinale, da poco eletto, fece un discorso sulla sana laicità. Quell’aggettivo è superfluo. Il concetto di laicità è nitido. Vuol dire due cose: neutralità dello Stato rispetto a ideologie e religioni nella formazione delle leggi e spazio comune di libertà, in cui le ideologie e le fedi religiose si misurano, si influenzano. Tutta la società e tutti i soggetti collettivi dovrebbero riconoscersi in questo principio: la laicità è un bene non negoziabile».
quinta colonna vaticana: per la direzione ds, la pia Livia...
Corriere della Sera 16.11.05
«La Chiesa ha il pieno diritto di parlare
Basta scontri o perdiamo i voti cattolici»
intervista a Livia Turco di Paolo Conti
ROMA - «Così torniamo allo scontro tra Guelfi e Ghibellini... ma siamo matti?». Livia Turco, esponente cattolica dei Ds, ammette di essere «preoccupata per le sortite del socialista Boselli e del radicale Capezzone sul cardinal Ruini». Perché questa preoccupazione, Livia Turco?
«Premetto una riflessione, a scanso di equivoci: mi auguro che la Chiesa italiana recuperi sempre più la dimensione pastorale, profetica e di formazione delle coscienze rispettando la laicità dello Stato. Tutti atteggiamenti molto evidenti, fino a poco tempo fa».
Dopo la premessa?
«Ricordo a tutti, a me per prima, che nessuno deve proibire alla Chiesa di dire ciò che vuole. C’è libertà di parola per tutti».
Ma Boselli descrive Ruini come un capo di partito. Capezzone accusa il presidente della Cei di «tentazione padronale».
«Certe posizioni non sono passi avanti verso una nuova concezione della laicità né aiutano a costruire mediazioni avanzate all’interno dell’Ulivo. Al contrario, innescano una nuova guerra e ripropongono una vecchia concezione della laicità su tutto».
Sempre Boselli definisce senza giri di parole una «truffa» l’Otto per mille. E lei?
«Non penso che l’Otto per mille sia una vera urgenza di questo Paese. Sia chiaro, non esistono tabù: io stessa pensai a una riforma ma occorreva rivedere il Concordato. Anche sull’ora di religione per me sarebbe meglio immaginare un insegnamento su tutte le religioni, non solo di quella cattolica che spesso si traduce in un esonero. Ma le priorità sono altre e tante. Soprattutto molto importanti».
A cosa si riferisce?
«Penso alle modifiche da concordare alla legge sulla fecondazione assistita. E ancora: le nuove regole per le coppie di fatto, il modo in cui superare le discriminazioni verso gli omosessuali. E poi dovremo decidere sulle modifiche alla legge sul divorzio per rendere più rapidi gli scioglimenti. Stabilire come superare il proibizionismo sulla droga. E anche come affrontare i problemi legati all’invecchiamento della popolazione... Questa è l’agenda dei veri temi da affrontare per governare».
Sì, ma lei elenca tutto questo per arrivare a quale approdo politico, Livia Turco?
«Se qui si gioca secondo una logica corsara, cioè all’atteggiamento da "o così o niente", si rischia di guadagnare forse tutti i voti radicali, certo non tutti i voti socialisti e di perdere molti voti cattolici. Invece di polemizzare con la Chiesa, scelta che mi pare improduttiva, dovremmo essere coerenti con la nostra volontà di candidarci al governo di questo Paese. L’Unione deve dare vita a una mediazione culturale sui valori e sulle scelte concrete che ho elencato prima. Discutiamo, confrontiamoci, poi decidiamo tutti insieme una linea».
Non è, il suo, un atteggiamento quasi antilaico?
«Al contrario. L’ho già detto: mi auguro che la Chiesa rispetti profondamente la laicità dello Stato. E anch’io ritengo un’incongruenza l’intervento di Ruini sulla pillola RU 486 e il suo silenzio su una Finanziaria che è uno schiaffo alle famiglie. Ma non accetto un’idea di schieramento di centrosinistra o della laicità che abbia come unico obiettivo la riduzione dell’influenza e del peso della Chiesa».
Quale messaggio spedisce, dopo le loro prese di posizione su Ruini, a Boselli e Capezzone?
«Penso che la cultura socialista sia fondamentale per l’Ulivo. E vedo con simpatia e stima il coinvolgimento dei radicali nel centrosinistra. Ma proprio per questo non basta piantare bandiere. Posso capire che per l’immediato ci sia un problema di posizionamento elettorale, quindi di voti. Ma quella strada non ha futuro. Anche in una logica proporzionale balorda come quella della nuova legge non bisogna smarrire lo spirito coalizionale. Che è quello che paga davvero in prospettiva».
Pensa che un futuro governo debba fare i conti con l’universo rappresentato da chi manifesta una fede, un credo?
«Citerò Enrico Berlinguer: spero che il sentimento religioso contribuisca al cambiamento della società italiana. Non ci sono solo i privilegi della Chiesa. Non c’è solo l’Otto per mille. C’è, appunto, un sentimento religioso non solo cattolico ma incarnato da più confessioni, che non intende esprimersi solo in modo privato ma intende concorrere a una diversa e più giusta etica pubblica. Va analizzato, compreso nel contesto di un’Italia spaesata, smarrita, che chiede una risposta a molti quesiti legati a valori etico-culturali. Per questo una nuova guerra Guelfi-Ghibellini e la creazione di nuove divisioni sono solo e soltanto controproducenti».
fosforo bianco
Articolo21.info 16.11.05
''L'abbiamo utilizzato come arma incendiaria contro combattenti nemici''
L'esercito americano ha utilizzato fosforo bianco durante l'offensiva contro la citta' irachena di Falluja nel novembre 2004. Lo ha confermato un portavoce del Pentagono, interrogato oggi dalla Bbc...
''L'abbiamo utlizzato come arma incendiaria contro combattenti nemici'', ha dichiarato, rispondendo a una domanda, il tenente colonnello Barry Venable. ''Il fosforo bianco e' un'arma convenzionale, non e' un'arma chimica. Non e' illegale'', ha rilevato l'ufficiale. ''Noi l'utilizziamo in primo luogo come agente oscurante, per cortine fumogene o per illuminare obiettivi'', ha detto. ''E' comunque un'arma incendiaria, che puo' essere utilizzata contro combattenti nemici'', ha aggiunto. Venable ha spiegato alla Bbc la tecnica di impiego del fosforo bianco usata a Falluja. ''Quando hai forze nemiche al riparo, la tua artiglieria con cariche potenti non ha effetto e vuoi stanarle dalle loro posizioni, una delle tecniche e' sparare fosforo bianco. Gli effetti combinati del fuoco e del fumo, e in alcuni casi il terrore causato dall'esplosione, le faranno uscire dai ripari, in modo che tu possa ucciderle con esplosivi potenti'', ha dichiarato. Venable ha fatto in particolare riferimento ad un articolo, pubblicato nel numero di marzo-aprile 2005, della rivista 'Army's Field Artillery', una pubblicazione ufficiale, in cui veterani di Falluja spiegano che il fosforo bianco ''ha dimostrato di essere una munizione efficace e versatile''. Gli autori dell'articolo riconoscono di averlo utilizzato in combattimento, ''come una potente arma psicologica contro i rivoltosi... nelle trincee quando non eravamo in grado di ottenere risultati effettivi con gli esplosivi'' piu' potenti. Secondo i militari in questione, a Falluja non incontrarono praticamente nessun civile. Anche il Dipartimento di Stato, dopo avere negato l'uso di fosforo bianco in Iraq ha fatto marcia indietro, secondo l'Ap, ricordando pero' che non si tratta di armi illegali: ''I fatti sono che le forze Usa non stanno utilizzando armi illegali, ne' a Falluja ne' in qualsiasi citta' dell'Iraq'', e' stato precisato. ''Le forze americane non utilizzano napalm ne' fosforo bianco come arma'', aveva sostenuto l'ambasciatore americano a Londra Robert Tuttle, in una lettera pubblicata dal quotidiano britannico 'Independent'.
''L'inchiesta di RaiNews 24 su Fallujah sta facendo il giro del mondo. Ieri sera un portavoce del Pentagono e' stato costretto ad importanti ammissioni in un intervista alla Bbc. E' un lavoro che rafforza il prestigio di tutta l'informazione del servizio pubblico. Eppure e' forte la sensazione che in troppi, in Rai, siano quasi imbarazzati dalla sua risonanza internazionale''. Lo sottolinea l'Esecutivo Usigrai in una nota. ''Il vertice aziendale - aggiunge il sindacato - e' stato prodigo, nelle scorse settimane, di formali apprezzamenti per prestazioni giornalistiche meno memorabili di questa. Vogliamo sperare che a breve arrivi il segno di un giustificato orgoglio
aziendale anche per l'inchiesta di Sigfrido Ranucci. E chiediamo inoltre di sapere come il vertice aziendale giudichi l'atteggiamento di sottovalutazione, quando non di totale rimozione, che alcune testate della Rai hanno avuto verso una produzione giornalistica della stessa azienda. La Bbc, che cosi' spesso in Italia assumiamo come parametro, ha considerato l'inchiesta di Rai News 24 una notizia importante. Il servizio pubblico si giustifica - conclude l'Usigrai - anche perche' la sua informazione non evita temi scomodi, drammatici, controversi''.
contro il concordato
Associazione "Giordano Bruno" 16.11.05
Il Concordato non è un tabù
Maria Mantello
(presidente della sezione romana dell'Associaziane Nazionale del Libero Pensiero Giordano Bruno)
Il concordato non è intoccabile. Se ne torna a parlare, fino ad ipotizzarne anche l’eliminazione.
La pesante ingerenza della Chiesa nella vita pubblica, sembra aver fatto ricordare agli italiani che la capacità e possibilità d’intervento clericale è direttamente proporzionale alle ingenti somme di denaro che le sono erogate dallo Stato italiano; agli spazi politici che le vengono accordati da tanti mezzi di comunicazione di massa.
Gli italiani sembrano essere stanchi di pagare la Chiesa perché impedisca o boicotti la ricerca scientifica; perché imponga nelle scuole docenti di dottrina cattolica; perché elimini le conquiste civili in materia di sessualità, di paternità e maternità responsabili. Sono stufi di programmi televisivi che propongono come soluzione ai loro problemi economico-sociali la speranza nel miracolo. Sono abbastanza adulti per sapere che al mito della provvidenza bisogna sostituire le politiche sociali. Non sono così sprovveduti da non sapere che il volontariato risolve i problemi occupazionali soltanto per chi lo gestisce.
Insomma, forse, cominciano ad essere stufi di essere trattati come eterni minori, da rinserrare nell’obbedienza al catechismo cattolico del papa re. E per giunta di pagare di tasca loro perché ciò avvenga.
Forse, non se ne sono accorti tanti politici, che continuano a ripetere che altrimenti perdono il voto cattolico. Ma credono veramente che i credenti coincidano con le gerarchie vaticane, sotto la cui ala protettiva si sono posti?