segnalato da Roberto Martina:
L'Espresso in edicola
Freud? È caduto dal lettino
La psicoanalisi non è sufficiente per spiegare il senso della vita. Un nuovo, provocatorio libro del filosofo Umberto Galimberti
di Stefania Rossini
Umberto Galimberti ha scritto un libro desolato con l'intento di produrre conforto. Si tratta di un conforto senza salvezze ultraterrene né guarigioni terrene, che si nutre di conoscenza e si rafforza nell'accettazione del limite. Non è un percorso facile quello richiesto al lettore del saggio 'La casa di Psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica', appena uscito presso l'editore Feltrinelli. Ma la difficoltà non è nel linguaggio che è piano e persuasivo perché a lungo collaudato nella divulgazione, bensì nella proposta stessa che azzera le idee ricevute e le consolazioni correnti.
In tempi di offensive religiose e di pensiero teocon, Galimberti si muove dalla pacifica premessa che Dio è morto e che non esiste più scampo in mondi soprannaturali. Ma ritiene che anche Freud non si senta troppo bene e che la proposta psicoanalitica, intesa come versione secolarizzata della salvezza eterna, stia vivendo il suo inesorabile tramonto.
Perché accade questo? Come mai l'uomo non è più capace di costruire ripari, neanche attraverso scienza e saperi, alla disperazione di sapersi mortale? Galimberti riprende la traccia di un suo fortunato saggio uscito qualche anno fa, 'Psiche e techne' per spiegare che la cosiddetta domanda di senso che affligge l'umanità fin dalle origini si è fatta oggi, non soltanto più acuta, ma completamente diversa: "Se nell'età pretecnologica la vita e il mondo apparivano privi di senso in quanto miserevoli, nell'età della tecnica la vita e il mondo appaiono miserevoli in quanto privi di senso". Ormai abbiamo esistenze irriflesse condotte nell'ignoranza di sé, non siamo più individui ma funzioni di qualche apparato, dove non vediamo la finalità concreta delle nostre azioni e possiamo essere sostituiti senza problemi. Perdiamo così il sentimento della nostra specificità, fino a non sperimentare più nemmeno l'esperienza del dolore, l'unica, insieme a quella della morte, in cui nessuno può sostituirci. E quindi anche l'unica che ci fa toccare con mano la dimensione della nostra individualità. Se questa è la diagnosi, sostiene Galimberti, la psicoanalisi è ormai impotente. Non conosce le armi per combattere contro questa privazione di senso e non è addestrata a recuperare l'esperienza del dolore come tratto inscindibile dell'esistenza. Anzi, per suo stesso statuto, che si iscrive pienamente nella cultura giudaico cristiana, la dottrina di Freud ha bisogno di combattere il dolore trattandolo come una malattia da cui si può guarire. La conclusione è severa: "La psicoanalisi si presenta come una medicalizzazione dell'umano, che è poi la versione secolarizzata della redenzione religiosa". Può continuare a curare l'alienazione e la follia, ma non può aiutare l'uomo a ritrovare se stesso.
Che la proposta di ridimensionare la psicoanalisi venga da uno psicoterapeuta avvezzo alla pratica della cura, sia pure nella versione junghiana aperta all'esoterico, non deve stupire. Galimberti è soprattutto studioso di filosofia e in questo saggio lo dimostra ampiamente, riprendendo con mano competente, non solo Freud e Lacan, ma Heidegger e Nietzsche, Platone e Cartesio, Eraclito e Jasper. Chiede il loro aiuto per spostare l'ottica dall'esplorazione dell'inconscio alla comprensione del mondo. Anzi, all'unica disciplina "che non ha mai esitato a mettere in questione il mondo", cioè proprio la filosofia.
Le forme e i modi per tornare alla ribalta della pratica, la filosofia le troverà nella sua stessa storia e nelle espressioni spontanee degli ultimi anni. Nata in Grecia nel V secolo avanti Cristo, prima di chiudersi nell'accademia, è infatti stata una predicazione di piazza che insegnava ai giovani ateniesi la conduzione della propria vita e il governo della città. Oggi, quasi in sordina, è tornata a riempire i teatri e le piazze fino a diventare la star di festival, come quello di Modena, che richiama ogni anno qualche migliaio di persone. Il passo successivo, già sperimentato in alcune esperienze tedesche e italiane, è quello di farla consapevole del suo potere di 'cura'.
Ma, attenzione, sarà una cura di tutt'altro tipo rispetto a quella psicoanalitica. Non ci sarà lettino ma cenacolo, non setting ma aperta discussione. Il filosofo non cercherà conflitti irrisolti o eventi traumatici nella biografia del 'paziente'. Del resto non è attrezzato per farlo e non ne sarebbe capace. Lavorerà sulla materia di sua competenza, le idee, cercando di correggerle e indirizzarle. Perché, sostiene Galimberti, è ora di rendersi conto che "i disagi psichici non sono solamente gli effetti dei traumi ma sono gli effetti del modo errato con cui pensiamo noi stessi e il mondo". La soluzione sarà quindi quella di tornare alla dimensione del tragico che ci è stata trasmessa dai greci percorrendo pazientemente le vie del sapere. Solo con la conoscenza potremo accettare la nostra caducità e iscriverla nel grande ciclo della natura. Non sembri però rassegnazione perché "la conoscenza, se non elimina la sofferenza, può comunque alleviare e procrastinare la fine".
Non si troveranno nel libro di Galimberti, che pure si pone come fondativo di questa rinnovata funzione della filosofia, indicazioni sulle tecniche di incontro tra consulenti filosofici e uomini bisognosi di correggere le proprie idee. Per questo gli è sufficiente un rinvio a una già fiorente letteratura che da qualche hanno va seducendo studiosi sofisticati e insegnanti di liceo. Ciò che preme all'autore è il momento fondativo e la coscienza di una possibilità. Quella di tornare ad essere 'mortali', come ci ha insegnato quella grande cultura che ha fondato l'Occidente insieme alla giudaico-cristiana. E con i greci, abbandonare le lusinghe di Dio e di Freud, ritrovando il dolore di stare al mondo attraverso la filosofia.
segnalato da Francesca Testa:
Il Mattino 18.11.05
"La Cassazione ritiene che la psichiatria sia in preda da anni ad una crisi di identità"
Cogne, l’ombra della nevrosi dietro la perizia
di Gigi Di Fiore
Torino. Sul tavolo del presidente della prima Corte d’Assise d’appello, Romano Pettenati, c’è una copia di una sentenza della Cassazione a sezioni unite. Poco meno di 30 pagine, per il provvedimento giudiziario numero 9163, depositato l’otto marzo scorso, con cui il sostituto procuratore generale Vittorio Corsi ha motivato l’esigenza giuridica di disporre una nuova perizia psichiatrica per Annamaria Franzoni. Il giorno dopo la prima udienza del processo sull’omicidio del piccolo Samuele Lorenzi, la Corte, con il giudice relatore Luisella Gallino e i sei giudici popolari, prepara l’ordinanza con le decisioni sulle richieste dell’accusa e dell’avvocato Carlo Taormina. Decisioni da prendere per l’udienza di lunedì mattina. La sentenza della Cassazione amplia i margini per le attenuanti determinate da un «vizio di mente». Si legge, nel testo redatto dal giudice Francesco Marzano: «Le oscillazioni giurisprudenziali sono state determinate essenzialmente dal difficile rapporto tra giustizia penale e scienza psichiatrica, quando quest’ultima ha posto in crisi le sue tradizionali elaborazioni metodologiche». La Cassazione ritiene che la psichiatria sia in preda da anni ad una crisi di identità. Per cui: «La classificazione dei disturbi psichici risulta quanto mai ardua e relativa, non solo per la mancanza di una terminologia generalmente accettata, ma per i profondi contrasti esistenti nella letteratura pasichiatrica». Sulla capacità di intendere e di volere, la sentenza è un precedente di peso per la giurisprudenza penale. Un precedente che introduce, tra le cause di incapacità, anche i cosìddetti «disturbi della personalità»: su un totale di 52443 ammissioni ai servizi psichiatrici degli istituti di cura per «neurosi e turbe psichiche non psicotiche», ben 10862 sono per »disturbi della personalità». La conclusione è che anche il «disturbo della personalità, come quelli da nevrosi e psicopatie, può portare all’incapacità di intendere e volere». Ha spiegato il sostituto pg Corsi: «La nuova perizia psichiatrica per Annamaria Franzoni è necessaria per l’inammissibile superficialità con cui fu portata a compimento la prima». Il «disturbo della personalità», secondo la Cassazione, deve avere però «consistenza, intensità, rilevanza e gravità» ed avere legami con il delitto commesso. Scrive il giudice Marzano: «Infermità, anche transeunte, possono determinare il risultato di pregiudicare, totalmente o grandemente, le capacità intellettive e volitive, rendendo l’agente incapace di esercitare il controllo dovuto sui propri atti». Con questa sentenza della Cassazione, il sostituto pg Corsi ritiene che la corte d’Assise d’appello abbia elementi giuridici sufficienti per dire sì ad una seconda perizia psichiatrica per la Franzoni. Ha detto il magistrato: «La decisione a sezioni unite è un’importante e recente novità, che può spingere, in modo giuridicamente motivato, a cercare risposte definitive sulla capacità di intendere e di volere dell’imputata». Anche se la mamma di Samuele, come ha riferito il suo avvocato Carlo Taormina, non ha molta intenzione di collaborare con gli eventuali periti psichiatri nominati dalla Corte. Sembra, almeno dopo i primi confronti tra i due giudici togati ed i sei popolari, che l’orientamento prevalente sia quello di dare il via prima alle perizie sulle macchie di sangue dopo aver visionato il nuovo video registrato nella villetta di Cogne a poche ore dall’omicidio. Poi, l’ispezione dei luoghi e l’interrogatorio dell’imputata. Il presidente Pettenati spinge per un processo rapido, con almeno tre udienze a settimana, per arrivare ad una sentenza entro febbraio. Smorza l’avvocato Taormina, che ha detto: «Ho degli impegni istituzionali e delle scadenze legate alla mia attività professionale. In teoria, potrei essere disponibile il lunedì ed il martedì. Ma occorre un calendario concordato, tenendo presente che ci vuole tempo per le nuove perizie da noi richieste. Non vedo la necessità di tanta fretta, di fronte alla ricerca della verità su un delitto così efferato».
segnalato da Roberto Martina:
Repubblica 18.11.05
L'oncologo parla del suo nuovo libro e attacca i diktat del Vaticano su aborto e pacs
Veronesi difende l'eutanasia
"Morire è un diritto fondamentale"
"I vescovi vogliono cambiare la legge 194, fermiamoli
Lo Stato deve reagire e dire alla Chiesa di rispettare i confini"
di Dario Crest-Dina
MILANO - "Ho l'impressione che il dialogo con i vescovi sia diventato un monologo. Bisogna fermarlo", dice Umberto Veronesi: "Mi sembra che la Chiesa voglia condizionare le scelte di un paese che, se devo giudicarlo alla luce dei comportamenti dei suoi abitanti, è a maggioranza non credente, o poco credente". Nel tentativo di contribuire a frenare questa "invasione di campo" il professore ha scritto un libro su un tema spinoso che da sempre gli sta a cuore. È un libro che difende l'eutanasia volontaria.
Il titolo è un manifesto, nel senso che dentro c'è già tutto: Il diritto di morire, la libertà del laico di fronte alla sofferenza. Dove la parola laico è un simbolo, un marchio.
Professor Veronesi, mentre lei parla di eutanasia il Vaticano attacca su concordato, pillola abortiva, pacs, e fermiamoci pure qui. Un autentico contro potere italiano?
"No, perché di solito i contro poteri sono occulti. I vescovi, invece, fanno tutto alla luce del sole. Ma adesso rischiano di oltrepassare il limite. Come scriveva Montanelli, stanno cercando di obbligarci a adeguarci a un credo nel quale non crediamo. Le ultime dichiarazioni del cardinale Ruini, per esempio, devono far pensare. E sono difficili da accettare".
Si riferisce alla condanna della pillola Ru-486?
"Sì. Quando Ruini dice che l'uso della pillola equivale a un omicidio, manifesta un pensiero che va in realtà ben oltre il significato delle sue parole. L'obiettivo della Chiesa è rimettere in discussione la legge sull'aborto. La verità è che ci vogliono togliere la 194, diciamolo con chiarezza. Uno stato laico deve reagire, ricordare alla Chiesa che ci sono confini da rispettare".
Ma il partito dei cattolici è forte, è trasversale e le sue file si ingrossano. Il presidente della Camera Casini ieri ha detto che le parole della Chiesa sono proposte, non imposizioni.
"Guardi, io rispetto le opinioni di tutti. Ma un conto sono le idee, un altro le leggi. La legge sull'aborto è stata votata dal 70 per cento del popolo italiano. La posizione della Chiesa è, quindi, in opposizione non solo allo Stato italiano, ma al popolo italiano. La Ru-486 è in linea con la 194, il suo utilizzo, naturalmente all'interno di regole precise, non deve costituire un problema. Si tratta, in sostanza, di praticare l'aborto per via farmacologica invece che chirurgica. Se è diventata un problema, è perché se ne è voluto fare un caso politico. Non dobbiamo sottovalutare poi che proibire questa pillola, accettata dalla maggioranza dei paesi europei, porterebbe inevitabilmente alla nascita di un mercato nero. Il proibizionismo non è mai una risposta efficace".
Perché la Chiesa è così aggressiva?
"Forse perché è in crisi, forse perché sta vivendo un momento di transizione, ma non dimentichi che c'è smarrimento anche nella società ed è in periodi come questi che si riafferma il proselitismo della fede, delle religioni. Benedetto XVI lo ha capito benissimo, questo Papa non è certo un vescovo che sta in mezzo al fiume: è intransigente, è tradizionalista, è coerente. Non si può essere un uomo di chiesa soltanto per metà o per un terzo. I cardinali fanno il loro mestiere, altri invece no".
È una critica al governo?
"Non solo. Mi riferisco alle carenze e alle assenze della politica. Sia a destra, sia a sinistra. Mi riferisco allo Stato. Ho come l'impressione che improvvisamente siamo diventati tutti ferventi credenti. Tutti rinoceronti, come nella commedia di Ionesco".
Ed è in questo clima che lei propone di autorizzare l'eutanasia?
"Voglio semplicemente porre il problema, tentare di aprire un confronto su un argomento tabù, un tema di cui nessuno vuole parlare".
Significa sostenere la bontà del suicidio?
"Assolutamente no. Il suicidio è un fenomeno psicologicamente complesso che ha radici profonde e antichissime. È una pulsione tipica dell'uomo, che non esiste in altri esseri viventi. Io sostengo il valore dell'eutanasia come richiesta volontaria e cosciente di porre fine alla propria esistenza. Cosa che può maturare quando la vita diventa insopportabile per il dolore, la sofferenza e la perdita della propria dignità. Dai dati dell'Olanda, dove l'eutanasia è legale, appare che la richiesta riguarda per l'85 per cento i malati terminali".
Ha scritto Norberto Bobbio, verso la fine della sua vita: "L'unico rimedio alla stanchezza mortale è il riposo della morte". È a questo che pensa, professor Veronesi?
"Credo che il diritto di morire faccia parte del corpus fondamentale dei diritti individuali: il diritto di formarsi o non formarsi una famiglia, il diritto alle cure mediche, il diritto a una giustizia uguale per tutti, il diritto all'istruzione, il diritto al lavoro, il diritto alla procreazione responsabile, il diritto all'esercizio di voto, il diritto di scegliere il proprio domicilio".
Ma la richiesta di eutanasia non contrasta con la natura?
"La natura non ha previsto l'immortalità dell'uomo, anzi, la morte è uno dei suoi principi. Non si può rimanere in vita quando la vita non è più vita".
Eppure proprio la scienza e la medicina sembrano volerci cancellare la prospettiva della morte e la chirurgia estetica ci illude persino sul prolungamento della giovinezza.
"È vero, la medicina spesso espropria il diritto alla morte. Macchine complesse tengono in vita persone senza coscienza per settimane, mesi, anni. Questa è una vera violenza alla natura. Ma il compito della medicina non è quello di legiferare. La scienza aspetta una legge che faccia chiarezza sui limiti del suo intervento".
Lei pensa alla legge olandese?
"Potrebbe costituire un buon punto di partenza. Stabilisce una procedura seria e accurata, ma permangono dubbi sulla genuina volontà del paziente che manifesta il desiderio di eutanasia. È difficile capire fino a che punto conti l'influenza dei famigliari, oppure il livello di depressione nel quale il malato precipita. Il cammino sarà lungo, ma ritengo sia importante cominciarlo. Sarebbe un segno di civiltà".
Imparare a vivere significherebbe imparare a morire, come sosteneva Jacques Derrida?
"Sì, anche se è molto difficile. Ma chi sta in trincea, come i medici, sa quante volte un paziente chiede di venire aiutato a morire".
E i medici lo fanno?
"Sì, sarebbe ipocrita negarlo: negli ospedali italiani l'eutanasia clandestina viene praticata. Nessuno lo confesserà mai, eppure esiste. Si allontana l'infermiera con una scusa, si aumenta un po' la dose di morfina... Ci sono molti modi".
È un omicidio?
"No, è raccogliere un appello alla pietà".
ilcassetto.it 18.11.05
Terni
Cultura (comunista) d’acciaio… spinta dall’idrogeno
di Pino Di Maula
Se Perugia piange, Terni non può certo ridere. Vuoi per la crisi industriale: “per 23 imprese chiuse in questi anni nel perugino, c’è ne è una – registra Eurispes - che ha seguito la stessa sorte nel ternano”. Vuoi per la sicurezza delle sue strade. Stiamo nella provincia italiana dove, almeno stando all'Associazione sostenitori amici della polizia stradale “è maggiore il rischio di restare vittima di un impatto letale”. In effetti verifichiamo un bel traffico di auto e mezzi pesanti anche alle porte della città.
Sarà per quel groviglio di raccordi che la circondano, sarà per le aziende che qui, diversamente da Perugia, secondo Eurispes, hanno incrementato le esportazioni. Comunque sia, anche in questo caso, ci affrettiamo a lasciare la macchina in un comodo posteggio per avviarci a piedi verso la zona Ztl. Il corso principale è piacevolmente, e completamente, pedonalizzato. Da lì raggiungiamo con facilità il municipio, l’unico in Umbria – toccato dal filone rosso di tangentopoli.
Uno scandalo dimenticato ormai, così come i sei anni di centrodestra, e relativi danni per lo stato sociale, grazie a Paolo Raffaelli, ex giornalista Rai, deputato comunista e pacifista nonché ultrà. E’ lui il “super sindaco” (definito così dalla stampa specializzata non per la stazza, che pure c’è, bensì per le classifiche della Ekma sui Comuni più efficienti) che nel 1999 ha accettato la difficile sfida di risanare i bilanci, restituire fiducia nella democrazia partecipata e, contemporaneamente, imprimere una spinta economica alla città dell’acciaio. Che rischiava, davvero, il collasso.
Ora il più è fatto, ma il sindaco non si senta per nulla appagato. Non c’è da meravigliarsi dunque se «ricostruzione» continua a essere la sua parola preferita. La più ricorrente mentre si aggira nella sua “residenza” istituzionale tra “agenzie” che scorrono sui terminali, qualche icona politica, magliette della Ternana con il suo nome stampato in bella vista, targhe inneggianti alla “Ternitudine” e altri stendardi che evocano la curva est dove è abituè con i working class, reduci della vecchia guardia dei famosi e incorruttibili tifosi rossoverdi, Freak brothers. Gente seria che preferisce il Che alle svastiche e, soprattutto, non figura nei libri paga di nessuna Spa né per le trasferte né per azioni, in genere, poco decorose “concesse” ad altre tifoserie.
Anche se appoggia Prodi, non si può definire certo un “mediano” quando scende in campo. Raffaelli, al suo secondo mandato con il 69 per cento di preferenze, dopo aver restituito stabilità e una certa rinnovata credibilità all’istituzione municipale, ora si trova ad affrontare, assieme a spinosi rapporti con la Margherita, l’ulteriore sfida lanciata con la nuova legge finanziaria dal nuovo vecchio Ministro delle finanze.
A volte ritornano. Per grazie ricevuta. Nonostante la sua chiosa preferita attribuitagli in Transatlantico fosse “come fai a fidarti di uno che si chiama La Loggia”, Giulio Tremonti dopo essere stato investito da nuove onorificenze nella city, ora in Italia detta legge. Con o senza Bossi. Con buona pace di Gianfranco Fini. Anche i giornali gli riservano maggior rispetto.
«Non sarà semplice ricostruire l’Italia». Prova a misurare le parole, ma ci vuole poco per farlo esplodere. «La “maggioranza” uscente del governo nazionale sta mostrando il suo vero volto, peggio dei Borboni, simile a quelle truppe d’occupazione che si ritiravano mettendo a ferro e fuoco i villaggi, non senza averli prima saccheggiati». Le preoccupazioni del sindaco sono rivolte questa volta al Paese.
Lasci stare la politica nazionale. Pensi piuttosto a Terni che nel 2006, dovrà fare a meno di 12 milioni di euro. Ai tagli netti della Finanziaria che ammontano a 5,6 milioni per il Comune e 4,5 per l’Ospedale vanno infatti sommati altri due milioni previsti dagli oneri per i combustibili.
«Terni è una città sana, il Comune è il maggior investitore pubblico dell’ Umbria, dopo l’Anas». Finora, conti alla mano (95.378.329 euro di entrate e 90.266.562 di spese correnti) siete riusciti a far quadrare i conti del 2004. Quale il segreto? «Con la lotta all’evasione fiscale e – afferma sicuro mostrando i grafici che evidenziano come in quattro anni, a fronte di minori risorse, siano aumentati i servizi offerti alla città - tagliando sui dirigenti, consulenze e beni non essenziali». Compensare i mancati trasferimenti diventa quindi possibile. E in un prossimo futuro per meglio garantire il welfare locale potreste far ricorso a una parte dell’Iva e di altri tributi, come prevede l’Alta Commisione sul federalismo fiscale diretta dall’economista Giuseppe Vitaletti (ex cervello del ministro socialista Rino Formica). Sono bei soldi. Solo in Umbria si stimano 21.687.476 euro con il gettito dell’Iva dai bar, 43.269.711 dai tabacchai e 20.386.040 dalle edicole. Lo studio sembra incontrare il favore dell’Anci. C’è più interesse nei sindaci che nel governo che l’ha ufficialmente commissionato. Lo dimostrerebbe un volume con le stesse proposte, ancor più esplicitate, pubblicato dall’associazione nazionale dei comuni italiani. Che al momento tiene sotto stretto embargo.
In ballo c’è la tattica politica. Come dimostrano le parole di Raffaelli: «Purché non siano sostitutive di altre imposte». Ma non possono esserlo. «In più - dichiara Vitaletti ad Avvenimenti - l'autonomia viene fortemente potenziata e i trasferimenti residui assumerebbero carattere di corrispettività, e non di regalo tagliabile». Come accade oggi. Mentre da una parte si promuove il federalismo, dall’altra tagliano i trasferimenti e ti dicono anche come quando e perché spenderli quei pochi fondi rimasti. “Come mettere i piedi nel piatto di chi mangia” direbbe il filosofo Cacciari.
Mentre Raffaelli, da comunista navigato preferisce lanciare un altro tipo di messaggio: «Occorre innanzitutto rilanciare il concetto di una cultura che forma e accompagna la società sia civile che industriale». Perno di tutto – a suo dire deve essere la ricerca, a partire «quella energetica con il primo “Villaggio (un’infrastruttura lunga 27 chilometri tra Terni e Narni ndr) sperimentale all’Idrogeno, fondamentale per il rilancio anche dell’acciaio che per noi, a Terni, resta una nostra priorità».
Qualche opinionista locale indisponente si domanda cosa c’entrino queste encomiabili parole sul progresso civile con l’udienza generale dal papa. Galeotta, pare, per distendere le tensioni con la Margherita o, come va oggi di moda dire, per non “regalare” la fede al centrodestra. Fin qui la stampa, la cittadinanza sembra invece più pragmatica quando mostra di apprezzare, col voto ancor più che nei sondaggi, la giunta per le sue battaglia in difesa del sistema universitario (in quattro anni si è passati da due a sei facoltà) e produttivo.
Nonostante tutto, i dati forniti dall’assessore alle politiche formative e del lavoro Donatella Massarelli parlano chiaro: «Quest’anno le assunzioni programmate saranno 2.610 che, al netto delle 2.160 uscite, determinano un saldo occupazionale attivo pari a 450 unità» Il ritmo occupazionale però rallenta. «Il 2004 è stato un anno importante con un incremento del 43 per cento di avviamenti al lavoro escludendo dal computo i tremila avviamenti relativi ai lavoratori immigrati». E nel 2005? «C’è una crescita del 0,9 (anziché 2 per cento del 2004) ma superiore alla media nazionale».
In questo contesto risulta confortante il dato fornito dalla Provincia durante la “Quarta fiera del Lavoro” organizzata, a ottobre, dalla Massarelli. Si è passati “dal 38,4 per cento del 2003 al 42 per cento del 2004 facendo riscontrare in questo primo semestre 2005 un ulteriore progresso con un’incidenza del 44,6 per cento”.
E non è poco in una provincia che ha uno dei più alti indici di presenza delle multinazionali come Shell e Thysser Krupp con cui - si presume - non deve essere facilissimo dialogare. Come non sarà semplice trovare una soluzione per la cresi di Magnetic ed Elettrotreni, aziende specializzate nella fabbricazione di trasformatori di ogni genere misura e peso.
E, pertanto, fortemente legate e dipendente (se non si fabbrica più quel tipo di acciaio diventa complicato fare anche quel particolare attrezzo per logica di filiera) all’intero sistema produttivo dell’area. «Stiamo facendo del tutto per mettere in piedi un nuovo modello di sviluppo territoriale – conclude Raffaelli - capace di coniugare economia, innovazione e qualità ambientale». Che altro dire, shapò al “marketing-guerrilla” di questi amministratori, e in bocca al lupo ai loro concittadini affinché ricerca e progresso abbiano davvero la meglio in queste terre fantastiche. Dove c’è sicuramente ancora spazio, almeno per qualche dolce sorriso.
Il manifesto.it 17.11.05
Potenza di un pensiero. Il convegno di Bologna su Spinoza
Se la forza di un pensiero si misura sulla base dei concetti che crea, o di cui rinnova il significato, e che impongono un nuovo modo di vedere le cose e persino un nuovo modo di agire, allora oggi questo è il caso di Spinoza. Da oggi (ore 9), fino a sabato 19 novembre, nella sala Rossa della Scuola Superiore di Studi Umanistici di Bologna (via Marsala 26) inizia il convegno «Spinoza: individuo e moltitudine». Spinoza non cessa di fare discutere, soprattutto per le categorie come moltitudine che oggi hanno ormai una diffusione globale e vengono anche usate ben al di là del loro contesto originale. Produttività del concetto, appunto. Perché le grandi filosofie hanno sempre da dire qualcosa sul nostro tempo presente. E se poi i grandi classici, come Spinoza, continuano a far parlare di sé, allora anche un convegno può diventare l'occasione per guardarli in una maniera viva, e non manualistica, cioè come momenti significativi lungo la passeggiata nel pantheon della storia della filosofia. Al convegno bolognese interverranno alcuni fra i maggiori studiosi mondiali che si occupano, come nel caso di Laurent Bove (di cui pubblichiamo la relazione) e Manfred Walther, delle strategie di resistenza all'oppressione politica; di cosa si intende per individuo molteplice André Tosel, Chantal Jaquet, Warren Montag; sulla storia dello spinozismo intervenrranno Salah Mosbah e Marilena Chaui. Nella giornata di domani, da segnalare gli interventi di Antonio Negri («Moltitudine e singolarità nello sviluppo del pensiero politico di Spinoza») e Étienne Balibar («Il transindividuale: Spinoza e gli altri»). E la comunicazione di Michael Hardt su «1642-1643: sul concetto di moltitudine nel pensiero politico inglese durante la rivoluzione». Interverranno Augusto Illuminati («Spinoza disobbediente»), Filippo Del Lucchese («Iustitia et armi. Diritto e conflitto in Spinoza») e Vittorio Morfino («Moltitudine e temporalità plurale»), insieme a Stefano Visentin («La multitudo nell'imperium aristocraticum»), Riccardo Caporali («La moltitudine e gli esclusi») e Paolo Cristofolini («Saeva multitudo»). A chiudere i lavori del convegno sarà Carlo Galli con un intervento sul rapporto tra Leo Strauss, Carl Schmitt e Spinoza. Prima di lui interverranno, tra gli altri, Pina Totano, Daniela Bostrenghi, Francesco Piro e Walter Tega
Il manifesto.it 17.11.05
Il principio della resistenza
Quell'irresistibile resistenza al dominio che segna la vita degli uomini e donne in società e che comunque nutre l'organizzazione statale. Pubblichiamo la relazione che l'autore presenterà in un incontro internazionale dedicato all'opera di Spinoza
di Laurent Bove
Il desiderio di non essere dominati da un proprio simile: questa la profonda politicità della filosofia di Spinoza. Anche quando ogni resistenza viene sradicata, si legge nel Trattato teologico-politico, gli uomini «continuano a provare soddisfazione per un male o per un danno causato a chi li comanda». La schiavitù in apparenza più dura non potrà mai impedire agli uomini di conservare, almeno in parte, quella libertà che il Trattato politico pone nell'esercizio di un «diritto di guerra», inseparabile dall'affermazione stessa di una vita singolare. Un diritto di guerra che non è intrinsecamente irrazionale. È una «prudenza», l'esigenza di una natura che non può mai volere in se stessa la propria distruzione. Una prudenza che sfugge alla problematica dell'obbedienza e del contratto e che appare come una forma di resistenza, essa stessa irriducibile. Come spiega Spinoza nel Trattato politico, la moltitudine «mantiene in parte la propria libertà attraverso una segreta ed effettiva rivendicazione», perché sempre e necessariamente resta una fonte di paura per i governanti.
È dunque attraverso gli affetti più segreti che si legge innanzitutto una rivendicazione vitale, che niente sembra poter realmente sopprimere. Si devono considerare dei veri e propri assiomi, quindi, da un lato il desiderio di non essere comandati e dall'altro la necessaria rivendicazione di diritti, nell'intimo della propria vita affettiva, da parte di uomini costretti all'obbedienza: «tale prudenza - scrive Spinoza - non è obbedienza, ma la libertà stessa della natura umana».
Non è in una logica dell'obbedienza, quindi, ma attraverso una prudenza vitale che si costituisce il diritto proprio del genere umano. La rivendicazione segreta implica sia una dinamica mimetica di affetti di solidarietà, sia la difesa di diritti che derivano dalla pratica stessa della vita sociale nella sua quotidianità.
La strategia del conatus
Diritti che non sono affatto individuali, astratti o definiti una volta per tutte. Diritti che nessun contratto potrebbe sopprimere, ma che sono generati da una vita che, per quanto a un livello minimo, è sempre-già in comune. Una cooperazione consistente e resistente dell'«animale sociale» che desidera non essere comandato e, di fatto, sopravvive e fa sopravvivere una forma di vita «umana» precedente a ogni ordine civile, a ogni obbedienza, a ogni costrizione. Una vita umana che il potere non può mai sopprimere senza contemporaneamente decomporsi. Questa cooperazione, resistente e consistente, è infatti indissociabile dalla potenza della moltitudine, di cui il potere si nutre. La produzione indefinita del comune, allora, è necessaria al dominio (che pure tende logicamente a distruggere). È il crogiolo, in permanenza rinnovato, della sua contestazione. Siamo al principio stesso della politica spinozista, inseparabile dal pensiero di una potenza intesa come resistenza e cooperazione, così come da una teoria dell'antropogenesi.
Da questa natura della moltitudine, dal suo carattere barbaro, ribelle, ingovernabile, si deduce necessariamente, al principio della storia, la forma di un vivere-insieme democratico che Spinoza definisce come una «società intera». Una società che esercita «collegialmente il potere in modo che tutti siano tenuti a obbedire a se stessi, senza che nessuno sia costretto a obbedire a un proprio simile». Ponendo la questione di «una vita umana» al cuore di un'ontologia politica della potenza, Spinoza ha fatto della resistenza al dominio del simile - e della democrazia che da tale resistenza necessariamente si genera - i principi fondamentali della politica e della storia.
Il paradigma turco, quello cioè del più rigido assolutismo, rappresenta al contrario la chiusura della storia, quando la violenza del dominio ha sradicato i principi stessi della politica e dell'antropogenesi. Ma questo totale trionfo della morte è un modello contraddittorio, in quanto il dominio tende qui a sopprimere la condizione stessa del suo esercizio.
Il fine della repubblica, invece, è la libertà. Compito dello stato, secondo il Trattato teologico-politico, non sarà quello di trasformare gli uomini in «bestie» o in «automi». Al contrario, la costituzione di un mondo in comune e di un corpo politico che resiste, in regime di pace, si farà contro ogni tentativo di «automazione» e di «animalizzazione» degli uomini. Automazione (che può anche essere una servitù felice, con l'adesione a una particolare forma di vita, come nell'antico stato ebraico) e animalizzazione che creano un regime di guerra, spinto fino al terrore che distrugge ogni comunità e in cui «alla schiavitù, alla barbarie e alla solitudine si dà il nome di pace», proprio come nello stato turco.
Se «in teoria», quella giuridico-politica della sovranità, l'idea della giustizia e della pace sono legate all'obbedienza, cioè alla rappresentazione di una «Legge» che il suddito è tenuto a rispettare, la giustizia e la pace rinviano «in pratica» a una problematica della «prudenza», o della strategia del conatus. Rinviano cioè alle condizioni effettive dell'affermazione immanente di una libera potenza della moltitudine, per l'esercizio di una «vita umana». Ossia, alle condizioni di esercizio di un'affermazione comune che resiste alle logiche, automatizzanti e animalizzanti, di guerra e di dominio.
Un diverso esempio di servitù radicale, tuttavia, sfugge nell'opera di Spinoza alla contraddizione interna tipica della tirannide turca. È lo stato ebraico, che dimostra al tempo stesso qualcosa di assolutamente paradossale e del tutto logico, rispetto all'idea per cui la sovranità è effettivamente la potenza di tutti. Il potere sovrano, cioè, può quasi fare dei propri sudditi ciò che vuole. Ciò è realmente possibile, però, riconoscendo al tempo stesso l'impossibilità di eliminare sia la cooperazione umana sia la resistenza al dominio da parte dei propri simili. Per questo è necessario fondare il dominio integrale su un'autorganizzazione democratica effettiva dell'immaginazione e delle sue pratiche e dinamiche di soddisfazione. Autorganizzazione che deve resistere a ogni altro tipo di forma di vita, vissuta come costrizione e dominio da parte di forze estranee. La rivendicazione implicita, quindi, inerente a ogni cooperazione e segretamente resistente a ogni dominio estrinseco diviene, per gli ebrei, la resistenza esplicita, politicamente e ideologicamente istituita, dei contro-poteri.
Lo stato degli automi
Se la relazione di potere, nel caso degli ebrei, non è «animalizzante», nel senso dello stato turco, essa è però «automatizzante». Tale soluzione di controllo totale, che rende l'obbedienza una «seconda natura» e schiaccia il futuro su un eterno presente, liquida integralmente la libertà e la creatività della moltitudine. Quando il comando del sovrano (la Legge) è identificato con la necessità stessa della vita o col desiderio stesso del suddito, senza possibilità di variazione o di critica, l'automazione degli individui è allora perfettamente compiuta.
L'idea di automazione, nello stato ebraico, oltrepassa di gran lunga quella dell'animalizzazione. Perché il regime di eteronomia, nell'automazione, riguarda la strumentalizzazione integrale delle funzioni umane. Non solo, quindi, del dispositivo degli affetti, ma della ragione stessa, che negli ebrei diviene l'incarnazione dell'apparato teocratico. Fa la sua comparsa, in questa figura particolare dell'umanità che si pone come modello di ortodossia di una vita «vera», una nuova norma immanente. La norma di un uomo così perfettamente animalizzato da non mancare d'intelligenza o di sentimenti adeguati al proprio sforzo vitale, alla soddisfazione dei propri desideri e bisogni. Un uomo che tuttavia, in questa nuova «prudenza» dell'animale sociale e storico, sarebbe privato della possibilità di un'interrogazione radicale sulla propria vita e, più in generale, di un pensiero libero da ogni potere. È dunque verso l'uomo della modernità, cioè verso di noi, che la nuova «animalità» punta il dito.
L'inquietante possibilità di una chiusura della storia, certo mai definitiva, non è dunque assurda. Può essere scartata dal nostro orizzonte solo attraverso forme di espressione che sfuggano all'ordine monarchico del regime liberale e universale dell'ortodossia, nella sua veste apparente di una democrazia.
Quando Spinoza parla di una repubblica «il cui fine è la libertà», tiene a precisare che gli uomini dimostrano un'esercizio della ragione, in quanto «libera ragione» (libera ratione), o una vita dello spirito in quanto «vera» vita dello spirito. E probabilmente, come modello contrario, pensa a Hobbes e al tipo di stato moderno che, riducendo lo spirito e la ragione umana al calcolo verbale, li rende meri strumenti di una forma di vita animalizzata.
L'utopismo politico e razionalista della modernità si collega così, tendenzialmente, alla chiusura identitaria dell'ortodossia teocratica, perfetta nella rimozione della complessità e della capacità innovativa della moltitudine. Partire realmente dalla complessità o dalla verità effettiva delle cose, per Spinoza, significa sostituire al modello dell'obbedienza razionale il complesso produttivo delle prudenze o dei processi strategici immanenti, resistenti e singolari, dei conatus. Si ha qui la principale questione politica e strategica: un problema di prudenza e di costituzione immanente della libertà come potenza, e non una questione di obbedienza.
Spinoza mostra tuttavia come gli uomini lavorino «per la propria servitù come se si trattasse della propria libertà». È all'avvento della coscienza di sé dello stato, vissuto come proprietà nazionale (di fronte al problema dell'afflusso di stranieri e all'invidia collettiva che ciò mette in moto), che Spinoza indica come la democrazia, successivamente, proceda alla forclusione storica e giuridica delle differenze a partire da cui pure si era generata: l'uguaglianza reale delle singolarità diviene allora l'uguaglianza civile dei «cittadini» di fronte alla legge, entro e attraverso la chiusura giuridica. La democrazia degenera allora in aristocrazia e poi in monarchia.
Il grande interesse filosofico di Spinoza, la sua lucidità teorica e politica, risiedono nel fatto che non schiaccia mai l'uno sull'altro i livelli di realtà che i suoi concetti aprono. Nel Trattato politico, la multitudinis potentia, in quanto potenza costituente della complessità, è rigorosamente distinta sia dalla civitas, come corpo comune politicamente organizzato, sia dalla natio, come corpo comune nella sua particolarità storica (una lingua, dei costumi, delle leggi). I livelli della città e della nazione non sono mai trattati ideologicamente come uno strato originario o come forme trascendentali dell'identità che dovrebbero sussumere la molteplicità (ciò che, di fatto, sia la civitas sia la natio, storicamente fanno!). Sono considerati, invece, come prodotti immanenti, cioè come momenti di un processo storico dell'auto-organizzazione (paradossale nei suoi effetti) della potenza della moltitidine. Momenti, inoltre, su cui si innesta una legge della storia che certo potrà, nei fatti, rivelarsi più forte della resistenza al dominio e delle aspirazioni alla libertà e all'uguaglianza, in quanto riuscirà a strutturare le aspettative e le rivendicazioni.
Pratiche eccedenti
Nello stato ebraico, tale strutturazione avrebbe potuto essere totale. E poteva esserlo in quanto tale stato, attraverso la totale sottomissione a Dio, cioè alla «Legge», soddisfaceva la rivendicazione essenziale della moltitudine a non essere dominata da un proprio simile. Schiacciando i tre livelli, quello della moltitudine, della città e della nazione, si produce una filosofia politica profondamente conservatrice. Spinoza dice appunto «la» moltitudine per intendere la «potenza della moltitudine» (qui sta il vero e proprio concetto spinozista della complessità). Non parla cioè «della» o «delle» moltitudini, nel senso che ogni moltitudine verrebbe costretta in una particolarità, cioè nell'identità della nazione come civitas. Anche se storicamente, quanto ai propri effetti, la nazione è la figura necessaria e ambivalente della costituzione reale della civitas e del suo particolare conatus. Il paradigma perfetto di tale chiusura identitaria e storica, come abbiamo visto, è lo stato ebraico teocratico. Per Spinoza, come una legge della storia, questa chiusura si ritrova sempre e ovunque. Sempre e ovunque, tuttavia, le esperienze - cioè le pratiche - eccedono la regola.
La resistenza al dominio del simile sta nell'ordine complesso e ordinario delle cose: entro e attraverso la natura complessa della moltitudine, la paura che ispira a chi domina e il desiderio di ciascuno di rivendicare la propria singolarità e libertà di vivere come vuole. Così, anche nel delirio e nelle illusioni che necessariamente comporta, il desiderio ribelle che resiste al dominio del simile resta - anche in seno alla servitù e alla condizione storica - la sorgente di una politica di emancipazione e di invenzione, il crogiolo ontologico dell'antropogenesi, inseparabile dal processo stesso della democrazia.
Da qui l'importante questione lasciata aperta da Spinoza, sulla nostra emancipazione radicale, cioè democratica, dalla figura ricorrente dell'«ortodossia». Figura in ultima istanza teocratica, che riguarda non solo il corpo politico, ma più in profondità i nostri stessi corpi, le nostre menti, le nostre idee e gli affetti, la nostra lingua, i costumi e le leggi, cioè «una vita umana» o ciò che oggi dobbiamo intendere per «politica».
Da Spinoza ai moralisti
Laurent Bove è docente di filosofia all'Università di Amiens. Si è occupato di Baruch Spinoza, dei moralisti francesi, di etica e politica nell'età moderna. Fra le sue opere «La strategia del conatus. Affermazione e resistenza in Spinoza» (Edizioni Ghibli, Milano 2002, traduzione italiana di Filippo Del Lucchese). Ha curato un'edizione francese del «Trattato politico» di Spinoza (Livre de Poche, classiques de la philosophie, 2002) e il volume «Vauvenargues. Philosophie de la force active. Critique et anthropologie» (Champion, Paris 2000). Lavora attualmente all'edizione collettiva delle opere complete dello scrittore e filosofo settecentesco Luc de Clapiers Vauvenargues e fa parte della redazione della rivista «Multitudes».
Il manifesto.it 17.11.05
Paul Roazen, l'autore di "Fratello animale", fu presente al nostro convegno di Napoli 1996 al Mercadante.
Alla pagina : http://www.mclink.it/com/rcp/istinto/ita/roazen.htm , è ancora pubblicato, tra gli altri, l’abstract dell’intervento
È morto Paul Roazen
Biografo di Sigmund Freud, tra i maggiori storiografi della psicoanalisi, lo studioso è morto a Cambridge, Massachusetts, all'età di sessantanove anni. Ebbe l'opportunità di consultare le carte presenti nell'archivio di Ernest Jones, l'autore della biografia ufficiale di Sigmund Freud apparsa tra il 1953 e il `57, opera che gli apparve segnata da limiti agiografici nonché dalle conseguenze dell'accordo con Anna Freud a rispettare le stesse regole che avevano guidato lei e Ernst Kris nella stesura dell'epistolario con Fliess, emendato da ciò che Freud avrebbe considerato poco funzionale a un ritratto tramandabile ai posteri. Sono molteplici le opere che Roazen dedicò al padre della psicoanalisi, ma la più celebre resta Freud e i suoi seguaci, scritta nel `75 e pubblicata dalla Einaudi con una prefazione di Michele Ranchetti, che avvertiva come nuovi materiali fossero nel frattempo venuti alla luce rendendo questo libro datato, per quanto prezioso. Roazen si era servito, tra l'altro, di documenti sgraditi alla famiglia di Freud, traendone un panorama comunque equilibrato e di enorme interesse. Nel corso delle sue ricerche intervistò anche molti tra i pazienti del medico viennese, e alcuni protagonisti del movimento psicoanalitico, tra cui Erik Erikson, Helene Deutsch, Sandor Rado, Edoardo Weiss che divennero protagonisti di sue monografie.
segnalato da Paolo Izzo
Corriere della Sera - 17.11.05
Bertinotti: «Concordato e 8 per mille non vanno cambiati»
Intervista di Paolo Conti
Fausto Bertinotti: secondo lei Camillo Ruini è, come dice il socialista Boselli, di fatto un capo partito?
«No, perché se così fosse sarebbe risolto il problema e al posto della cattedra spirituale ci sarebbe un partito".
Ma a suo avviso il presidente della Conferenza episcopale italiana parla «da politico»? Interferisce o no nelle vicende italiane?
«In passato ci sono stati momenti in cui ha parlato come un leader politico. Diciamo poco prima dei fischi ricevuti a Siena: una scivolata, un'incursione in campo improprio.
Ma non bisogna confondere una parte col tutto perché se esiste forse una propensione neointegralista, il fenomeno non va assolutizzato.
In quanto al merito: se un vescovo, anche il capo della Cei, manifesta avversione per il divorzio e per l'aborto indicando ai propri fedeli quella che per lui è la retta via, non mi verrebbe mai in mente di parlare di ingerenza.
Così come non è in discussione il suo diritto di critica a una legge.
Certo, in quel caso io non resterei muto. Sul terreno della reciproca libertà d'opinione, e quindi della civiltà, manifesterei il mio dissenso».
Quindi Ruini e i vescovi hanno libertà di esprimere la propria opinione sulle scelte poiltiche che coinvolgono la morale?
«Certo. C'è grave ingerenza quando si minaccia di scomunica un eletto dal popolo nel caso in cui valicasse il limite della norma morale cattolica.
Così davvero si limita l'autonomia del mandato, si colloca il legislatore in una dimensione extrasecolare, la sua legittimità viene misconosciuta e ricondotta non più all'elettorato ma a una cattedra morale.
Chi legifera non può mai essere la lunga mano di un potere spirituale».
Lei ha detto: manifesterei il mio dissenso con Ruini. Su cosa?
«Quando parla in quel modo dell'aborto, della pillola RU 486 non guarda alla sofferenza della sua comunità. Sono in molti a sottolineare la frattura tra la parola proclamata dalla Chiesa e il comportamento dei fedeli. Se per risolverla tu, pastore, cerchi la supplenza del legislatore, io ti rimprovero».
Ruini boccia la revisione del Concordato. E lei, Bertinotti? E sempre a questo proposito cosa pensa della guerra dichiarata da Boselli all'otto per mille, che per lui è una truffa?
«Il problema è l'agenda politica di questo Paese, legata alle sue autentiche urgenze. Se qualcuno mi chiedesse: inseriresti il Concordato nell'agenda delle urgenze?».
Eccellente domanda, la sua: come risponderebbe?
«No, non la inserirei, non mi sembra sia tra le priorità dell'Italia.
Stesso discorso per l'Otto per mille. Bisognerà invece aprire una discussione su come garantire laicità e convivenza a uno Stato sempre più multireligioso, multietnico, multiculturale.
Creare un cortocircuito e partire da un punto conclusivo, segnato dalla storia passata come il Concordato o l'otto per mille sarebbe un errore.
Per farmi capire meglio: per la mia storia personale non toglierei mai un crocifisso da un'aula che lo ospita da anni.
Semmai procederei per aggiunta. E comunque mi porrei il problema del futuro: come regolarci, per esempio, nelle aule delle scuole ancora da inaugurare?».
Livia Turco avverte: attenzione, Boselli e Capezzone, così rischiamo di perdere i voti dei cattolici.
«Non è un argomento nè a favore nè contro. I cattolici non sono un monolite nè una massa inerte. Il Pci fu attraversato dallo stesso dubbio quando partecipò con prudenza alla campagna per il divorzio. Invece le famose "masse cattoliche" decisero in piena, matura consapevolezza”.
Piero Fassino avverte: non metteremo in minoranza la Chiesa.
«Ma la Chiesa non si fa mettere in minoranza... Suggerirei a Fassino di preoccuparsi un po' meno per una realtà che, da duemila anni, dimostra una certa qualche vitalità, almeno mi pare. Piuttosto i laici dovrebbero fare autocritica».
Su quali punti, Bertinotti?
«Almeno due. L'aver rinunciato a porsi il grande quesito di fondo sull'uomo nel nome del mercato e dell'economia.
Bisognerà mettere mano a idee forti nella politica altrimenti proprio lì ci si espone all'incursione della religione e magari dei fondamentalismi.
Secondo: bisogna restituire l’orgoglio al legislatore, fargli ritrovare le risorse per difendere il proprio operato».
Un'ultima domanda, stavolta personale. Più volte ha parlato della sua ricerca di Dio. A che punto si trova, in questo momento?
«L'ho già detto. Mi ritengo un non credente, non mi definirei adesso un ateo. Ma è bene che la dimensione religiosa privata dei politici resti tale.
Non vorrei che, parlandone, qualcuno mi accusasse di voler apparire pio.
La mia ricerca ha comunque come centro l'uomo.
Dice il filosofo del diritto Pietro Barcellona in un suo recente saggio: il mondo moderno mostra la sua inferiorità nei confronti di quello classico e cristiano perché non si è mai chiesto cosa sia l'uomo.
Per me la domanda di fondo resta quella: l'uomo. E inevitabilmente sfiora la sfera di Dio».
una segnalazione di Fabio Palumbo
sul sito www.diamocideltu.net, gestito dal Prc, ci sono commenti su questa intervista
Liberazione 18.11.05
Le ragioni di Bertinotti (ma anche una critica)
Concordato e 8 per mille
Piero Sansonetti
Sul Corriere della Sera di ieri è uscita un'intervista a Fausto Bertinotti, intitolata così: «Concordato e 8 per mille non vanno cambiati». Come talvolta succede nei giornali - anche, spesso, a noi di Liberazione - nel titolo c'è una forzatura. Bertinotti non dice che non vanno cambiati e che a lui piacciono così come sono; semplicemente sostiene che non vede nella modifica del Concordato - o addirittura nella sua abolizione - e nella cancellazione dei finanziamenti pubblici al Vaticano, due priorità da inserire, con il "bollino" dell'urgenza, nel programma di governo dell'Unione.
L'intervista di Bertinotti al Corriere è molto interessante e di notevole importanza. Perché affronta con spirito aperto e nuovo quella che una volta si chiamava la "questione romana" e che oggi si presenta in modo assai complesso, come questione politica, questione finanziaria, burocratica, culturale e anche come grande questione etico-filosofica e ideologica.
E' difficile riassumere l'intervista del segretario di Rifondazione Comunista in poche righe; in estrema sintesi, potremmo dire che Bertinotti solleva due problemi fondamentali. Il primo è quello di come garantire la laicità dello Stato, e quindi la correttezza dei rapporti tra Stato e Chiesa, senza necessariamente trasformare l'abolizione del Concordato o dell'otto per mille in questione delle questioni. In questa posizione c'è una apertura alla Chiesa e un rifiuto dell'anticlericalismo tradizionale, sostenuto con vari argomenti, compreso un ragionamento sulla liceità degli interventi del Cardinal Ruini quando essi non sconfinano nella pressione indebita sul mondo politico, o sul governo, o sui settori cristiani del Parlamento.
Il secondo problema sollevato da Bertinotti è come affrontare una competizione culturale seria tra il sistema di pensiero e di valori della Chiesa cattolica e il sistema di pensiero e di valori del mondo laico e della sinistra. Bertinotti dice che in questa competizione la Chiesa è avvantaggiata, perché la politica - anche grande parte della sinistra - in questi decenni ha raggruppato tutto il proprio pensiero, le proprie elaborazioni e persino le proprie finalità, attorno all'unico obiettivo di fare funzionare e rendere efficiente il mercato. Questo ha bloccato le capacità di analisi sui grandi problemi dell'umanità, sul mistero e i diritti della vita, sull'identità, l'esistenza, lo spirito e il destino dell'uomo. Bertinotti sostiene che la sinistra non reggerà mai, sul terreno etico-filosofico, la "gara" con la Chiesa, se la Chiesa mette al centro del suo pensiero e del suo messaggio Dio e la sua creatura umana, e la sinistra risponde con la competitività e l'efficienza delle amministrazioni. Lo squilibrio è evidente e la sconfitta politica inevitabile.
Ho forzato un po', forse, il ragionamento esposto da Bertinotti sul Corriere della Sera, ma penso di non averne tradito la sostanza.
Ieri in redazione abbiamo discusso a lungo di questa intervista e abbiamo espresso giudizi, osservazioni e valutazioni diversi.
Io credo di poter fare un apprezzamento e una critica.
Prima faccio la critica (in genere si usa fare il contrario, per addolcire, ma nel caso del segretario di Rifondazione è giusto così...). Non sono convinto che si possa accantonare la questione del Concordato e dell'otto per mille sostenendo che non sono "priorità" della sinistra. Per tre motivi. Il primo è questo: dell'Unione fa parte un nucleo laico e moderato - composto dal partito radicale e dallo Sdi di Boselli - che tra le sue caratteristiche più significative ha la propria opposizione fortissima al clericalismo; e questo nucleo ha chiesto l'abolizione del Concordato e dell'otto per mille. L'Unione è un'alleanza che dovrà tenere insieme componenti molto diverse tra loro, e anche aspirazioni, sensibilità e culture diverse. Tra le aspirazioni dei radicali e dei vecchi socialisti mi sembra che quella della lotta al clericalismo sia una delle più rispettabili e assimilabili. E' giusto darle uno spazio. Mentre credo che invece andrà combattuta con forza l'aspirazione liberista di questa componente.
Il secondo motivo della mia critica parte dalla necessità (che a me pare prioritaria) di contrastare la Chiesa su alcuni grandi temi che riguardano la vita di milioni di persone. E cioè sull'idea punitiva che la Chiesa ha - e diffonde - di tutta quella parte dell'umanità che non sia il maschio eterosessuale, monogamico e rispettoso delle leggi morali cristiane. Come ci si oppone? Come si impedisce che la Chiesa eserciti la sua forza - in politica - a danno delle donne, dei gay, dei "maschi irregolari" e dei loro diritti essenziali, della libertà sessuale, della maternità scelta e consapevole, dell'aborto senza dolore, eccetera? Io credo che per opporsi in questo campo all'arroganza del Vaticano, occorre usare tutti gli strumenti che abbiamo, compresa la contestazione dei privilegi politici ed economici garantiti alla Chiesa da Concordato e otto per mille. Anche perché - terzo motivo della critica - a portare alla ribalta politica questi problemi e la loro urgenza, non siamo stati noi ma è stata la nuova direzione della Chiesa, sotto la gestione Ratzinger-Ruini, che è diventata molto aggressiva verso la politica italiana. Chi è che un giorno sì e un giorno no mette in discussione l'aborto? Ruini, Ratzinger. Si dirà: ma loro non mettono in discussione la legge, mettono in discussione il diritto cristiano a praticare l'aborto. A me sembra che la differenza ci sia, ma non sia enorme.
Dove invece Fausto Bertinotti mi ha convinto completamente è nella sua analisi sulla disparità tra un mondo cristiano che è capace di porre Dio e l'uomo al centro della politica, e un mondo laico che sa solo parlare di competitività e di mercato. Io credo che questa osservazione non solo sia vera, ma sia il punto di partenza per ricostruire una sinistra vasta e forte e capace non solo di stare fuori dal pensiero unico liberista, ma di scardinare questo pensiero e di superarlo smontandone le fondamenta. E questa è la sfida vera per noi. Il progetto di andare al governo assieme ad altre forze - riformiste, cristiane, moderate - o sta dentro questa grande idea di "ricostruzione della politica" (potremmo dire di "rifondazione"...) o è una cosa piccola.
Quali sono i grandi principi che possono diventare le fondamenta dell'Unione? Mi sembra che siano tre. Il principio della libertà, che storicamente è molto radicato soprattutto nella sua componete più moderata; il principio della solidarietà (se volete, della "fraternità"), che è la base originaria dell'impegno politico della componente cristiana; e il principio dell'uguaglianza, che è il valore nostro, della sinistra, e che se riesce a fondersi con gli altri due (solidarietà e libertà) non perde niente, anzi guadagna, si rafforza, si completa. Una politica che metta da parte parole come competitività, efficienza, concorrenza, sicurezza, legalità (le metta, diciamo, in secondo piano, come idee secondarie, non più come principi) e costruisca il suo pensiero attorno alle tre idee-forza della rivoluzione francese, pensate che messaggio formidabile può mandare al paese: l'immagine di una alleanza politica capace di misurarsi con questi temi alti, e che si candida a sostituire al governo la coalizione che è stata guidata dagli interessi di Mediaset.