Le Monde diplomatique
Una movimentata storia sino-indiana
M.B.
«Con l'India, abbiamo molti punti in comune e in particolare una civiltà brillante, un'umiliazione dovuta all'occupazione, una popolazione numerosa». Facendo questa lista, il professore Yang Baoyun, del Centro Studi per l'Asia-Pacifico dell'università di Beida, a Pechino, intende mostrare quanto i punti di convergenza tra i due giganti asiatici siano più importanti delle ragioni di conflitto. I due paesi più popolati della terra - 1,2 miliardi di abitanti per l'India; 1,3 miliardi per la Cina - provano a riallacciare i fili della loro storia comune. Nel XVIII secolo, rappresentavano quasi la metà della produzione mondiale (33% la Cina, 16% l'India). Ma i loro legami hanno radici ben più profonde: «Le relazioni tra la Cina e l'India - scrive il premio Nobel per l'economia Amartya Sen, nell'articolo pubblicato dal New York Review of Books (1)Ê - sono cominciate con il commercio - e non con il buddismo. Quasi duemila anni fa, le abitudini di consumo degli indiani - in particolare i più ricchi - sono state radicalmente influenzate dalle innovazioni cinesi». Lo scrittore cita molte opere. Sottolinea anche l'influenza dei matematici e degli astronomi indiani sulla cultura cinese, in particolare nel VI e VII secolo. Apporti reciproci, quindi.
Se, a partire dal XIX secolo, il declino industriale li ha colpiti entrambi, nel XX la competizione si è direttamente trasformata in scontro (per il Tibet) e anche in guerra per le frontiere, nel 1962, e in corsa all'armamento nucleare (1964 per la Cina, dieci anni più tardi per l'India).
Dalla fine della guerra fredda, le due nazioni hanno riallacciato il dialogo e sviluppato relazioni commerciali. Tanto più che la Cina cerca di colmare il suo ritardo tecnologico in settori in cui l'India eccelle: l'informatica (software) e alcuni servizi (call center, contabilità ...). Propone anche di andare verso la soppressione di tutte le barriere doganali. Le autorità e il padronato indiani restano diffidenti, perché il prodotto interno lordo del paese rappresenta appena un terzo di quello della Cina. Questa ha già acquisito il posto di secondo fornitore, giusto dietro gli Stati uniti.
Rimane il fatto che le relazioni tra i due giganti si sono evolute profondamente. Non solo sono iniziate le discussioni sulla questione delle frontiere, ma questo avvio di trattativa si è iscritto in un accordo quadro più vasto di «partenariato strategico», firmato l'11 aprile 2005. Alcuni mesi prima, il 14 novembre 2004, oltre 1.500 marinai e ufficiali dei due paesi avevano condotto manovre militari comuni. Inimmaginabile, solo tre anni prima. Si intrecciano relazioni pacifiche che non escludono la competizione sia sul piano economico che diplomatico. Nuova Delhi sfrutta abilmente i suoi legami sempre più stretti con Washington che, il 19 luglio 2005, è arrivata a proporre la soppressione di ciò che resta delle sanzioni decise nel 1998 contro l'India e l'avvio di una cooperazione nel nucleare civile. Una «nuova amicizia» indo-americana che preoccupa Pechino.
note:
(1) Amartya Sen, «Passage to China»; New York Review of Books, volume 51, n°19, 2 dicembre 2004.
Oriente
Le Monde diplomatique
Una Diplomazia asimmetrica
La Cina scompagina l'ordine mondiale
Martine Bulard
Sul continente asiatico si sta ormai giocando una partita a quattro tra Cina, India, Giappone e Stati Uniti. Il 18 e 19 luglio 2005, George W. Bush ha ricevuto con grandi onori il primo ministro indiano Manmohan Singh - il quale, pochi mesi prima, aveva avviato trattative con i dirigenti cinesi per risolvere le vertenze di frontiera. La Cina tenta di aggirare la forte alleanza nippo-americana e di guadagnare un nuovo spazio nel mondo attraverso una «diplomazia asimmetrica». Primo successo: su pressione di Pechino, la Corea del Nord ha accettato di tornare al tavolo dei negoziati sul disarmo nucleare.
Nella lingua cinese, è la posizione delle parole all'interno di una frase - più che le parole stesse - a determinarne il significato.
Il principio si applica perfettamente alla strategia geopolitica della Cina. Da Pechino a Shanghai, dai rappresentanti del governo agli animatori più noti di think tanks, senza dimenticare gli universitari, è impossibile sfuggire alla parola simbolo del momento: stabilità.
Per capire il vero significato del termine, bisogna inserirlo nel contesto di un paese in perpetuo movimento, dove i viaggi all'estero dei dirigenti di stato non sono mai stati così frequenti, dove i circoli universitari, aperti più che mai verso l'esterno, svolgono il nuovo ruolo di teste pensanti per il potere... anche quelli finanziati da generosi filantropi stranieri. Così, il Centro di studi internazionali della prestigiosa università di Beida, a Pechino, composto da tre edifici ultramoderni, è patrocinato da un mecenate di Hong Kong per l'ala sinistra, da un'impresa italiana per il corpo centrale e da una grande ditta di Hong Kong per l'ala destra. Ognuno si è rivolto a un architetto diverso, ma il risultato finale è armonioso e si integra perfettamente al complesso storico (1). Apertura non significa abbandono. Così come stabilità non è sinonimo di immobilismo.
Nel suo ufficio, proprio di fronte alla torre Feng Lian, dove prosperano negozi di lusso inaccessibili ai comuni mortali cinesi, Kong Quan, portavoce del ministero degli affari esteri (Mae), spiega con fare dottrinale: «Prima di tutto, la Cina vuole creare una situazione di stabilità che favorisca lo sviluppo». A molte centinaia di chilometri di distanza, a Shanghai, nel cuore della celebre università di Fudan, nei nuovissimi locali del Centro di studi americani (Cea) - in parte finanziati dall'Agenzia americana per lo sviluppo internazionale (Usaid) - , neppure il professore Shen Dingli, grande specialista di questioni nucleari, e in genere poco incline al politichese, sfugge all'inevitabile riferimento alla stabilità. Niente lo spaventa più di una destabilizzazione - sempre possibile - nella vicina penisola coreana, o in Medioriente, da dove proviene quasi la metà delle importazioni cinesi di petrolio.
Lo studioso, a suo modo, fornisce la chiave per capire ciò che alcuni hanno chiamato la «diplomazia dello statu quo». Per Pechino è preferibile l'ordine garantito - anche se americano, anche se poco favorevole - al caos, che vede come un ostacolo ai progetti di crescita e alle sue aspirazioni mondiali. La crescita assicura infatti la base del patto sociale interno che, a volte più a volte meno, garantisce comunque la continuità del regime. I progetti mondiali mirano invece a ridare alla Cina «il posto che le spetta sulla scena internazionale», secondo l'espressione del portavoce Kong. Un po' meno silenziosa e un po' più attiva oggi rispetto a ieri. Ma molto meno di domani, in sintonia con la crescita di potere del paese.
Contrariamente a quanto si crede, l'economia non è l'unica guida di una diplomazia che si vorrebbe solo tesa a riempire la bisaccia cinese di materie prime o di cereali. Certo, le relazioni internazionali devono contribuire a garantire l'approvvigionamento energetico e la sicurezza alimentare. Ma l'economia si inserisce nella visione più vasta che la Cina ha di se stessa, nella regione e nel mondo.
Fa parte dell'arsenale pacifico indispensabile a un qualsiasi riconoscimento sulla scena internazionale. Non è raro il richiamo alla «storia di questi ultimi cinquecento anni»: senza un'economia forte, non c'è paese che venga ascoltato.
Questa riflessione ha come punto di riferimento tre date che hanno segnato la storia degli ultimi anni. La prima riguarda gli avvenimenti di piazza Tienanmen, argomento ancora tabù per la stampa (2). Il problema non nasce da un'eventuale rimessa in discussione del regime stesso - le opposizioni politiche continuano ad essere proibite, anche se, paradossalmente, gli intellettuali dispongono di una maggiore libertà di movimento. Ciò che più spesso viene sottolineato è il prezzo che si è dovuto pagare rispetto all'esterno. A cominciare dall'embargo occidentale, iniziato proprio quando l'Unione sovietica non era più in grado di rifornire Pechino di materiale ad alta tecnologia, in particolare a uso militare.
Lo choc di piazza Tienanmen ha provocato prima di tutto la fine della «luna di miele» (miyue) con gli Stati uniti. Era durata quasi vent'anni, da quando, il 25 ottobre 1971, la Repubblica popolare cinese era stata ammessa alle Nazioni unite al posto di Taiwan, era poi proseguita con il viaggio del presidente Richard Nixon l'anno successivo, fino all'istituzione di un «partenariato strategico», fattore di sviluppo.
A questo periodo era però seguita una lunga serie di delusioni, il moltiplicarsi di incidenti (come il bombardamento dell'ambasciata cinese a Belgrado, nel 1999) e il rafforzamento dei legami americani col Giappone, il rivale disprezzato.
L'emergere pacifico di Pechino Seconda data importante: il crollo dell'Unione sovietica. Nessun rimpianto per la scomparsa di questo fratello nemico, ma molti studiosi ricordano che l'ex Urss si è distrutta in un impari confronto con gli Stati uniti, peggiorato da una dispendiosa corsa agli armamenti.
«Gli Stati uniti spingono alla competizione e ad un aumento sfrenato delle spese militari - sostiene uno specialista di problemi di difesa militare, che ci tiene a restare anonimo - ma noi dobbiamo puntare alla modernizzazione degli armamenti, per rafforzare la nostra difesa».
Una «modestia» più apparente che reale, visto che le spese militari rappresentano già il 2,4% della ricchezza prodotta. Ma un argomento forte da contrapporre allo stato maggiore, che pretenderebbe molto di più.
In linea generale, secondo i diplomatici cinesi è stata la netta separazione del mondo in due campi, che, alla fine, si è rivelata costosa. E se tutti deplorano il «mondo unipolare» incarnato dagli Stati uniti, nessuno vuole ritornare a un «pianeta bipolare». Non si vuole, per esempio, diventare il capo fila dei paesi in via di sviluppo, il che obbligherebbe a delle rinunce. «Condividiamo con molti paesi in via di sviluppo la preoccupazione della necessaria democratizzazione delle organizzazioni internazionali - afferma Kong - sottolineando l'importanza delle relazioni con l'Africa (3) e con l'America latina. Ma non si tratta di creare un polo. Bisogna uscire dalla mentalità della guerra fredda, per questo preferisco parlare di "sviluppo condiviso". Dobbiamo instaurare la mentalità del negoziato, che presuppone concessioni reciproche. Con lo sviluppo degli scambi commerciali, le controversie si moltiplicheranno. Bisogna affrontarle con uno spirito di contrattazione» ... e non con spirito di campo.
Di fatto, il potere vuole partecipare alla costruzione di un mondo multipolare, di cui la Cina dovrebbe un giorno occupare uno dei primissimi posti - al centro, non alla testa. Cercando di irradiare, non di dominare. La sfumatura non è solo formale (4). E infatti via a ricordare che dall'XI al XVII secolo, all'apice della sua potenza, la Cina ha avuto la più grande flotta del mondo e un reale potere economico e tecnologico (5), senza mai distruggere popoli o civiltà, contrariamente agli europei.
Infine, ed è il terzo dato importante, le autorità cinesi hanno tratto profitto dalla crisi finanziaria che ha scosso l'Asia negli anni 1997-1998. Unico paese ad avere mantenuto il controllo dei cambi e rifiutato le pressioni del Fondo monetario internazionale (Fmi), la Cina è anche la sola ad avere preservato le sue possibilità di crescita quando tutti, Giappone incluso, si indebolivano. Meglio ancora, con lo yuan agganciato al dollaro, ha contribuito a garantire una certa stabilità ad una regione in piena crisi finanziaria (6).
Si è anche permessa di concedere prestiti a interessi ridotti, o aiuti, ad alcune «tigri» allora in difficoltà, guadagnando così la loro fiducia.
Col tempo, la nuova generazione al potere ha costruito una dottrina strategica attorno ai «quattro no» enunciati dal presidente Hu Jintao: «No all'egemonismo, no alla politica della forza, no alla politica dei blocchi, no alla corsa agli armamenti (7)». Si tratta di «costruire fiducia, appianare le difficoltà, sviluppare la cooperazione ed evitare conflittualità». Cosciente delle proprie debolezze di fronte al gigante americano e ai suoi concorrenti asiatici, Pechino sviluppa quella che si potrebbe definire una «diplomazia asimmetrica», molto agile, che privilegia le relazioni bilaterali, pur partecipando attivamente alle organizzazioni regionali, e che allaccia legami economici in tutte le direzioni ricucendo al contempo le vecchie tensioni territoriali.
Così Cina e Russia hanno firmato, il 2 giugno 2005, a Vladivostok, un accordo sulla frontiera orientale - la controversia verteva sul 2% dei 4.300 chilometri di frontiera comune, ma avvelenava le loro relazioni dalla fine della seconda guerra mondiale. «È la prima volta nella storia delle relazioni sino-russe che la totalità delle frontiere comuni è legalmente definita», dichiarava Vladimir Putin nel corso della fase finale delle trattative.
Alcune settimane prima, l'11 aprile 2005, il primo ministro indiano Manmohan Singh e il suo omologo cinese Wen Jiabao avevano firmato un protocollo per risolvere il contenzioso frontaliero che oppone i due paesi dal 1962: Pechino rivendica gran parte del territorio dello stato di Arunachal Pradesh (90.000 kmq) a nord-est dell'India; mentre a nord-ovest, Nuova Delhi reclama l'Aksai Chin, una parte del Cachemire (38.000 kmq). «Siamo solo all'inizio delle trattative - osserva Kong. Ma è la prima volta che un documento ufficiale si occupa della questione delle frontiere». Un passo storico che Pechino desidera arricchire con l'istituzione di una zona di libero-scambio tra i due giganti demografici del mondo (si veda riquadro in pagina).
I nuovi rapporti, però, si ripercuotono sulle relazioni con gli alleati di ieri, in particolare con il Pakistan. «Nel conflitto che lo oppone all'India, siamo diventati piuttosto neutrali», afferma Yang Baoyun, vicepresidente del Centro studi per l'Asia-Pacifico, incontrato all'Università di Beida, a Pechino. Secondo lui, Islamabad «per molto tempo ha tratto beneficio dalle tensioni», ma «la mentalità comincia a cambiare», come testimonia la riapertura della linea di autobus trans-Kashmir chiusa da sessant'anni (8).
Altro segno dell'«emergere pacifico» della Cina: il suo impegno nella crisi apertasi nell'ottobre del 2002 tra gli Stati uniti e la Corea del Nord, la quale si dice ormai pronta a costruire la bomba atomica.
All'origine del gruppo dei Sei (Cina, Corea del Sud, Corea del Nord, Giappone, Russia, Stati uniti) istituito per regolare il contenzioso, Pechino fa fatica a calmare gli ardori di Pyongyang, alimentati dalle dichiarazioni infuocate dell'amministrazione Bush.
Con tutta evidenza, la nuclearizzazione della penisola coreana non fa affatto piacere a Pechino, e, se Pyongyang «si lanciasse nelle sperimentazioni, taglieremmo gli aiuti», precisa Yang Baoyun. Ma le opinioni divergono sul tipo di pressioni da esercitare: alcuni ritengono che gli aiuti vadano tagliati, almeno parzialmente, e ricordano che, già nel 2003, la riduzione dei rifornimenti di petrolio, dovuta ad un opportuno «incidente tecnico», aveva obbligato il presidente Kim Jong-il a riprendere le trattative (9); altri, come Shen Dingli, pensano, al contrario, che «sopprimere gli aiuti, vuol dire uccidere la speranza e istigare al peggio» un regime già nei guai.
«La Corea è un detestabile fardello - riassume un ex diplomatico - un regime in cui la gente muore di fame per il potere di una famiglia.
Ma la Cina è bloccata. Non può né avanzare né indietreggiare». Una parte dell'esercito sembra orientata a pensare che la nuclearizzazione non è poi così grave, e che, in caso di conflitto, «la Corea resta la sentinella della Cina». Pechino ha comunque dimostrato - se non a Washington, ai suoi vicini - di saper modificare la sua politica di vecchie alleanze per entrare in una fase di diplomazia attiva.
Lo prova il rafforzamento dei suoi legami con la Corea del Sud, storica alleata degli Stati uniti, che teme una destabilizzazione del Nord - poiché le difficoltà tedesche ad assorbire l'Est l'hanno resa prudente nei riguardi della dittatura confinante (10).
La grossa spina nella zampa della tigre cinese è il Giappone. «Mai nel corso degli ultimi trent'anni, le relazioni sono state così difficili» dichiara preoccupato Yang Baoyun. Il dato è confermato da tutti gli interlocutori incontrati. Il rifiuto giapponese di fare i conti con la propria storia è riproposto spesso e confermato sia dall'incidente del libro di storia, che minimizza i crimini del Giappone durante l'occupazione, che dalla visita del primo ministro Junichiro Koizumi al santuario di Yasukuni, dove sono seppelliti dei criminali di guerra.
Non si può dire che la Cina abbia, da parte sua, una visione lucida e critica della propria storia, tuttavia, per rendersi conto del trauma causato da questo episodio, basta recarsi al museo di Shenyang, nel nord-est del paese, centro strategico dell'occupazione giapponese, dove sono documentati gli omicidi, le torture e gli esperimenti medici compiuti dall'esercito giapponese già nel 1931, ma anche le recenti dichiarazioni negazioniste di personalità giapponesi (11). Qui, come a Pechino, quando si parla delle manifestazioni antigiapponesi avvenute nella primavera del 2005 - quasi tutte di studenti super controllati e praticamente nessuna di lavoratori - non è raro sentirsi chiedere: «Che direste voi, se una personalità tedesca andasse a raccogliersi sulla tomba di criminali di guerra?».
Il mirino è puntato sul rafforzamento dei legami militari tra Washington e Tokyo, oltre che sui problemi territoriali riguardanti le isole chiamate Senkaku dai nipponici e Diaoyu dai cinesi, strategiche per il controllo marittimo dello stretto di Formosa. Secondo Kazuya Sakatomo, professore all'università di Osaka, «dopo sessant'anni passati ad abbassare la testa, il Giappone sta per soppiantare l'Australia come vicesceriffo degli Stati uniti nella regione del Pacifico e diventa una colonna portante nell'architettura della difesa americana del XXI secolo (12)». La revisione della Costituzione giapponese (13), l'invio di truppe in Iraq, il trasferimento del comando del 1° corpo d'armata americano (per le operazioni nel Pacifico e nell'oceano Indiano) dalla costa ovest degli Stati uniti al campo di Zama, a sud di Tokyo, danno una qualche credibilità a questa tesi (14). Ed è anche il nodo centrale di queste particolarissime relazioni triangolari (Cina, Stati uniti, Giappone).
Del resto, Washington sostiene la candidatura giapponese come nuovo membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite - candidatura immediatamente bocciata dalla Cina, che minaccia anche di utilizzare il suo diritto di veto. «Prima di pensare a insediarsi nel Consiglio di sicurezza, il Giappone dovrebbe ottenere almeno l'appoggio della sua regione», ha dichiarato l'ambasciatore della Cina all'Onu, Wang Guangya, il 26 giugno 2005. Pechino spera di vincere la partita appoggiandosi alla Corea del Sud, che ha vivacemente protestato contro le simpatie militariste di Koizumi (15); all'India, che pretende anch'essa un seggio permanente al Consiglio di sicurezza; e ai paesi africani, con i quali ha dei legami economici assai persuasivi.
Infine, la menzione di Taiwan nella revisione dell'accordo di sicurezza bilaterale nippo-americano (16) ha definitivamente guastato le relazioni sino-giapponesi. Dalla normalizzazione dei loro rapporti, nel 1972, il Giappone ha sempre glissato su questa questione. Gli stessi Stati uniti avevano fatto propria la formula: «Due sistemi, un paese».
L'integrazione di Taiwan alla Cina «può richiedere cento anni o più», come diceva un diplomatico, ma «la separazione è impossibile», inaccettabile per la popolazione, per l'esercito e per il governo.
I discorsi bellicosi degli ultimi mesi e la legge antisecessione adottata nell'aprile 2005 sarebbero dunque più difensivi che offensivi, e traccerebbero una linea rossa, invalicabile per Taiwan e i suoi alleati. Anche se tutti riconoscono che un'operazione militare comporterebbe un costo enorme a livello politico, diplomatico ed economico, nel luglio 2005 il generale Zhu Chenghu non ha esitato a dichiarare: «Se gli americani sparano sul territorio cinese, saremo costretti a rispondere con armi nucleari». Parlava a titolo personale, ma non è stato smentito. Pechino sembra temere una dichiarazione d'indipendenza di Taipei alla vigilia dei Giochi olimpici del 2008, sui quali il potere conta molto, una tappa decisiva da superare di fronte alla regione e al mondo. Da qui le minacce, ma anche le lusinghe.
I dirigenti del Kuomintang, nemici di ieri che non avevano mai rimesso piede in Cina dal 1949 (17), all'inizio di maggio sono stati ricevuti in pompa magna. La recente tournée in America latina di Hu Jintao, il cui principale obiettivo era quello di assicurare l'approvvigionamento di petrolio (Venezuela), materie prime, cereali e soia (Cuba, Messico, Brasile...) mirava anche a fare capire (in particolare, in America centrale) a tutti coloro che hanno ancora «stretti legami con Taipei, che la Cina ha un mercato ben più vasto»... Nell'immediato, per fare pressione sul governo di Taipei, i dirigenti contano molto sui quasi 8.000 imprenditori taiwanesi che hanno investito in Cina. Quanto all'amministrazione Bush, ha finito col calmare la febbre indipendentista del suo alleato, e il Giappone è diventato più discreto.
La contrapposizione resta comunque viva, e un ex diplomatico la riassume così: «Nella storia, la regione ha conosciuto una Cina forte e un Giappone debole, poi una Cina indebolita e un Giappone forte. Ormai, si va verso una Cina alla pari col Giappone e di conseguenza quest'ultimo perde la sua stabilità». Anche se la situazione è in movimento, si è ancora lontani da un riequilibrio delle forze. È vero che la Cina è il primo fornitore asiatico degli Stati uniti, davanti al Giappone; occupa poi il secondo posto, giusto dietro di lui, per le riserve monetarie - curiosamente in buoni del tesoro americani - , ma il suo prodotto interno lordo (Pil) rimane due volte e mezzo più debole di quello del Giappone. Può minacciare Washington di non svolgere più il ruolo di banchiere e di vendere dollari, ma Tokyo interverrebbe subito in aiuto del biglietto verde. Il buon vicino Il rapporto di forze ineguale non esclude la competizione. Se il Giappone spera di uscire dal suo stato di «nano politico» per conquistare il ruolo di leader mondiale nella zona asiatica (diventando membro permanente del Consiglio di sicurezza - cosa che presupporrebbe un riarmo temuto dai suoi vicini, non solo cinesi), la Cina cerca di affermarsi come leader asiatico nel mondo. Da qui il suo dispiegamento nelle istanze multilaterali. L'adesione all'Organizzazione mondiale del commercio (Wto), nel 2001, le ha permesso di fare un passo decisivo.
Pazientemente, ha conquistato il suo posto nell'Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Ansea), strumento della guerra fredda per eccellenza (18). Da osservatrice nel 1991, è ormai diventata membro a pieno titolo (19) e ha finito con l'ottenere, nel novembre 2004, la creazione di una zona di libero scambio con l'Ansea (20).
In Asia centrale, i suoi obiettivi commerciali (tra cui l'approvvigionamento in idrocarburi) sono comprovati, nell'aprile 2001, dalla creazione dell'Organizzazione di Shangai (con Russia, Kazakhistan, Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan). L'iniziativa ha assunto connotati politici a partire dalla guerra in Afghanistan. La Cina condivide le preoccupazioni russe di fronte all'installazione di basi americane nella regione e quelle delle altre repubbliche di fronte ai movimenti islamisti, considerati indipendentisti (in particolare quelli diretti dagli Uighuri, musulmani cinesi). L'annientamento di ogni movimento di opposizione, come recentemente in Kirghizistan, non è cosa che la disturbi.
Insomma, come scrive il ricercatore americano David Shambaugh, «la diplomazia bilaterale e multilaterale di Pechino si è rivelata estremamente abile nel guadagnare fiducia nella regione asiatica. Risultato: la maggior parte dei paesi guarda ormai alla Cina come a un buon vicino, un partner costruttivo, un interlocutore attento e una potenza regionale che non fa paura (21).» Si può quindi forse parlare di «consenso di Pechino (22)» come di un nuovo modello di sviluppo, secondo il suggerimento di Joshua Cooper Ramo, membro del Council on Foreign Relations (americano) e del Foreign Policy Centre (inglese)? La Cina può prendere la testa di un'unione asiatica, economica e politica?
Non ne ha certamente i mezzi economici: i due terzi delle sue esportazioni provengono da imprese estere installate sul suo territorio, che assemblano prodotti concepiti altrove.
Certo la Cina occupa alcune nicchie molto avanzate (come le fibre ottiche o i cellulari) e si prepara a migliorare la qualità, attirando centri di ricerca esteri, ricomprando imprese per acquisire marchi noti e beneficiare di trasferimenti tecnologici... Per ora, la sua crescita - forte e tuttavia fragile con un sistema finanziario vulnerabile - resta molto dipendente dai paesi dell'Ansea e dal Giappone per la produzione, e dai paesi occidentali per le esportazioni (23).
La minima difficoltà con gli Stati uniti, per esempio, potrebbe comportare, de facto, un freno al suo dinamismo che si rivelerebbe allora politicamente esplosivo.
Vi sono specialisti, tuttavia, che sognano un asse cino-giapponese, come l'asse franco-tedesco in Europa. Nello stesso momento in cui si tenevano le manifestazioni antigiapponesi della primavera 2005, era in corso un incontro, a Pechino, tra intellettuali giapponesi, cinesi e coreani (24). In giugno, è stato stampato anche un manuale scolastico ufficiale, frutto del lavoro di storici delle tre nazionalità.
Ma sono cose marginali. Gli Stati uniti possono essere pronti a delegare una parte ulteriore del loro potere regionale (di ombrello militare), ma pare improbabile che accettino una potenza regionale forte, che si tratti del Giappone o, a fortiori, della Cina.
Questa vuole, tuttavia, progredire rapidamente e senza caos. Ma «potrà emergere - spiega un diplomatico - solo irradiando una cultura che attiri - come avvenne con la nostra lingua, all'origine. Consumare non basta. Bisogna inventare valori che non siano la copia dell'Occidente».
Alcuni ci stanno lavorando, ma sono privi di spazi pubblici di dibattito.
Come dice il nostro interlocutore, bloccando le libertà politiche «la Cina blocca se stessa».
note:
(1) Beida sorge accanto al Palazzo d'estate saccheggiato nel 1860 dalle truppe franco-inglesi durante la guerra dell'oppio.
(2) Il 4 giugno 1989, manifestazioni studentesche, e in parte operaie, vengono duramente represse. Se all'università di Quinhua (Pechino), per esempio, la questione è trattata nel corso di storia dei movimenti sociali, altrove la censura è totale e concerne anche il giornale di TV5, guardato unicamente dagli espatriati e da un pugno di francofili: lo schermo diviene nero non appena i giornalisti affrontano questi avvenimenti.
(3) Si legga Jean-Christophe Servant, «La Cina all'assalto del mercato africano», Le Monde diplomatique/il manifesto, maggio 2005.
(4) Si legga François Jullien, Penser d'un dehors (La Chine), Seuil, Parigi, 2000.
(5) Si legga Angus Maddison, «L'économie chinoise, une perspective historique», studi dell'Ocde, Parigi, 1998. Si veda anche Philip S. Golub, «L'Asia nell'economia mondiale: una prospettiva storica», Le Monde diplomatique/il manifesto, ottobre 2004.
(6) Durante la crisi, la Malaysia ha reintrodotto un controllo dei cambi. Nel luglio 2005, la Cina ha leggermente rivalutato lo yuan.
(7) Discorso dell'aprile 2004, citato da Joshua Cooper Ramo, The Beijing Consensus, The Foreign Policy Center, Londra, 2005.
(8) Dal 7 aprile 2005, una linea di autobus collega, su 172 chilometri, Muzaffarabad, nella parte pachistana del Kashmir, e Srinagar nella parte indiana.
(9) Nel settembre 2004, la rivista di studi internazionali Zhanlue yu guanli è stata chiusa dopo la pubblicazione di un articolo molto critico sulla Corea del Nord.
(10) Si legga Ignacio Ramonet, «Allarme in Corea», Le Monde diplomatique/il manifesto, luglio 2005.
(11) L'esposizione è completata da una serie di dichiarazioni e manifestazioni in Giappone contro la rimilitarizzazione del paese.
(12) Citato da Simon Tisdall, «Japan emerges as America's deputy sheriff in the Pacific», The Guardian, Londra, 19 aprile 2005.
(13) La soppressione dell'articolo 9 della Costituzione permetterebbe al Giappone di trasformare le sue forze di autodifesa in un esercito regolare.
(14) Si legga Chalmers Johnson, «Coming to terms with China», www.tomdispatch.com/ index.mhtml?pid=2259
(15) «Discorso alla nazione» del presidente Roh Moo-hyun, 23 marzo 2005.
(16) L'accordo strategico firmato nel 1996 è stato rivisto a Washington il 20 febbraio 2005.
(17) Il Kuomintang, diretto da Chang Kai-shek, aveva ripiegato su Taiwan nel 1949. Il partito, che ha guidato l'isola per cinquant'anni, è oggi all'opposizione.
(18) Creata nel 1967 a Bangkok, riuniva all'origine Malesia, Filippine, Thailandia, Indonesia e Singapore, cui si sono aggiunti Brunei, Vietnam, Birmania, Laos e Cambogia.
(19) La Cina fa parte del Forum regionale dell'Ansea per quanto riguarda le questioni di sicurezza in Asia-Pacifico e appartiene a quello che viene chiamato Ansea +3 (Cina, Corea del Sud, Giappone). Si legga Régine Serra, «La Chine, une puissance régionale», Questions internationales n°6 marzo-aprile 2004.
(20) I diritti doganali saranno progressivamente eliminati, fino alla loro totale soppressione nel 2010.
(21) «China engages Asia. Reshaping the regional order», International Security, Washington, vol. 29, n° 3, inverno 2004-2005.
(22) The Beijing Consensus, op. cit.
(23) La Cina è un volano della crescita del Giappone e dell'Ansea, verso le quali è ormai deficitaria. Le sue importazioni sono, in gran parte, costituite da prodotti intermedi, indispensabili alla fabbricazione di beni che in seguito saranno esportati. Questo la rende vulnerabile.
(24) Resoconto della tavola rotonda, «Chercher un nouvel espace», Dushu, Pechino, n° 6, giugno 2005. Si legga anche Wang Hui, «La storia dell'Asia inventata due volte», Le Monde diplomatique/il manifesto, febbraio 2005.
(Traduzione di G. P).
postdemocristiani: si salvi chi può
Corriere della Sera 23.11.05
«Non ci cancellerete». Nei Ds nasce il club socialista
ROMA - Qualcuno lo definisce un pensatoio, qualcun altro un centro studi. Comunque lo si voglia chiamare, il nuovo germoglio sbocciato sui rami della Quercia ha un obiettivo preciso: difendere l’identità socialista nel futuro partito democratico, rilanciando la Federazione dell’Ulivo come tappa intermedia del processo costituente. Non a caso, l’iniziativa, presentata ieri dai deputati Caldarola, Cabras e Barbieri, è stata battezzata «Club socialista»: «Vogliamo portare avanti una discussione nei Ds perché non si va nudi alla meta: come il cattolico si porta dietro la sua tradizione, noi portiamo la dote del socialismo europeo - spiega Peppino Caldarola -. Se si andrà al partito democratico, saremo la mozione socialista». «Non si può pensare di cancellare quest’esperienza come fosse un vecchio arnese del ’900 e i socialdemocratici non possono essere riconducibili a un’oligarchia» insiste Antonello Cabras che sulla nave riformista vuol portare «tutto l’equipaggio» pena «la nascita di un partito alla nostra sinistra».
Insomma, nessuno vuole alzare barricate contro il nuovo soggetto unitario,, ma piantare saldi paletti socialisti certamente sì. Il messaggio è diretto ad Arturo Parisi, dopo le polemiche dei giorni scorsi: «Chi ci chiede abiure o pronuncia diktat non vuole il processo unitario - ribadisce Caldarola -. Se lui chiede ai partiti di morire, la risposta è che i partiti non muoiono, ma si trasformano perché sono fatti di persone, senza le quali il risultato di Prodi non ci sarebbe stato. Parisi ha l’abitudine di aggredire e poi di fare la vittima». Quindi, l’affondo: «L’analisi sua e di Amato sul nuovo partito sembra diretta a far costruire un trullo in Val d’Aosta». Immediata la replica dell’ulivista Franco Monaco: «Avevo capito che il socialismo fosse il riferimento di tutto il partito. Ho l’impressione che ad accomunarli sia piuttosto un no o almeno una riserva sui processi unitari».
I soci del Club ci tengono a precisare di non essere l’ennesima componente ds e, a riprova, indicano il parterre trasversale: alla riunione erano presenti Fassino (rimasto silente), esponenti di maggioranza come Angius e di minoranza come Salvi e Mussi. Quest’ultimo si dice assai interessato a una iniziativa che «articola le posizioni al di là degli schieramenti congressuali». Ma ai promotori il leader del Correntone chiede atteggiamenti coerenti con lo spirito critico: «Se non si è d’accordo su qualcosa, lo si dica apertamente, senza dire "sono d’accordo, ma..."».
Livia Michilli
Vaticano
Corriere della Sera 23.11.05
L’agenzia «Adista» anticipa il documento sui seminari che sarà reso pubblico il 29. «Escluso anche chi sostiene la cultura omosessuale»
«I gay non possono diventare preti» Ecco le regole del Vaticano
L’accoglienza: tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza
Luigi Accattoli
CITTÀ DEL VATICANO - «Sarebbe gravemente disonesto che un candidato occultasse la propria omosessualità per accedere, nonostante tutto, all’Ordinazione»: è scritto nella «istruzione» vaticana su preti e omosessualità, che sarà pubblicata il 29 prossimo. Il testo è stato divulgato dall’agenzia «Adista», che ieri l’ha inserito nel proprio sito Internet. Il gay che tenta di entrare clandestinamente nei ranghi del clero viene aspramente diffidato: «Un atteggiamento così inautentico non corrisponde allo spirito di verità, di lealtà e di disponibilità che deve caratterizzare la personalità di colui che ritiene di essere chiamato a servire Cristo e la sua Chiesa nel ministero sacerdotale».
L’affermazione centrale del documento - firmato dal cardinale Zenon Grocholewski, prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica - è questa: «La Chiesa non può ammettere al seminario e agli Ordini sacri coloro che praticano l’omosessualità, presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta "cultura gay"».
«Criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al seminario e agli ordini sacri» è il titolo dell’istruzione, che fa riferimento agli scandali di pedofilia e omofilia che ultimamente hanno danneggiato l’immagine del clero cattolico negli Usa e in altri paesi: «Non sono affatto da trascurare le conseguenze negative che possono derivare dall’ordinazione di persone con tendenze omosessuali profondamente radicate».
Sempre in riferimento agli scandali, in un altro passo dell’istruzione si dice che l’attenzione agli orientamenti omosessuali dei «candidati» al sacerdozio è «resa più urgente dalla situazione attuale».
Il documento sembra mettere le mani avanti in previsione delle accuse di avversione preconcetta e di ingiustizia nei confronti degli omosessuali: «Tali persone devono essere accolte con rispetto e delicatezza; a loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Esse sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita e a unire al sacrificio della croce del Signore le difficoltà che possono incontrare».
Quanto all’obiezione sull’ingiusto trattamento, questa è la risposta del documento: «Il solo desiderio di diventare sacerdote non è sufficiente e non esiste un diritto a ricevere la sacra Ordinazione. Compete alla Chiesa discernere l’idoneità di colui che desidera entrare nel seminario» e - in un secondo momento - «verificare» che abbia raggiunto la necessaria «maturità affettiva».
La dichiarazione distingue tra «atti omosessuali» (presentati dalle Scritture come «peccati gravi» e considerati dalla tradizione «intrinsecamente immorali e contrari alla legge naturale») e «tendenze omosessuali».
Delle «tendenze» afferma che se risultano «profondamente radicate» «sono anch’esse oggettivamente disordinate» e dunque «ostacolano gravemente un corretto relazionarsi con uomini e donne». Impediscono dunque il raggiungimento della «maturità affettiva» che si ritiene necessaria per l’ammissione al sacerdozio.
Ma la tendenza può essere meno radicata e allora l’ammissione è possibile purché ne sia comprovato il superamento: «Qualora si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l’espressione di un problema transitorio, come, ad esempio, quello di un’adolescenza non ancora compiuta, esse devono comunque essere chiaramente superate almeno tre anni prima dell’ordinazione diaconale». Generalmente l’ordinazione al «diaconato» precede di un anno quella al sacerdozio.
I superiori che devono decidere sull’ammissione di un candidato «devono pervenire a un giudizio moralmente certo sulle sue qualità: nel caso di un dubbio serio, non devono ammetterlo».
Capezzone
Apcom 23.11.05
CAPEZZONE SU DIVIETO PRETI GAY: ATTO VIOLENZA IDEOLOGICA
E' atto anticristiano, crudele e senza carità
Città del Vaticano, 23 nov. (Apcom) - "Una scelta che lascia letteralmente increduli per la carica di violenza ideologica, da inquisizione, che l'ha determinata". Così il segretario dei Radicali italiani, Daniele Capezzone, commenta il documento del Vaticano che vieta l'ammissione degli omosessuali nei seminari, che sarà reso noto entro la fine del mese. "Siamo davanti ad un atto letteralmente anticristiano - afferma - crudele e senza carità". "Mi auguro - scandisce Capezzone - che in primo luogo nella comunità dei credenti, si levino voci contro questo autentico scempio. Ma intanto, pur con 'tecnologie' diverse, il rogo di Campo de' Fiori è ancora acceso".
"Si lascia trapelare, da parte vaticana - prosegue l'esponente deui radicali in una nota - che questa sarebbe una prima risposta ai casi di violenza contro i minori di cui si sono resi responsabili alcuni ecclesiastici. E quindi si stabilisce un nesso, un legame di causa ed effetto, tra l'omosessualità e la violenza contro i bambini o i ragazzi". "Su tutto questo - conclude - c'è da rimanere increduli".
Bertinotti
Apcom 23.11.05
Aborto
Bertinotti: difendo la 194 ma non attacco la Chiesa
"Non si può essere anticlericali ogni giorno"
Roma, 23 nov. (Apcom) - Difesa strenua della legge 194 sull'interruzione di gravidanza ma senza scadere nell'anticlericalismo. Lo dice il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti in un'intervista a Rtl 102.5.
"Molti di noi hanno abbandonato da tempo ogni propensione anticlericale, spostandosi su un terreno laico di confronto, anche con le posizioni della Chiesa. Certo - dice Bertinotti - se poi arriva un'offensiva clericale, anche da certe parti politiche, contro la 194 e il processo che appoggia, cioè l'autodeterminazione della donna e la maternità consapevole, allora bisogna reagire con fermezza e il nostro pensiero è chiaro: la 194 è una delle manifestazioni più alte della civiltà giuridica di questo Paese, che al Paese fa onore".
"Se ci si chiede di inveire un giorno sì e l'altro pure contro la Chiesa, io dico "No", - ha aggiunto il Segretario di Rifondazione Comunista - credo che per difendere questi diritti vada costruito un sistema di relazione che, come fu per il divorzio e l'aborto, sia in grado di coinvolgere anche tantissime coscienze cattoliche."
Bertinotti ha dato anche una risposta al radicale Daniele Capezzone che, nei giorni scorsi aveva invitato la sinistra a usare parole chiare sulla 194.
"Non posso impedire - conclude Bertinotti - neanche ad un amico come Capezzone, di prendere lucciole per lanterne. Se fosse venuto con me agli incontri con gay, lesbiche, transessuali, a partire dalla rivendicazione dei Pacs per arrivare a tutte le forme antidiscriminatorie in tema di sessualità, di affetti, si sarebbe reso conto di che pasta è fatta la nostra politica."
Aborto e preti
La Stampa 23.11.05
La Curia: «il modo giusto per arrivare alla piena applicazione della 194»
Cattolici nei consultori: i volontari si mobilitano
Patto tra associazioni con il placet di Vaticano e Cei
Giacomo Galeazzi
ROMA. Un patto tra le associazioni cattoliche per riempire i consultori di volontari antiabortisti. Con la benedizione della Conferenza episcopale italiana e del Vaticano. Il primo segnale della mobilitazione è arrivato dall’Azione Cattolica che ha deciso di ricostituire la disciolta «Area Famiglia e Vita» della sigla ecclesiale più importante in Italia. E altre realtà hanno seguito l’esempio, a cominciare dai carismatici di «Rinnovamento nello spirito» che costituiranno da dicembre decine di comunità del loro movimento «specificatamente orientate al tema della vita». L’obiettivo è presidiare i consultori pubblici. Le principali associazioni bianche, con il «placet» della Conferenza episcopale e della Santa Sede, scendono in campo come avevano già fatto a giugno nella vittoriosa battaglia referendaria sulla procreazione medicalmente assistita. L’effetto sarà imponente e sul dicastero della Salute pioveranno presto le domande di autorizzazione delle decine di sigle «non profit» che intendono prestare assistenza alle donne e operare all’interno delle strutture sanitarie in cui si compiono le interruzioni di gravidanza. L’accordo «pro life» è stato stretto domenica scorsa in una riunione dei vertici dei movimenti ecclesiali. Ne sarà prova concreta la nascita, tra tre settimane, del nuovo «Comitato Scienza e Vita» che, in forma di associazione, prenderà il posto del comitato referendario che ha condotto cinque mesi fa la campagna astensionista sulla fecondazione assistita. L’occasione per mettere a punto la strategia del volontariato bianco è stata offerta dal trentennale a Montecatini dei Cav, i centri di aiuto alla vita. E se a giugno il Vaticano aveva lasciato alla Cei la scelta fra astensione e no al referendum, stavolta la «copertura» della Santa Sede alla strategia «pro life» è totale.
Il comitato avrà il compito di lavorare, in particolare, sul fronte della «formazione rivolta ai giovani, agli adulti, ma anche alle istituzioni ed alle figure professionali che in esse operano. Ossia nei consultori pubblici». Un’iniziativa «benedetta» appunto, oltreché dalla presidenza della Cei, dalla Santa Sede. «E’ il modo giusto per arrivare ad una piena attuazione della 194, che è innanzi tutto una legge di tutela della maternità, mentre finora ne è stata applicata solo la parte che consente di abortire fuori dalla clandestinità- spiegano in Curia- non ha senso parlare di minaccia alla laicità dello Stato. La norma consente ai volontari quest’opera di assistenza ed è giusto coglierne l’opportunità a salvaguardia della vita». E Oltretevere approvano anche il monitoraggio deciso lunedì dal ministero della Salute: «E’ utile verificare in quali Regioni la legge ha funzionato davvero e quante donne hanno deciso di non abortire a seguito dei colloqui avuti nei consultori. Di sicuro, laddove i medici obiettori sono in numero elevato, gli aborti evitati sono di più». Quindi, mondo cattolico unito e compatto, assieme al Movimento per la vita, nella difesa della maternità e determinato a replicare la metodologia di azione già sperimentata nel referendum di giugno. Le sigle più rappresentative della galassia bianca si ricompattano sulla necessità, per dirla con Luigi Alici, presidente dell’Azione cattolica, «di non perdere il treno che sta passando per i laici cattolici». E nella mobilitazione, per la prima volta accanto al Movimento per la vita, figurano pure le Acli. Schierarsi con le organizzazioni «pro life», è «un segno dei tempi», spiega il leader dell Acli Luigi Bobba.
Il fine è «trarre il massimo beneficio» dall’apertura del ministro Storace sulla presenza attiva del volontariato nei consultori. «Non capisco perché vadano bene i volontari per i barboni e non vadano invece bene i volontari che aiutano le donne ad essere libere di non abortire», puntualizza Bobba. Ed è Lucia Fronza Crepaz, presidente di «Famiglie nuove», a lavorare in modo particolare alla «strategia comune del mondo cattolico sul fronte della vita». Si tratta di una mobilitazione ancora più ampia di quella che si è registrata sulla procreazione assistita. «Una certa parte del mondo cattolico non si è mobilitato in occasione del referendum. - precisa il direttore di «Rinnovamento dello spirito» Luca Marconi-ora proveremo a coinvolgere le comunità che allora non si sono sensibilizzate. La cultura della vita deve vedere un corale impegno dell’intero mondo cattolico». In prima linea pure il Terzo Settore. «Da mesi stiamo sperimentando una grande amicizia tra associazioni e movimenti- osserva il portavoce Edo Patriarca- è un’amicizia che non deve andare persa». A tracciare le linee-guida del «patto» è Luisa Santolini, presidente del Forum delle famiglie: «Dobbiamo tenere vivo nella società il dibattito sui temi della vita. I mass media ci sono contro, ci muoveremo per vie alternative». Incluso il «tam tam» nelle parrocchie e la divulgazione nelle scuole. Il «quartier generale», a segnare continuità con il comitato referendario, avrà ancora la guida della scienziata cattolica Paola Binetti.
Aborto e preti /2
Apcom 23.11.05
Ru486
"Famiglia cristiana": pillola inventata per dare la morte
"Contro l'aborto chimico necessaria una solidarietà concreta"
Città del Vaticano, 23 nov. (Apcom) - Dura condanna alla sperimentazione della 'pillola del giorno dopo' arriva dal settimanale cattolico 'Famiglia cristiana' che nel numero in edicola domani dedica un editoriale denunciando che "la RU486 non salva la vita, ma è stata inventata apposta per dare la morte, per far morire l'embrione". All'appello mancava solamente il settimanale dei paolini. Dopo le dure condanne dell'Osservatore romano prima e dell'agenzia dei vescovi italiani, il Sir, ora anche Famiglia Cristiana, in un articolo a firma del magistrato Giuseppe Anzani, si pronuncia contro "l'aborto chimico", intitolando "Contro l'aborto chimico solidarietà concreta".
Per Famiglia Cristiana si tratta di una "uccisione centellinata" che è "immagine di angoscia solitaria" che "dà la vertigine". "Per tre giorni - scrive il magistrato - il figlio bussa nel grembo, agonizza e poi muore". "Dicono alcuni - prosegue l'editoriale-condanna - che un aborto così è meno invasivo, meno cruento, meno complicato. A noi il confronto fra morte e morte - continua - chiedere se è meglio la scelta fra spada e veleno dà un senso di soffocazione, non aggira l'angoscia della sconfitta, non mette fuori campo il dolore imminente sotto il lenzuolo della morte".
Da queste considerazioni nasce un appello. "Ora è la Repubblica che deve aprire gli occhi e muovere le braccia delle sue istituzioni - conclude il settimanale - introducendovi quel medesimo stile, quella solidarietà con la vita e con la maternità che ha scritto nelle sue leggi e nella sua stessa Costituzione e che non può più disertare".
Bertinotti su Israele
Corriere della Sera 23.11.05
Bertinotti: «Sì, è coraggioso ma unilaterale»
Il segretario di Rifondazione critica la sinistra riformista. «Però ora Israele è un Paese normale»
Gianna Fregonara
ROMA - Onorevole Bertinotti, il progetto del partito della pace di Sharon piace anche alla sinistra riformista italiana. E a lei?
«A dire il vero autorevolissimi leader riformisti hanno avuto un atteggiamento molto attento. Da parte di altri ha prevalso invece la solita vocazione a correre in soccorso del vincitore. Si aggiunga che tutto ciò che entra in una relazione privilegiata con gli Stati Uniti viene guardato con un interesse particolare, tale da ridurre l'autorevolezza di una forza riformista».
Non negherà però l'importanza di quanto sta succedendo in Israele?
«Condivido quanto scritto dai giornali israeliani che parlano di un big bang come conseguenza del ritiro da Gaza, operazione che ha avuto non grandissima influenza nei rapporti tra Israele e Palestina, ma ha segnato la politica interna perché è stata il simbolo del tramonto del disegno del Grande Israele».
Allora lei disse di Sharon che era coraggioso e stava facendo una cosa straordinaria. E oggi?
«Da quel momento c’è stata una torsione del sistema politico israeliano che ha provocato due rivoluzioni parallele: la rottura di Sharon con il Likud e l’arrivo di Peretz alla guida del partito laburista, per la prima volta un sefardita che porta come centrale la questione sociale nel programma laburista. Finito il Grande Israele, diventano importanti le questioni interne come in qualsiasi Paese europeo».
Israele un Paese «normale»?
«I partiti non si identificano più intorno al problema dell'esistenza di Israele, ma si tende a passare a una fase di laicizzazione e secolarizzazione, un vero e proprio cambiamento dei costumi della società. Da oggi le forze politiche tenderanno a dividersi su quale modello di Israele. E infatti, con l’assunzione di responsabilità politica di Peretz prende corpo una sinistra socialista e laica, direi internazionalista. Persiste la destra nazionalista, con forti componenti religiose, e iperliberista e si viene costituendo il centro moderato, borghese e molto costruito anche su idee neo liberiste temperate: si tratta di quella che in Europa è la Grande coalizione».
Intende dire che non c'è più il problema della sopravvivenza di Israele?
«Dico che è finita la fase espansionistica di Israele: i tre schieramenti hanno tre risposte per quello che resta un problema, la soluzione della questione con i palestinesi. Non viene di colpo cancellato il problema della presenza dello Stato in un'area così massicciamente araba e musulmana. Non mi sfugge poi la nascita di un fondamentalismo nel mondo arabo e di costruzioni teocratiche come quella iraniana che rappresentano un elemento preoccupante. Ma penso che la Comunità internazionale sia in grado di isolarli e sconfiggerli. Tra le cause di questo fondamentalismo c'è anche una parte che riguarda Israele, che con i muri e la colonizzazione ha dato una spinta alla crescita di queste politiche».
Lei parla di una transizione epocale dentro Israele, la conclusione positiva del processo passa per la vittoria di Sharon?
«Passa per la pace con i palestinesi. Che non deve essere una pace octroyé , concessa, ma una pace negoziata con i palestinesi. La tentazione che vedo nell'operazione di Sharon è quella di puntare sull'unilateralismo».
Questo terremoto interno a Israele avrà qualche effetto anche sulla politica dell'Anp? Che cosa pensa che debbano fare i Palestinesi?
«Non dimentichiamo l’asimmetria: Israele è il dominus e gli altri i resistenti. Non è vero che Sharon sta a Israele come l'Anp sta alla Palestina. Non imbrogliamo le carte. Non si può chiedere ai palestinesi di essere Stato sovrano laddove non lo sono. Ed è per questo che l’intervento internazionale non è surrogabile, in una conferenza di pace che riequilibri questa relazione».
Lei ha detto che Israele sta diventando dal punto di vista politico simile agli Stati europei. Si può immaginare un futuro più vicino all'Unione Europea?
«E’ una linea di fuga, dannosa: se l'Occidente continua a far credere che Israele è una sentinella dell’Occidente fa il male di Israele».
«Libération»
Corriere della Sera 23.11.05
Da due giorni il quotidiano parigino è in sciopero: contestato lo storico direttore
Conflitto generazionale a «Libération»
PARIGI - Il volto congestionato, Serge July sale in piedi sul tavolo della sala assemblee. Dalle finestre dell’ottavo piano, i tetti di Parigi. Davanti a lui, oltre duecento persone in sciopero da due giorni e in attesa di risposta.
Nelle stanze di Libération , il quotidiano della sinistra francese, si sta consumando un divorzio. Da una parte il direttore July, carismatico «padre» del giornale, che conta sull’appoggio ormai minoritario della vecchia guardia; dall’altra una grossa fetta dei dipendenti - giornalisti, segretari, archivisti... - che in quella gestione non si riconosce più. E che però adesso è incerta sulla via da percorrere.
Una crisi economica, un dilemma identitario, un conflitto generazionale. E anche la rappresentazione dell’ impasse della sinistra, non solo francese.
A innescare quello che qualcuno in redazione definisce «uno psicodramma familiare» è stato il piano di tagli presentato dalla direzione: 52 licenziamenti per tentare di ridurre le perdite vertiginose (6 milioni di euro la previsione per il 2005). E per tener buono l’azionista di maggioranza, Edouard de Rothschild, che nel salvataggio del giornale ha investito 20 milioni di euro e che adesso batte cassa. Una situazione anche questa destabilizzante per i dipendenti del quotidiano, abituati fino a un paio d’anni fa ad essere essi stessi azionisti di maggioranza (con la Società civile) o a poter contare su finanziatori «amici», che condividevano la battaglia e non si preoccupavano eccessivamente dei conti.
Se però July e il suo gruppo di gauchistes che nel ’73 fondarono Libé con il tempo hanno cominciato ad accettare - seppure in modo critico - le logiche dell’economia di mercato e adesso dicono «non c’è soluzione diversa dai licenziamenti», i trentenni di oggi sono schierati a difesa del vecchio modo di fare il giornale.
«Una parte della nuova generazione si colloca molto a sinistra - spiega Christophe Ayad, giornalista degli Esteri, impegnato nel sindacato - e ha deciso di incarnare lo "spirito di Libé " che i colleghi più anziani hanno abbandonato. Li aiuta avere con July un rapporto meno affettivo di chi è al giornale da tanti anni».
Più che dai partiti politici, i giovani della rottura vengono dal movimento no-global, molti da Attac. E sono i primi ad abbandonare la sala dell’assemblea al termine del discorso di July.
Il direttore ha ammesso lo smacco: «Questo sciopero è una sconfitta». Ma ha difeso il piano. Voci, contestazioni, brusio. «Nessun progetto alternativo?», chiedono i dipendenti. Nessuno. La sala allora si svuota.
Ed è come una mozione di sfiducia per July, che resta con una ventina di persone e in tono quasi dimesso dice: «Mi spiace che andiate via». Non era mai successo prima a Libération . Con ogni probabilità alla riunione di oggi sarà votato il terzo giorno di sciopero.
Inquisizione cattolica
La Stampa 23.11.05
I processi della caccia alle streghe
Chi è André-Philibert de Pléod? E’ un conte del ducato di Aosta che nel 1723 fu accusato di aver fatto ricorso a malefici allo scopo di provocare la morte della moglie Anne-Dauphine, ma soprattutto, a detta degli storici, è il protagonista dell’ultimo processo istruito in Valle d’Aosta su accuse di stregoneria. Fu condannato alla pena capitale per impiccagione, dopo sbalzi repentini nelle confessioni, deposizioni contraddittorie, alternarsi di ammissioni e ritrattazioni che l’avvocato della difesa imputò all’applicazione di non specificati tormenti. Il contesto di questa storia e delle altre sette contenute nel libro «Accusa: stregoneria. Otto casi per l’inquisitore. I processi che raccontano la caccia alle streghe» (editori Newton & Compton), è rigorosamente documentato, come lo sono gli interrogatori delle streghe, allucinanti documenti di follia collettiva. E’ in questa atmosfera che Tersilla Gatto Chanu, studiosa di storia e tradizioni popolari, autrice di saggi, romanzi, sceneggiati radiofonici, poesie e racconti per l’infanzia, ha calato le vicende delle vittime che, dal Trentino alla Toscana, da Napoli a Milano e alla Valle d’Aosta, in un’unica voce, denunciano l’assurda e spietata persecuzione. I personaggi del libro, in maggioranza donne, possiedono una spiccata individualità e il clima della «caccia» si rivela violentemente antifemminista perché la donna, come sottolinea l’autrice, «erede di Eva, fonte di corruzione, peccato e perdizione, è bersaglio privilegiato di violenze, stupri, sfruttamenti», allora come oggi.
"coccole"?
Corriere della Sera 22.11.05
Lo proverebbe la concentrazione di alcuni ormoni ipofisari
Il cervello ha bisogno di coccole
Uno studio americano ribadisce l'importanza delle «coccole» per un buono sviluppo cerebrale dei piccoli. Fondamentali i primi anni
Baci e abbracci e carezze. Senza si è infelici. E se mancano da piccoli potrebbe risentirne addirittura lo sviluppo cerebrale, con conseguente ansia e problemi di relazione una volta adulti. A provarlo è una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica Pnas (Proceedings of National Academy of Science).
LO STUDIO - Seth Pollak, e i suoi collaboratori psicologi dell'università del Wisconsin, sono arrivati a questa conclusione dopo aver esaminato 39 bambini di età media di 4,5 anni, di cui 9 adottati da almeno due anni da famiglie americane. I ricercaotri hanno osservato i piccoli mentre giocavano nelle loro case e venivano coccolati dalle madri, e hanno misurato loro la concentrazione nelle urine di due ormoni prodotti nel cervello: la vasopressina e l'ossitocina. La prima è ritenuta un indicatore legato al riconoscimento delle figure parentali e familiari, mentre il secondo aumenta la propria concentrazione nel sangue quando ci si sente sicuri e protetti. La misurazione ha indicato che la vasopressina dei bimbi adottati era quasi invariabilmente più bassa di quello dei loro coetanei non adottati, e che l'ossitocina nei primi non si alzava nonostante le "coccole" materne
MOMENTI DECISIVI - Il risultato è degno di nota- hanno dichiarato gli autori dello studio- se si pensa che i bambini una volta orfani erano già stati adottati da diverso tempo. Ciò significa che , con tutta probabilità, per un corretto sviluppo cerebrale è di importanza cardinale il primo periodo di vita.
SINAPSI - Del resto l'importanza delle «coccole» nei primi anni di vita, anche se non misurata attraverso questi ormoni, è nota da tempo.
Il cervello di un neonato ha tantissimi neuroni ma poche sinapsi (connessioni), molte meno di quelle presenti nel cervello di un adulto.
Secondo alcuni studi il numero di sinapsi raggiungerebbe un livello pari a quello di un adulto nel giro di due anni, per sopravanzarlo poi tra i 4 e i 10. Dopo quest'età il loro numero comincerebbe a ridursi, per assestarsi dopo ì 16 anni. Nel periodo in cui si formano molte nuove sinapsi però, un numero altrettanto grande ne verrebbe distrutto, eliminato. Si attuerebbe insomma un fenomeno di selezione. Il cervello dei bambino non solo «cresce», formando circuiti sempre più numerosi e sofisticati, ma, contemporaneamente. impara a eliminare quelli inutili. Un comportamento molto complesso ed evoluto quindi, che sarebbe in qualche modo governato, secondo diversi studiosi, proprio dalla secrezione a «ondate» di fattori «neurotrofici», a loro volta condizionati almeno in parte dagli stimoli esterni. Questi fattori, in particolare, sarebbero rilasciati in modo che specifiche parti del cervello si connettano una dietro l'altra e che uno strato di tessuti nervosi maturi dopo, e non prima, di un altro.
POTENZIALITA' - Se questo è vero, diventa possibile anche capire come mai bambini con potenzialità magari inferiori a quelle di un coetaneo possano sviluppare capacità superiori. E' ormai accettato infatti il codice genetico, da solo, non conterrebbe abbastanza informazioni per organizzare completamente il cervello secondo uno schema prestabilito, ma sarebbe dotato solo di alcuni schemi di base, che farebbero da guida alla realizzazione del progetto sotto stimoli provenienti dall'ambiente esterno. E la capacità di formare nuove sinapsi e di eliminare quelle inutili sarebbe proprio uno dei fenomeni determinati in gran parte dall'esperienza. In altre parole si potrebbero avere individui con cervelli praticamente identici nel numero dei neuroni e delle loro connessioni, ma la strategia dei circuiti potrebbe dipendere in gran parte dalle esperienze fatte dal bambino, e ne condizionerebbe quindi anche le qualità psicologiche e intellettuali una volta adulto.
EMOZIONI - E studi effettuati con la Pet (Tomogragfia a emissione di positroni) indicherebbero anche che il condizionamento esterno non riguarderebbe solo le prestazioni intellettuali, cioè lo sviluppo di adeguate capacità a risolvere problemi, ma anche il profilo affettivo. La PET, ha permesso di osservare che quando una persona prova emozioni positive, gioia, felicità, interesse, si attiva soprattutto la corteccia frontale sinistra, mentre tristezza e altre emozioni del genere corrispondono a una maggiore attività della corteccia frontale destra. E la PET ha anche indicato che la corteccia frontale diventa metabolicamente attiva soprattutto tra i 6 e i 24 mesi di vita. E' possibile che la corteccia frontale, che una volta si pensava evolvesse soprattutto nella seconda infanzia, sia implicata nello sviluppo emozionale e cognitivo molto precocemente. Periodo che sarebbe importante per il bambino per regolare le emozioni.
Tv
Corriere della Sera 22.11.05
Anche i comportamenti sociali e le relazioni interesonali sono condizionate
Adolescenti sempre più videodipendenti
Raddoppiata in cinque anni la quota di teenager che passa più di tre ore al giorno davanti al video. Obesità la prima consuguenze
Tv cattiva maestrá, a tavola e non solo». A trascorrere ore intere davanti alla scatola magic sono i teenager italiani:la guarda più di tre ore al giorno il 31% degli adolescenti (nel 2000 erano il 15% e l'anno scorso il 26,8%). E solo un'esigua minoranza la guarda meno di un'ora al giorno: 12,9% contro il 25% del 2000. Il dato è stato fornito dalla Società Italiana di Pediatria (Sip) grazie all'Indagine 2005 sulle abitudini e i comportamenti degli adolescentì, condotta su un campione di 1.260 studenti delle scuole medie inferiori tra gli 11 e i 14 anni.
OBESITA' - Più aumentano le ore trascorse in compagnia della tv, assicurano gli esperti, più cresce il condizionamento negativo su abitudini e comportamenti. I ragazzi e le ragazze che guardano più televisione mangiano peggio rispetto ai loro coetanei meno esposti al video e, in particolare, consumano molte più sostanze alcoliche, fumano di più e mangiano molti più snack e fuoripasto, che sono, insieme alla sedentarietá, tra le cause principali di sovrappeso e obesitá infantile.
COMPORTAMENTI SOCIALI - Il piccolo schermo fa danni anche sui comportamenti sociali degli adolescenti. «L'abuso si traduce in minor fiducia negli adulti - spiega Giuseppe Saggese, presidente della Sip - e nel sopravvalutare, per essere apprezzati all'interno del gruppo, il possesso di status symbol». Ecco perchè gli adolescenti videodipendenti desiderano molto più dei coetanei meno esposti al video prodotti visti nella pubblicitá televisiva (30,2% contro il 12%). «L'abuso di televisione - sottolinea Maurizio Tucci, responsabile della Comunicazione della Societá italiana di pediatria, che ha curato l'indagine - è dannoso per la salute psicofisica di un bambino non solo per il condizionamento che può derivare dall'inondazione di messaggi pubblicitari di 'modellì che la televisione veicola, ma anche perchè, indipendentemente dalla qualitá dei programmi visionati, degrada in modo sensibile la qualitá di vita: meno attivitá fisica, meno socializzazione con gli amici, meno stimoli culturali e, spesso, anche meno tempo trascorso con i genitori».
Aids: gli uomini contagiano le donne inconsapevoli
Corriere della Sera 22.11.05
La percezione della «curabilità» tra le cause della recrudescenza
Aids: sempre più infezioni tra eterosessuali
Presentato a Roma il rapporto delle Nazioni Unite sulla malattia provocata dal virus Hiv. Riprende il contagio in Europa
ROMA - Sempre più contagi da virus Hiv tra gli eterosessuali, contagiate pure molte donne sposate. È purtroppo questo il trend sull'epidemia confermato anche quest'anno per i paesi occidentali e che, secondo quanto riferito da Mariangela Bavicchi, Responsabile relazioni con i Donatori UNAIDS, non risparmia neppure l'Italia. Se ne è parlato oggi a Roma nel corso della presentazione dell'ultimo rapporto annuale delle Nazioni Unite sulla pandemia di Aids, reso noto contemporaneamente in vari paesi europei e del mondo. Sempre secondo quanto riferito dalla Bavicchi, in seno al Governo italiano un comitato interministerale dovrebbe presentare, entro il primo dicembre in occasione della giornata mondiale dell'Aids, un rapporto riguardante la situazione italiana dell'epidemia.
DONNE SPOSATE - Ma in base ai dati UNAIDS dei trend regionali, ha dichiarato l'esperta, si evidenzia che la trasmissione del virus Hiv continua ad aumentare tra eterosessuali e all'interno delle coppie sposate, molto spesso sono le donne ad essere contagiate anche dagli stessi mariti. Queste tendenze mostrano che la percezione del rischio Aids si è abbassata e l'avvento di farmaci antiretrovirali sempre più innovativi è erroneamente percepito come segno della «curabilità» della malattia. Secondo quanto dichiarato dalla Bavicchi il Governo italiano avrebbe intenzione, a partire dalla presentazione del rapporto sulla situazione italiana dell'epidemia, di attuare campagne di informazione e prevenzione per invertire questa rotta e colmare la profonda ignoranza che ancora aiuta il virus a circolare tra gli «insospettabili».
LE CIFRE - Nel 2005 sono stati registrati cinque milioni di nuovi casi nel mondo: dai 37,5 milioni del 2003, la popolazione dei sieropositivi ha raggiunto un picco di 40,3 milioni. Nel corso del 2005, inoltre, le malattie collegate all'Aids hanno mietuto più di tre milioni di vittime, oltre 500 mila delle quali bambini. Sono queste le cifre del rapporto Unaids-Oms del 2005. L'indagine indica che in alcuni paesi l'incidenza dell'Hiv è calo fra la popolazione adulta, grazie al ruolo chiave svolta dall'adozione di comportamenti più consapevoli volti ad evitare il contagio, quali l'uso dei profilattici, un debutto sessuale tardivo e un numero minore di partner.
I dati relativi a Kenya, Zimbabwe e alcuni paesi dell'area caraibica mostrano negli ultimi anni un sensibile calo nella diffusione dell'Hiv. In Kenya l'incidenza del contagio tra la popolazione adulta, dopo avere toccato un picco del 10 percento alla fine degli anni '90, è scesa al 7 percento nel 2003, mentre tra le gestanti dello Zimbabwe è scesa dal 26 percento del 2003 al 21 percento del 2004. Allo stesso modo, tra le giovani gestanti delle aree urbane del Burkina Faso si è passati dal 4 percento circa del 2001 a una cifra di poco inferiore al 2 percento nel 2004. Stando al rapporto il balzo in avanti dell'Hiv è avvenuto soprattutto nell'Europa dell'Est e nell'Asia centrale quella orientale. La zona più colpita del mondo resta l'Africa Subsahariana con il 64 percento di nuovi casi, pari a oltre tre milioni di persone.
EUROPA - «L'epidemia sta riprendendo anche in Europa e negli Usa» ha detto Paul De Lay, direttore dell'ufficio valutazione e monitoraggio dell'Unaid. «In Gran Bretagna e in Germania, dove in passato sono stati adottati programmi di prevenzione, ora abbandonati, ci si aspetta una recrudescenza ella situazione».
PREVENZIONE SOCIALE - «Il miglior vaccino - ha detto Sheila Sisulu Sheila Sisulu, vicedirettrice esecutiva del Pam- si chiama istruzione scolastica. Grazie alla scuola i bambini capiscono la necessità di ritardare il primo rapporto sessuale, di usare il profilattico e di avere un numero minore di partner». Alberto Michelini, rappresentante speciale del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi per il Piano d'azione per l'Africa del G8, ha lanciato un appello ai media affinchè parlino degli aspetti positivi dell'Africa. «Di Africa - ha detto - si parla solo per sottolineare la piaga dell'Aids. Invece è un continenete in piena ascesa e ricco di potenzialità che devono essere sfruttate».
Corriere della Sera 23.11.05
A dieta (e senza ansia) con l’ipnosi La terapia di Freud cambia volto
Usa, nuova vita per la pratica nata negli anni Cinquanta
Fotografato il cervello per dimostrare come può funzionare
Adriana Bazzi
Fu una falsa partenza, nel diciottesimo secolo, quando il medico tedesco Franz Mesmer, fra luci soffuse e musiche suadenti, curava pazienti con il suo «fluido magnetico». Poi l’ipnosi venne rispolverata nel 1842, con il nome attuale, dall’oftalmologo inglese James Braid e usata successivamente da Sigmund Freud per curare Anna O. e qualche altro paziente isterico. Negli anni Cinquanta comincia a essere sfruttata in medicina, un po’ empiricamente, per combattere il dolore (e successivamente altri disturbi come ansia e depressione, colon irritabile e persino obesità). Ora sta entrando nel mondo delle neuroscienze: quest’ultimo esperimento fotografa le alterazioni del cervello e dunque indica la strada per la cura di alcune malattie. Da qualche tempo la pratica dell’ipnosi è estesa. E viene utilizzata anche per far dimagrire o per diminuire lo stress, per smettere di fumare, per correggere disfunzioni sessuali. E’ una sorta di amplificatore della volontà. Aiuta a mettere in pratica desideri che sembrano irrealizzabili: anche adattarsi a un nuovo ambiente di lavoro. In cinque o sei sedute si avvia un processo di autoguarigione. L’ipnosi medica, lontana da quanto si vede in certi spettacoli in tv, sta diventando sempre più un successo, nelle forme che riguardano sia i malesseri minori che la vita quotidiana. Tanto da aver indotto gli scienziati a cercare di capire il funzionamento del cervello sotto ipnosi. Così l’ équipe di Michael Posner, professore di neuroscienze all’Università americana dell’Oregon, ha analizzato persone ipnotizzate usando un test e fotografando l’attività cerebrale con le tecniche di imaging, come Tac o risonanza magnetica. E ha scoperto che gli individui più facilmente ipnotizzabili perdono la capacità di prendere semplici decisioni e dimenticano quell’insieme di esperienze che, nella vita di tutti i giorni, ci permettono di verificare le informazioni che riceviamo. Non tutti reagiscono alla stessa maniera di fronte a un ipnotizzatore: dal 10 al 15 per cento degli adulti sono altamente ipnotizzabili, mentre un adulto su 5 è «resistente»; il resto sta a metà.
I ricercatori hanno sottoposto 16 volontari, metà altamente ipnotizzabili e metà resistenti, al test di Stroop. Mostra una parola che indica un colore, per esempio VERDE, scritta in quattro diversi colori: rosso, blu, grigio e giallo. La persona deve subito dire il colore con cui è scritta la parola: in genere si ha bisogno di qualche frazione di secondo prima di indicare il colore. È l’effetto Stroop che dimostra come esiste il controllo dell’esperienza su quello che noi percepiamo.
Nei pazienti sensibili sottoposti a ipnosi l’effetto Stroop non si verifica. Ecco come è stato dimostrato. Nella prima fase dell’esperimento i volontari sono stati messi di fronte a uno schermo dove compariva una parola senza senso, ma colorata, e sono state sollecitate dall’ipnotizzatore a identificare il colore. Quando in un test successivo veniva mostrata la parola vera, per esempio VERDE, ma colorata con diversi colori, i soggetti sensibili, suggestionati dal primo esperimento, individuavano subito il colore. Quelli resistenti rispondevano più lentamente. E anche le immagini del cervello erano diverse nei gruppi: in quelle dei sensibili risultavano spente le aree cerebrali del riconoscimento delle parole. Come dire che l’ipnosi modifica davvero la capacità di percepire la realtà. Per questo funziona.
Adnkronos 23.11.05
Salute:
Disturbi ossessivo-compulsivi per due persone su cento
Londra, 23 nov. (Adnkronos) - Sono ossessionati dalla pulizia, tanto la lavarsi in continuazione le mani, oppure controllano la posizione degli oggetti mille volte al giorno, schiavi di rituali dai quali non si staccano mai. Circa due persone su 100 sono 'vittime' di disturbi ossessivo-compulsivi, una serie di comportamenti e pensieri irrazionali che spesso sono celati agli altri per imbarazzo. Cosi' accade di aspettare anni prima di chiedere aiuto. Secondo gli esperti britannici del National Institute for Health and Clinical Excellence ''molti arrivano alla diagnosi e alle cure solo dopo 17 anni''. ( ... )
il manifesto 23.11.05
Immagini dal fronte della follia
Al Palazzo Magnani di Reggio Emilia, cinquecento scatti per documentare l'incontro tra psichiatria e fotografia, dai primi del secolo scorso ai nostri giorni
Ir. Al.
Gli occhi sono la cosa più difficile da incontrare. Sulla pellicola c'è il segno di corpi in gabbia, degli abbandoni narcotici, della partitura ossessiva dei gesti. Ma davanti all'obiettivo gli occhi fuggono altrove. Sono cinquecento gli scatti esposti al Palazzo Magnani di Reggio Emilia fino al 22 gennaio, cinquecento immagini per catturare Il volto della follia, lungo un percorso (racchiuso anche nel bellissimo catalogo edito da Skira) che segue le tappe dell'incontro tra psichiatria e fotografia. Dalla foto «classificatoria» dei primi del Novecento, archivio delle anatomie irrequiete della «città dei folli», ai grandi reportage degli anni `60-'70, racconti sovversivi che portano «fuori» le storie e gli orrori dell'istituzione negata, fino allo sguardo sui nuovi luoghi di cura nati dall'applicazione della legge 180, spazi aperti alla condivisione della sofferenza. Un viaggio attorno a un corpo che non si tocca e a occhi che non si incontrano, inseguendo una sostanza che sfugge alla fissità della pellicola. «Il volto della follia» è allora quello inchiodato al muro della propria stranezza nelle foto segnaletiche scattate ai pazienti all'ingresso del manicomio di San Lazzaro, struttura alle porte di Reggio Emilia dove tra fine Ottocento e inizio Novecento erano recluse più di duemila persone. Memorie della città dei matti si intitola questa prima tappa dell'esposizione che raccoglie, insieme all'inventario spietato di questi freaks di provincia - facce di braccianti scure per il sole, facce appassite dalla fabbrica o scomposte dalla malattia - gli scatti che Vasco Ascolini ha realizzato nel 2000 nelle stanze abbandonate dell'ex manicomio, tra i ruvidi fantasmi delle camicie di forza e la fredda minaccia degli strumenti antropometrici. Con I manicomi svelati, secondo momento del percorso espositivo, lo sguardo si apre su una nuova stagione del racconto fotografico intorno alla follia: quella che vede fotografi come Carla Cerati, Gianni Berengo Gardin, Lucio D'Alessandro, Uliano Lucas, Ferdinando Scianna, Raymond Depardon, attraversare il confine della «città dei matti» per puntare l'obiettivo sui suoi orrori. Cerati e Gardin a Gorizia, D'Alessandro a Napoli: sono loro, invitati a varcare la soglia del manicomio da psichiatri come Franco Basaglia e Sergio Piro, i primi testimoni a tornare nella «città dei sani» con le immagini dell'inferno manicomiale. Grandi reportage come Morire di classe (Einaudi, 1969), Gli esclusi, fotoreportage da un'istituzione totale (Il Diaframma, 1969) danno forma e colore a quel corpo «abitato dall'istituzione» di cui parla Basaglia e incrociano il suo cammino verso l'apertura delle porte e la chiusura dei manicomi, con l'approdo nel 1978 alla legge180.
«Il volto della follia» è qui il ritratto di solitudini senza scampo, di corpi vuoti dimenticati su una sedia o abbandonati in un cortile, di occhi persi nel vuoto, lanciati a inseguire i fili di pensieri perduti. Occhi matti che non incontrano l'obiettivo quasi mai, e quando lo fanno si traducono in un grido di aiuto, in una sfida disperata, nella eco di una anima in gabbia. Per quelle stesse stanze, per quegli stessi corridoi, Sergio Zavoli - a Gorizia nel 1967 - girò I giardini di Abele, racconto della vita di quei «fratelli scomodi» nascosti dietro le mura: uomini e donne in cattività, reduci affranti di una normalizzazione coatta e violenta. E per altre stanze e altri corridoi - resi identici dallo stesso grigiore medicale, dalla stessa vuota circolarità del tempo - fotografi come Alex Majoli, Claudio Edinger, Chien-Chi Chang, Anders Petersen, Adam Broomberg e Oliver Chanarin, documentano, da Lemnos al Brasile, da Cuba alla Cina, gli stessi orrori di gente in catene, nella sezione collaterale della mostra (esposta a Palazzo dei Principi di Correggio) dedicata ai non-luoghi della segregazione manicomiale sparsi per il mondo. Al di là delle mura, tra le persone è infine il luogo di un approdo, la storia di un ritorno alla vita e di una riappropriazione dello spazio fisico e mentale espropriato dall'istituzione totale, cui è dedicata la terza sezione della mostra: Gian Butturini e Uliano Lucas ne seguono i primi passi - le prime esplorazioni del mondo di «fuori», i primi sorrisi, i primi gesti d'amore ricevuti - Philippe Tournay, Enzo Cei, Ilaria Turba, Giordano Morganti si incamminano lungo i diversi percorsi, raccontandone fatiche e entusiasmi, smarrimenti e speranze. Slanci e cadute come quelli di Nicola, il matto sognatore immaginato sulla scena Ascanio Celestini - che proprio a Reggio Emilia porterà il suo monologo Pecora nera (al Mercadante di Napoli dall'1 al 4 dicembre) - malato d'amore e di paura del buio. E la sua voce - che Celestini ha raccolto tra le altre testimonianze dei sopravvissuti all'internamento durante un percorso di ricerca cominciato nell'ex ospedale psichiatrico di Perugia - chiude un percorso e trova parole per il volto, invisibile, della follia.
il manifesto 23.11.05
Obiettivo puntato sul manicomio
Irene Alison
In una ampia panoramica, la fisionomia del disagio mentale, dalle prime foto «classificatorie» ai grandi reportage degli anni `60-'70, Come il reportage di Carla Cerati sui «matti slegati» di Franco Basaglia . Fino ai nuovi luoghi di cura, nati dopo l'applicazione della legge 180«Un mestiere per persone pensanti», dice Carla Cerati del suo lavoro di fotografa cominciato negli anni `60, prima nella Milano degli operai e degli intellettuali e poi, otto anni dopo, continuato tra le mura degli ospedali psichiatrici a documentare la condizione delle donne e degli uomini internati. Un viaggio nella «città dei folli» durato sei mesi, trascorsi - insieme a Gianni Berengo Gardin - tra Gorizia e Parma, Firenze, Ferrara e Losanna, a testimoniare l'orrore della vita tra le mura del manicomio per dare immagine e sostanza, attraverso un percorso pensato insieme a Franco Basaglia e poi confluito in Morire di classe (Einaudi, 1969), a un universo negato.
Fine anni sessanta, nell'ospedale di Gorizia con Franco Basaglia e Gianni Berengo Gardin. Parla Carla Cerati
Come si è avvicinata alla realtà dei manicomi?
A fine anni `60 mi colpì molto un reportage di Avedon sugli ospedali psichiatrici e cominciai a chiedermi come riuscire a entrare in un manicomio italiano. Avevo letto il libro di Mario Tobino, Le libere donne di Magliano. Gli scrissi allora chiedendogli di poter fotografare all'interno dell'ospedale in cui era primario, ma lui mi rispose che non gli sembrava assolutamente il caso. Contemporaneamente Einaudi pubblicò L'istituzione negata e Che cos'è la psichiatria di Franco Basaglia. Mi misi in contatto con lui, che stava già conducendo a Gorizia la sua battaglia per l'apertura dei manicomi e lui fu felicissimo di lasciarmi fotografare, perché era proprio la cosa che desiderava. Anzi, aveva in mente un progetto molto più ampio, un libro fotografico su tutte le istituzioni repressive, la famiglia, la caserma, la prigione... Poi, per l'urgenza di attirare l'attenzione sulla condizione dei degenti degli ospedali psichiatrici, preferì focalizzarsi sui manicomi, dove aveva una maggiore possibilità di farci entrare. Dico «farci» perché un po' per amicizia un po' per timidezza chiesi a Berengo se voleva venire con me.
Prima di cominciare il progetto avete avuto incontri con i pazienti, avete discusso in qualche modo con loro?
Solo a Gorizia, dove Basaglia aveva già cominciato la sua politica di apertura. Lì non c'erano camicie di forza, erano stati abbattuti i muri perimetrali tra un reparto e l'altro e i malati si muovevano liberamente. Ogni giorno si svolgeva un incontro tra medici e pazienti e Basaglia ci propose di chiedere ai pazienti durante l'assemblea il loro consenso a farsi fotografare. Loro si consultarono e decisero di accettare. Visto però che noi avremmo guadagnato dei soldi dall'uso di quelle immagini, ci chiesero un «compenso» di 40 mila lire. Ne abbiamo versate 20 a testa e ci hanno lasciati fotografare liberamente. Mi sono resa conto che a Gorizia la condizione dei malati era molto diversa. Gli altri ospedali erano tutte strutture «chiuse» e la povertà era spaventosa ovunque. Anche questo significava Morire di classe: muri scrostati, malati a piedi nudi, senza biancheria intima, donne coperte da vestaglie di cotonaccio. I segni di un abbandono totale.
Come reagivano i pazienti alla vostra presenza?
In maniera diversa, a seconda della loro condizione mentale. Dagli stessi medici e infermieri abbiamo avuto reazioni moto diverse. A Parma, ad esempio, siamo entrati accompagnati da due infermieri che pensavano che fossimo lì per fotografare l'ambiente. Quando hanno capito che fotografavamo i malati ci hanno fatto smettere e hanno preteso i rullini. Berengo allora mi ha fatto scaricare la macchina e ha nascosto i rullini nell'ombrello, così gli abbiamo dato delle pellicole vergini. Lì ho scattato una delle foto esposte a Reggio Emilia, un malato seduto a un tavolino che fissa lo sguardo in macchina. Subito dopo lo scatto lui mi ha aggredita, mordendomi una gamba. Si è sentito violentato da quello scatto.
Non sono molte le foto della mostra in cui c'è questo scambio di sguardi tra soggetto e fotografo. Questa assenza di complicità è il segno di un dialogo difficile?
Forse questa mancanza c'è più nelle mie foto che in quelle di Berengo. Lui cerca la complicità del soggetto, io invece la escludo, cerco di farmi dimenticare nascondendomi dietro alla macchina fotografica. Ho sempre preferito cercare di «depistare» il soggetto, fingo sempre di guardare al di là della sua figura. Tra le foto di Berengo ce n'è invece una in cui un giovane malato lo guarda facendo con le mani il gesto di inquadrare con la macchina fotografica: al contrario di me lui fa in modo di calamitare l'attenzione del soggetto. Quell'uomo nella foto di Parma è l'unico che mi ha fissato mentre scattavo. Era uno degli sguardi più coscienti, forse proprio ha percepito la violenza della fotografia.
E lei come ha affrontato il problema della violenza dell'immagine «rubata»?
Ponendomi spesso il problema dell'autocensura. Mi è capitato per esempio di fotografare un suicidio: anche in quel caso si trattava di utilizzare l'immagine di una persona che non si può difendere. Ma quella è stata una situazione che non ho cercato, mi è capitato davanti e mi sono trovata istintivamente a fotografare. Nel caso degli ospedali psichiatrici, invece, ho certamente sentito di fare una violenza, ma sapevo di star facendo un lavoro utile di denuncia e questo mi sembrava una motivazione sufficiente. In altri casi è stato diverso: ho tentato un reportage all'istituto dei tumori a Milano dove erano ricoverati bambini in condizioni molto gravi, ma non ho avuto il coraggio di continuare, mi sono arresa. In quel momento erano vivi ma avrebbero potuto non esserlo il giorno dopo. Non avrei voluto essere una madre che vedeva sul giornale la foto del figlio morto.
Insieme a Ilaria Turba lei è l'unica donna presente all'esposizione di Reggio Emilia. Esiste secondo lei un punto di vista femminile nel raccontare il dolore? Una cifra comune ad altre fotografe che hanno affrontato temi affini, come Diane Arbus o Nan Golding?
Ho conosciuto Ilaria all'inaugurazione è abbiamo scherzato sul fatto di essere le uniche donne... ci siamo chieste se per caso gli uomini non siano più «sensibili»... Credo semplicemente che gli uomini siano più numerosi in questo mestiere. Per quanto riguarda il reportage, non credo ci sia una differenza tra sguardo maschile e femminile. Anzi, vedendo certe fotografie di alcuni autori ho pensato proprio a Diane Arbus, perché ho trovato quella stessa attenzione fenomenologica per «il brutto»... un modo che non mi appartiene, perché non mi interessa questa decontestualizzazione del dolore.
Dopo l'apertura dei manicomi non ha mai avuto il desiderio di raccontare il ritorno alla vita degli ex-internati, o la loro quotidianità nei nuovi luoghi di cura nati dopo la 180?
Le rispondo raccontandole una conversazione avuta con Uliano Lucas all'inaugurazione della mostra. Lui ha portato avanti ottimamente il suo lavoro sulla follia anche dopo la chiusura dei manicomi e a Reggio Emilia sono esposti i ritratti che ha fatto a Trieste a ex degenti e personale medico. Guardandoli, gli ho detto: «se vuoi dimostrare che al di fuori delle strutture repressive siamo tutti uguali ci sei riuscito, per esempio io questo signore lo inviterei a cena». «Certo» mi ha risposto lui, «è Franco Rotelli». Ecco, io non vedevo nessuna differenza in quei ritratti, ero convinta che fosse un malato uscito dal manicomio, e il punto è che questo gioco normalità/follia mi sembra troppo facile: non mi interessa dire «fuori siamo tutti uguali». Piuttosto, guardando il pannello all'apertura della mostra con le foto segnaletiche dei malati realizzate all'ingresso in manicomio ai primi del 900, pensavo che non c'è nessuna differenza tra quelle facce, quelle espressioni e quelle che facciamo noi alle macchinette delle fototessere. Siamo già tutti uguali, siamo tutti mostri e deficienti se ci colgono nel momento sbagliato, per questo la sfida del dimostrare come questa gente è ridiventata «normale» non mi interessa.
il manifesto 22.11.03
Una collezione di grandi scatti
Contemporaneamente alla mostra «Il volto della follia. Un secolo di immagini del dolore», il piano terra di Palazzo Magnani a Reggio Emilia ospiterà anche, fino all'8 gennaio, «Senza di loro, nemmeno io». Si tratta di ottanta fotografie che fanno parte della collezione personale di Pierre Bonhomme (che sceglie spesso di usare lo pseudonimo di Pierre Borhan) che ha collaborato a più riprese con la sede espositiva emiliana in occasione di grandi mostre dedicate ad alcuni tra i più importanti fotografi contemporanei. Sono esposte le opere, tra gli altri, di Eugène Atget, Brassaï, Diane Arbus, Richard Avedon, Arnold Newman, Irving Penn, Bill Brandt, Henri Cartier-Bresson, André Kertész, Jan Saudek, William Klein, Michael Kenna, Josef Sudek, Shomei Tomatsu.
Il manifesto 22.11.05
Un filosofo tra Spinoza e Marx
Etienne Balibar è uno dei più importanti filosofi europei. E' professore emerito all'Università di Paris X e insegna all'Università di California. A lungo collaboratore di Louis Althusser, ha partecipato alla stesura di «Leggere il capitale», considerato un testo fondamentale per comprendere il marxismo europeo novecentesco. Militante del Pcf, ha preso polemicamente le distanza da esso nel 1989, quando alcuni sindaci di banlieue di questo partito diedero il via a un giro di vite, con l'obiettivo di garantire la sicurezza, che colpirono francesi di origine maghrebina. In Italia ha pubblicato «Le frontiere della democrazia», «Spinoza e la politica», «Per Althusser», «La filosofia di Marx», «L'Europa, l'America, la guerra», «Noi cittadini d'Europa» (tutti per manifestolibri). Con Immanuel Wallerstein ha pubblicato il volume «Razza, nazione, classe». Suoi anche «La paura delle masse» (Mimesis) e «Spinoza. Il transindividuale» (Ghibli).
il manifesto 22.11.03
Stato e moltitudine
Il convegno di Bologna su Baruch Spinoza
A cosa servono i filosofi? Ad uccidere il tiranno, ad esempio. Lo aveva capito l'editore di Spinoza quando nel 1677 diede alle stampe l'opera del filosofo olandese con questa precisazione: «Ho deciso per il bene comune di dare alle stampe i suoi manoscritti». Quanto bene abbia fatto il coraggio di questo uomo acuto e generoso a pubblicare questo filosofo lo abbiamo capito lo scorso fine settimana a Bologna durante il convegno «Spinoza: individuo e moltitudine». In primo luogo perché, come ha affermato nel suo intervento Vittorio Morfino, Spinoza ha scoperto in politica una nuova temporalità dell'essere comune, quello della transindividualità contro la concezione solipsistica dell'individuo tipica del liberalismo in cui viviamo. Se per Carlo Galli, Spinoza è il primo filosofo moderno che rivela l'assenza della trascendenza nella politica - i conflitti non possono essere mediati da un contratto e nemmeno da uno stato -, per Pina Totano, traduttrice nel «Trattato Teologico-politico», questa scoperta porta Spinoza a formulare una teologia senza trascendenza e a pensare Dio come immanenza assoluta. Per Etienne Balibar l'estraneità di Spinoza alla filosofia della rappresentanza politica moderna accomuna il filosofo olandese ad alcuni, importanti, amici: uno che non avrebbe mai potuto conoscere, Nicolò Machiavelli, e un altro che lo aveva letto in gioventù: Karl Marx. Tutti e tre pensano l'essere in comune come essere in conflitto. La moltitudine è il nome che questo comune trova nella filosofia politica di Spinoza. Un concetto che è stato variamente declinato nel convegno: dalla «posizione intermedia tra chi la liquida e chi la esalta» di Riccardo Caporali, autore di un importante intervento sulla posizione problematica delle donne nella filosofia di Spinoza, a quella decisamente critica di Paolo Cristofolini, autore di una nuova traduzione del «Trattato Politico». Michael Hardt ha ricostruito invece come questo concetto fosse stato usato dai rivoluzionari inglesi nel XVII secolo per criticare il parlamento e la rappresentanza, regno popolato dalle ombre e non dai corpi. Per Stefano Visentin, la moltitudine, soprattutto quando è ridotta a vivere in regimi politici non pienamente democratici, è l'espressione di una parzialità che è in se stessa sintomo di una universalità politica perché contesta i limiti costituzionali di un regime ingiusto. La moltitudine, per Augusto Illuminati, esprime «il rifiuto dell'obbedienza preventiva che ogni tipo di legge impone senza discutere». Nel nuovo tempio della legalità bolognese, il richiamo al diritto di resistenza è risuonato forte e chiaro. Per Filippo Del Lucchese in Spinoza si dà un nuovo rapporto produttivo tra diritto e conflitto: alla base del diritto, infatti, c'è l'impulso alla resistenza alle potenze contrarie, alla dislocazione delle dinamiche distruttive a favore di quelle costitutive del comune. Laurent Bove ha visto in questo impulso la formulazione di un diritto di resistenza che spinge la moltitudine in Spinoza ad alimentare il desiderio di non essere governata. C'è dunque un modo per essere moltitudine, «quello di fare moltitudine - ha concluso Toni Negri - E' da questo fare che nasce il diritto, da qui nasce lo stato, e il consenso stesso al potere».
il manifesto 22.11.05
Alle frontiere dell'apartheid
Cittadini negati
La rivolta nelle banlieue è il risultato del razzismo istituzionale che caratterizza non solo la Francia, ma tutta l'Europa. Nel vecchio continente oltre alla militarizzazione dei confini esterni, si stanno costruendo delle frontiere interne che seguono la linea del colore ma anche quella sociale.
Un'intervista con il filosofo Etienne Balibar
Roberto Ciccarelli
Atre settimane dall'inizio delle rivolte nelle banlieue Etienne Balibar è indignato, ma anche inquieto. Con la psicoanalista Fethi Benslama, la giurista Monique Chemillier-Gendreau, il filosofo Bertrand Ogilvie e l'antropologo Emmanuel Terray, ha sottoscritto un appello che ha individuato «nella disoccupazione di massa, nello smantellamento dei servizi pubblici, nella segregazione urbana e nella discriminazione professionale, nella stigmatizzazione religiosa e culturale oltre che nel razzismo e nella brutalità poliziesca quotidiana» le principali cause delle rivolte. «L'appello è intitolato Casse-cou, la Republique! - ha spiegato Balibar in una pausa del convegno Spinoza: Individuo e moltitudine tenutosi a Bologna lo scorso fine settimana - lo abbiamo scritto il giorno dopo l'approvazione dello stato d'emergenza ed è stato diffuso nell'ultima settimana su Internet e pubblicato il 16 novembre su L'Humanité». Oggi Balibar rilancia la sua analisi sul regime di apartheid che dalle frontiere esterne alla Ue si è installato nel cuore delle metropoli e denuncia il razzismo istituzionale che ha provocato le rivolte. Durante l'intervista esprime la sua perplessità sul tentativo compiuto da alcuni esponenti del partito comunista francese e della sinistra anti-globalizzazione che hanno cercato «nei primi giorni di strumentalizzare le rivolte presentandole come la dimostrazione delle loro posizioni contro la costituzione europea e per il no al referendum del 29 maggio scorso. Questa rivolta - continua il filosofo francese - in realtà rivela il blocco totale del sistema politico francese. Non esiste alcuna prospettiva di rinnovamento sia per la maggioranza al potere che per l'opposizione». Una rivolta di cui molti governi, e non solo l'ultimo diretto da Dominique de Villepin, «portano una grave responsabilità». Ma la rivolta contro i ghetti non è una specialità francese, è una condizione diffusa anche nei Paesi Bassi e in Inghilterra. «Quelle in Francia mi sembrano però peculiari - risponde Balibar - perché sono legate alla sua storia coloniale che è ancora oggi onnipresente nel paesaggio urbano, anche se è stata rimossa violentemente dal sistema politico e dalla maggioranza della società che vive totalmente separata dalle banlieue».
E poi il governo. «Ciò che trovo inquietante nel suo comportamento è che si è impegnato nella repressione senza riflettere attentamente sui rischi dei conflitti sociali e le minacce aggravate alla sicurezza della popolazione che una simile scelta comporta», osserva Balibar. La reintroduzione della doppia pena, l'espulsione amministrativa degli stranieri, cioè dei residenti che possono essere «isolati» dagli altri cittadini in base alla loro identità annunciate dal ministro degli interni Nicolas Sarkozy, per Balibar «è indice della separazione tra i cittadini nazionali e gli stranieri, ma anche tra gli stessi cittadini francesi alcuni dei quali vengono stigmatizzati come immigrati, o come non francesi, pur avendo a tutti gli effetti la cittadinanza. Reprimere dei gruppi isolati dal resto della popolazione è una politica che non solo non rispetta i diritti umani, ma accentua al massimo le inquietudini della popolazione, moltiplica gli aspetti securitari e produce una polarizzazione ideologica in seno alla società francese che vede negli immigrati, nei giovani o negli stranieri dei capri espiatori».
Il prolungamento della legge d'urgenza per altri tre mesi è la creazione di uno stato di eccezione nelle città?
Questo è l'aspetto più inquietante, anche per i suoi risvolti simbolici, della reazione del governo. Quella applicata è una legislazione di guerra. E' l'arma assoluta e reattiva che serve a spezzare le resistenze contro un nuovo ordine neo-coloniale, come già avvenne nella guerra d'Algeria. Questa legge non autorizza solo il coprifuoco, ma crea anche delle zone securitarie, autorizza le perquisizioni di giorno e di notte, le sanzioni penali sbrigative. Tutto questo non ha fatto altro che dare fuoco alle polveri a una rivolta che covava da anni e che, con ogni probabilità, continuerà ancora a lungo. La violenza ha toccato tutti gli abitanti delle banlieue, francesi e non. Questo è inevitabile perché chi subisce la violenza giorno dopo giorno, e per anni, poi colpisce senza operare alcuna distinzione di origine o di ceto sociale.
Lei ha denunciato più volte l'apartheid europeo contro i migranti. Si può dire che oggi, in Francia come anche in altri paesi europei, è venuto alla luce anche un nuovo apartheid, quello interno alle metropoli?
Assolutamente sì. Non ci si può accontentare di dire che la risposta del governo è inadeguata. E' difficile evitare di credere che, al di là dei contrasti interni tra chi preme per una soluzione securitaria e chi per una di tipo paternalistico, il governo abbia voluto tracciare una specie di frontiera interna nella società che assume una configurazione sociale, etnica e razzista. L'applicazione di questa legge tende a isolare dal corpo della società francese una certa tipologia di persone e a differenziare le banlieue dal resto del territorio nazionale. In un certo senso tutto questo non è nuovo. Anzi è solo uno dei momenti di un processo di emergenza progressiva di forme di segregazione in tutta Europa che è iniziato da tempo.
In cosa consiste questo processo?
E' un fenomeno tendenziale, molto articolato, che si va intensificando. Non lo considero ancora un dato acquisito, ma credo che quella in atto sia una trasformazione dello spazio europeo sul lato esterno e su quello interno. E' un processo che ha come risultato la costruzione di un apartheid, cioè la moltiplicazione, o meglio, il raddoppiamento dei confini, quelli esterni dell'Unione Europea, e quelli interni nelle città. Questo processo ha spesso delle tragiche conseguenze come abbiamo visto nell'ultimo naufragio a largo di Ragusa di venerdì scorso, oppure in quello che accade a Ceuta o a Melilla in Spagna. Sono tutti effetti che fanno parte della politica protezionistica dello spazio sociale europeo che da un lato rafforza il muro che separa l'Europa dal Mediterraneo e dall'altro costruisce zone di controllo e di concentrazione dei migranti nell'Africa del Nord. Quello che accade nelle banlieue è una specie di effetto simmetrico, correlativo, di questo processo. E' il risultato di una «meticizzazione» dei conflitti sociali che si accompagna alla militarizzazione delle frontiere europee. Il rischio che si corre è che i tentativi di sfruttare politicamente questi episodi accelerino il processo in atto fino al punto che un giorno sarà impossibile fermarlo.
A suo parere in che modo l'opinione pubblica francese e internazionale hanno interpretato le rivolte?
In Francia, il tentativo di classificare i ribelli con categorie di tipo religioso come il «fondamentalista islamico» è fallito immediatamente. Dall'altra parte c'è chi segue la linea bonapartista di Sarkozy, che cerca di controllare questa popolazione accusando una sua parte di comunitarismo e dall'altra strumentalizzando i normali strumenti dell'espressione della vita democratica ricorrendo alla mediazione dei rappresentanti delle varie comunità. Altri hanno evidenziato il fallimento del modello repubblicano di integrazione e quello di rappresentanza politica a livello parlamentare e municipale. Questa linea è stata raccolta dalla stampa inglese e americana che ha interpretato questo fallimento come la fine dell'egualitarismo sociale che impone l'introduzione del riconoscimento delle appartenenze comunitarie in Francia. Non so se questo sia vero o falso, bisogna discuterne, ma credo che questi argomenti spostino l'attenzione dalle vere ragioni delle rivolte delle banlieue, che per me sono neo-coloniali.
Perché?
Nelle banlieue si concentrano la seconda e la terza generazione degli immigrati di origine nordafricana e africana che sono ipersensibili rispetto alle forme violente di stigmatizzazione che si esprimono nel controllo poliziesco quotidiano e combinano la discriminazione di classe con quella razzista di tipo neo-coloniale. Da parte loro, queste persone non hanno alcuna intenzione di rivendicare una «separatezza» culturale dalla società francese, non chiedono assolutamente la chiusura delle loro comunità contro la repubblica. Al contrario si appropriano del suo linguaggio e della sua ideologia per chiedere l'uguaglianza. Per questo le loro rivendicazioni non sono di tipo comunitario ma di tipo universalista.
Chiedono quindi una cittadinanza?
Proprio così, e non dico questo per rafforzare le tesi che ho sostenuto negli ultimi anni, ma perché esistono degli aspetti culturali e sociali della cittadinanza che sono inseparabili dalla cittadinanza intesa in senso moderno. In questo senso si può dire che le forme del repubblicanesimo borghese che sono tipiche in Francia hanno raggiunto il loro limite da tempo. La cittadinanza che la maggioranza della popolazione delle banlieue rivendica non è solo di tipo multiculturale, e nemmeno solo transnazionale, ma è una cittadinanza multi-livello che deve esprimersi a partire dal livello locale, poi su quello nazionale e anche su quello transnazionale. In questo senso è chiaro che oggi è in atto una rivendicazione di quello che definisco il droit de cité, cioè di quel processo di costruzione dal basso della cittadinanza. Ci sono anche altri aspetti della cittadinanza che non si possono ignorare, anche alla luce degli ultimi fatti. La cittadinanza si pone infatti all'incrocio con tradizioni istituzionali diverse: quella repubblicana dello stato che presuppone l'esistenza di un ordine pubblico e di un interesse comune e quella rivendicativa che punta sul progresso incessante della democrazia nella società. Oggi che quest'ultima tradizione è quasi del tutto esaurita visto che una parte della borghesia non ne ha più bisogno, rischiamo di mettere a morte una serie di diritti e di tradizioni acquisite in Europa.
Le rivolte possono allora essere considerate l'espressione di una lotta più generale contro l'apartheid metropolitano?
Personalmente evito di idealizzare una rivolta di tipo anarchico che incendia scuole, palazzi pubblici, e si scontra con la polizia. Sono convinto che questa sia una reazione che deriva da una serie di ragioni sociali, ma non la si può fare passare come il sintomo di una rivolta politica, antimperialista o anticapitalista. I giovani incendiari non rappresentano un'avanguardia, ma il momento rivelatore di una situazione nella quale milioni di persone vivono. Per questo non credo si possa parlare di un movimento, ma di una rivendicazione. E' invece molto importante dire che queste persone non sono affatto una parte isolata dalla popolazione che vive in banlieue. Anzi, mi sembra che esprimano lo stesso disagio in cui vive la grande maggioranza. In Europa c'è una lunga storia di rivolte contro i ghetti. Ciò che di nuovo c'è oggi è che quella attuale è la prima generazione che vive la contraddizione flagrante tra l'universalismo della cittadinanza che sancisce l'eguaglianza delle opportunità in cui sono cresciuti i suoi genitori immigrati, e la sordida realtà del razzismo istituzionale.
Quali allora le prospettive?
C'è la parola d'ordine di Gramsci, quella sul pessimismo della ragione e l'ottimismo della volontà, che mi spinge a pensare che in questa situazione astenersi sarebbe certamente peggiore che agire anche sbagliando. Spero che la maggioranza dei francesi si risvegli da questo incubo neo-coloniale. Bisogna assolutamente resistere al tentativo di criminalizzazione e di etnicizzazione compiuto dal governo che servono alla creazione del nemico di cui il sistema ha bisogno e possono essere usati contro l'eventuale politicizzazione della rivolta. Penso che oggi il problema principale sia, da una parte, quello di un rilancio della coscienza e della mobilitazione nelle banlieue per dare un'espressione politica a chi è sempre stato marginalizzato dal sistema politico. Dall'altra parte, i rappresentanti locali dei partiti di sinistra, insieme al tessuto delle associazioni, dei servizi municipali potrebbero avere un ruolo importante nel rilancio della controffensiva democratica. Questo rilancio della democrazia locale potrebbe avere una rilevanza nazionale in un paese fortemente centralista come la Francia. E' solo un'ipotesi, certo, ma se oggi un'iniziativa democratica non parte dal livello centrale, allora bisogna farlo dalle banlieue.
Corriere della Sera 23.11.05
La madre di Cogne rifiuta la perizia: meglio in galera da innocente. Ma la Corte andrà avanti comunque
La Franzoni: Samuele c’è, penso di avere tre figli
Cristina Marrone
«Guardo le fotografie di Samuele e penso che lui c’è: Io continuo a credere di avere tre figli». Annamaria Franzoni si è raccontata così a Mario Giordano, direttore di Studio aperto nel corso di un colloquio informale avvenuto pochi giorni prima l’inizio del processo d’appello. «Quando Davide mi chiede perché Samuele è andato in cielo io non so cosa rispondergli. (...) Poi scherza sulla sua taglia e sui giornali che ogni tanto le attribuiscono una nuova gravidanza: «Sono solo un po’ grassa, con tutto quello che mangio è ancora poco». Il giorno dopo la decisione della Corte d’assise d’appello di sottoporla a nuova perizia psichiatrica, Annamaria Franzoni non cambia idea e ribadisce di non volerne sapere: «Cosa dovei raccontare ai miei figli? Che sono stata assolta perché pazza? No, io voglio essere assolta perché sono innocente. Preferisco andare in galera innocente che sottopormi a perizia psichiatrica» ha confidato la mamma di Cogne agli amici.
Annamaria non si presenterà ai colloqui con gli psichiatri (...)
ricevuto da Paola Botta
Corriere della Sera 22.11.05
L'operazione è partita da una denuncia del Telefono Arcobaleno
Pedofili via web, perquisito istituto religioso
CATANIA - C'è anche un istituto religioso nel mirino della polizia postale di Catania e del nucleo investigativo telematico della procura di Siracusa che dall'alba stanno compiendo un'operazione contro la pedofilia e la pedopornografia via Internet.
«FUGA NEL WEB» - L' operazione, denominata «Fuga nel web», è coordinata dal procuratore aggiunto di Siracusa Giuseppe Toscano e dal sostituto Antonio Nicastro ed è scaturita da una denuncia dell'associazione Telefono Arcobaleno, l'associazione creata da don Fortunato Di Noto che dal 1996 si occupa della tutela dei bambini vittime di abusi sessuali.
SITO NASCOSTO - Le indagini hanno riguardato uno spazio web diverso dai tradizionali siti internet. I dettagli sono pochi, ma sembra trattarsi di un sistema "peer to peer" di tipo personale che offriva la possibilità di scaricare una copia del materiale. Un angolo remoto e nascosto della rete, ma condivisibile, dove, sostiene l' accusa, c' erano filmati con atti sessuali tra adulti e bimbi in tenera età, un archivio di indirizzi di siti internet pedopornografici corredato dalle relative password di accesso.
LE PERQUISIZIONI - Le perquisizioni sono eseguite nelle province di Milano, Bergamo, Brescia, Cremona, Lecco, Torino, Novara, Modena, Reggio Emilia, Genova, Padova, Verona, Ancona, Forlì, Bari, Cosenza, Catania. Fra gli indagati c' è anche una donna. Nell' inchiesta della Procura di Siracusa sono confluiti atti di fascicoli aperti dalla magistratura a Roma e Bologna.
LE DENUNCE - Telefono Arcobaleno svolge un monitoraggio costante della rete alla ricerca di siti utilizzati per lo scambio di materiale pedopornografico. Il fenomeno è particolarmente diffuso. Basti pensare che gli spazi web dedicati alle violenze sessuali sui minori denunciati alle autorità dai volontari dell'associazione sono stati 5 solo nelle ultime 24 ore, 151 nell'ultima settimana e ben 813 nell'ultimo mese. A Telefono Arcobaleno fa capo anche una linea telefonica per le segnalazioni di abusi che nell'ultimo mese ha ricevuto più di 150 chiamate.
La Stampa, 22.11.05
Più rispetto per le donne
di Chiara Saraceno
Sì, facciamo una bella commissione di indagine sull’aborto, composta tutta di pensosi parlamentari rigorosamente di sesso maschile, che dimostrino ancora una volta che le donne non solo, come dice Giovanardi, non si interessano di politica, ma anche sul loro terreno sono delle scioccherelle sventate e amorali. A differenza degli uomini, fanno sesso senza pensare alle conseguenze, e poi vanno lietamente ad abortire senza riflettere, valutare, interrogarsi. Se ne concluderà che, se proprio non si può cancellare la legge che consente l’interruzione volontaria di gravidanza, bisognerà mettere ulteriormente sotto tutela queste scioccherelle amorali, costringerle a riflettere. Perché da sole non ci arrivano e non hanno né senso di responsabilità né rispetto per la vita. Così, se chiederanno di abortire le si sottoporrà a consulenza obbligatoria da parte di volontari certificati come antiabortisti. E se nonostante tutto insisteranno, le si farà abortire non con il metodo più appropriato, ma con quello più doloroso. Se questo costerà di più alle casse della sanità, pazienza, purché le donne ricevano la lezione che meritano.
Mi sembra che dietro alle iniziative scomposte di questi giorni non ci sia tanto il rispetto per la vita, quanto il mancato rispetto per le donne: la loro capacità di decidere su di sé, di comportarsi come soggetti morali e raziocinanti. Come già nel dibattito sulla fecondazione assistita, ciò che sembra preoccupare è la libertà delle donne rispetto al proprio corpo, sessualità, capacità riproduttiva. C’è la nostalgia per un corpo femminile puramente contenitore: di embrioni da far diventare bambini, di desideri maschili di sessualità e paternità. Del desiderio, o non desiderio, di maternità poco interessa.
Poco importa che in questo rinnovato discorso pubblico sull’aborto e sul supposto cattivo funzionamento di una legge cui si arrivò tramite faticosi compromessi anche sulla libertà delle donne, si ignori che questa legge ha funzionato e funziona proprio nel contenimento del fenomeno. Gli aborti sono fortemente diminuiti e soprattutto sono diminuite le recidive, perché i consultori, i ginecologi, gli ospedali parlano con le donne che si presentano per chiedere il certificato che consente loro di abortire, danno loro informazioni e, in molti casi, cercano di seguirle anche dopo.
Anche chi chiede che nei consultori siano presenti obbligatoriamente volontari di associazioni antiabortiste è o disinformato o in malafede. Innanzitutto finge di ignorare che il settanta-ottanta per cento delle certificazioni è effettuato da ginecologi privati, non nei consultori. Questi ultimi sono frequentati, non solo per l’aborto, dalle donne più povere o senza risorse proprie: le giovani, le donne dei ceti più modesti, le immigrate. A queste ultime si deve peraltro una grossa quota degli aborti, resi spesso necessari da particolari condizioni di vita. Per queste donne il consultorio è spesso l’unico servizio medico accessibile, con funzioni di consulenza e orientamento cruciali, altro che un semplice luogo di certificazione per l’aborto. Anche se non sempre ci sono i soldi e i posti in organico per le necessarie figure di psicologi e mediatrici culturali. In secondo luogo, già ora la legge prevede la possibilità che associazioni volontarie stipulino convenzioni con i consultori per fornire servizi di consulenza alle donne che lo desiderano. Quale sarebbe dunque la novità? A meno che non si voglia rendere obbligatoria la consulenza di un’associazione antiabortista, con spregio del diritto di scelta e della privacy.
Certo, sarebbe meglio che le donne non arrivassero a dover decidere se abortire o no. Sarebbe meglio che le più giovani (e i loro compagni) ricevessero un’adeguata educazione sessuale e un accesso facile alla contraccezione sicura, che le donne non dovessero temere per il proprio lavoro o il proprio reddito se rimangono incinte, che le immigrate trovassero condizioni di vita decenti e non, come troppo spesso capita, l’alternativa tra prostituzione e badantato. Sarebbe bello che su questo si facesse una commissione d’indagine, o meglio ancora, delle politiche sensate. In attesa, per favore, più discrezione e più rispetto.