I neonati e lo sguardo degli adulti
Scoperte nuove prove dell'importanza degli occhi nelle interazioni sociali
Negli ultimi tre mesi del loro primo anno di vita, i neonati apprendono un compito estremamente importante per le interazioni sociali. Imparano infatti a seguire la direzione dello sguardo di un adulto, un passo che gli scienziati ritengono fondamentale per la comprensione del linguaggio.
Gli psicologi Rechele Brooks e Andrew Meltzoff dell'Università di Washington hanno determinato che questa fase dello sviluppo comincia più o meno nel decimo o nell'undicesimo mese di vita. Hanno inoltre scoperto che i neonati più abili a seguire lo sguardo altrui prima del loro primo compleanno sono anche in grado di comprendere un numero quasi doppio di parole una volta raggiunti i 18 mesi di età.
In un articolo pubblicato sulla rivista "Developmental Science", Brooks e Meltzoff riportano ulteriori prove dell'importanza degli occhi nelle interazioni sociali umane e descrivono l'utilizzo dello sguardo da parte dei neonati. Tre anni fa, i ricercatori avevano dimostrato che i bambini di 12-18 mesi guardano più facilmente verso un oggetto se un'altra persona si volgeva verso esso con gli occhi aperti anziché con gli occhi chiusi.
"I bambini - commenta Brooks - imparano presto a guardare nella direzione in cui guarda un adulto. Non è un compito facile, specialmente in casa, dove ci sono molte distrazioni. Abbiamo scoperto che a nove mesi i bambini cominciano a farlo seguendo il movimento della testa. A dieci-undici mesi, seguono sia la testa che gli occhi. Gli occhi aggiungono un'informazione importante, e i bambini seguono la testa più facilmente se gli occhi sono aperti".
Nel nuovo studio, gli psicologi hanno verificato la comprensione del linguaggio da parte dei bambini e l'hanno associata con la capacità di seguire lo sguardo degli adulti. I neonati che a 10-11 mesi di età erano in grado di seguire gli occhi dei ricercatori e di fare semplici vocalizzazioni, a 18 mesi di età comprendevano una media di 337 parole, contro una media di 195 parole degli altri.
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crimini cattolici
Corriere della Sera 21.11.05
Chiesa e pedofilia: il nuovo caso
Scandalo in Brasile, i diari dei preti pedofili
Denunce, arresti, 1.700 sacerdoti responsabili di cattiva condotta sessuale
Virginia Piccolillo
ROMA - «Il prete fa con me come un uomo fa con una donna. Mi toglie i vestiti, alza la tonaca, mi prende sulle sue ginocchia, mi dice di stare tranquillo...». È un bambino di dieci anni che parla. E rivela alla nonna quello che non aveva avuto il coraggio di dire alla madre per paura di «prendere schiaffi». O di «essere arrestato», come padre Edson Alves dos Santos, sacerdote brasiliano di 64 anni, gli aveva detto, dopo averlo violentato, che sarebbe accaduto se non avesse mantenuto il segreto. È solo una delle agghiaccianti denunce di atti di pedofilia compiuti da sacerdoti in Brasile e giunte drammaticamente all’attenzione del Vaticano. A una settimana dal caso clamoroso dell’arresto di padre Felix Barbosa Carreiro, un prete sorpreso in un’orgia di sesso e droga con 4 adolescenti adescati su Internet, il settimanale Istoè (Così è) ieri ha rivelato che il Papa, Benedetto XVI, ha inviato ai primi di settembre una commissione in Brasile per indagare sulle denunce di abusi sessuali compiute ai danni soprattutto di bambini poveri. In almeno due casi a testimoniare la veridicità dei racconti delle vittime sono gli stessi violentatori che hanno riportato le loro esperienze su un diario. Padre Tarcisio Tadeu Spricigo ha persino compilato le dieci regole per restare impuniti.
L’INCHIESTA - L’azione determinata di Benedetto XVI, prima di diventare pontefice a capo della congregazione per la dottrina delle fede e quindi responsabile delle indagini sui casi di abusi sessuali nella Chiesa, ha già portato alcuni risultati. Il periodico anticipa la relazione che gli inviati del Papa si apprestano a portare in Vaticano. Il quadro è allarmante. E descrive scenari purtroppo simili a quelli già accertati negli Stati Uniti, ma che stanno emergendo anche in inchieste delle chiese locali di altri Paesi come l’Inghilterra, la Francia, la Croazia e l’Irlanda. Un fenomeno che il Vaticano tenta di prevenire. Per il 29 novembre è atteso un documento che fornirà le linee guida ai seminari. Tra le indiscrezioni, l’esclusione dei ragazzi con tendenze omosessuali. Tuttavia le complicità di cui i sacerdoti responsabili di abusi a volte godono fa sì che, come nel caso di padre Tarcisio Tadeu Spricigo, in carcere per aver violentato un bimbo di 5 anni, tornino ad abusare di altri piccoli prima di essere arrestati. In Brasile oltre ai 10 sacerdoti in cella, ce ne sono 40 latitanti.
I NUMERI - Secondo Istoè, nell’inchiesta vaticana si parla di circa 1.700 preti, il 10 per cento del totale, coinvolti in casi di cattiva condotta sessuale: incluse le violenze su bambini e donne. Si dice che il 50% dei preti non mantiene il voto di castità. E che negli ultimi tre anni sono stati più di 200 i preti mandati in cliniche psicologiche della Chiesa per essere rieducati.
IL DIARIO - Agli atti del processo contro padre Tarcisio c’è un vero e proprio manuale del prete pedofilo e appunti sulle sue emozioni e le regole per restare impunito. Una fra tutte: «Mai avere una relazione con bambini ricchi». Scrive il prete: «Mi preparo per la caccia, mi guardo intorno con tranquillità perché ho i ragazzini che voglio senza problemi di carenze, perché sono il giovane più sicuro al mondo». «Piovono ragazzini sicuri affidabili e che sono sensuali e che custodiscono totale segreto, che sentono la mancanza del padre e vivono solo con la mamma, loro sono dappertutto. Basta solo uno sguardo clinico, agire con regole sicure». «Per questo sono sicuro e ho la calma. Non mi agito. Io sono un seduttore e, dopo aver applicato le regole correttamente, il ragazzino cadrà dritto dritto nella mia... saremo felici per sempre». E infine: «Dopo le sconfitte nel campo sessuale ho imparato la lezione! E questa è la mia più solenne scoperta: Dio perdona sempre ma la società mai». A consegnare il diario alla polizia è stata una suora, alla quale il sacerdote lo aveva dato per errore. Trasferito dopo la prima denuncia, il sacerdote ha violentato altri due bambini prima di essere catturato.
IL VIDEO - Padre Alfieri Edoardo Bompani, 45 anni, nella casa della campagna di San Paulo dove portava i bambini di strada, raccolti con la scusa di liberarli dalle droghe, registrava in un video le violenze praticate su vittime tra i 6 e i 10 anni. La polizia ha trovato anche appunti per racconti erotici che il prete stava scrivendo riportando esperienze personali. E un diario: il quinto, secondo la nota in copertina. «Da due giorni non mi faccio nessuno..., ieri mi sono masturbato due volte, una di queste con V (6 anni)». Il racconto del prete va avanti con espressioni di cruda violenza che non riteniamo di dover riportare.
IL VERBALE - Nelle carte della polizia di San Paulo c’è la storia di V.R.D, la vittima di Padre Edson Alves. Il giorno di Pasqua dell’anno scorso il bambino è stato ammesso a fare il chierichetto. Stavano per iniziare cinque mesi di violenze. «Circa tre settimane dopo che lui (il bambino ndr ) aveva dormito lì, il denunciato (il prete ndr )lo ha baciato in bocca.. e gli ha detto che un ragazzino di Santa Caterina glielo dava e lui regalava al bambino tutto quello che voleva».
Corriere della Sera 21.11.05
La richiesta del segretario dell'Udc Cesa
«Legge sull'aborto, serve una commissione»
Il ministro Storace: «Mi sembra una buona idea ma è meglio la difesa della vita». Capezzone: «Non prendiamoci in giro»
Margherita De Bac
ROMA - Un’inchiesta parlamentare per far luce in pochi mesi sull’attuazione della legge 194 sull’aborto. Piace al ministro Storace la proposta abbozzata ieri dal segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa. Il responsabile della Salute però aggiunge: «Deciderà Montecitorio. Visto che la fine della legislatura è alle porte sarebbe meglio un impegno a difesa della vita delle forze politiche del centrodestra nei programmi elettorali». Per verificare l’incisività della legge bastano forse i dati annuali raccolti dall’istituto superiore di sanità. Il verde Pecoraro Scanio attacca: «Propaganda sulla pelle delle donne». Daniele Capezzone, segretario dei Radicali, la pensa allo stesso modo: «Non scherziamo. Non c’è tempo. In 2-3 mesi di discussione tutto si ridurrebbe a propaganda». Oggi, al ministero, riunione tecnica su come realizzare la collaborazione nei consultori dei volontari del Movimento per la Vita, progetto rilanciato dal ministro e condiviso dal cardinale Ruini. Nati 30 anni fa, organi delle Asl, sulla carta centri di «assistenza alle famiglie e alla maternità», questi servizi nella pratica svolgono attività di prevenzione molto ridotta, disattendendo la legge, articolo 2. Luigi Cersosimo, presidente dell’associazione ginecologi dei consultori (Agico), ne rivendica l’utilità: «Il nostro vero problema sono l’alta percentuale di donne straniere e l’organizzazione. Spesso il direttore è uno psicologo, non un medico».
Storace ieri si è dedicato all’influenza aviaria, un incontro con i cittadini a Roma, insieme il sottosegretario Cesare Cursi e Domenico Gramazio, ex presidente dell’Agenzia di Sanità pubblica del Lazio: «La legge è stata approvata dal centrosinistra - ha accennato - che credo dovrebbe tenerne a cuore l’applicazione integrale, invece mi sembra vogliano farla a fettine. Inaccettabile. È un dovere dello Stato tutelare la vita che nasce, ma nel dibattito sulla pillola abortiva di tutto si parla tranne che dei bambini che muoiono».
Secondo Fabrizio Cicchitto, vice coordinatore di Fi, su aborto e pillola Ru 486 serve un confronto «responsabile e senza forzature. Perplessità suscita l’ipotesi di prevedere volontari antiabortisti». Luciano Violante, capogruppo ds alla Camera è polemico con Ruini: «La Chiesa è legittimata a parlare in materia di vita ma non a suggerire al governo italiano cosa deve fare nei consultori. Usare strutture pubbliche per finalità che riguardano una delle religioni non mi sembra sia giusto». Il ministro Buttiglione, Beni culturali, finge sorpresa: «I cattolici non hanno titolo per mettere piede nei consultori? Credevo fossero servizi pubblici...». Intanto nuovi dati su come abortiscono le donne italiane sono stati diffusi per il trentennale dei Centri di aiuto alla vita: il 92% degli interventi avviene in ospedale.
Il Comitato nazionale di bioetica affronta il tema dell’aiuto alle donne in gravidanza e depressione post partum in un documento di prossima discussione. Tra l’altro si invita a riflettere sull’attività di «consultori, operatori sociali, servizi ospedalieri di ginecologia e dei medici che incontrano la donna incinta. L’impostazione del colloquio non potrà trascurare il valore dell’accoglienza, manifestando un orientamento positivo». Spiega il presidente, Francesco D’Agostino: «L’aiuto in gravidanza è un valore etico che non contrasta col diritto all’aborto ma con chi pensa che l’aborto sia un fatto tecnico, neutrale».
Corriere della Sera 21.11.05
Capitalismo e comunismo
Ci vorrà molto tempo, forse un secolo, prima che la Cina abbia un governo democratico come quello americano. Ma questo non significa che, all’interno del suo sistema politico, non possa replicare i risultati del sistema politico americano
L’America ha bisogno di Pechino
L’Islam è sempre più diffidente verso l’Occidente ma può crescere prendendo il gigante asiatico come modello.
Kishore Mahbubani
La Cina odierna è come un dragone che si sveglia dopo secoli di letargo e si accorge che mentre dormiva molti hanno sconfinato nel suo territorio. Dopo tutto quel che le è successo negli ultimi due secoli, non sarebbe strano se si svegliasse con l’aspetto feroce del dragone cinese, invece la vediamo emergere come una nazione che non desidera avere un ruolo dirompente sulla scena mondiale. Questo è dovuto in parte alla consapevolezza di essere attualmente in una condizione di relativa debolezza. Ma è anche la conseguenza dell’aver creduto nella prospettiva manifestata dall’America dopo la Seconda guerra mondiale: che per poter crescere e prosperare le nazioni non debbano più seguire la strada delle conquiste militari, ma che siano il commercio e l’integrazione economica a portare con minor rischio al benessere e alla pace. La Cina ha, infatti, notato come Giappone e Germania si fossero riprese dalle rovine della Seconda guerra mondiale. L’America ha avuto effetti positivi enormi sulla Cina dal 1945 in poi, e sarebbe tragico se alla fine dovesse essere ricordata come il Paese che ha destabilizzato la regione, non avendo saputo affrontare la crescita della Cina. In Estremo Oriente non è così pronunciato quell’anti-americanismo che si è diffuso in tutto il mondo nei primi anni del Ventunesimo secolo: c’è ancora molta disponibilità, che potrebbe tuttavia venire compromessa da una politica poco accorta dell’America.
Uno degli aspetti più pericolosi della politica americana nei confronti della Cina risiede nell’opinione, assai diffusa tra i principali studiosi americani di questioni strategiche, che la Cina trarrebbe enormi benefici se si trasformasse in una democrazia, meglio se al più presto. Corollario naturale di quest’opinione è che qualsiasi cosa facciano gli Stati Uniti per piantare i semi della democrazia o permettere alle forze in favore della democrazia di emergere non potrebbe che essere positivo per la Cina. È quasi impossibile togliere questa convinzione dalla testa degli americani, perché si basa sull’assunto che l’America sia diventata la società più prospera della storia in quanto è la più democratica. Ciò potrebbe essere vero per l’America. Pur essendo probabilmente la più giovane tra le grandi potenze, gli studiosi americani credono che la loro ricetta politica sia una panacea universale. Se riuscissero a liberare la Cina dal governo dell’opprimente partito comunista, la Cina potrebbe crescere e prosperare. Non sorprende che Stati Uniti e Cina fossero arrivati a conclusioni quasi del tutto opposte sui reali effetti del crollo del partito comunista in Unione Sovietica. Gli americani se ne rallegrarono e si rallegrarono dell’arrivo di elezioni democratiche. E questo anche perché la minaccia delle armi nucleari sovietiche aveva gravato di grandi paure il loro subconscio per decenni. Parecchi amici americani m’hanno detto che dormivano molto meglio da quando i missili nucleari sovietici non erano più controllati dal partito comunista (anche se, ironicamente, il partito comunista sovietico aveva mantenuto un comportamento razionale e prevedibile per decenni). Si dava anche per scontato che la libertà avrebbe senz’altro migliorato le condizioni di vita dei russi. Pochi americani notarono il declino dell’economia russa, il rapido impoverimento di milioni di persone e il notevole calo dei principali indici del benessere sociale ed economico, tra cui la durata della vita e la mortalità infantile. I cittadini russi, invece, se ne accorsero eccome. D’altro canto, guardando alla Russia dei primi anni Novanta, ai cinesi tornarono in mente i dolorosi decenni da loro vissuti all’inizio del Ventesimo secolo, quando corruzione e anarchia erano endemiche. I leader cinesi tremarono al pensiero che ciò potesse accadere da loro. In effetti, il pericolo più temuto dai pensatori politici cinesi è sempre stato il caos, «Luan». Dopo quel che era successo in Russia, la leadership cinese (e probabilmente gran parte dell’élite) arrivò alla conclusione che il partito comunista fosse necessario almeno per un altro decennio.
È praticamente impossibile convincere gli americani che il governo del partito comunista cinese (quello sorto dopo che Den Xiaoping lanciò la modernizzazione della Cina) possa andare bene per la Cina, per l’America e per il mondo. Che l’amministrazione di un partito comunista funzioni è per gli americani una contraddizione in termini. Seguire rigidamente un’ideologia rende ciechi. Nell’ultimo decennio gli americano hanno mantenuto la stessa opinione sul partito comunista al potere in Cina e non si sono accorti delle sue notevoli trasformazioni. Sulla carta sembra lo stesso animale politico, ma in realtà è radicalmente cambiato. Oggi è composto probabilmente dalle migliori menti cinesi che abbiano mai lavorato in un governo. La Cina non era mai riuscita in precedenza a mettere insieme un’élite così sofisticata per amministrare gli affari dello Stato. Molti di loro hanno per esempio studiato all’estero. Nel trattare con le nazioni straniere, soprattutto con il mondo occidentale, potrebbe sembrare più logico che la Cina abbandoni la finzione di essere governata da un partito comunista. Oggi la Cina è un Paese più capitalista che comunista. All’inizio degli anni Ottanta, quando mi recai in Cina per la prima volta, entrando nelle stanze d’albergo trovavo sempre in qualche cassetto un libricino rosso con le massime di Mao, un po’ come negli alberghi occidentali si trova la Bibbia. Un decennio dopo, all’inizio degli anni Novanta, il libricino rosso era stato sostituito da opuscoli in carta patinata che spiegavano agli ospiti perché dovevano investire in quella particolare provincia o città.
Tra le città e le province cinesi era scoppiata una concorrenza feroce per attrarre investimenti privati: la Cina era diventata un paradiso per i capitalisti in visita, che godevano dell’enorme competizione messa in atto per accaparrarsi i loro investimenti. In effetti, se le iniziali «Pcc» stessero per «Partito Capitalista Cinese», invece di «Partito Comunista Cinese», descriverebbero meglio la politica economica del partito al governo. Ci vorrà molto tempo, forse un secolo o più, prima che la Cina abbia un governo democratico come quello americano. Ma questo non significa che, all’interno del suo sistema politico, non possa replicare i risultati del sistema politico americano. I mezzi saranno diversi. Il Pcc seguirà il sistema di Harvard invece di quello del Caucus dello Iowa. Ma se il Pcc stabilirà una serie di norme severe e disciplinate, favorirà una cultura d’impresa sana e metterà le persone giuste ad attuare i processi di selezione, riuscirà con ogni probabilità a creare un’élite colta, valida e dinamica come quella americana. Anzi, visto l’attuale stato di frustrazione in cui si trovano parecchi uffici pubblici in America per l’impossibilità di pagare salari competitivi rispetto al settore privato, è possibile che molti funzionari cinesi che fanno lo stesso lavoro delle loro controparti americane siano più dotati e capaci (anche se la Cina ha ancora molta strada da percorrere prima di raggiungere la ricchezza di talenti delle maggiori istituzioni americane).
L’America ha bisogno dell’aiuto della Cina nelle assemblee del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Quando si rivolse al Consiglio di sicurezza dell’Onu, parecchi mesi dopo l’inizio della guerra, per cercare una legittimazione all’occupazione e al governo dell’Iraq, il Consiglio di sicurezza gliela accordò unanimemente con la Risoluzione numero 1511. L’approvazione di questa risoluzione fu preceduta da molte giravolte diplomatiche, in cui la Cina ebbe un ruolo importante a sostegno dell’America, molto apprezzato da Washington. Il problema della Corea del Nord è politicamente complesso e ha molte sfaccettature. Ma quando l’America decise che la denuclearizzazione della penisola coreana dovesse essere una priorità nazionale, si trovò a dover dipendere in un certo qual modo dalla Cina. E la Cina ha tutto l’interesse perché questo genere di dipendenza aumenti e non diminuisca. Dando aiuto all’America, riesce a trattenerla dall’esercitare pressioni in aree in cui la Cina è a sua volta politicamente vulnerabile. L’Iraq e la Corea del Nord sono importanti, ma non quanto un altro grande problema in cui la Cina potrebbe essere di vitale importanza per gli interessi americani. In quest’area il suo sostegno potrebbe raggiungere proporzioni metafisiche: si tratta delle relazioni con il mondo islamico. Poiché tra gli americani e l’Islam il divario si sta facendo sempre più profondo (nonostante le pretese di amicizia con qualche governo islamico), l’America non potrebbe, oggi, essere vista come un agente positivo di cambiamento. Il mondo islamico è diventato molto diffidente verso l’America.
Al contrario, esso non nutre sospetti nei confronti della Cina. La modernizzazione della Cina potrebbe avere una forte influenza sul mondo islamico. Molti studiosi islamici sono restii a considerare l’Occidente un modello da emulare (anche se in privato ammettono spesso di dover seguire l’Occidente nell’istruzione, nelle scienze e nella tecnologia). Questi stessi studiosi islamici non avrebbero invece alcuna esitazione a prendere ad esempio la Cina. La crescita della Cina potrebbe rappresentare un raggio di speranza per il mondo islamico, e gli studiosi islamici potrebbero andare a Pechino a imparare dai cinesi, come hanno fatto nei secoli passati. Una delle più famose massime del profeta Maometto dice: «Cercate la conoscenza, fosse anche fino in Cina. Questo è il dovere di ogni musulmano ». Uno dei punti di forza dell’America è il suo spirito pragmatico. Ma questo pragmatismo si manifesta soprattutto nel lavoro quotidiano, a un microlivello. Gli americani dovrebbero cercare di usare il loro pragmatismo a un livello più alto. Invece di considerare la crescita cinese come una minaccia per l’America e i suoi interessi di lungo periodo, dovrebbero considerare la possibilità che possa avere un effetto catalitico positivo sul resto della popolazione mondiale, soprattutto sul mondo islamico. Una Cina in crescita potrebbe non corrispondere agli immediati interessi geopolitici americani. Ma una Cina prospera, che offre speranza almondo islamico, soprattutto quando gli Stati Uniti non hanno più questo ruolo, soddisferebbe l’interesse americano in una comunità mondiale pacifica. I politici americani saranno abbastanza saggi da capirlo? E il sistema politico americano sarà abbastanza sofisticato da trovare un equilibrio tra gli interessi a breve termine e quelli a lungo termine? Questo è il genere di domande che ilmondo si fa sull’America.
Corriere della Sera 21.11.05
Pensatori quasi tutti maschi e in fuga dal matrimonio
A.To.
Pierre Riffard, professore all’Université des Antilles et de la Guyane, ha scritto un agile saggio intitolato I filosofi: vita intima . Tradotto in italiano per Raffaello Cortina (pagine 296, 22) con una prefazione di Maurizio Ferraris, il libro ricorda che quasi tutti i pensatori sono maschi (99%), che il 69% è rimasto orfano da piccolo, che il 70% ha snobbato la vita coniugale. Su un campione di 224 personalità di rilievo, l’autore nota che il 43,7% faceva l’insegnante, il 20,9% era un religioso, il 9,3% un politico, il 4,9% non aveva una professione, il 4% era medico, l’1,7% militare, lo 0,8% artigiano (come Spinoza). E come vivevano? Socrate era mantenuto e così sostanzialmente Marx (da Engels e dallo zio Philips, quello delle future lampadine), Platone e Schopenhauer erano ricchi, Agostino e Tommaso d’Aquino religiosi, Rousseau faceva il copista di musica, Kant, Hegel e Heidegger avevano uno stipendio da professore, Nietzsche ebbe una pensione anticipata. Infine, Aristotele scrisse la sua prima opera a 19 anni, Leibniz a 17, Kant, Cartesio ed Hegel a 22, Sartre a 31, Heidegger a 24. Tra essi il 51,5% era cristiano, il 27,1% senza religione, il 19,5% pagano.
La Stampa 21.11.05
Televisione. La tragedia è diventata un palcoscenico mediatico
A Cogne la fabbrica dell’audience
Paolo Martini
C’è la psicanalista Giuliana Kantzà che si esibisce, proustiana come la mamma di «Lessico famigliare», in un: «ah, la petite phrase!», sempre nell’ultimo «Matrix» da 26 e rotti per cento di spettatori. C’è il professor Ugo Fornari, il dissidente silenzioso del collegio dei periti che dichiarò sana di mente la povera Franzoni: in un convegno ad Aversa sui mass-media e i delitti, Fornari il criminologo-tabù viene annunciato come relatore in materia di deontologia ed etica subito dopo il collega-prezzemolo televisivo Francesco Bruno. E ci sono persino gli emuli di Antonio Scurati, lo scrittore vincitore del Campiello che è diventato il nuovo eroe del movimento autonomo Vespicida: valga per tutti l’ esempio di Daniele Capezzone a «Markette», che annuncia un congresso radicale parodia della puntata tipo di «Porta a Porta» su Cogne.
Ecco dunque che si anima anche con l’ingresso in scena di nuovi personaggi, il Secondo Grado Mediatico del processo Franzoni, che si tiene in parallelo con l’Appello giudiziario presso la Corte di Torino, e ovviamente lo sovrasta. Le nuove figure, buone forse anche per evitare lo sfinimento da Discorso Unico Nazionale, non sono rivoluzionarie fino a rompere la regola dell’Interdetto: insomma, rispettando la teoria del filosofo della conoscenza Michel Foucault, sono pur sempre preti e dottori, giornalisti e investigatori, politici e professori, perché è vero che poi tutti parlano di tutto quel che riguarda il delitto di Cogne, però la scena mediatica è regolata da filtri molto funzionali. Ma anche all’interno del perfetto ordine del discorso, si può notare una caratteristica comune un po’ eversiva di questi nuovi attori in scena: è come se ci fosse una nuova genia di «cattivi Cognati» che entrano nella grande famiglia dei dibattenti sul delitto di Cogne. In sostanza, tra coloro che si mettono in luce attraverso la mediatizzazione del caso, arrivando tardi e in seconda battuta, molti oggi lo fanno con una forte accentuazione in negativo.
ARRIVANO I PRETI. E’ come se avesse preso decisamente il sopravvento la Dissimulazione. In fondo, l’inevitabile e legittimo caposcuola è sempre Taormina, professore di diritto e anche di retorica repulsiva contro «l’enfatizzazione e l’interferenza del circuito mass-mediatico», come ha ripetuto puntualmente anche all’ultimo «Matrix». Mentana stesso, per esempio, aveva annunciato il proposito di inventare una trasmissione «insolita e imprevedibile» rispetto a quella di Bruno Vespa e perciò aveva indotto i più grandi critici, come l’insigne Aldo Grasso del «Corriere della Sera», all’elogio da titolone: «Niente plastici di Cogne e la seconda serata ringiovanisce di vent’anni». Trovandosi poi a dover fare i conti con una realtà concorrenziale durissima, e a cambiare scelte optando subito per il modello ormai classico di Vespa, è puntualmente arrivato allo snodo di Cogne. Persino Irene Pivetti, nella sua controversa nuova vita televisiva, ha voluto provare una volta il brivido di sfidare l’Auditel allestendo a mo’ di giallo un suo fantomatico «Ritorno a Cogne», con tanto di confessione del marito di Annamaria.
La puntata di «Matrix», comunque, ha visto Mentana fino all’1 e 23 di venerdì notte nello sforzo di apparire diverso, più freddo e meno «cinico» rispetto al modello Vespa-Cogne: così Mentana si è inventato persino «il prete sbiancante», perfetto per condannare in diretta la totale assenza di pietà del rito stesso, riconvertendo all’uopo una bella figura milanese di sacerdote degli emarginati, come don Gino Rigoldi, uno che in genere entra più nelle carceri che negli studi tv e riesce a parlare di Dio persino con Paolo Rossi. Ben più immanente ormai al caso Cogne di don Rigoldi è l’altro nuovo prete, don Marco, parroco di Ripoli Santa Cristina, il paese dove vive ora la famiglia Lorenzi. Dal giorno della condanna, don Marco entra in scena e si batte alla testa dei comitati Giustizia per Annamaria, ha steso lui persino il libricino di guida al processo, compare nel nuovo video come aiuto regista di Giacomino ed è stato da poco riconsacrato sull’altare televisivo da Vespa, in occasione dell’apertura dell’Appello su Raiuno.
IL PENTIMENTO DEI CRIMINOLOGI. Straordinario anche l’esordio in grande stile come «cattiva Cognata» della psicanalista-femminilista Kantzà: i suoi occhialini gandhiani rossocerchiati fanno un perfetto pendant con i maglioncini iper-cromatici di Paolo Crepet, lo psichiatra più invitato da Vespa. La Kantzà aveva già fatto capolino sulla scena mediatica con il libro «Come uccidono le donne» presentato con l’onorevole psichiatra Alessandro Meluzzi al Salone del Libro. Da Mentana è andata persino a pescare in un caso analogo, di poco antecedente Cogne, la «petite phrase», la piccola frase che inchioderebbe la Franzoni: «Voglio fare un altro figlio subito». Rifiutandosi di discutere con Taormina, mantenendosi sofisticata e austera, ha fatto centro in una sola apparizione: non avrà poi bisogno di giustificarsi a mezzo stampa, come ha sempre fatto Crepet, ribaltando l’accusa d’ipocrisia addosso a chi contesta gli eccessi mediatici sul processo. In questa posizione diciamo così da triplo salto mortale è ormai quasi l’intera categoria degli psichiatri forensi e dei criminologi, che hanno conosciuto grazie al caso televisivo e giornalistico di Cogne una notorietà enorme, oltretutto in parallelo con la moda mondiale dei telefilm genere Csi e di molta della letteratura internazionale di largo consumo.
Con singolare coincidenza di date, periti del processo come Fornari e criminologi che furono da plastico di Vespa, come Francesco Bruno, che ultimamente è parso invece quasi polemico col conduttore di «Porta a Porta», hanno annunciato di riunirsi a convegno con tutti gli esimi colleghi ad Aversa in questi giorni per discutere, guardacaso, del problema dei media. Relazione d’apertura in programma, «I Risvolti Mediatici del caso Cogne» e a seguire chi più ne ha, più ne metta. Il professor Natale Fusaro ha posto a epigrafe della sua relazione addirittura un frammento di Nietzsche che la dice lunga sul grado di autostima tra gli addetti ai lavori della criminologia psichiatrica e giudiziaria, e sul predominio attuale appunto della Dissimulazione. «Chiunque combatte con i mostri», è la citazione testuale, «deve fare attenzione a non diventare a sua volta un mostro: perché se guarderai a lungo nell’abisso, infine anche l’abisso guarderà in te». Non a caso, nello stesso convegno è stato analizzato anche il successo del modello del film «Il silenzio degli innocenti». Infine, con una sorprendente relazione di Giancarlo Rivoli e Liliana Lorettu vengono messi all’indice gli «errori emotivi» e deontologici dei colleghi che vanno in tv. Questo genere di «esibizione pubblicitaria» viene bollato come «fantapsichiatria» e se ne teorizzano finalmente persino «gli aspetti psicopatologici più profondi». Come suggerire: questo sì, che sarebbe un bel tema di una trasmissione, psico-analizzare i Bruno, i Crepet e le Kantzà invece delle Franzoni…
l'Unità 21.11.05
Da Porta Pia a Ruini, la lunga storia degli sconfinamenti tra Chiesa e Stato
di Wladimiro Settimelli
Un sogno, un sogno in realtà mai compiutamente realizzato. Libera Chiesa in libero Stato, l’antico assioma liberale e laico, rimasto quasi sempre una speranza, o se volete un «pio desiderio». Nonostante sia sempre, ogni giorno di più, un antico e reale bisogno della società italiana, già costretta a dover superare, soprattutto oggi, momenti difficilissimi, sia dal punto di vista politico che economico. Il potere non spirituale della Chiesa (quello politico per intenderci) è ancora immenso e, tanto per essere razionali, l’influenza dei Vescovi pesa, eccome, su ogni decisione piccola e grande che riguarda la vita quotidiana. Nessuno, sia chiaro, vuole chiudere la bocca a Santa romana Chiesa che ha tutto il diritto di parlare e di imporre ai credenti una specifica morale, un modo di vita, scelte rigorose in un senso e nell’altro. Ma ai non credenti? Per i praticanti delle altre religioni, per gli agnostici, i miscredenti, gli atei che hanno uguale diritto di cittadinanza, quale spazio viene lasciato dalla Chiesa cattolica romana? Poco, pochissimo.
La storia comincia nel 1870 quando i «piemontesi» o gli «italiani» scesero a Roma, sull’onda dei moti risorgimetali e spinti dalle idee di Garibaldi, Mazzini e Cavour si attestarono presso Porta Pia, per poi aprire la celeberrima «breccia». La fine del potere temporale della Chiesa, fu un insulto imperdonabile per il Papa e per la nobiltà nera che, in città e provincia, era padrona di tutto. Ci vorranno anni e anni per risolvere la «questione romana» e permettere così, ai cattolici, di partecipare a pieno titolo alla vita politica dello Stato unitario, fondando il Partito popolare di don Sturzo e, nel secondo dopoguerra, la Democrazia Cristiana.
Nel frattempo, il Vaticano non ha mai cessato di interferire, consigliare, proporre, intervenire, chiedere e ottenere. Dallo Stato, per essere chiari. Alla fine ebbe il Concordato di mussoliniana memoria, dopo che i fascisti avevano già deciso di intervenire contro l’Azione cattolica e contro alcuni sacerdoti che si erano schierati con i socialisti e il mondo del lavoro, rimettendoci la vita. Così Mussolini divenne anche «l’uomo della Provvidenza». In precedenza - è vero - la Chiesa, nel corso della guerra ’15-’18, si era scagliata contro «l’inutile strage» e in alcuni documenti importanti era stata chiesta più giustizia sociale per il mondo del lavoro. Ma, subito dopo, era nata la nuova paura: quella del socialismo e poi del comunismo. C’era insomma, per le gerarchie vaticane, un nemico ben più importante del «modernismo» e del «laicismo»: il pericolo «rosso». Fu quello, in realtà, l’elemento unificante in mille diverse situazioni (appoggio al colonialismo, invasioni etc...) in particolare in Asia e in Africa e nell’America del Sud. Per dirla con semplicità tra i preti operai francesi e i padroni, la Chiesa ufficiale, nel secondo dopoguerra, scelse sempre i padroni e benedisse sempre gli occupanti europei o americani in Algeria, Iraq, Vietnam, Cuba e nelle piantagioni della Colombia e del Messico. Questo non significa che gli onesti padri Comboniani, i francescani o le Suore della Carità, non abbiano aiutato, singolarmente e a titolo personale con grandi sacrifici e rischi, i poveri e i derelitti del mondo.
In Italia è nell’immediato secondo dopoguerra che la Chiesa torna a interferire, orientare e condannare. Il cinema neorealista viene censurato, vengono messi all’indice tutta una serie di libri e tanti personaggi che, agli occhi di Santa romana Chiesa, «favoriscono il peccato», inducono i giovani ad allontarsi dalla fede e le donne a «fare mercimonio del proprio corpo». Spesso, sempre più spesso, non si tratta di pareri morali per i credenti, ma sempre più ordini sommessi al potere statale che è in mano alla Dc, almeno formalmente il partito dei cattolici italiani. Eppure Togliatti e i comunisti, con il celeberrimo «articolo 7», hanno voluto evitare ogni assurda guerra di religione.
Alcuni sacerdoti si ribellano (don Mazzi, don Franzoni, don Milani... ) ma il Vaticano va avanti per la sua strada e nel 1947 arriva il celeberrimo decreto del Santo Uffizio che pesò sulla politica italiana come un macigno: la Chiesa di Pio XII scomunicò i comunisti e affermò che persino chi leggeva la stampa vicina al Pci veniva considerato apostata e scomunicato e, dunque, non poteva ricevere i sacramenti. E chi può dimenticare, durante le elezioni politiche, l’azione dei Comitati civici di Luigi Gedda che operarono in funzione antisinistra nelle piazze e nelle parrocchie, con metodi ricattatori ?
Il 12 agosto ’56 tocca a monsignor Pietro Fiordelli, vescovo di Prato. Saputo del matrimonio civile di due battezzati, Mauro Bellandi e Loriana Nunziati, fa affiggere sulle porte di tutte le chiese un avviso in cui i due vengono indicati come «pubblici concubini». Il fatto suscita uno scandalo enorme. I due giovani sposi querelano il vescovo e vincono la causa. Da quel giorno le parrocchie di mezza Italia vengono invitate a suonare le campane, in certe ore, in segno di protesta.
Come scrive Sergio Romano, nel suo recentissimo Libera Chiesa. Libero Stato? l’Italia della seconda metà degli anni Cinquanta somiglia più alla Spagna di Franco e al Portogallo di Salazar che non alla Francia.
Certo, con il Concilio Vaticano II e Papa Roncalli, molte cose cambiano, ma nelle grandi battaglie civili la Chiesa è sempre schierata su posizioni conservatrici e reazionarie. Ma l’Italia sta cambiando a tutta velocità e la Chiesa perde anche la sacrosanta battaglia per il divorzio, nonostante la mobilitazione generale. Nel 1970, il divorzio, appunto, diventa legge. Certo, Dc e Chiesa non si arrendono e perdono anche il referendum popolare di 4 anni dopo per l’abrograzione della legge. È chiaro a questo punto che i cattolici, sul divorzio, sono molto più avanti della Chiesa. Medesima situazione per l’aborto e stesso tipo di sconfitta per gli ambienti cattolici piu duri e conservatori. Nel 1984, con Craxi presidente del Consiglio, il Concordato viene rinnovato e viene adottato, per le spese della Chiesa, il famoso «8 per mille», al posto della «congrua» che lo Stato pagava ai sacerdoti. Insomma la Chiesa rinuncia a qualcosa avendo finalmente compreso che i tempi sono cambiati.
Certo, nel mondo della Finanza, il Vaticano continua a fare il bello e il cattivo tempo, coinvolgendo banche e cittadini italiani e, alla fine, lo Stato. Era accaduto, dopo la prima grande guerra, con il Banco di Roma, nel 1948 con il caso di monsignor Cippico che aveva promesso a tutta una serie di personaggi esportazione di capitali attraverso lo Ior ed eludendo la legge. Poi era venuto alla luce lo scandalo del «banchiere di Dio», tal Giovanni Battista Giuffrè. Infine, il caso di Roberto Calvi, l’amministratore delegato dell’Ambrosiano che, insieme a monsignor Marcinkus e allo Ior (la banca vaticana), aveva lasciato un «buco» di 1400 milioni di dollari, in parte rimborsato dallo Stato italiano.
Storie del passato? Mica tanto. Ora,il cardinale Ruini chiede che volontari cattolici antiabortisti siano presenti nei consultori. Forse si può dire che stia per iniziare davvero l’attacco alla 194: ancora una volta una legge dello Stato.
l'Unità 21.11.05
Il volo breve di Michelstaedter
di Folco Portinari
I TACCUINI dello scrittore goriziano, morto suicida con un colpo di revolver nel 1910. Aveva 23 anni. Una parabola fulminea e un’unica «vera» opera: la tesi di laurea in filosofia. Eppure, il giovane Carlo aveva capito molto, quasi tutto, del secolo nuovoViviamo ormai nella civiltà dell’oblio. Siamo inconsciamente sbarcati, come Odisseo, sulla costa dei Lotofagi. Dai sessantenni in giù, chi ricorda la prima metà del Novecento artistico-letterario, che fu tanto ricca di proposte innovatrici, di stimoli intellettuali rivoluzionari? Chi ricorda il Mussolini socialista massimalista, chi ricorda il «Rex» se non Fellini e a modo suo, metaforico, chi fu Boine, cosa la Voce, la Ronda, Solaria, e Cecchi o Marinetti, se non per gli addetti ai lavori (e non tutti)? Chi ricorda infine Carlo Michelstaedter, morto suicida a 23 anni nel 1910, che solo per questo fatto dovrebbe eccitare l’interesse e la curiosità giovanile?
Qualcuno può ribattermi che la bibliografia della critica su Michelstaedter è ampia (?), anche con interventi recenti, che Adelphi ne ha intrapreso l’edizione di tutte (poche pour cause) le opere, che l’editore Aragno ne ha pubblicato taccuini e appunti sotto il titolo Sfugge la vita, con l’impegnatissima cura filologica di Angela Michelis. È vero, però l’orto frequentato resta specialistico. È altresì vero che ci troviamo di fronte a uno scrittore «difficile», di ardua lettura come di ardua concettualità, e questo va messo in conto assieme a una certa marginalità storico-geografica che lo ha tenuto ai confini.
In questa breve nota parlerò dei taccuini (tutto Michelstaedter è inedito e pubblicato solo dopo la morte). Per chi voglia saperne di più rimando invece alla inevitabile e magistrale monografia del 1967 di Marco Cerruti, presente come postfatore pure di Sfugge la vita. Ma la prima considerazione è che è pressoché impossibile sottrarsi alle induzioni biografiche, un po’ come per tutti i giuliani o triestini di quella generazione e delle successive: essere cioè nato a Gorizia nel 1883 (lo stesso anno di Saba), in una zona di confine etnico carica di tensioni, l’appartenere a un’agiata famiglia borghese ebrea (la madre morirà ad Auschwitz), essere cittadino dell’impero absburgico, l’avere studiato matematica a Vienna e filosofia a Firenze, fors’anche l’essere bello e sportivo.
Su cosa si fonda la sua fama? Su un unico lavoro organico, la tesi di laurea in filosofia, dal titolo pieno di sollecitazioni nell’apparente alternativa proposta, La persuasione e la retorica, che sono i termini imposti dalla cultura moderna postnietzschiana o pre-esistenzialista, dove la sospensione, l’enigma e lo scacco si insinuano in ogni spazio disponibile allo svolgimento filosofico. Sotto l’ala però di Platone e Aristotele e di una diffusa conoscenza della cultura greca classica. «So che io voglio e non ho cosa io voglia» è un incipit poetico che ci introduce in un terreno disagevole anche dal punto di vista della complessità di lettura (perché difficile è la realtà in sé), in cui si confrontano l’autenticità e l’inautenticità, dalla diversità alla fine congiunti, identificati nel nulla del non autentico. È l'angoscioso scacco. Un procedere inquieto nel secolo nuovo, come inquieti sono gli altri percorsi, finché il 17 ottobre 1910 «si uccise con un colpo di revolver che gli oltrepassò le tempie, questo era lunedì alle due dopopranzo», come scrisse l’amico Nino Paternolli. In un’esistenza generalmente dominata dalla contraddizione: la contraddizione tra pulsioni e speculazione e verifica, tra anelito e scacco, egli la risolse con la morte, sì come concetto bensì come atto. Tiro giù un saggio del 1922 di Giacomo Debenedetti comparso su Primo tempo e leggo: «La posizione staccata che egli prende in riguardo al mondo delle forme e delle apparenze più sensibili, gli dà una veggenza complessa e tentacolare del rapporto tra i fenomeni che salgono alla superficie e gli strati più profondi dalla coscienza; dove un flutto vitale travolge nel suo decorso torbido e primordiale gli elementi del dolore cosmico».
Filosofo, allora? Rimango perplesso, di fronte al suo «filosofare» che non persegue un «sistema», perplesso di fronte a una personalità che direi polisemica, che invia segni non univoci ma che al termine del percorso trovano un gesto e in quello un loro denominatore comune. Che non è concettuale o speculativo. È stilistico, cioè poetico. So che la mia è una lettura faziosa, da letterato, ma credo che sia improbabile sfuggirvi tanto si impone. Anche con questi frammenti e taccuini che ci offrono materiale ulteriore per decifrare un’opera di mole contenuta. E ci vedo subito le stigmate territoriali, le medesime con le quali dovettero fare i calcoli Saba e pure Slataper, i problemi linguistici che diventano in lui presto totali. Così, come Slataper, anche Michelstaedter va a fare un bagno in Arno, a Firenze, quella della Voce e lì, volendolo catalogare, finiremmo per collocarlo. Per ragione di stile; e i problemi territoriali che Saba spiattella abbastanza esplicitamente sono nella sostanza i medesimi, e nella linea genealogica italiana troviamo Carducci piuttosto di Pascoli, un Carducci riconosciuto come grande prosatore (e penso a una recensione entusiasta del Piacere dannunziano pubblicata in appendice dal Cerruti a suo tempo, o dove si parla dell’estetica eroica del superuomo Stelio Effrena del Fuoco, senza per questo ritrovare d’Annunzio nelle poesie, che sono l’altro momento della sua lezione di stile, forse la più resistente)... Vociano come certo Papini, come Rebora, come Campana, ma un vociano absburgico come Slataper. I santi protettori sono individuabili nella tradizione nordica moderna, Schopenhauer e Nietzsche (per saltare ai classici greci) e Ibsen (quello che stimola Slataper) e Rilke e la Neue Sachlichkeit e la Secessione. Ciò significa che l’opera letteraria di Michelstaedter va integrata per complementarità con quella pittorica, della quale il volume dei taccuini ci dà una bella documentazione (perché adesso e qui ricordo il pittore Victor Hugo?).
Cosa mi colpisce nella qualità della poesia? Innanzitutto l’intonazione alta, lo slancio, proprio, «in maggiore» sorretto dalla prosodia, dal predominio dell’endecasillabo e da una lingua del «sublime». Eppure spigoloso, aspro lo stile, come si conviene a un discorso che verte e svaria attorno al tema della morte. Allora mi riguardo Munch, non tanto quello dei quadri, ma il Munch delle xilografie, quando il grido perenne esplode ed è silenzioso al tempo stesso: è il medesimo slancio che si espande, sfidando enfasi e sentimentalità, dalla più alta lirica romantica tedesca, da Novalis e da Holderlin in giù. Ed è lo stesso che regola lo stile aspro e spigoloso della Persuasione e la rettorica, lo stesso che si ritrova in questi «taccuini e appunti».
l'Unità 21.11.05
Parlare di etica sui banchi di scuola
Luigi Cancrini
Sono un'insegnante e mi sento spesso in difficoltà, in classe, quando le ragazze (e i ragazzi) mi chiedono un parere su questioni che oggi vengono definite «etiche». In tema di aborto e di pillola oggi in sperimentazione, per esempio, l'aver cercato di usare il linguaggio «scientifico» dei fatti e delle leggi oggi vigenti mi ha messo nelle condizioni di essere definita una «comunista senza rispetto per la vita» da genitori probabilmente un po’ primitivi ma probabilmente in buona fede. Che dobbiamo insegnare o testimoniare ai ragazzi che crescono, oggi?L’esperienza che lei propone come insegnante è estremamente chiara. Quello con cui ci stiamo di nuovo confrontando, all'interno di quella che dovrebbe essere una società laica, basata sulla tolleranza e sullo scambio libero delle differenti opinioni, sulla libertà del culto e degli atteggiamenti politici, è un modo di nuovo estremo (io lo chiamo border line) di proporre le proprie idee. Identificando sé stessi con il bene e l'altro con il male, rinunciando alle mediazioni e alle sfumature. Ritraendosi spaventati, in fondo, dall'avventura della complessità. Rinunciando ad avere un pensiero proprio, basato sulla concretezza della propria esperienza di essere umano ed allineandosi sulle parole d'ordine di quelli che stanno diventando, a tutti gli effetti dei superiori «gerarchici».
Lettera firmata
La trappola in cui si cade cedendo a questa tentazione nel caso particolare dell'aborto è subito evidente a chi di questa cosa si occupa. Quello che si dimentica inevitabilmente quando ci si muove sul linee estreme ed opposte, infatti, è il caso particolare, la vicenda umana del singolo coinvolto in battaglie di principio che non danno soluzione ai suoi problemi di persona. Che lo condizionano così profondamente da impedirgli di riflettere seriamente sulle scelte che sta facendo. Come a me è accaduto di verificare tante e ormai troppe volte nel momento in cui la persona che sta male viene a chiedere aiuto perché troppo alto è diventato il prezzo da pagare alla sua incapacità di prendere decisioni davvero autonome. Su due fronti che possono apparire a prima vista, all'interno delle semplificazioni eccessive su cui ci si muove oggi, due fronti opposti e che opposti sono solo in apparenza, tuttavia, se fino in fondo si riflette sulla complessità del significato che dovremo riconoscere alla parola libertà e alle dichiarazioni sulla necessità di assicurare che libere siano davvero le persone nel momento in cui fanno scelte così importanti come quelle legate alla nascita di un figlio.
Comincio dall'esempio più difficile, quello legato al modo in cui i messaggi sulla libertà di abortire sono stati proposti e intesi come messaggi che riguardano solo la donna e non la coppia. «L'utero è mio ed io sono quella che decido» impiegato come slogan di tante posizioni femministe più radicali corrispondeva davvero sempre ad un'affermazione di libertà? L'impressione proposta in una situazione come quella del mio lavoro è stata spesso molto diversa. Strumento di scontro o di ricerca nel rapporto con l'altro, con l'uomo amato o odiato, la decisione di abortire o di non abortire aveva spesso un evidente significato relazionale. Il fatto che la donna è l'uomo non se ne rendessero conto, tuttavia, nel momento in cui la decisione andava comunque presa era almeno altrettanto evidente. Proponendo un dubbio serio sull'effettiva libertà della loro scelta perché la nostra libertà è limitata spesso più dall'interno che dall'esterno e perché le scelte fatte da persone che non sono sufficientemente libere dalla violenza delle loro emozioni meno consapevoli hanno ricadute pesanti su tutti. Sulla donna che alla fine le prende, sull'uomo e, quando la scelta è contro l'aborto, sul bambino. Difficile davvero per me capire, sulla base di queste esperienze, il perché di una contrarietà tanto forte in tante persone di sinistra, alla presenza obbligatoria, nel consultorio, di psicologi e psicoterapeuti capaci di costruire relazioni significative con persone che, se lo chiedono, hanno il diritto di essere aiutate a guardarsi dentro, possibilmente insieme, nel momento in cui debbono prendere decisioni che sono definitive e gravide di conseguenze. Sottovalutare la complessità necessaria di questi passaggi sostenendo che questi sarebbero modi di ostacolare le scelte delle donne a me sembra francamente sbagliato nella misura in cui non tiene conto del fatto per cui il lavoro psicologico e psicoterapeutico hanno come finalità fondamentale quella di aiutare le persone ad essere più libere. Prendendo in considerazione, accanto a quelli esterni, i condizionamenti interni della persona.
Sull'altro fronte, terribile mi è sembrato più volte il modo in cui alcuni gruppi (a volte delle vere e proprie «sette») basati sul fondamentalismo senza grandi meriti di quelli che a me sembrano sempre cattolici che non hanno letto o capito e il Vangelo di Gesù, determinano danni drammatici e a volte irreparabili a persone che si sentono obbligate ad obbedire a dei dogmi invece che alla loro capacità di ragionare. Il fatto che posizioni di questo tipo siano oggi cavalcate da uomini importanti come Ruini e da tanti leaders politici è la prova più evidente, in fondo, di quell'imbarbarimento del costume generale di cui parlavo all'inizio. Quello su cui si dovrebbe riflettere un po' di più, tuttavia, sono i casi spaventosi dei bambini che vengono al mondo senza che nessuno davvero li voglia, i «malvenus» di Martha Robert, destinati a restare simbolo e luogo di contraddizione e di conflitto fra le persone o le tribù che li hanno generati e destinati, nello stesso tempo, a rovinare la vita di chi senza volerli davvero ha deciso di doverli volere. Parlavamo nel 1978, discutendo le leggi regionali alternative delle norme sull'aborto, di procreazione responsabile. D'accordo tutti, comunisti e cattolici, destra e sinistra, sul fatto per cui quello che doveva essere evitato era lo sviluppo delle situazioni in cui le coppie sono costrette a fare questo tipo di scelte. Quelle che sono mancate da allora sono essenzialmente due cose: l'accettazione da parte della Chiesa di un discorso serio sulla possibilità di separare la sessualità e l'amore fra uomo e donna, di cui la sessualità è una componente essenziale, dalla procreazione e l'accettazione, da parte di tutti, dell'idea per cui la libertà del singolo non ha e non deve avere nulla a che vedere, mai, con le ideologie.
Liberation.fr lundi 21 novembre 2005
Quatre chercheurs débattent pour «Libération» de ces trois semaines de violence.
Quelle crise des banlieues?
Par Pierre ROSANVALLON et Jean-Pierre LE GOFF et Emmanuel TODD et Eric MAURIN
Pierre RosanvallonCommencer par essayer de comprendre, puis tenter une explication du phénomène inédit de trois semaines d'émeutes dans les banlieues: c'est ce qu'a proposé Libération à quatre universitaires et essayistes réputés pour l'acuité de leur regard sur les fractures de la société, à l'occasion d'une table ronde organisée le 14 novembre (avant l'intervention télévisée du Président). Jean-Pierre Le Goff, Eric Maurin, Pierre Rosanvallon et Emmanuel Todd se livrent à une confrontation qui s'enrichit de leurs approches plurielles d'une question qui les préoccupe tous: la crise du modèle républicain. Le débat est animé par Eric Aeschimann et Jean-Michel Helvig.
Titulaire de la chaire d'histoire moderne et contemporaine du politique au Collège de France. Dernier ouvrage paru : le Modèle politique français, la société française contre le jacobinisme, de 1789 à nos jours (Seuil).
Jean-Pierre Le Goff
Sociologue, il anime le club Politique autrement. Dernier ouvrage paru: la Démocratie post-totalitaire (La Découverte).
Emmanuel Todd
démographe à l'Institut national d'études démographiques (Ined). Dernier ouvrage paru: Après l'empire, essai sur la décomposition du système américain (Gallimard).
Eric Maurin
Chercheur au Groupe de recherche en économie et statistique (Grecsta, CNRS). Dernier ouvrage paru : le Ghetto français, enquête sur le séparatisme social (Seuil).
Mouvement politique ou révolte nihiliste ?
Pierre ROSANVALLON. Il y a trois niveaux de compréhension à articuler. D'abord, la matérialité des événements eux-mêmes (scènes de révolte et de violence), ensuite la situation sociale générale des banlieues, enfin le malaise français. Les événements sont liés aux actions de gens très jeunes, actions très violentes et sans signification en elles-mêmes. Mais on peut se demander si le terme de nihilisme est adapté pour qualifier le mouvement actuel. Celui-ci, à coup sûr, se caractérise par l'absence de parole et provient d'un milieu qui a lui-même du mal à prendre la parole. Les violences remplacent en quelque sorte la prise de parole, à l'inverse de mai 1968. Il n'y a aucune prise de parole, sinon via la chanson et le rap. C'est le monde entier de la banlieue qui, en général, ne prend pas la parole et ceux qui parlent le font sur le mode de la violence. Le silence social de cette population est plus largement lié à la difficulté générale de la société française à se comprendre et à parler d'elle-même. Dès lors, nous sommes face à un emboîtage de silences: silences infrapolitiques (comment demander une conscience politique à des jeunes de 17 ans?), silence social du milieu et silence social de la société française. Les grands événements que nous avons vécus, comme le non au référendum, sont aussi des formes de silence qui s'expriment. Ils ne sont pas une prise de parole, mais un enfoncement et un engoncement dans la difficulté à parler et à parler de soi. Le malaise français est en ce sens l'expression d'un vide, d'une difficulté à se projeter positivement dans l'avenir, d'une absence d'horizon.
Jean-Pierre LE GOFF. Il convient de délimiter précisément ce dont nous parlons: les nuits de violence dans les banlieues ne sont pas un «mouvement» et ne reflètent pas la vie de la majorité des habitants. La révolte des bandes de jeunes minoritaires est, pour le moins, infrapolitique, même si elle a des répercussions politiques. Les habitants des banlieues se posent une question que nous devons oser aborder: qu'est-ce que ces jeunes ont dans la tête? Se heurter à cette réalité oblige à se décentrer: il existe une véritable difficulté de langage qui colle aux pulsions, et des passages à l'acte. A mon avis, avec ces nuits de violence, nous avons affaire à un type de vandalisme qui déconcerte les schémas militants. Il condense de façon paroxystique et très violente le problème du chômage et celui de la désaffiliation, c'est-à-dire la déstructuration familiale (que l'on appelle pudiquement «familles monoparentales»), mais aussi celui de la déstructuration de l'appartenance de classe et à la Nation. Dans les années 30, même si l'on était pauvre et victime du chômage, on était inséré dans des collectifs et capable de canaliser sa révolte. Ce n'est pas vraiment le cas aujourd'hui pour ces bandes de jeunes qui détruisent les écoles de leur quartier, les bus, les voitures de leurs voisins... Avant de s'interroger sur les conditions qui ont rendu possible ce phénomène, il faut le regarder en face, à l'instar des animateurs sociaux qui sont en première ligne depuis des années. Il est temps que la gauche rompe avec le déni de la réalité et l'angélisme.
Emmanuel TODD. La France vit, comme la plupart des sociétés développées, une montée des inégalités qui va au-delà des données économiques objectives. La société est véritablement travaillée par la montée de nouvelles valeurs sociales inégalitaires, associées à une nouvelle forme d'individualisme. Dans un pays comme la France, ce qui passe assez bien aux Etats-Unis se heurte à un fond anthropologique qui contient une forte composante égalitaire. Cette valeur entre en réaction avec la montée de la valeur inégalitaire. Cela explique les réactions successives des divers groupes sociaux qui mélangent ces deux valeurs. Aujourd'hui, nous avons à faire à des jeunes de banlieue ils ont, en moyenne, 17 ans. Il faut les comparer aux lycéens des années 70 plutôt qu'aux ouvriers qualifiés du Parti communiste de la grande époque. La valeur égalitaire apparaît très clairement. J'ai travaillé sur les différences de situation des émigrés en Europe et aux Etats-Unis. Il apparaît que la situation française est très spécifique, mélange de déstructuration de la famille originelle maghrébine ou africaine par l'intégration des valeurs françaises, avec une importance assez forte des mariages mixtes. La rage des banlieues est une réaction de protestation qui, pour moi, est égalitaire. A cet égard, ces jeunes sont parfaitement assimilés en termes de valeurs politiques. Et l'histoire enseigne qu'il n'y a pas de révolte sans espoir.
Eric MAURIN. Il faut bien voir ce qu'est la conscience sociale des jeunes quittant l'école à 17 ans, qu'ils aient ou non participé aux violences. Ils ont en commun une expérience particulièrement dure et marquante, celle de la relégation, puis de la disqualification scolaire au collège. Le point de départ de mai 1968, c'était la révolte des recalés des classes moyennes face à la fermeture du véritable enseignement supérieur aux enfants des classes moyennes. Aujourd'hui, tout a changé: c'est la grande difficulté des enfants des classes populaires face au collège et au lycée qui est en cause. Cette difficulté dérive en partie de l'extrême précarité des conditions de logement et d'existence des enfants des familles pauvres. Ce n'est pas un problème que l'Education nationale peut régler seule. Les politiques du logement n'ont pas fait reculer les problèmes de surpeuplement qui touchent près du quart des enfants et sont une cause majeure d'échec à l'adolescence. Les politiques urbaines n'ont pas non plus fait reculer la ségrégation territoriale. Les enfants pauvres vivent aujourd'hui dans des quartiers où le taux de pauvreté est quatre fois plus élevé qu'ailleurs. Or il est extrêmement difficile d'adopter ne serait-ce qu'une attitude positive vis-à-vis de l'école quand on grandit entouré de camarades en échec.
Jean-Pierre LE GOFF. La différence est nette par rapport à 68 ou aux luttes des lycéens des années 70, par exemple. Les enragés de 68 passaient par le festival de la parole, ils s'inscrivaient dans un héritage rebelle et n'étaient pas dans une logique victimaire et de ghetto. On cherche toujours à ramener à tout prix le nouveau dans des cadres anciens, comme pour se rassurer. Formateur dans les banlieues dans les années 80, j'étais déjà déconcerté à l'époque par un phénomène que je ne pouvais pas maîtriser: l'image dépréciative de soi qui habitait une partie de ces jeunes et qui s'exprimait par une agressivité et une agitation constantes. Le défi auquel nous avons affaire n'est pas aisé à relever. Le chômage et les perspectives d'avenir sont centraux, bien sûr, mais il y a une désocialisation dont il importe de prendre la mesure. Ces jeunes minoritaires qui se livrent à des violences sont autocentrés et en rage, ils mêlent désespoir et nihilisme. Cette destruction des quartiers dans lesquels ils vivent est une logique d'autodestruction. Le problème ne se résoudra pas par la proclamation des principes et des bonnes intentions.
Pierre ROSANVALLON. C'est la longue histoire du social. Dans Les Misérables, Victor Hugo opposait émeute et insurrection. L'émeute est le moment chaotique de la destruction. L'insurrection, au contraire, est le moment qui projette politiquement dans l'avenir un groupe qui a conscience de lui-même et qui veut construire quelque chose.
Eric MAURIN. C'est la division au sein des classes populaires qui rend cela possible. Il n'y a pas une classe populaire en général. Les jeunes hommes sans formation issus des classes populaires savent que leur avenir n'est plus celui de leurs pères, dans les métiers de l'industrie, mais dans les nouveaux emplois du commerce et des services. Ces nouveaux emplois sont beaucoup moins masculins que ceux de leurs pères, et il y a sans doute un désarroi proprement masculin dans la jeunesse des classes populaires aujourd'hui. S'il n'y a pas de prise de parole, c'est aussi qu'une prise de parole entrerait en contradiction avec les valeurs désormais dominantes. Dans l'économie de service, on valorise la capacité à se singulariser et à épouser les singularités locales du client. Les valeurs auxquelles sont sommés d'adhérer les jeunes entrants sur le marché du travail sont celles de la réussite par la singularité individuelle. Ces valeurs sont antinomiques de celles qui pourraient donner du ciment à une parole collective.
Emmanuel TODD. Quand j'ai vu des voitures brûler, j'étais agacé. Quand j'ai vu des autobus brûler, j'ai commencé à être franchement énervé. Quand j'ai vu des maternelles brûler, j'ai commencé à déprimer. Pour autant, la référence aux Misérables montre le risque d'en revenir aux thématiques du XIXe siècle, de passer de la notion de révolte à celle de délinquance, de voir les classes laborieuses comme des classes dangereuses. J'y vois la régression de notre univers mental. On essaie de transformer les victimes en coupables sociaux. Pour ma part, des événements de ces dernières semaines, j'ai surtout retenu des jeunes qui, loin d'être privés de parole, activaient fortement le principe de liberté et d'égalité et réagissaient d'abord à une agression verbale du ministre de l'Intérieur qui les avait insultés, se comportant lui-même comme un voyou de banlieue. Nous ne sommes pas ici dans un cas de nihilisme, d'irrationalité ou de violence gratuite. Au reste, face à ce mouvement, un gouvernement de droite a plié: les subventions en faveur des associations de quartier ont été rétablies, la politique du tout sécuritaire est en cours d'abandon en tout cas, je l'espère. Tout cela pourra être décrit comme un phénomène cohérent du point de vue historique.
Pierre ROSANVALLON. Ce que l'on appelle les banlieues, c'est le territoire sur lequel se cumule tout un ensemble de dysfonctionnements et de problèmes. Il ne faut pas oublier qu'en même temps que cette grande rébellion dans les banlieues, il existe des conflits extrêmement classiques: le conflit des traminots de Marseille ou celui de la SNCM [Société nationale Corse-Méditerrannée, ndlr]. Le problème de la société française est qu'elle est prise entre ses archaïsmes et les implosions de la société contemporaine. Ce qui n'est pas le cas dans de nombreux autres pays. Il existe, à cet égard, un véritable problème de corps intermédiaires. La France se trouve entre des systèmes de représentation archaïques qui ne fonctionnent plus et une absence de systèmes de représentation modernes. Ce qui se traduit à la fois par la montée du Front national et par les conflits à l'ancienne. Tel est le malaise français.
Emmanuel TODD. Il y a un «effet Nouvelle-Orléans». La situation des jeunes issus de l'immigration fait partie du problème, évidemment. Toutefois, si l'on reste à l'intérieur du cadre d'analyse français, je crains que l'on ne voie pas tout ce que la situation actuelle doit à la culture française. Le département de la Seine-Saint-Denis est un lieu chargé d'histoire. Il abrite la basilique avec le tombeau des rois de France. C'est le coeur du Parti communiste, etc. Or l'on ne voit que des gosses bronzés. Dans d'autres pays, les Arabes et les Noirs se caillasseraient les uns les autres. En France, ils sont ensemble pour caillasser la police. Bien entendu, il est question de déstructuration du milieu, de chômage, d'échec scolaire ou d'explosion de la famille maghrébine ou africaine. Mais les valeurs françaises sont là. Ce mouvement est très français. Il est au coeur de la culture française.
Eric MAURIN. Oui, cependant il faut rappeler que l'échec scolaire précoce est lui-même un phénomène très français. Nous sommes l'un des rares pays en Europe à avoir gardé le redoublement au primaire et au collège comme principal outil de gestion de la diversité des élèves. Quiconque travaille avec des spécialistes étrangers est frappé par ceci: l'institution scolaire française est, plus qu'ailleurs, une institution de tri.
Un nouveau symptôme de la crise française?
Pierre ROSANVALLON. Les événements que nous venons de vivre s'inscrivent dans une longue série de thromboses françaises qui ne commencent pas en 2005 avec le non au référendum, ni même en 2002 avec le premier tour de l'élection présidentielle, mais bien avant. Les signes avant-coureurs ont été nombreux, dans les banlieues elles-mêmes, et aussi aux niveaux politique et social. Il faudrait ainsi inclure le mouvement de 1995 dans la compréhension de ces thromboses françaises, qui sont de nature différente et que l'on peut ranger en trois grands types: 1) des thromboses sociales, marquées par une sorte d'archéoradicalisme ; 2) des thromboses politiques liées à la non-réalisation de la promesse républicaine ; 3) des thromboses purement politiciennes affectant le système des placements entre partis et le problème du gouvernement représentatif. Il faut considérer ensemble ces trois types de problèmes. Or, depuis une dizaine d'années, on avance que toutes les difficultés proviennent de l'écart croissant entre le peuple et les élites. Il me semble que ce qui se passe aujourd'hui montre que cette analyse n'est pas pertinente. L'opposition peuple/élite est une façon paresseuse, lointaine et grossière, d'appréhender ce qui se passe. L'idée qu'il existe une coupure sociale est fondamentale. Néanmoins, l'événement vient de plus loin, du modèle politique français et du modèle économique également au sens le plus général du terme, la façon d'organiser la production.
Eric MAURIN. La spécificité du vote du premier tour de l'élection présidentielle du 21 avril 2002 fut d'être un vote très dur, souvent extrême, non pas du salariat le plus modeste mais d'une frange relativement qualifiée du salariat modeste (contremaîtres, ouvriers qualifiés de l'industrie, techniciens). Pour moi, ce vote était l'expression de menaces très radicales pesant sur cette fraction menacée dans ses statuts par la désindustrialisation. Le référendum sur la Constitution européenne s'est inscrit un peu dans cette continuité. Une des différences entre Maastricht et le traité constitutionnel, c'est ainsi que des fractions relativement modestes des classes moyennes du privé n'ont pas suivi la droite parlementaire, initiatrice du référendum sur la Constitution, et ont voté contre leur famille naturelle. De ce point de vue, ce sont bien les classes moyennes du privé qui, manquant à l'appel, ont rendu le non du référendum si fort. Aujourd'hui, il n'existe pas un seul salariat modeste, une seule classe moyenne, mais plusieurs, confrontés à des menaces et à des univers différents. La classe ouvrière, autrefois dominante, perd du terrain au regard d'un nouveau prolétariat des services, complètement éclaté, peinant à trouver son identité professionnelle. Les seuls débouchés pour les jeunes sans formation des milieux populaires sont désormais dans ce prolétariat. A mon sens, la crise des banlieues fait aussi émerger sur la scène politique le problème de la désocialisation croissante du salariat modeste.
Emmanuel TODD. Je suis, moi aussi, dans l'hypothèse d'une continuité de plusieurs processus négatifs. A chaque fois, ce sont des groupes sociaux différents qui sont le vecteur principal ou le porteur de la crise. Dans le vote Front national de 2002, ce sont plutôt les milieux populaires. Là où les ouvriers américains partiraient au chômage en se sentant coupables, les ouvriers français continuent de voter, en apportant leurs voix au Front national. En 2005, lors du référendum sur la Constitution européenne, c'est le secteur d'Etat qui a été porteur du non, avec l'affirmation de la doctrine obsessionnelle du «servicepublisme», qui marque la volonté des classes moyennes liées à l'Etat de se défendre en bloquant la construction d'un embryon d'Etat européen sur la base de valeurs qui ne sont plus égalitaires. Il s'agit de défendre une position ultra protectionniste pour soi-même. La révolte des banlieues introduit un troisième groupe : celui des jeunes immigrés. Il existe un capitalisme globalisé qui produit partout une montée des inégalités. Dans chaque pays, la cible principale sera le segment le plus faible de la population. En France, ce sont les habitants des quartiers en difficulté et plus encore leurs enfants. Pour ce qui est des phénomènes d'écrasement des jeunes générations, rien ne permet d'imaginer un apaisement de la tension. Avec la globalisation et la montée en puissance de la Chine et de l'Inde, la pression sur les jeunes d'origine immigrée et sur les milieux populaires français ne fera que s'accentuer. Au reste, d'après ce que l'on peut savoir de l'origine des interpellés lors des incidents récents, j'ai l'impression que le mécanisme de division ethnique s'atténue déjà au niveau de la jeunesse des milieux populaires, du moins dans certaines régions.
Jean-Pierre LE GOFF. Le modèle républicain implique un modèle idéal d'égalité et de citoyenneté qui ne coïncide jamais complètement avec les faits, mais ce caractère d'idéalité lui confère sa dynamique et il a su, au cours de l'histoire, passer des compromis. Ce modèle s'appuie sur une certaine morale du travail, sur une culture commune liée à notre histoire, sur l'idée de promotion sociale... Ces points clés sont en panne. La question est de savoir comment les relancer plutôt que de dire que notre modèle a échoué et de passer rapidement à un autre modèle de type anglo-saxon, qui n'a pas d'ancrage solide dans notre tradition et qui montre aussi ses limites. Concernant les élites, je ne vois pas en quoi c'est être populiste que de constater l'écart existant entre le peuple et les élites: cet écart est devenu un véritable divorce. Les élites de l'après-guerre étaient issues de la Résistance. Dans leur parcours de vie et leur parcours professionnel, elles étaient amenées à rencontrer d'autres catégories sociales. Il faut s'interroger sur ce qu'il advient aujourd'hui dans les domaines de la formation, de l'habitat. On a affaire à un cloisonnement social fort, et l'idée d'éducation populaire retrouve aujourd'hui toute son importance.
La fin du modèle républicain ?
Pierre ROSANVALLON. L'histoire du XIXe siècle est celle de l'intégration des campagnes, des territoires et des classes ouvrières. On fait des paysans des Français. On fait de l'ouvrier désocialisé un membre de la classe ouvrière qui fait la guerre de 1914. Aujourd'hui, la société française paie très cher le fait qu'elle a absolument raté la décolonisation. Nous payons, quarante ans après, le fait qu'il y a eu des sous-citoyens. En Algérie, il y avait les citoyens indigènes et les citoyens nationaux. La question de l'appartenance citoyenne n'a pas été réglée par les textes. Ce n'est pas simplement l'idéologie égalitaire juridique qui permet de la régler. La République n'a pas intégré la classe ouvrière juste avec le bulletin de vote, mais aussi avec l'Etat providence, l'armée ou certains événements fondateurs. Il ne suffit pas de dire que les gens issus de l'immigration ont le droit de vote. Les formes nécessaires de reconnaissance, d'intégration et de prises de pouvoir n'existent pas. Il y a un échec historique de long terme de la société française, qui a été masqué par l'idéologie républicaine et qui nous explose aujourd'hui au visage. Or, on constate le retour en force de deux grandes idéologies: l'idéologie autoritaire et l'idéologie républicaine. Pour cette dernière, le droit peut et suffit à tout produire: obligeons tous les sujets de droit à reconnaître qu'ils sont des sujets de fait. Il faut commencer par critiquer sévèrement ce retour de l'idéologie autoritaire et ce développement du républicanisme abstrait.
Emmanuel TODD. Les valeurs de fond sont toujours là. Le fond culturel aussi. Cela pourrait marcher. Même les élites et la police sont restées correctes vis-à-vis des émeutiers, qui ont été considérés comme des enfants de notre pays. Il serait relativement aisé de réactiver le vieux système français. Toutefois, la France n'est plus à l'échelle des processus économiques, même si, le plus souvent, on refuse de le voir. Si l'on veut changer les règles, il faut changer d'échelle. La France ne peut pas sortir toute seule de la globalisation. Le moulin à prières républicain tourne à vide. Le modèle républicain est devenu idéologie dominante. Les hommes politiques n'osent plus dire que l'on ne peut plus trouver de solutions économiques à l'échelle du pays et le mot république est, le plus souvent, devenu un mot codé pour nation. Les élites de la nation laissent beau jeu au rêve régressif républicain en refusant de concevoir à l'échelle européenne les instruments de régulation du libéralisme. En somme, malgré leur opposition, le dogme républicain et le dogme libéral commencent à fonctionner comme un couple qui agirait de concert pour entériner le statu quo.
Eric MAURIN. Je ne suis pas d'accord. Une partie des problèmes est spécifique à la France et pourrait être réglée par les politiques nationales. Les inégalités de statut dans l'emploi, par exemple, sont particulièrement fortes en France. L'essentiel de l'ajustement de l'emploi porte sur l'insertion des jeunes au sortir de l'école. La société française est organisée autour d'inégalités statutaires, tout en arborant le langage de l'égalité. Cette donnée est spécifique à notre équation nationale et pourrait évoluer. Les éléments du malaise français n'ont pas tous à voir avec la mondialisation.
Jean-Pierre LE GOFF. La perte de volonté politique sur l'économie est un facteur important de la coupure avec les couches populaires. Les politiques donnent à l'opinion l'image d'une impuissance fondamentale. On a vu, avec les régimes communistes, les méfaits de l'économie administrée. Néanmoins, par un curieux renversement, beaucoup se sont mis à croire aux bienfaits mécaniques de la mondialisation et du libre-échangisme. Pour ma part, je suis favorable à un néoprotectionnisme européen renforcé. Les Etats-Unis n'ont aucun scrupule en la matière. Les politiques ont tenu en même temps des discours incohérents et en divorce avec la pratique. Je pense à François Mitterrand et à son tournant non assumé de la politique économique en 1983: «Nous avons changé de politique sans en changer vraiment.» Je pense à Jacques Chirac, qui s'est fait élire sur le thème de la «fracture sociale». «Langue de caoutchouc» et pouvoir informe sont des éléments clés du désarroi de la société. Si Nicolas Sarkozy a du succès dans l'opinion, c'est parce qu'avec la façon qu'on lui connaît, il donne l'image d'un homme politique qui tient un discours fort et cohérent. En même temps, il est en train de faire glisser le modèle républicain vers autre chose, à l'encontre de la culture politique française. Avec la discrimination positive envers les minorités «visibles», il ouvre la boîte de Pandore en aggravant la généralisation de la suspicion de discrimination et de racisme dans les rapports sociaux, l'hypertrophie des plaintes et des droits. C'est du pain bénit pour l'extrême droite.
Pierre ROSANVALLON. Si l'idée républicaine peut devenir une réalité quotidienne, oui. Cependant, il ne faut pas que l'idéologie soit un frein à la pratique. La décision de Sciences-Po de recruter des élèves dans les ZEP ne concerne qu'une dizaine d'étudiants. Elle a pourtant donné lieu à un flot de réflexions théoriques hors de proportions. En France, une théorie générale de la République empêche des mini-expériences pratiques. Aujourd'hui, la République ne fonctionne pas comme une incitation à imaginer des pratiques courageuses, mais comme une espèce d'idéologie disqualifiante et qui est une excuse pour ne pas agir.
Eric MAURIN. Il y a des discriminations une fois que les personnes sont constituées. Mais il y a surtout des inégalités dans les processus de constitution des personnes. En France, les tentatives pour réduire ces inégalités de fond (comme les ZEP) sont aujourd'hui remises en question comme n'ayant pas porté leurs fruits, alors qu'elles n'ont, en fait, pas été appliquées. L'enveloppe globale destinée aux ZEP est relativement faible. Une fois saupoudré sur 15 % des élèves, le surcroît d'effort éducatif par élève devient dérisoire. Sans compter que ce sont les enseignants les moins expérimentés qui se retrouvent le plus souvent en première ligne. Aux Pays-Bas, une école n'est pas aidée en fonction de son territoire, mais du public qui, effectivement, la fréquente, et le surcroît d'effort par enfant d'immigré va du simple au double. Nous avons du mal à passer à l'acte.
Emmanuel TODD. Il faut faire attention aux comparaisons internationales. Les Pays-Bas sont très inquiets de constater que les enfants d'immigrés ne parlent pas néerlandais. Toute situation n'est pas comparable. Il faut traiter les problèmes français de façon ouverte en quittant le rêve de se débarrasser de la culture française.
Eric MAURIN. Je n'ai pas le sentiment de quitter le rêve de la culture française en suggérant, par exemple, de conditionner les ressources des écoles au nombre d'enfants exemptés de payer la cantine.
Jean-Pierre LE GOFF. La question de la discrimination positive dans le domaine économico-social et scolaire mérite débat. Faisons attention aux effets de ghettoïsation. Tirons les leçons des ZEP. Il ne suffit pas de donner de l'argent, il faut trouver des formes nouvelles de rencontre entre les différentes catégories sociales. Mais avec la formule des «minorités visibles», on est en train de passer à une autre approche: la discrimination positive selon l'ethnie ou la couleur de peau! Enfin, concernant l'Europe et la nation, je pense que l'Europe ne fonctionne pas comme un cadre d'identification, en particulier dans les banlieues. La gauche a trop rapidement mis de côté la question nationale et celle de l'articulation entre l'Europe et la nation. Je crois à une Europe où les nations restent un socle premier d'identification.
Pierre ROSANVALLON. Il existe un fort décalage structurel entre les idéologies et les pratiques politiques, sociales et économiques, qui, seules, apporteront des solutions. En dix ans, 50 milliards d'euros ont été dépensés dans les zones urbaines sensibles, une somme absolument considérable, mais qui a été dépensée pour des structures, jamais pour des programmes et des personnes. Si l'on donnait à 100 lycées ou collèges des enveloppes permettant de retenir les meilleurs moyens, on aurait peut-être des résultats différents. Je crois qu'il n'existe pas de solutions identiques et générales. A investissement égal, les politiques de la ville en France ont produit moins d'effets qu'aux Etats-Unis, où il y a eu plus d'investissements sur des projets et des petites expériences locales. L'exemple des banlieues montre que les grandes réformes uniformisatrices et gérées du sommet ne permettent pas de trouver des solutions. Il faut favoriser des moyens décentralisés, mis en oeuvre par les acteurs eux-mêmes, recréer des pôles de prise de parole et d'initiative. Combien d'associations de mères sont-elles aujourd'hui subventionnées? Combien de crèches associatives existent dans les quartiers? Ce n'est pas la surimpression d'un Etat plus puissant face à un individu désocialisé qui sera la solution. Nous avons là l'exemple le plus criant d'une mauvaise gestion d'un certain type de services publics.
Jean-Pierre LE GOFF. Le problème initial est celui de l'impuissance des politiques face à l'économique. Cela fait trente ans que nous sommes dans une situation de chômage de masse. Le problème n'est pas simplement économique et social. Dans sa dimension anthropologique, le travail est l'une des conditions indispensables pour retrouver l'estime de soi: il est un élément décisif de confrontation avec le réel, de l'apprentissage de la limite. Le discours généreux de la citoyenneté coupée du travail est une impasse. Les associations dites citoyennes sont devenues des accompagnatrices sociales du chômage de masse.
Pierre ROSANVALLON. La gauche a été internationaliste pendant plus d'un siècle, par définition. Dans les années 80, elle a ressenti le moment de redonner une importance à l'idée de nation. Toutefois, il ne faudrait pas que le mot nation devienne le seul horizon producteur d'intégration, de citoyenneté et d'égalité. Le problème de la France n'est tout de même pas d'être trop multiculturelle et d'avoir des victimes au pouvoir! Ne projetons pas ce qui pourrait devenir des dangers sur ce qui serait déjà une réalité catastrophique.
Jean-Pierre LE GOFF. La question de l'érosion de l'autorité de la puissance publique n'est pas simplement un danger à venir, mais elle est bien là depuis trente ans! Une partie de la gauche s'est convertie au multiculturalisme de façon angélique, sans en mesurer les effets, et il existe bien dans la société un climat délétère de victimisation qui est allé de pair avec l'impuissance compassionnelle de l'Etat. On peut critiquer les faiblesses du modèle républicain, mais n'oublions pas qu'à sa façon Sarkozy en amène un autre dont les effets ne peuvent, à mon sens, que renforcer le délitement du lien de citoyenneté. Le danger principal de Nicolas Sarkozy est qu'il tente de faire passer un modèle de vivre-ensemble qui heurte profondément la tradition républicaine de la société française, notamment avec la question des minorités visibles.
Sarkozy, sauveur ou fauteur de troubles?
Emmanuel TODD. La question du rapport à l'autorité m'a beaucoup intéressé ces derniers temps. Si l'on s'intéresse au facteur déclenchant de la crise, le personnage de Nicolas Sarkozy a cessé d'être une image d'autorité. Le ministre de l'Intérieur a commis l'erreur de se mettre dans le groupe générationnel de ses interlocuteurs. Il est devenu, dans l'inconscient collectif des jeunes, le «voyou de Neuilly», agité plutôt que de droite. La première chose que l'on apprend aux professeurs qui vont enseigner dans ces banlieues est de ne jamais se mettre au niveau générationnel de leurs élèves. Par ailleurs, Sarkozy ne voit pas que les choix politiques et économiques doivent composer avec des tendances du fond anthropologique français. Il finira bien par découvrir que l'on ne peut pas gouverner la France contre ses valeurs.
Eric MAURIN. Nicolas Sarkozy a fait une lecture des classes moyennes et populaires en prenant le parti d'incarner certaines fractions et certaines colères, celles qui se sont exprimées le 21 avril et lors du référendum. Le parti pris n'est pas celui de la réconciliation. Les divisions traversent les quartiers et les familles dans les quartiers. Nicolas Sarkozy mise sur la fraction des classes populaires menacée dans ses statuts et qui veut davantage de sécurité.
Emmanuel TODD. J'ai le sentiment que les éditorialistes et les directeurs de grands médias surestiment énormément le degré de cohérence du projet du ministre de l'Intérieur. Il s'est mis au niveau de ses interlocuteurs, ne l'oublions pas. Si je cherchais du sens social à Nicolas Sarkozy, je le chercherais dans sa personnalité narcissique et exhibitionniste.
Pierre ROSANVALLON. Les plus audibles, dans les débats d'aujourd'hui, sont les chefs de file des grandes idéologies : l'idéologie néolibérale, l'idéologie autoritaire et l'idéologie républicaine. Ce sont les champions du slogan et du schématisme. Or les «y a qu'à» ne suffiront pas.
Jean-Pierre LE GOFF. Il faut tirer les leçons de ce qui s'est passé dans les années 80 avec la politique de la ville et des associations, avec sa logomachie, ses procédures insipides, son aspect guichet pour les subventions... Les associations jouent un rôle de traitement social du chômage, recréent des liens de solidarité, luttent contre l'échec scolaire, font vivre des quartiers... Ce n'est pas rien. Mais disons-le clairement: la politique de la ville, avec son tissu associatif, n'est pas la politique de l'emploi et ne peut lui servir de succédané. Il existe d'autre part une idéologie gauchisante minoritaire au sein du milieu associatif qui réduit l'histoire de notre pays à ses pages les plus sombres et renforce la mentalité victimaire des jeunes en présentant leur situation dans la continuité de celles faites aux esclaves et aux peuples colonisés. Cette idéologie travaille à l'encontre de l'intégration. La gauche démocratique doit s'en démarquer clairement. Sans nier les pages sombres de notre histoire, l'intégration implique la conscience des acquis de notre histoire et le partage d'un patrimoine culturel commun. C'est dans ce cadre que l'éducation populaire peut retrouver un nouveau souffle.
Pierre ROSANVALLON. La question n'est pas simplement celle de l'exclusion. La société française est un système généralisé d'inégalités. Elle fonctionne de façon globale à travers des mécanismes très fins et complètement disséminés de ségrégation et d'institution des différences y compris du point de vue scolaire et universitaire. Il n'y a qu'en France qu'existe encore le système des grandes écoles hiérarchisées, par exemple. La question des banlieues se pose à l'intérieur de cette société de la différence, de la ségrégation et de l'inégalité généralisée.
Eric MAURIN. Nous sommes passés progressivement d'un monde industriel à une économie de services. Cette évolution a des conséquences profondes sur les relations que les classes sociales entretiennent entre elles. Les différentes fractions de classes sociales coexistaient et négociaient sur les lieux de travail. Aujourd'hui, dans l'économie de services, chaque fraction de classe sociale travaille sur des lieux différents, entretenant avec les autres des rapports médiatisés par le seul marché. Nous sommes passés d'une exogamie sur le lieu de travail à un monde où toutes les tensions endogamiques sont libérées. Cela me semble un facteur de fragmentation sociale beaucoup plus puissant que la piste de lecture que l'on essaie d'imposer: celle de la discrimination raciale ou ethnique. Il n'y a pas de discrimination raciale ou ethnique à l'école. Ce n'est pas la discrimination qui explique la disqualification massive des enfants de milieux pauvres.
Pierre ROSANVALLON. Il y a quand même de la discrimination dans l'emploi et dans l'habitat.
Eric MAURIN. La discrimination initiale reste avant tout économique. L'exemple emblématique de lutte antidiscrimination est aujourd'hui la discrimination positive pour l'entrée à Sciences-Po. Cette initiative est sans doute sympathique, mais valide implicitement l'hypothèse que l'entrée dans les grandes écoles est interdite aux enfants d'immigrés parce qu'ils ne sont pas blancs. C'est faux, le problème numéro un est ailleurs, c'est la pauvreté. Qui, parmi les enfants de milieux populaires ayant eu une mention au bac à Roubaix, peut financer des études à Sciences-Po à Paris ? Les enfants des classes populaires de Roubaix n'ont pas les moyens de venir étudier à Paris, ni ceux de répondre à armes égales avec les enfants de la bourgeoisie parisienne à une épreuve de culture générale au concours d'entrée à Sciences-Po.
Liberazione 20.11.05
Prosegue la riflessione maschile iniziata su "Liberazione" da Bifo, Cremaschi, Curzi, Della Sala, Di Lello, Folena, Giovenale, Jampaglia, Milluzzi, Zaccaria il 6 novembre, con il contrappunto (l'11 e il 12) di Melandri e Azzaro
Perché gli uomini uccidono le donne?
Lo so perché non l'ho ancora fatto
Pino Ferraro
Perché gli uomini uccidono le donne? Credo di saperlo, ma non so dirlo. Sarà certo una scusa. Ma è la verità. Sento di saperlo, ma non so dirlo. La verità sta in questo scarto simbolico del dire, che ne custodisce il segreto, lo rivela, lo mente e ne autorizza la consegna. Una questione di ordine. Imposto dagli uomini. Certo da sovvertire, ma secondo quale altro spettro di significati e di valori, secondo quali altri spettri, che non siano nuovi fantasmi della mente pronti ad agitare brividi e violenze? Converrà allora saltare fuori dell'ordine, avanzare sull'extraordinario, in un mondo che produce già i suoi extra su tanti fronti, comunitari e sociali, sempre più vicini alla soglia di uno sconvolgimento culturale necessario. Fuori dell'ordine. Aprendo varchi alle periferie del Sé. A stabilire altre relazioni. Altre storie d'amore. Un altro modo di amare. Il punto è questo.
Perché gli uomini uccidono le donne? Lo so, perché non lo ho "ancora" fatto. Il "non ancora" sta a dichiarare un già "fatto" da altri di cui faccio parte. Non so dirlo, perché sta, e sto, al fondo della trama simbolica in cui quel sapere organizza il suo potere. La neutralità non c'entra, perché mai il potere è di nessuno e mai è neutrale, quanto più invoca la sua fondazione sul nulla e sulla scelta decisionista. Ecco ci sono. Il nulla. Eccola la neutralità di parte, la paura del nulla. La paura di morire, di perdere l'oggetto cui si è ancorati, circoscrivendo un piccolo mondo privato. Non basta.
Angela Azzaro lo ha scritto con una chiarezza che non lascia scampo. Non ci sono alibi di neutralità. Ditecelo, uomini, perché ammazzate le donne? Ognuno risponda, anche se dice di non aver ucciso, non ancora, anche se non si riconosce nel più efferato dei gesti. E non c'è neppure l'alibi di una scala di distinguo, per cui solo in fondo all'ultimo scalino ci si sporca di sangue le scarpe. C'è chi è sceso fino al pavimento o al sottoscala della miseria umana, c'è chi invece parla dal sesto piano, ma il palazzo è lo stesso. Tutti gli uomini sono Hans, ha scritto Ingebor Bachmann. Mi sono sempre ribellato a un tale richiamo e sempre ho dovuto capire che non si trattava di difendermi da quella accusa. Una questione di rappresentanza, non di rappresentazione. Ne sono un esponente, comunque sia e chiunque sia. Il punto di volta è questo. Non è più una questione personale, ma di rappresentanza di genere. Allora cambiare, cercare altre parole, dire un altro sapere di se stessi, per un'altra relazione a sé, non introspettiva: un sé senza se stessi. Una questione di luoghi. A cominciare dal luogo interiore, perciò dall'Ethos e dal daimon col quale coabitiamo. Occorre sapere perderci per qualche tempo, se vogliamo imparare qualche cosa da ciò che non siamo noi stessi. "Perderci", sì, "qualche volta", dire "sempre" sarebbe ancora un alibi; "qualche volta", cioè quando si incontra qualcuno o qualcuna che ti chiama Hans o che ti chiede perché gli uomini uccidono le donne, senza per questo cercare spiegazioni, ma altre relazioni. Un "perché" che non è domandare, ma un protestare e rifiutare, continuando ancora a cercare una relazione d'amore. Di un altro amore. Allora si tratta non semplicemente di che cosa ne sappiamo o crediamo di sapere, si tratta, piuttosto, di saper credere. Di rivedere questo rapporto, tra credere e sapere, sulla cui distinzione si è fondata la cultura maschile e su cui sempre ritorna, distinguendo. In maniera essenziale: si tratta non più di credere di sapere, ma di saper credere a chi ti sta davanti, la sua voce, il suo volto, la sua parola, la singolarità e la differenza.
Qualche volta, ogni volta, sempre di nuovo, davanti a un'altra. E non solo. Davanti a sé. La differenza non si dà mai in saldo, non è mai scontata. E' sempre a prezzo del dono. Inscambiabile. Né gli uomini possono "imitare" le pratiche delle donne. La loro cultura. Assurdo, oltre che "innaturale", un esproprio, quando non è una semplice intrusione. No, gli uomini devono restituire al mondo la loro differenza senza preponderanza, senza violenza. Sarà poi possibile, senza, rimettere in questione l'ordine che quella violenza salvaguarda e autorizza? Sarà possibile senza convocare su nuovi scenari sesso e società, desiderio e sentimento, passione e ragione? Come vedere insieme cosa accade nel mondo, come guardare il mondo con due occhi, con tanti occhi, che non siano quelli satellitari informatizzati di violenze e stupri? Gli occhi che informano non "fanno sapere", non producono conoscenze e atteggiamenti. Condividere vuol dire mettere insieme le proprie divisioni. Troppa cultura analitica ha continuato a separare per giustificare. Lasciando indiscusso e indiscutibile il rapporto tra eros ed ethos, registrando solo l'altro tra eros e thanatos.
Io lo so perché gli uomini uccidono le donne, ma non so dirlo. Ne sono perciò capace. Ed è questa la verità: gli uomini uccidono le donne non perché abbiano paura della crescita del potere femminile, sarebbe come ammettere che gli uomini ammazzano le donne allo stesso modo in cui si ammazzano tra loro. Sarebbe come riconoscere alle donne lo stesso ordine e uso del potere degli uomini. Certo è una ragione. E' anche una questione fisica. Di uso della forza bruta. Forse è più certo che gli uomini soffrono un potere che non sanno riconoscere o lo riconosco a tal punto con i propri codici che rispondono con la violenza di cui il loro potere è capace. Ci deve essere qualcosa custodita dentro la relazione d'amore. Ed è a sua rovina. La donna diviene sempre un "corpo d'eccezione". La parità che pure si invoca, sul piano giuridico, riguarda le quote di rappresentanza (quale?!), non certo quella del corpo proprio, che resta nei confronti delle donne, per gli uomini un corpo d'eccezione. Se ne può fare di tutto. Prenderlo, usarlo, occultarlo, farlo a pezzi o non considerarlo affatto, è lo stesso. Corpo intendo anche il corpo che piange come piange, che ride come ride, che cammina come cammina, che si guarda come lo guardano… E' l'uso dell'amore che autorizza e spiega queste stragi. E' la relazione d'amore che permette queste stragi. Il fatto è che si ammazza "per amore". Ma non è amore, non più, se mai lo è stato e lo è qualche volta un amore che sa credere. E' questo l'inciampo. Si ammazza "per amore", all'interno dell'uso che un tale dispositivo d'ordine autorizza. Su questo piano scivolano come biglie tutte le altre considerazioni e non si riesce a tenerle. Convocano al confronto sesso e società, amore e comunità, possesso e proprietà, cupidigia e amore. Si ammazza per amore, per possessione, per gelosie, per omertà. Allo stesso modo in cui si dice che le guerre si fanno nel nome di Dio, per religione e per democrazia. Tornano qui le altre considerazioni sostenute su questo giornale dalla Melandri e dalla Ingrao, diversamente. Il fatto è che bisogna spezzare questo intreccio di connivenza estetizzante, e psicanalizzante, tra amore e guerra. La psiche forse va scombinata e cambiata. Ci servono altre culture di luoghi interiori. Certo va messo via quanto fin qui abbiamo chiamato amore e che continua a fare stragi di donne, amate, innamorate, volute, ripudiate. Bisogna imparare un altro amore. Una questione anche di luoghi, per questo è una questione interiore, del sé come luogo dell'io, ethos, ancora, perciò una questione politica, di luoghi comuni cioè. Di case. Si arriva sempre tra gli spazi di casa. Si arriva sempre all'abitare e al coabitare. Quando si parla di casa, non basta parlarne per mattoni evidentemente, se non in ragione della qualità della loro disposizione. Ma questo a chi importa? Una questione di spazi e di stanze non interessa. E gli sfrattati che sono "cacciati" dalle case. Sarebbe opportuno parlare di queste cose cominciando dalle case, da luoghi e spazi, da stanze e di distanze.
Bisogna imparare ad amare. Un altro amore. Cominciare a pensare alla educazione sessuale non in termini contraccettivi, ma come educazione alla differenza. Fare della differenza un sentimento. Sentirla. Non enunciarla. L'etica deve fare i conti con l'amore che fin qui ne è stato l'inciampo. Fin qui ne è stato fuori, pericoloso per lo stato. Meglio la famigliarità, l'amicizia di chi si divide le cose, non certo la condivisione che mette insieme le proprie divisioni. L'etica è stato il discorso del padre al figlio, da Aristotele a Savater. Che sia Vittorio (Nicomaco in greco) o Diego, è lo stesso. Il giusto mezzo. L'amore è stato lasciato di qua dall'etica. Agli omosessuali è stato riconosciuto e censurato, agli uomini e le donne è stato invece registrato con firma, chiuso in un contratto, comprensivo di clausole di rescissione. Dietro quelle mura può succedere di tutto. Il fatto che le uccisioni di donne per mano dei "loro" uomini sale il livello della questione sociale, impone che si trovi un'etica a più voci. Un'etica della differenza.
Penso ad una relazione d'amore restitutiva, quando si restituisce all'altro il proprio essere così come si è, senza voler essere altro, riconosciuto per l'unico e solo di là dal dono d'amore. Senza proprietà. Dove ci sia il possesso senza la proprietà. Dove si possa dire da una parte e dall'altra "mia e non di me". Per dirlo anche più a gran voce, penso ad un amore senza futuro, ad una relazione d'amore senza futuro e inattuale. Senza domani. Solo presente e viva.
Quando la si programma, la relazione d'amore cede il posto all'economia dello scambio.
Per tutto questo ci mancano le parole, ci manca la società, le distanze, gli spazi, i luoghi. Ci mancano le maglie simboliche, perché una relazione d'amore tra differenti chiede di un sapere e un dire differente. Imparare ad amare forse anche morire diversamente. Con diritto. Non per mano di altri.