Le nuove teorie della psichiatra che analizza i legami tra ansia e arte
Gelosia e voglia di distruggere: ecco la «sindrome del David»
Studio sulle reazioni dei turisti davanti al capolavoro
Marco Gasperetti
FIRENZE - Da secoli, davanti alla sua perfezione assoluta, generazioni di visitatori sono state sopraffatte dall’emozione. Eppure nessuno avrebbe sospettato che la bellezza e l’armonia del David di Michelangelo fossero capaci di risvegliare pulsioni ataviche, passioni indicibili e pescare nel profondo dell’Es. Vent’anni dopo la scoperta della sindrome di Stendhal, una forma di incantamento che affligge alcuni turisti (un centinaio l’anno nella sola Firenze) con svenimenti, affanni e persino collassi, ecco arrivare la sindrome del David, un mix di reazioni emotive, spesso oscure, che investirebbero alcuni visitatori, soprattutto americani. La scoperta è della psichiatra e docente universitaria fiorentina Graziella Magherini, la stessa studiosa che coniò il termine «sindrome di Stendhal», meravigliando mezzo mondo non senza polemiche e dubbi. Lo studio sul David, come anche sulle tre Pietà firmate da Michelangelo, si concluderà tra un anno, ma i primi risultati sono già disponibili. La sindrome del David affonda nel profondo di ogni essere umano, nelle pulsioni, nella libido, nell’istinto di morte e di potenza.
«Il David incanta per la bellezza formale intrinseca - spiega Graziella Magherini -, ma non provoca solo emozioni di tranquilla beatitudine estetica. Il David può suscitare sentimenti perturbanti. Si guarda il capolavoro e ci sente forti e grandi, ma allo stesso tempo gelosi e invidiosi di questo giovane dal corpo perfetto».
Poi affiorano pulsioni vandaliche. «In alcune persone analizzate - conferma la studiosa - abbiamo notato un desiderio di danneggiare la statua, un gesto per riaffermare il proprio io messo in pericolo da tanta opulenza estetica».
Accanto al desiderio di distruggere affiorano anche turbamenti di natura sessuale. Il David, secondo la psichiatra, promuove un’identificazione erotica molto forte. «Quasi tutti i visitatori considerano la statua l’emblema del maschio perfetto - continua la psichiatra - e nel David il sesso è offerto palesemente, con una fusione tra libido ed arte».
La professoressa Magherini, che ha utilizzato anche le ricerche dello staff medico dell’ospedale Santa Maria Nuova di Firenze, ha elencato alcune reazioni emotive della nuova sindrome. Al primo posto ci sono l’attacco di panico e la perdita dei confini. Il turista si sente stordito, barcolla, teme di svenire. Subito dopo arriva un impulso vandalico. Ma insieme a questa repulsione c’è un’osmosi, quasi un amore carnale nei confronti del David, il desiderio di identificarsi con il capolavoro.
«Sentimenti che non sono molto diversi da quegli attacchi di panico riscontrati nella sindrome di Stendhal, ma che hanno proprie peculiarità ancora da studiare e verificare - conclude la studiosa fiorentina - e che potrebbero portare a conclusioni interessanti e innovative».
All’ospedale Santa Maria Nuova il dottor Paolo Rossi Prodi, direttore del reparto di psichiatria, conferma: «Ricoveriamo una media di tre turisti al mese - spiega -; sono per la stragrande maggioranza americani colpiti da crisi di panico. Che, dopo aver loro somministrato ansiolitici e antidepressivi, si risolvono in poche ore. Perché la maggioranza sono statunitensi? Al di là dello stress da viaggio, penso che incida anche il confronto tra una cultura artistica che non conoscono. Si trovano davanti a un mondo straordinario ma bellissimo e non reggono il confronto con questa diversità».
L’ALTRO MALESSERE
FIRENZE - Uno strano disturbo psicosomatico, che ogni anno colpiva a Firenze con capogiri e senso di spaesamento un centinaio di turisti: a scoprirlo per prima, nel 1979, è stata proprio la dottoressa Magherini. Il nome deriva dallo scrittore francese Stendhal (nella foto) , che durante un viaggio a Firenze, nel 1817, scrisse: «Uscendo da Santa Croce ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere». La sindrome di Stendhal non è però riconosciuta da tutti gli studiosi. Esiste davvero? «Certo, anche se oggi la chiameremmo disturbo del tono dell’umore con alterazione del vissuto - spiega Paolo Fuligni, 57 anni, psicoterapeuta, tra i fondatori della Ecologia urbana, disciplina che studia i comportamenti umani nelle città -. Persone abituate a convivere con i capolavori dell’arte, come i fiorentini, ne sono immuni. Si manifesta principalmente nei turisti che vivono in altre culture estetiche e non hanno la capacità di elaborare così tanti stimoli sensoriali per loro nuovi». Secondo Fuligni esiste anche una sindrome rovesciata: «Ho un ricordo molto forte del novembre del 1966, quando con altri studenti cercai di aiutare a recuperare le opere d’arte deturpate dall’alluvione. Accusavamo stati emotivi simili a chi è tempestato dalla bellezza e non è pronto a "filtrarla". Noi, innamorati di Firenze, non eravamo abituati a una città dell’arte rovinata dal fango».
Tempo Medico 20.11.05
Diagnosi di depressione semplificata
Tre sole domande per discriminare i pazienti a rischio
di Monica Oldani - Tempo Medico n. 802
Nell'ambulatorio di medicina generale la depressione è di casa, ma per il medico la sua gestione continua a essere un osso duro. La prima sfida è senz'altro quella diagnostica e gli sforzi in questo senso vanno sempre più verso l'individuazione di metodi di screening sufficientemente agili da essere praticabili anche nel contesto delle cure primarie.
In questo filone si colloca il lavoro di un gruppo di ricercatori dell'Università di Auckland, in Nuova Zelanda, che da alcuni anni stanno sperimentando un test rapido, composto di sole tre domande, che potrebbe servire per una prima scrematura dei pazienti a rischio di ricevere una diagnosi di depressione maggiore.
"La conferma spetta a un successivo approfondimento con metodi di indagine più articolati e accurati" precisano gli autori. "Tuttavia, il nostro test ha dimostrato, già in due diversi studi, di possedere una notevole sensibilità, cioè di non lasciarsi sfuggire casi potenzialmente eleggibili a una terapia antidepressiva".
Il test è stato messo alla prova presso una ventina di ambulatori di medicina generale in pazienti non selezionati purché non in cura con psicofarmaci, in prima istanza in una formulazione a due domande da presentare verbalmente ("nell'ultimo mese si mai è sentito giù di morale o depresso?" e "nell'ultimo mese si è mai sentito poco attratto o gratificato dalle cose che fa?"); successivamente si è invece optato per una formulazione scritta nella quale, ai due quesiti, è stata aggiunta una domanda sulla disposizione a ricevere un trattamento antidepressivo ("questo stato d'animo è tale per cui gradirebbe essere aiutato?").
"La seconda sperimentazione ha dato i risultati più soddisfacenti, perché il quesito sulla necessità di trattamento avvertita dai pazienti ha consentito di migliorare la specificità della diagnosi" affermano i ricercatori neozelandesi. "Il numero di falsi positivi, piuttosto alto nel primo studio, si è infatti sensibilmente ridotto, anche se il principale pregio del test è la percentuale ridotta di falsi negativi: uno su oltre 1.000 pazienti esaminati".
In effetti, i valori di sensibilità e specificità non si sono discostati molto da quelli di altri metodi di screening - una recente metanalisi condotta dalla US Preventive Services Task Force su 41 studi ne ha privilegiati due, composti da nove e sette domande - ma in più il test di Bruce Arroll e collaboratori offrirebbe una maggiore rapidità e semplicità di applicazione. "La depressione non è più confinabile nell'ambito specialistico, anche perché spesso si presenta mascherata da disturbi prettamente somatici" concludono gli autori. "Pertanto, un test che permette di sospettare la malattia anche nel corso di una visita di routine potrebbe essere un valido aiuto per i medici".
Lo strumento sembra promettente e, al contrario di altri, non si candida a essere per il medico l'ennesimo lavoro extra, che sottrae tempo ed energie a un'attività quotidiana già percepita come logorante. La sua applicazione, peraltro, non deve prescindere da alcune abilità specifiche, per esempio quella di presentare le domande e interpretarne le risposte con la giusta sensibilità.
Fonte: Brit. Med. J. 2003; 327: 1144 Brit. Med. J. 2005; 331: 884 (e-mail: b.arrol@auckland.ac.nz)
Apcom 20.11.05
Aborto
Villetti: nel mirino è la Legge 194
"Quello è l'obbiettivo di Ruini e Storace"
Roma, 19 nov. (Apcom) - "Tutta la campagna politica che è stata promossa con grande fervore, vigore e tenacia dal presidente della Cei Cardinal Ruini - sostiene il vicepresidente dello Sdi, Roberto Villetti - ha come primo e principale scopo quello di mettere nel mirino e di colpire la legge sull'aborto".
"La richiesta di fare entrare nei consultori gli attivisti per il movimento per la vita, è rivolta a creare una testa di ponte per cominciare a scassare dall'interno il meccanismo della 194. A ciò si aggiunge la volontà di proibire l'uso della pillola Ru 486 che è un altro modo per dare corpo a quest'offensiva", aggiunge Villetti.
"In questa strategia - conclude l'esponente dello Sdi- si colloca in prima linea il ministro Francesco Storace che si preoccupa molto di attaccare il professor Veronesi e non perde occasione per sottolineare il suo dissenso personale dall'attuale normativa sull'interruzione di gravidanza per meglio sostenere la sua sintonia con le indicazioni della Cei".
Repubblica 20.11.05
Lo stato laico in salsa vaticana
Eugenio Scalfari
Con gli accenti virili che gli sono propri quando afferma principi e valori nei quali crede profondamente George Bush ha ricordato al Partito comunista cinese e al governo di Pechino le loro inadempienze verso i diritti umani. Non poteva fare diversamente nel momento in cui metteva piede sul territorio della nuova potenza mondiale che nel giro di pochi anni sarà il vero "competitor" degli Stati Uniti mettendo fine al regime unipolare seguito alla caduta del Muro di Berlino.
Non è detto che il suo ammonimento cada nel vuoto anche se al momento la risposta del suo interlocutore sarà sdegnosa.
Il governo di Pechino sta già allentando la stretta dogmatica e ideologica sui popoli che abitano quell´immenso territorio; man mano che il "risparmio forzato" e l´accumulazione del capitale procederanno, la macchina del benessere diffuso produrrà i suoi inevitabili effetti, sia pure con modalità che derivano dalla storia e dalla collocazione geopolitica della Cina.
Ma pensare che l´evoluzione oltre che economica anche politica del gigante asiatico attenui la sfida che esso lancerà all´America è pura illusione.
La storia non è affatto finita nel 1989, anzi non ha mai prodotto tante novità e suscitato tanti problemi come in questi ultimi quindici anni. Il tempo scorre sempre più rombante e veloce e chiede strategie adeguate di fronte all´irruzione di masse immense, portatrici di nuovi bisogni, nuove identità, antiche e profonde frustrazioni, intollerabili disuguaglianze.
L´Occidente rischia d´arrivare sfiatato e sfiduciato a questi decisivi appuntamenti ed è proprio George Bush il simbolo più eloquente di quest´affanno politico e morale.
La sua credibilità in patria è precipitata ai minimi termini. La guerra irachena a tre anni dal suo inizio è impantanata. Il terrorismo incombe nella capitale e su un terzo del paese. La guerra civile non è un´ipotesi da scongiurare ma una realtà attuale fin d´ora. La stragrande maggioranza degli iracheni percepisce l´armata americana come un corpo di spedizione ostile e ne auspica entro breve tempo il ritiro.
L´opinione pubblica americana, d´altra parte, si è spostata su posizioni che sono esattamente l´opposto di quelle di appena un anno fa, il trionfo elettorale che premiò il presidente con un secondo mandato sembra ormai un reperto archeologico. L´esportazione della democrazia in Iraq produrrà nel migliore dei casi una fragile teocrazia sciita insidiata da avversari occulti e palesi.
Ma gli esiti sono altrettanto deludenti in Afghanistan, nel Kosovo, in Bosnia. E´ di ieri la denuncia di Emma Bonino secondo la quale a Kabul si è passati dalla teocrazia talebana alla «narcocrazia»: metà del reddito di quel paese proviene dalla coltivazione e dal commercio della droga. In Kosovo la situazione è identica a dispetto della presenza dell´Onu, in Bosnia l´equilibrio etnico è pura finzione.
Dell´Africa, orientale e occidentale, meglio non parlare tanto è disperata la situazione che vede, oltre ai genocidi, alle guerre tribali, alle epidemie e alla fame, anche l´espandersi rapido della schiavitù quasi-legale, dall´Abissinia al Ciad, al Niger, alle coste della Guinea.
Se vogliamo guardare la realtà, con occhi non offuscati dalla propaganda, questo è lo stato dei fatti. Le periferie assediano il centro quando non diventino centro esse stesse. Bisogna esser ciechi per non vederlo.
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Nel frattempo noi ci balocchiamo. Abbiamo un capo del governo che - gli siano rese grazie - ci fa almeno divertire.L´altro ieri, per festeggiare la "devolution" che ha scompaginato con metodo e norme incostituzionali, l´unità del paese, l´autonomia del Parlamento, il funzionamento del governo e il ruolo del capo dello Stato, ha ballato insieme ai parlamentari leghisti, sul motivo di «chi non salta comunista è». I commessi del Senato erano esterrefatti ed esilarati da quello spettacolo che può andare in scena soltanto nel Parlamento italiano. Uscito di lì si è proclamato santo; forse è per ottenere la canonizzazione ufficiale che ieri ha fatto visita a Benedetto XVI. Poi ha sillabato davanti ai microfoni e ai taccuini dei giornalisti che il suo programma di legislatura «è stato attuato al cento per cento». Quel programma, per chi non lo ricordasse, lo impegnava ad abbassare le tasse e la pressione fiscale, recuperare la sicurezza di persone e cose, effettuare un grandioso programma di opere pubbliche, rendere rapida ed efficiente la giustizia, riformare scuola e università.
Al cento per cento fatto. Lui lo dice e bisogna pur credergli anche perché ce lo raccomanda la sua mamma. In realtà, come provano tutte le statistiche ufficiali disponibili, i primi quattro punti sono stati interamente mancati, l´ultimo (la riforma della scuola e dell´università) non è stata che una rispolverata della riforma Berlinguer accentuandone il peggio e attenuandone il meglio.
Ma dicevo: lui almeno ci fa divertire. Vi par poco con questi chiari di luna?
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Pier Ferdinando Casini, diciamolo, è assai meno divertente. Dopo aver votato, con tutti i suoi della gloriosa Udc, per ben quattro volte di seguito (due alla Camera e due al Senato) la legge di riforma costituzionale (detta "devolution") non ha fatto passare dieci minuti per dichiarare che a lui quella legge piace pochissimo e comunque ci sarà tra breve il referendum per il quale il bel Pier lascerà ai seguaci libertà di coscienza. Segno che finora quella coscienza qualcuno gliel´aveva sequestrata (salvo che al roccioso Tabacci che ha votato contro salvandosi l´anima).L´arcano si è capito rapidamente. Il giorno dopo il cardinal Ruini ha rudemente criticato la "devolution" dicendo che questa volta i vescovi non daranno indicazioni di voto nel referendum. Detto da lui significa pur qualcosa. Astinenza da un vizio? Incoraggiamento a votare contro la legge? Ruini questa volta si asterrà dall´intervenire, ma quella legge la critica, accidenti se la critica.
La sinistra questa volta lo ha applaudito, ma commette secondo me un errore. Come ha scritto giustamente Berselli su Repubblica di ieri, Ruini non può e non dovrebbe cimentarsi con le leggi della Repubblica italiana. Non lo fa Ciampi, che è il capo dello Stato e può soltanto rifiutare la firma quando vi sia palese incostituzionalità.
Ma Ruini invece entra nel merito, mi piace quell´articolo, mi preoccupa quell´altro, suggerirei questo, sconsiglierei quest´altro, e tutti a dirgli bravo.
Diciamo la verità: Ruini è un impiccione nel senso che si impiccia di cose che non lo riguardano. Che direste, ripeto, se Ciampi si comportasse allo stesso modo? E che direbbe Ruini se un ministro, un prefetto, un ambasciatore, insomma un pubblico funzionario del nostro Stato dichiarasse che la Conferenza episcopale è un organismo non democratico, non trasparente, che svolge male il suo lavoro? Credo che quel ministro, quel prefetto, quell´ambasciatore se la passerebbero molto male. La loro carriera ne soffrirebbe un bel po´. Perché noi siamo uno Stato laico in salsa vaticana. E anche questo è un dato di fatto.
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Mi perdoni, Eminenza, se le lancio ancora una pallottola di carta, di quelle che lei sa respingere con una racchetta da ping-pong: ho letto che lei è favorevole a inviare negli ospedali e nei consultori i militanti del comitato Scienza e Vita per convincere le donne che vi si recano a non abortire. Si vuole dunque impicciare anche dell´organizzazione ospedaliera? Non basta il ministro Storace che una ne fa e cento ne pensa? Dunque i volontari di Scienza e Vita. Sicuramente più efficienti delle suffragette dell´Esercito della Salvezza, che le loro musichette e i loro predicozzi le fanno rigorosamente sui marciapiedi di Londra.Io me l´immagino quella povera donna col suo carico di dubbi e di dolori, che decide di abortire ed entra con passo timido e volto rattristato in un pubblico ospedale.
Sa che dovrà avere un colloquio preliminare col medico.
Quel colloquio non solo se l´aspetta ma ci conta, ha ancora dubbi sul da fare e sul come fare, insomma nel novanta per cento dei casi arriva all´appuntamento col cuore in mano. E chi si trova davanti, nelle stanze e nei corridoi dell´ospedale o del consultorio? Un don Gelmini, un volontario di Scienza e Vita, di solito un po´ fanatico, abbastanza intransigente, uno che può anche minacciarle descrivendole le pene dell´inferno. Li abbiamo visti e sentiti infinite volte in televisione, quelli di Scienza e Vita ai tempi del referendum sulla procreazione artificiale. La petulanza, la certezza incrollabile nella propria verità, non un dubbio, non un sorriso, la religione dell´embrione, magari con il nome Giuliano Ferrara scritto sulla maglietta.
Ci rifletta, gentile cardinale; ci rifletta anche lei ministro Storace.
Perché se questa pratica prendesse piede, aspettatevi l´arrivo in forze di Pannella, Bonino e Capezzone. Predico che allora sarebbero guai seri. Il consultorio e l´ospedale rischierebbero di trasformarsi in una rovente «Samarcanda», in uno scatenato «Ballarò», in un «Otto e mezzo», in un «Porta a porta», con la paziente relegata in un angolo e le due contrapposte squadre ad accapigliarsi in mezzo ai letti di un pronto soccorso e di una astanteria.
Io, per me, starei coi radicali, anzi gli darei pure una mano per quel che posso, ma che c´entra questo con la 194 e il diritto all´aborto motivato in una pubblica struttura? Anche l´aborto lo vogliamo in salsa vaticana? Poi vi lamentate degli anticlericali. Ma siete voi che li volete.
Stiamo attenti e state attenti perché tutta questa storia rischia di finire molto male. Con tante grane, ci manca anche questa.
Repubblica 20.11.05
"Eia, eia, alalà", il rito collettivo nell'Italia delle braccia tese
Filippo Ceccarelli
Il 27 novembre del 1925, ottant´anni fa, un decreto governativo lo rese obbligatorio e da quel giorno il gesto entrò nella vita degli italiani sotto la dittatura fascista. Il primo ad averlo codificato fu Gabriele D´Annunzio che lo aveva lanciato durante l´avventura di Fiume, culla delle future liturgie di massa del regime Il Duce lo fece suo per importare la mitologia dell´antico impero dei Cesari
Spiega Vanna Piccini su "Mani di fata": il palmo è disteso a indicare che l´amico viene incontro all´amico con il cuore aperto
Ora sopravvive in pratica solo nei funerali dei nostalgici o dentro gli stadi, dove si tornano a celebrare le cerimonie di massa
Quando quell´idea prende corpo, letteralmente, di muscoli se ne muovono una trentina: e fra slanci deltoidi e leve bicipitali, scatti palmari ed estensioni cubitali si ha appunto il saluto romano.
Roma antica, in realtà, c´entra e non c´entra. «Il saluto fatto alzando e protendendo il braccio destro aveva valore reverenziale» si legge su una vecchia Enciclopedia Treccani. Ne parlano Svetonio e Marziale, oltre a darne testimonianza un rilievo di Treviri, in cui si vede un bimbo che saluta il maestro, e un altro delle recinzioni traianee del Foro romano che ritrae alcuni cittadini col braccio alzato verso l´imperatore.
Meraviglia degli anacronismi. E un po´ anche degli anniversari, perché il 27 novembre del 1925, ottant´anni orsono, un decreto governativo rese obbligatorio il saluto romano all´interno delle amministrazioni civili del Regno. E da allora, si può dire, quel gesto entrò nella vita degli italiani. «A noi!» si poteva gridare; come pure, meglio se nelle cerimonie, «Eia eia alalà!». Dunque, oplà, in alto con il braccio, oltre la testa possibilmente, la mano appena un po´ piegata all´insù, le dita chiuse, il pollice non s´è mai capito bene dove metterlo. E comunque: «Il palmo è disteso, a indicare che l´amico viene incontro all´amico con il cuore aperto - spiegava Vanna Piccini, esperta di buone maniere, su Mani di fata - il cuore dischiuso a ogni senso generoso, ché una mano aperta offre sempre con lealtà, con generosità... ».
Non sempre, veramente. La più vasta e fotografica iconografia restituisce saluti romani minacciosi, pagliacceschi e il più delle volte teatrali. Squadristi in posa, dapprima, ma poi anche scolaresche, donne ai bagni, bersaglieri in bicicletta, campeggiatori, famiglie prolifiche, crocerossine, campioni olimpionici, ascari e altre truppe di colore, sposi felici, bambini nudi col fez e perfino bamboline.
E tuttavia, ripensandoci con l´indulgenza del presente, la maggior parte dei saluti romani del ventennio, quelli scambiati negli uffici e per strada, quelli veri, quelli senza fotografi, dovevano essere soprattutto dimessi e contraddittori, proprio perché obbligatori; fatti restandosene seduti, senza togliersi nemmeno il berretto; saluti romani pigri, distratti, frettolosi o perfino vergognosi. Più che saluti romani, in realtà, ombre, indizi, accenni di saluti romani, movenze da indovinare, come chi furtivamente taglia l´aria a man rovescio per scacciare via una mosca.
Il regime fascista, invece, adorava le pose scultoree pur ignorando le sottili e spesso malefiche risorse dell´antropologia culturale. Ma le intuiva, non c´è dubbio. Più di ogni altro uomo politico l´autodidatta Mussolini sfruttò la potenza incantatrice dei rituali collettivi e spersonalizzanti; a suo uso e consumo li mise in scena per governarli dal balcone; e gradualmente li rivestì di passato remoto e di futuro indistinto, per radicarli più profondamente nell´immaginario e poter meglio scatenare marionette inermi legate al filo della loro stessa irrazionalità.
«Il mito di Roma fu la credenza mitologica più pervasiva di tutto l´universo simbolico fascista» ha scritto lo storico Emilio Gentile. Alla mostra per il decennale della rivoluzione fascista, nella sala dedicata alla marcia su Roma, un mastodontico fotomosaico dal titolo "Adunate" offriva allo sguardo una selva di mani protese. Eppure il saluto romano non era mussoliniano, e a rigore neppure fascista. Fu uno scippo, piuttosto, o se si vuole un furto compiuto con destrezza alle infuocate ispirazioni degli arditi, all´impazienza artistica dei futuristi, ma soprattutto fu una campagna rubata a Gabriele D´Annunzio che quel gesto aveva lanciato sul mercato politico, si direbbe oggi, grazie alla notissima sua abilità promozionale.
In pratica "il Vate" aveva elaborato da un pezzo lo strategic planning del saluto romano, completo di brief, claim, format, frame, visual e pay-off. Dopo tutto, oltre che un magnifico creativo, D´Annunzio era anche un soldato e un avventuriero. Per cui è nell´avventura di Fiume (1919), appunto, in quel festoso magma ribollente di poeti e legionari, che si accende la straordinaria fucina delle liturgie di massa - e si mettono le basi di quel decreto che di lì a sei anni avrebbe imposto agli italiani di alzare il braccio per salutarsi.
D´istinto Mussolini comprese che il mito di Roma poteva tornargli utile e l´agguantò pure a costo di farne paccottiglia in carton gesso, o di scadere nell´imperial trash di una romanità che sin dall´inizio apparve peggio che artificiale: carnevalesca. Con il che al saluto romano vennero ad aggiungersi le aquile, il natale di Roma, i colli fatali, i figli della lupa, le quadrate legioni, i capi manipolo, i consoli della milizia, gli archi di trionfo, figurarsi, e i concerti d´arpa, perfino.
Dagli e dagli, sebbene astutissimo, il duce finì per cadere nella trappola delle sue stesse suggestioni di miti, simboli, spettacoli e corpi in movimento. Perciò a Berlino - dove pure aveva esportato il saluto a braccio teso - vide che i soldati marciavano al passo dell´oca e tornato a Roma volle copiarlo. Si ebbe così, sia pure brevemente, anche il "passo romano". Il re, irritato, provò a resistere a quest´ultima invenzione; gli stati maggiori fremevano di rabbia; la gente cominciò a ridere. «È il passo fermo - insisteva lui - sicuro, inesorabile delle legioni romane per le quali ogni marcia era una conquista». Si è vista poi, la conquista.
Gran cerimoniere della post-romanità fu insediato Achille Starace, altro bel soggetto. A lui si devono le più fantastiche, complesse e meticolose disposizioni di saluto al duce e ai gerarchi, con tanto di comando di attenti, squilli di tromba, scambi di domande e risposte che culminavano in "a noi!" e "alalà!". Ma è nella vita quotidiana che mosso dall´esigenza di uno stile guerriero e anti-borghese, lo "staracismo acuto", come lo definivano i suoi avversari all´interno dello stesso regime, si applicò con straniante energia. Ne fecero le spese usi e costumi secolari: la stretta di mano, prima di tutti, da inserire nelle note caratteristiche negative degli impiegati, ma anche "la riverenza", "la scappellata" e un misterioso (oggi) convenevole definito nei fogli d´ordine del Pnf "il saluto del gagà".
Intanto Mussolini allungava il braccio a tutto spiano: alla tribuna, alla finestra, ai matrimoni, a cavallo, in aeroplano, con i guanti. C´è anche da dire che quel gesto gli aveva come minimo portato fortuna, come racconta Claudio Rendina nel suo recente Storie della città di Roma (Newton & Compton). Era l´aprile del 1926 e reduce da un convegno di chirurghi, bombetta in testa e passo ardito, il duce stava scendendo dal Campidoglio quando una signora irlandese un po´ pazzerella, Violet Gibson, gli si parò avanti e gli sparò. Il caso volle che proprio in quell´istante Mussolini si voltasse per salutare romanamente un gruppo di giovani che intonava "Giovinezza". Diretto alla tempia, il proiettile gli sbucciò la cartilagine del naso. Al che il duce fece dietro-front: «Signori - disse ai chirurghi - vengo a mettermi sotto le vostre cure professionali».
Ora. È anche possibile che quel suo braccio alzato contribuisse a esercitare una certa carica, una inconfessabile malia, un contatto a suo modo ipnotico, una qualche forma di transfert. In Eros e Priapo, da furore a cenere (Garzanti, 1968) Carlo Emilio Gadda fa rientrare questo fluido in una «iper erotia narcissica», dovutamente esibizionista. Il saluto romano come quanto di più simile a una erezione: «Giunse a far credere a codeste osannanti di esser lui il solo genitale-eretto disponibile sulla piazza». La piazza e il duce «ritto, impennacchiato, impriapito». Teso a congiungersi con la folla: «Ecco ecco ecco eja eja eja il glorioso e ‘l virile concitarsi (...) Ed Alpe e Pennino echeggiarlo, hì-hà, hì-hà, hì-hà, riecheggiarlo infinitamente, hè-jà, hè-jà, hè-jà, per infinito cammino delle valli... ».
Coito o non coito, a noi o non a noi, Roma o non Roma, comunque finì come doveva finire: malamente, con il dolore e la vergogna dei vinti. Sentimenti espressi dall´ultimo indimenticabile saluto romano di quella stagione: due grandi maschere italiane, Eduardo e Alberto Sordi che alzano il braccio in Tutti a casa. Ma desolatamente disfatti, laceri, affamati, mesti e pronti a consegnarsi a chiunque pur di farla finita con quella vita, con la guerra.
Da quel fotogramma in poi, per almeno mezzo secolo, il saluto romano sopravvive in pratica solo nei funerali dei nostalgici del neofascismo e negli obliqui fraintendimenti di una politica divenuta "pop". A lungo si pensò che Lucio Battisti fosse fascista perché immortalato una volta con il braccio teso. In realtà, come si è scoperto solo di recente, in quella foto sta dando il via ai violini per il pezzo Giardini di marzo. Un altro giorno, altra foto, su di un palco beccano La Russa, in flagrante saluto romano: «Ma no - dice lui - stavo solo ballando quella canzone di Celentano che fa: "E dal pugno chiuso una carezza nascerà"... ». (bada-ba-dà). Esclude d´altra parte, donna Assunta Almirante, che il suo Giorgio l´abbia mai fatto: «Alzava la mano così, come se fosse un semplice ciao ciao». E tuttavia riconosce che il saluto romano «È igienico: personalmente non sopporto le mani sudate».
Ma questa è storia di ieri. Per sentire l´eco di quella ben più risonante e concitata dell´altro ieri, bisogna forse tendere l´orecchio al boato degli stadi, là dove con maggiore evidenza tornano oggi a celebrarsi le cerimonie di massa. E dunque, gennaio 2005, alla fine del vittorioso derby ecco Paolo di Canio che, senza la maglia della Lazio, esulta sotto le gradinate ardenti della curva nord. E quando l´idea prende corpo, come s´è detto all´inizio, vibrano quei soliti muscoli e parte il braccio. E vabbè. Ma quale più idea, oggi? E quale mai demone andranno a risvegliare quei muscoli?
Repubblica 20.11.05
L'ossessione marziale
Nello Aiello
Tic politici, tabù estetici, regole di comportamento bizzarre e coercitive: ne sono piene le cronache del ventennio littorio. In generale, i nostri connazionali d´epoca vengono invitati ad assumere, nei modi e nel vestiario, un aspetto secco, marziale, coriaceo. «Pancia in dentro, petto in fuori», è il motto che risuona nelle adunate del sabato fascista. «Vivere pericolosamente»» è l´ukase rituale. La consegna è di aborrire «la vita comoda». Nell´anatomia ideologica del regime, l´organo più deriso è il cuore (e non parliamo del "buon cuore"). Sul crinale fra gli anni Trenta e Quaranta, l´esaltazione "muscolare" imposta dall´alto s´avvia a diventare un supplizio iperbolico: e la cosa non sfugge a un elegante periodico satirico, Il Bertoldo, cui - per disattenzione o per scarsa professionalità dei censori - si consentono margini di libertà inconsueti. Anche Cappuccetto rosso, secondo il giornale, «un giorno o l´altro» adotterà il truce contegno dell´Italia imperiale. «Andando a portare da mangiare alla nonnina», prevede una nota redazionale, «non la troverà malata e a letto (roba da nonne d´altri tempi) bensì virilmente dritta in piedi e a torso nudo: si esercita con le clave. E, venuto il lupo, credete che Cappuccetto rosso ne fosse divorata? Lo divorò, traendo enorme giovamento da quel sano cibo. Morale: ragazzi, mangiate i lupi». Ormai le lettere, anche di natura privata, devo chiudersi con la formula "saluti fascisti": pallido richiamo a quell´Heil Hitler che è la clausola in uso nel III Reich.
A parte questi ricalchi, è di rito la massima autarchia linguistica. Si apre la caccia al sinonimo nostrano di proverbiali espressioni straniere. A water closet subentra camerino, Saint Vincent è ribattezzata San Vincenzo, Wanda Osiris si trasforma in Wanda Osiride, Renato Rascel in Renato Rasceli, i cotillons in cotiglioni, i gol (o, peggio, i goal) in reti. I filobus dovranno chiamarsi vetture filotramviarie. Sempre Il Bertoldo immagina che un anziano personaggio venga giustiziato perché ha detto bazar. Esprimiamoci, si legge sotto la vignetta, «con schietta, sana, leale, robusta pronuncia nostrana, a torso nudo, col torace rivolto verso i frutteti, tenendo in mano erpici e badili».
L´Italiano è alto. Il 16 agosto 1938 ai giornali viene ordinato di «dare con rilievo e commentare il comunicato sull´aumento della statura», dimostrando come esso «sia il risultato di sedici anni di politica razziale». Alti, certo. Ma non snelli. Specie le signore e signorine. Quella italiana deve diventare la "donna anticrisi" per eccellenza, dopo aver bandito dai suoi sogni la cosiddetta "vita di vespa". Le fasciste militanti, cioè tutti quegli esseri femminili che Giancarlo Fusco chiamerà "le rose del ventennio", sono oggetto di viva attenzione soprattutto estetica (o forse anti-estetica). Il ministro dell´Educazione nazionale, Cesare Maria De Vecchi di Val Cismon, proibisce alle maestre di truccarsi: «austere nella moralità, signorili nel contegno», esse vestiranno di scuro. Nel 1942 il podestà di Genova vieterà alle impiegate vesti succinte e smalto sulle unghie.
Ogni pretesa del sesso gentile viene d´altronde conculcata fin dal 1933, quando si stabilì che «il femminismo esagerato nient´altro è che del chiaro e preciso antifascismo». E alle femministe si rivolgono epiteti per nulla galanti: «Bruttissime, sudice, sterili, chiassose, pettegole, sfaccendate, maligne e pazzerelle». In breve, la «peste bubbonica della società». Scoperta sui giornali una pubblicità che invitava le donne a iscriversi a un circolo aeronautico, Mussolini reagì con una battuta: «Nell´Italia fascista, la cosa più fascista che le donne possono compiere è quella di pilotare molti figli».
La politica detta dell´imperialismo demografico richiederebbe un lungo capitolo a sé. Un rilievo simbolico pari quasi a quello del saluto romano assunsero altri due provvedimenti simbolici della pedagogia staraciana: l´istituzione del passo anch´esso «romano» e l´abolizione del «lei». Quella pomposa andatura venne adottata nelle sfilate a partire dal 1936: si effettuava «portando in avanti la gamba e il braccio opposto tesi in posizione orizzontale». Un calvario. Nel suo Dizionario moderno (1923) uno scrittore assai noto, Alfredo Panzini, l´aveva precocemente preso in giro, osservando che «il passo stecchito e rigido delle milizie tedesche», di cui quello nostrano era un´imitazione, «fu detto per dileggio "passo d´oca"». Fu un altro scrittore, Bruno Cicognani, a lanciare, nel 1938, sul Corriere della sera la proposta di abolire il "lei", a favore del "voi", ma soprattutto del "tu", espressione "dell´universale romano e cristiano". Sul tema divampò subito un dibattito frenetico (e di livello disperante). La proposta fu accolta, dopo che il "le" era stato vituperato con larga messe di aggettivi: "femmineo, sgrammaticato, straniero, servile". Un settimanale, Lei, cambiò titolo diventando Annabella. Certe sotterranee cronache d´epoca sostengono che simili provvedimenti erano oggetto di burla. Ci fu chi propose di trasformare la storica torre del Mangia in "torre del Mangiate" e di correggere le generalità di Galileo Galilei in "Galivoio Galivoi". Scarsa inventiva? Forse. Ma l´Italia intera era una freddura. Penosa.
Repubblica, Roma 19.11.05
Sanità
La manifestazione di cento pazienti al Sandro Pertini: "Rivogliamo la nostra terapeuta"
Depressione, protesta dei malati
Wanda Cuseo
«Non siamo malati di serie C». «Aiutateci a guarire». «Rivogliamo la dottoressa Cannavò». Con questi striscioni da martedì oltre cento pazienti dell´ambulatorio per la cura di ansia e depressione protestano davanti all´ospedale Sandro Pertini contro la paventata soppressione del servizio. «Il presidio durerà fino al 30 novembre - spiega Anna Maria Piscone, presidente dell´Associazione malattie ansia e depressione - Il percorso medico che abbiamo intrapreso con la dottoressa Marina Cannavò rischia di essere interrotto. Il suo ambulatorio è l´unico nel Lazio a fornire questo tipo di servizio. Ma la dottoressa resterà al Pertini fino al 10 dicembre. E sulla sorte del suo ambulatorio non sappiamo nulla». Così i pazienti, oltre un centinaio di uomini e donne dai 16 ai 65 anni, hanno scritto ai vertici dell´ospedale e della Asl Roma B, da cui dipende il Pertini, perché venga ripristinato il servizio visto che «non tutti - scrivono - possono pagarsi le terapie presso privati».
Il direttore sanitario della Asl Roma B, Antonio D´Urso, spiega che la dottoressa svolgeva la sua attività ambulatoriale al di fuori del suo mandato ufficiale. Adesso l´unità di telemedicina non ha più bisogno di lei che è passata in servizio al Dipartimento di salute mentale. «I casi aperti per ora continueranno a essere trattati nell´ambulatorio, o dalla dottoressa Cannavò o da altri colleghi - informano dalla Asl Roma B - I pazienti potranno trovare risposta ai loro bisogni presso il dipartimento di salute mentale. E chi non vuole interrompere il trattamento con la dottoressa, potrà prendere appuntamento nel suo distretto. Il nostro obiettivo è rendere più stabile il servizio, non eliminarlo». Ma i pazienti replicano: nelle strutture per la salute mentale le liste sono interminabili e i medici spesso non riescono a curare nemmeno i casi più gravi. «Quella dottoressa mi ha ridato la gioia di vivere - racconta Gianluigi, 24 anni - Da quando sono in cura da lei ho riacquistato la mia personalità».
Repubblica 19.11.05
La ricerca, in un laboratorio californiano, ha prolungato la capacità di sopravvivenza. "Ora sappiamo come rallentare i danni genetici"
Dalle cellule il segreto dell'immortalità
Un genetista italiano: così un organismo vive sei volte più a lungo
Enrico Franceschini
LONDRA - Da Platone a Spinosa, i grandi filosofi del passato concordano: l´uomo anela all´immortalità, pur non sapendo come raggiungerla. Ebbene, in questi giorni la scienza potrebbe essere riuscita a indicargli la strada. Una ricerca condotta da un genetista italiano ha creato in laboratorio organismi in grado di vivere sei volte più a lungo del normale: l´esperimento è stato finora limitato a esseri monocellulari, ma aumenta la speranza di riuscire in futuro a rallentare l´invecchiamento anche negli esseri umani. «Non significa necessariamente che vivremo 6 volte di più», afferma il dottor Valter Longo della University of Southern California, autore dello studio, citato con ampio rilievo dal Guardian, «ma che potremo rallentare il danno genetico accumulato con l´età, proteggendoci dal cancro e da altre malattie fatali». La vita media oggi in Occidente si aggira attorno agli ottant´anni, sei volte di più significa quasi 500 anni: se non è la vita eterna, poco ci manca. E se anche si allungasse di molto meno, rallentare l´invecchiamento dà speranza a un altro mito del pensiero umano, quello dell´eterna giovinezza. Due prospettive che suscitano da un lato scenari da fantascienza e dall´altro preoccupazioni per il loro impatto sociale: se non morissimo mai, o vivessimo molto più a lungo, la popolazione della terra esploderebbe, sollevando il problema di dare una casa e sfamare decine di miliardi di persone.
L´emergenza, va sottolineato, è prematura, ma non troppo. Nell´esperimento riferito dal quotidiano londinese, i ricercatori hanno estratto da un organismo monocellulare i due geni-chiave che trasformano il nutrimento in energia, costringendolo a sopravvivere in condizioni estreme, privo di alimenti. Il risultato è che la cellula, per preservarsi, ha smesso di invecchiare, vivendo 6 settimane invece di una come sarebbe stato normale. Esisteva già un´ampia documentazione scientifica sul fatto che una severa riduzione dell´alimentazione può aumentare fino al 40 per cento la vita di mosche, vermi e topi.
Ora l´obiettivo è riprodurre geneticamente il medesimo effetto nella speranza di sviluppare un trattamento contro l´invecchiamento, senza dovere limitare o interrompere l´alimentazione. «Abbiamo buone ragioni di credere che l´effetto riscontrato nell´organismo monocellulare si verifichi anche in altri organismi», afferma il dottor Longo. «Stiamo lavorando su cellule di topi e di esseri umani, con risultati simili. Dunque non siamo lontani dal cominciare a pensare a farmaci capaci di mettere gli essi umani in uno stato di anti-invecchiamento». Test su animali di laboratorio sono già iniziati e proseguiranno per dieci anni, prevede lo scienziato di origine italiana, prima di passare a test sull´uomo. Uno studio sul medesimo argomento, pubblicato ieri sulla rivista Science, descrive la scoperta di dieci nuovi geni ritenuti in grado di sviluppare la longevità nelle stesse cellule usate nella ricerca della University of Southern California.
Il "mondo nuovo" disegnato da queste scoperte suscita entusiasmo ma pure inquietudini: il Guardian si interroga subito sulle conseeguenze sociali per tutto il pianeta, se in futuro nuovi medicinali riuscissero ad allungare radicalmente la durata della vita media. Chi darà un alloggio, cibo, per non parlare di una pensione, a venti miliardi di umani che vivono cento o più anni? «I problemi andranno affrontati e risolti - commenta Aubrey de Grey, gerontologo della Cambdrige University - ma non sarebbe eticamente ammissibile rinunciare alle ricerche sull´anti-invecchiamento per paura delle conseguenze».
Repubblica 16.11.05
Lo spirito nero di Stalin
Massimo L. Salvadori
Quando morì nel 1953, Stalin venne esaltato dai comunisti di tutto il mondo come uno dei massimi geni della storia, che aveva portato al trionfo la causa di Marx e di Lenin. Ma di fronte alla sua salma si inchinarono anche molti capi del mondo occidentale per rendere omaggio non certo al capo del comunismo mondiale, ma al gigante che, salito al potere in un paese devastato e isolato, ne aveva fatto una superpotenza mondiale. Stalin appariva quindi anche ai suoi avversari un secondo Pietro il Grande. Alla luce del freddo realismo storico Stalin era colui che aveva creato uno Stato e un impero destinati a restare come un gigantesco macigno nella storia futura, che aveva avuto pieno successo nel proposito di ridisegnare la carta geopolitica là dove aveva fallito Hitler, il quale aveva sconvolto il mondo con un eguale proposito. Proprio il fallimento di Hitler e del nazismo contribuiva in maniera determinante a "illuminare" lo sbalorditivo successo della sua opera. E la biografia di Stalin parlava a tutte lettere in tal senso.
Nato a Gori, in Georgia nel 1879, in una povera famiglia, entrato in seminario per poter accedere ad un´istruzione, convertitosi al marxismo e divenuto un "rivoluzionario di professione" nelle file del Partito operaio socialdemocratico russo, datosi all´agitazione politica con lo pseudonimo di Koba e poi di Stalin ("uomo di acciaio"), arrestato e confinato ripetutamente, entrato nelle file del bolscevismo fondato da Lenin nel 1903, nel 1912 divenne uno dei leader del partito con il suo ingresso nel Comitato centrale. Nel corso delle due rivoluzioni russe del 1917, in cui ebbe un ruolo secondario rispetto a quelli di Lenin e di Trockij, superati iniziali momenti di incertezza si tenne poi fermo alla linea del capo dei bolscevichi. Membro del governo dopo l´Ottobre, nella guerra civile mise in luce le sue capacità di organizzatore. Il che giovò alla sua nomina nel 1922 a segretario generale del Comitato centrale, carica che egli sfruttò per farsi una base personale di potere.
Nel 1923, nella fase più pericolosa della sua carriera, Stalin entrò in urto con Lenin ammalato, che lo accusò di brutalità e di «sciovinismo grande russo» e nel suo Testamento raccomandò al partito di allontanarlo dal potere. Ma la morte di Lenin nel gennaio 1924 lo salvò. I maggiori leader bolscevichi ignorarono la raccomandazione di Lenin, pensando di poter tenerlo sotto controllo. Negli anni seguenti egli recitò la parte del più devoto seguace del capo morto, ne portò alle stelle il mito, condusse una lotta senza esclusione di colpi e con pieno successo per la successione con Zinov´ev, Kamenev, Trockij e Bucharin, manovrandoli l´uno contro l´altro, così da assumere alla fine degli anni ´20 il potere assoluto. Negli anni ´30 diede corso a un processo di modernizzazione economica ricorrendo a illimitate violenze specie contro i contadini ma conseguendo l´obiettivo di formare una solida base industriale, sottopose la società a uno spietato controllo nelle mani della polizia politica, represse ogni opposizione supposta o reale, fece uccidere i vecchi dirigenti bolscevichi, creò l´universo concentrazionario del Gulag, imprigionando e mandando a morte negli anni del "grande terrore" milioni di uomini tra cui migliaia di ufficiali sospettati minando la forza dell´esercito, alimentò il proprio culto di capo infallibile che aveva vinto tutte le battaglie. Stretto nel 1939 il patto nazi-sovietico, l´astuto giocatore venne però giocato da Hitler, che attaccò l´URSS nel giugno del 1941 con effetti catastrofici. Lo scacco era bruciante e Stalin entrò nel secondo momento davvero pericoloso della sua carriera: la sua costruzione rischiò di crollare. Ma infine la situazione si capovolse. L´Urss resistette, l´Armata rossa conquistò nel 1945 Berlino, il dominio sovietico si estese all´Europa orientale, il comunismo si estese alla Cina. Quando morì a Mosca il 5 marzo 1953, Stalin, comunque giudicato in quanto spietato dittatore o gigante del comunismo, presentava un bilancio da trionfatore, di incontestabile immensa portata. Nel 1956 Kruscev ne svelò il volto personale cinico e persino criminale, ma il suo lascito storico, la potenza immensa dell´Urss, restava intatto.
Il libro di Robert Conquest, Stalin. La rivoluzione, il terrore, la guerra (1991) si inserisce in una tradizione di studi biografici dedicati al dittatore sovietico che, aperti da Souvarine nel 1935 e dall´opera postuma di Trockij apparsa nel 1941, sono continuati con numerosi contributi, tra cui spiccano quelli di Deutscher, Ulam, Payne, McNeal e Tucker. Conquest è uno dei maggiori studiosi di storia sovietica, autore tra l´altro de Il grande terrore (1970), il primo ampio lavoro documentato sulle ondate di repressione e sulle "purghe" degli anni ´30. Il "timbro" del suo libro è dato da due elementi principali, sui quali occorre soffermarsi: l´uno dal fatto che Conquest, a differenza degli autori che lo avevano preceduto i quali si erano confrontati con la persistente presenza della superpotenza creata da Stalin, stendendo la biografia di quest´ultimo nel momento del crollo dell´Urss, stese altresì il necrologio della sua creatura ridotta in cenere, di un colosso - uno Stato e un impero - che si era rivelato dai piedi d´argilla ed era rovinosamente franato. L´altro elemento è l´approccio, lo spirito "tacitiano" di Conquest, il quale non è tanto interessato all´analisi dei fattori di natura sociale e culturale che resero possibile l´ascesa di Stalin e la formazione dei sistema staliniano, quanto alla ricostruzione della vita di uno dei massimi spiriti neri della storia universale e alla sua messa in stato di accusa di fronte al tribunale dell´umanità. «Pochi uomini nella storia - scrive infatti - hanno avuto effetti così duraturi e devastanti, non soltanto per il proprio paese, ma per il mondo intero».
Lo studioso ha voluto tracciare un ampio «ritratto» del creatore di un sistema aberrante, che «forse» - afferma - non ha paragoni con alcun altro nell´essere stato «basato in modo altrettanto totale sulla falsità e l´inganno». Nell´arte dell´inganno Stalin fu un maestro e tra i molti che ne furono vittime l´autore cita Lenin che ne protesse la carriera fino a che fu troppo tardi e Roosevelt, il quale nel valutare il dittatore nel corso della seconda guerra mondiale fece «uno degli errori più marchiani mai compiuti da un leader politico». Stalin ebbe l´astuzia della volpe e la crudeltà sanguinaria dello sciacallo.
Era abile e deciso nella gestione del potere allorché si sentiva sicuro, circondato da uomini fidati, servili, in molti casi incapaci, esitante nei momenti di crisi. Considerò sempre i suoi nemici politici come nemici personali. Quando si trovava di fronte alle conseguenze più nefaste della sua politica, come i disastri economici provocati specie nelle campagne o l´essersi fatto sorprendere in uno stato di quasi cecità dall´attacco nazista nel 1941, negava la realtà o ne scaricava la responsabilità sugli altri messi sotto accusa e anche mandati al patibolo. Le sue vicende familiari e il suo modo personale di vivere furono lo specchio dell´egocentrismo illimitato di un individuo intellettualmente mediocre ma dotato di una brama sovrumana di potere, incredibilmente abile nel distruggere i suoi avversari o nel negoziare con essi quando necessario, giunto ad essere osannato come un Dio onnipotente ma mai liberatosi da un senso di insicurezza di fondo e quindi dal sospetto verso tutto e tutti.
Insomma, il ritratto tracciato da Conquest è quello di uno dei più grandi e terribili tiranni della storia. Di qui la sua conclusione: «Se oggi possiamo incominciare ad annoverare Stalin nella storia del passato, è nella speranza che non apparirà mai un altro come lui».