Pacifisti anti-Usa in piazza
«Liberazione» incalza l’Ulivo
Sit-in a Roma e Milano sui fatti di Falluja: voi ci sarete?
Sdi e Ds: causa giusta ma dovevate marciare per Israele
Roberto Zuccolini
ROMA - «Se siete andati alla fiaccolata per Israele, perché non venite anche al sit-in contro le armi chimiche a Falluja?». Lo chiede Liberazione a Ds, Margherita e a tutti i «fiaccolatori» di Giuliano Ferrara. Aggiungendo: «Siete ancora in tempo». Ma la risposta è negativa: «Ci dispiace, non ci saremo». E così, salvo sorprese, non verranno questa sera alla protesta davanti all’ambasciata americana, dove invece manifesteranno Rifondazione comunista, i Verdi, il Pdci, Cgil, Cisl e non poche sigle pacifiste. Per diversi motivi. Non perché ci sia qualcuno che giustifichi le bombe al fosforo, che sia d’accordo con quelle immagini andate in onda su RaiNews24 . «Al di là degli accertamenti su ciò che è apparso in tv - precisa Clemente Mastella - c’è da ribadire che le bombe fanno sempre male, anche quelle "normali". Detto questo, non me la sento di andare al sit-in. Mi chiedo, perché allora non si organizza una marcia contro le guerre in Africa o per la libertà religiosa in Cina? Comunque la fiaccolata era diversa perché l’Iran aveva messo in discussione l’esistenza dello Stato di Israele».
Anche Enrico Boselli era tra i «fiaccolatori». E risponde ugualmente che non andrà: «La differenza con la manifestazione pro Israele è chiarissima: lì si protestava contro chi aveva proposto di cancellare uno Stato dalla carta geografica. E dire una cosa del genere vuol dire bloccare un dialogo che sta riprendendo tra mille difficoltà. Non mi sembra poi che gli organizzatori del sit-in siano venuti alla fiaccolata».
Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica di Milano, non giustifica per partito preso gli americani: «Se fosse provato l’utilizzo di armi chimiche sarebbe un fatto grave e da condannare». Ma aggiunge: «Attenzione al riflesso condizionato di chi vede complotti ogni volta che ci sono di mezzo Stati Uniti o Israele mentre non si scandalizza di fronte alle affermazioni del presidente iraniano».
Il coordinatore della Margherita, Dario Franceschini, ha un sospetto: «Non vorrei che la proposta abbia un secondo fine, legato agli equilibri interni al centrosinistra. Detto questo: occorre un’inchiesta per accertare i fatti di Falluja. Noi siamo pronti a esprimere una dura condanna. Al sit-in non abbiamo bisogno di andare: abbiamo già manifestato contro la guerra in Iraq».
Nicola Zingaretti, capogruppo dei Ds a Strasburgo, non esclude a priori che si possa manifestare per ciò che è accaduto a Falluja. Però, precisa, «una cosa è invece chiara, cioè che chi non ha partecipato alla fiaccolata, tra cui molti promotori del sit-in, ha commesso un errore». Conclude Enzo Bianco (Margherita), anche lui il 3 novembre alla marcia pro-Israele: «Anche se vengo da una tradizione politica che è cresciuta in uno spirito atlantista ed europeista ciò non mi impedisce di esprimere critiche al governo americano quando si rivela necessario. Ma è ancora troppo presto per scendere in piazza contro gli Stati Uniti: una cosa sono i filmati, un’altra le prove, le conferme sull’utilizzo di bombe al fosforo. Se arriveranno la condanna sarà fermissima».
Apcom 14.11.05
Iraq/ Bertinotti: : caro Prodi, basta con i giochi di parole
Ritiro indiscutibile, la scelta è fatta: è un punto costitutivo dell'Unione
Roma, 14 nov. (Apcom) - "La questione da tempo è approdata a un punto sicuro e fermo, il ritiro immediato delle truppe" dall'Iraq. Lo afferma, in un'intervista a 'Il giornale' il leader di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti che aggiunge: "Capisco che una scelta del genere abbia incorporato molte sofferenze e che settori di Margherita e Ds si siano considerati vinti. Ogni qualvolta gli Usa sembrano in procinto di ritirarsi prima del fallimento clamoroso in Iraq, i moderati dell'Unione ci provano. Provano ad avvolgere la questione in un quadro diplomatico, a ridurre l'impatto politico della nostra parola d'ordine. Ma il ritiro è indiscutibile".
Secondo Bertinotti "si gioca con le parole laddove invece bisognerebbe fare attenzione. Cercano di diluire l'impatto, ma tutti sanno che il ritiro è irrinunciabile. Non c'è possibilità di modificare la scelta già fatta, perché è un punto costitutivo e costruttivo dell'Unione. Prodi l'ha annunciato nel programma delle primarie...".
Quanto al presidente Talabani che ha chiesto di non abbandonare l'Iraq, il segretario di Rc, spiega: "Certo. Però non dimentichiamo che è la parola di un leader che ha una rappresentanza dimezzata, una sovranità limitata. L'anatra zoppa di un paese in guerra civile: il fatto che non abbia neppure premesso di fermare la guerra ne depotenzia l'attendibilità".
Insomma, secondo Brtinotti, quelel usate da Fassino, Prodi e D'Alema verso Talabani cono state "formule di cortesia" che però non vanno confuse con "la sostanza". E la sostanza, dice, è "che il ritiro è irrinunciabile e che, come ha fatto anche Zapatero, necessita di tempi tecnici".
Corriere della Sera 14.11.05
Banlieue: gli incendiari che odiano se stessi
Nell’esplosione di violenza delle banlieues molti analisti hanno letto il fallimento del modello d’integrazione francese. Per il filosofo André Glucksmann, invece, l’ira dei giovani delle periferie è l’indice di un’integrazione perfettamente compiuta: gli incendiari sono integrati, ma in un Paese violento, attraversato da venti d’odio e dominato dalla logica dei rapporti di forza
André Glucksmann
Quali novità sotto il cielo delle banlieue? I numeri destano preoccupazione ma aiutano a capire. L'anno scorso 28 mila automobili erano state incendiate nell'indifferenza generale. In queste ultime quindici notti sono stati registrati seimila casi. Si tratta di un semplice aumento dei falò del sabato sera? No. Bruciare veicoli vuoti o fermare autobus pieni, darli alle fiamme, vuotare ai piedi dei passeggeri bidoni di benzina e accendere un fiammifero, è diverso.
Bisogna essere filosofi per rintracciare una differenza tra la violenza contro le cose e il terrore contro le persone? Si è varcata una soglia. È l’ora del nichilismo.
È tempo di considerare seriamente la logica di distruzione ed autodistruzione che arroventa le periferie di Francia. La fiammata nichilista non risparmia gli incendiari. Fatto che, lungi dal rassicurare, dovrebbe accrescere l’apprensione sulla follia che li possiede. È nei loro stessi quartieri che costoro attaccano le auto di vicini o parenti. Demoliscono parchi-giochi e scuole frequentate da fratelli e sorelle. Inceneriscono i luoghi di ritrovo, incendiano le palestre, le rare fabbriche, i centri commerciali. Fanno tabula rasa di tutto ciò che consentirebbe loro di migliorare le proprie condizioni di vita, svagarsi, intessere relazioni o trovare lavoro. Crediamo che non si rendano conto di agire contro se stessi? Per quale motivo si accaniscono a trasformare in inferno vite già complicate? Se non sono bombe umane, giacché hanno a cuore la propria incolumità fisica e si espongono il meno possibile, sono pur sempre suicidi sociali ed esistenziali che costruiscono per sé un avvenire di ceneri e macerie. «No future».
Odio di sé, odio degli altri, odio del mondo procedono di pari passo. Si chiama logica dell’odio. «Brucio dunque sono».Ogni movimento di contestazione violenta è ostaggio di tentazioni terroriste. Queste trionfano quando l’odio prende il sopravvento, quando si inizia a definire la propria «forza» a partire dalla capacità di nuocere e da quella soltanto. Nelle fiamme che divorano i luoghi dove sono nati, gli incendiari contemplano la propria potenza e celebrano il compimento della propria virilità.
Come definire gli aggressori? Un bambino di dieci anni lava l’auto di famiglia per far piacere a suo padre, è la festa del papà. Il bambino capita sotto il fuoco incrociato di un regolamento di conti tra bande rivali e si prende un proiettile vagante. Giunto sul luogo del delitto, ilministro dell’Interno Nicolas Sarkozy propone di ripulire la città «a fondo». Ad Argenteuil lo stesso ministro usa il termine «racaille», feccia. L’opposizione insorge, è normale. I mezzi di informazione seguono, ed è il meno. Sorvoliamo sugli intrighi da basso impero. Soffermiamoci piuttosto sul nodo semantico. È lecito ricorrere al termine «racaille» e ad altre definizioni non meno dispregiative? Certi che biasimano la «feccia» non si esimono dallo scrivere qualche riga più avanti: «barbari», «selvaggi» o «canaglie». Altri, come il primo ministro, rifiutano i termini «discriminanti», si rifugiano nei sinonimi e parlano di «delinquenti». La stampa si attiene al principio della neutralità: «giovani» hanno incendiato un bus, «giovani» hanno attaccato la polizia, l’ira dei «giovani».
Come si spiega questa propensione a cercare eufemismi per indicare atti delittuosi? Non sarà paura di riconoscere in chi li compie un po’ di noi stessi? I commentatori di destra come di sinistra, i ministri, la stampa estera diagnosticano uno scacco all’integrazione. E se fosse esattamente il contrario? Gli immigrati di prima generazione non appiccavano il fuoco alle loro baraccopoli, ben più misere delle attuali «zone sensibili». I loro figli sono francesi e si comportano da francesi. L’incendio delle nostre banlieues è indice di un’integrazione compiuta: come e in cosa ci si integra? Tutto dipende da questo.
Quando gli esperti parlano di «scacco» al modello francese o americano, misurano una realtà feroce con il metro di un’integrazione ideale che non trova realizzazione in alcun luogo. Ci si immagina che si tratti di assorbire elementi esterni e stranieri fondendoli in una comunità nazionale armoniosa e pacificata. Non è mai stato così. Gli immigrati polacchi, italiani, spagnoli, armeni, ebrei si sono integrati a prezzo di drammi e dolori. Non dovevano inserirsi in contesti consensuali e paradisiaci ma in città profondamente, mortalmente lacerate. Si sono rivelati francesi schierandosi. In Francia come negli Stati Uniti l’integrazione è un processo di contestazione e conflitto. Se nessuno mette in dubbio la «francesità» dei contadini che non hanno esitato a far valere i propri interessi con mezzi violenti, dei sindacalisti che hanno minacciato di far saltare in aria i propri stabilimenti, degli impiegati di un’impresa chimica che hanno minacciato di vuotare i bacini d’acido nei corsi d’acqua, una virtù propriamente francese sarà da rintracciare anche nelle molotov delle banlieues.
Resta da stabilire a quale Francia appartengano gli incendiari nichilisti. Dove abbiano imparato che essere forti significa essere in grado di nuocere. Più distruggi, più conti, più sarai rispettato. La Francia, di destra come di sinistra, farebbe bene amirarsi nello specchio che le tendono gli sputafuoco delle nostre periferie. Chi pretende di governare l’Europa in assoluta minoranza, chi si assume il rischio di paralizzare l’Unione e vanificare cinquant’anni di sforzi costruttivi? La diplomazia francese si comporta come se le relazioni internazionali non fossero che rapporti di forza. Una simile opzione nichilista sortisce i suoi effetti interni. La negazione del diritto agisce da combustibile a tutti i livelli. Le nostre banlieues sono totalmente francesi. Gli incendiari sono integrati, ma in un Paese attraversato da venti d’odio.(traduzione di Maria Serena Natale)
Corriere della Sera 14.11.05
L’apertura dei consultori al Movimento per la vita.
Volontari anti aborto: Consultori, sinistra e laici contro il piano Storace
«No ai volontari antiaborto». Sostegno dal mondo cattolico. Ru486, via libera anche in Liguria
Marco Gasperetti
Mentre si allarga il fronte delle Regioni favorevoli all’uso della pillola abortiva (oltre a Piemonte e Toscana è arrivato l’ok dalla Liguria), è polemica sulla proposta del ministro Francesco Storace, anticipata ieri dal Corriere della Sera , di riformare i consultori familiari con la presenza di volontari del Movimento per la vita, dunque anti-abortisti. Plaude all’iniziativa il mondo cattolico e gran parte del centrodestra, si indigna la sinistra. E i radicali chiedono le dimissioni di Storace. Il ministro replica: «La sinistra è in confusione ideologica. La legge 194 è nata per prevenire l’aborto, non solo per legalizzarlo, ed è dovere del governo far sì che venga applicata». Durissimo il giudizio di Livia Turco, responsabile Welfare dei Ds. «E’ inaudito - dice la Turco - che un ministro rilanci un servizio pubblico attraverso la scelta di una sola associazione». Marco Rizzo, eurodeputato dei Comunisti italiani, accusa il ministro di oscurantismo e misantropia e giudica pericolosa l’apertura ai volontari del Movimento per la vita. «Persone - dice Rizzo - che potrebbero svolgere un ruolo di pressione psicologica sulle donne».
Storace incassa invece un giudizio positivo dal compagno di partito Riccardo Pedrizzi («Proposta encomiabile e meritoria») e dal capogruppo Udc alla Camera, Luca Volontè. «Bene Storace - ha detto il presidente dei deputati dell’Udc - al di là delle farneticazioni dei soliti radicali, la legge 194 deve ancora essere grandemente applicata nel suo articolo uno. A noi interessa invece la difesa della vita e della donna. Aspettiamo Storace in Parlamento per sapere quale azione il governo intenda adottare per dare almeno piena attuazione alla 194». Favorevole alla proposta anche Grazia Sestini (FI), sottosegretario al Welfare, che però avverte: «E’ indispensabile un accordo con le regioni e nei consultori devono entrare più associazioni».
Movimento per la vita che ieri, per bocca del segretario generale Olimpia Terzia, ha spiegato la sua posizione. «Storace ha accolto la nostra proposta per liberare il consultorio dal ruolo di dispensatore di certificati per l’aborto - spiega - che andrebbe affidato a un’altra struttura e assegnargli il compito esclusivo di accogliere e sostenere le future mamme».
Intanto un’altra regione, la Liguria, introdurrà negli ospedali la pillola Ru486. Lo ha deciso l’assessore alla Salute Claudio Montaldo, che ha accolto una richiesta di Salvatore Garzarelli, primario di ginecologia dell’ospedale San Paolo di Savona. «Sperimenteremo il farmaco per tre mesi - sottolinea l’assessore - poi decideremo di entrare a regime. Non condividiamo la posizione del ministro. Se c’è un farmaco che può aiutare le donne e non viola le legge 194 deve essere utilizzato». La prima interruzione della gravidanza entro gennaio. «Stiamo aspettando il sì del Comitato etico dell’azienda ospedaliera», spiega Garzarelli.
Domani in Toscana si svolgerà un summit della Regione per fare il punto sulla situazione e stabilire quanti sono gli ospedali che hanno richiesto la pillola abortiva.
Corriere della Sera 14.11.05
Afghanistan
«Versi d’amore, un disonore» La poetessa uccisa dal marito
C. Zec.
È morta per i suoi ghazal, Nadia Anjuman, 25 anni. Le poesie di amore - non certo erotiche, in genere tristi, a volte mistiche - della grande tradizione arabo-persiana, che la coraggiosa ragazza di Herat ha scritto per anni di nascosto. Poi, caduto il regime dei talebani, pubblicato nella raccolta Gule Dudi , fiore scuro. La settimana scorsa, nella stessa cittadina afghana che ha appena visto come prima eletta al Parlamento una donna, Nadia è stata massacrata di botte. Probabilmente uccisa dal marito, con la connivenza della sua stessa madre, o almeno così pensa la polizia che ha arrestato i due. Il giovane vedovo, laureato in letteratura, sostiene che Nadia si è suicidata. Nonostante un bimbo di sei mesi e le sue poesie finalmente stampate. E nessuno gli ha creduto. «Era una grande poetessa, una vera intellettuale, ma come molte di noi doveva obbedire ciecamente al marito», ha commentato la sua migliore amica. Poi ha aggiunto di sapere che la famiglia era «furiosa» dopo l’uscita di Gule Dudi . Una donna che rende pubblici i suoi canti d’amore e bellezza, per quanto mesti e casti, porta «disonore alla sua gente».
In un Paese dove la nuova Costituzione certifica la parità tra uomo e donna, dove il Parlamento ha una quota rosa, le tradizioni ancora una volta resistono con tenacia e orrore. Ogni anno, secondo l’Onu, sono almeno 5 mila le bambine, ragazze, donne uccise per «onore». Onore che in passato era solo legato a faccende di amore, private. E ora sta diventando anche questione di «immagine»: pochi mesi fa a Kabul la conduttrice tv Shaima Rezayee, 24 anni, è stata uccisa per strada. Probabile motivo: il suo show poco «onorevole».
Corriere della Sera 14.11.05
Lo psicologo
«Blair ha fame di potere dopo un’infanzia difficile»
Paola De Carolis
LONDRA - È insicuro per via dei traumi sofferti da giovanissimo. Rimarrà a Downing Street il più a lungo possibile. Sarà lui a decidere quando dimettersi. È fatto così: ha bisogno di mantenere il controllo. Visto attraverso gli occhi di uno psicologo - non il suo - Tony Blair ha qualcosa in comune con Hitler, Stalin, Saddam Hussein, Idi Amin: una propensione all’accentramento dei poteri causata dalla perdita di un genitore quando era poco più che ragazzino. L’insolita analisi delle radici del Blair-pensiero arriva da Oliver James, autore di un libro sull’effetto devastante che la famiglia può avere sull’individuo. Il padre di Blair fu colpito da un ictus quando Tony era al liceo. La madre morì di cancro quando il figlio aveva 22 anni. «Esperienze - sancisce James - che sicuramente lo hanno reso insicuro».
La fede religiosa gli ha permesso, aggiunge, di credere di essere il solo a sapere di cosa ha bisogno il Paese. Ed è per questo che «rimarrà aggrappato al potere sino a quando potrà». A meno che, per evitare che qualcuno lo costringa a dimettersi, decida di anticipare i tempi con «un gesto melodrammatico che gli farà credere di essere nuovamente in controllo».
Corriere della Sera 14.11.05
Gli storici Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello analizzano il lato borghese dei contestatori
Sessantotto, i conservatori con l’eskimo
«Un movimento figlio dei partiti che non seppe andare oltre l’utopia»
Nel senso comune il Sessantotto, per chi lo ama come per chi lo detesta, è sinonimo di svolta, spinta innovativa, cambiamento profondo di mentalità e costumi. Ma non tutti la pensano così. Qualcuno, dopo averne studiato le origini, afferma che, almeno in fatto di cultura politica, in Italia la contestazione giovanile nacque vecchia. A sostenerlo sono gli storici Giovanni Orsina e Gaetano Quagliariello nell’introduzione di un volume, La crisi del sistema politico italiano e il Sessantotto (Rubbettino, pp. 560, 28), che raccoglie numerose interviste a protagonisti della vita studentesca negli anni Sessanta - da Achille Occhetto a Nuccio Fava, da Aldo Brandirali a Franco Piperno - alcuni dei quali tuttora sulla breccia.
«A nostro avviso - spiega Quagliariello - la carica idealistica ed eversiva del Sessantotto in realtà rilancia i miti di rinnovamento radicale tipici delle forze che avevano fondato la Repubblica. Ciò legittima il movimento studentesco come vero erede della Resistenza e delle sue speranze deluse, mentre indebolisce i partiti storici, nei quali l’attacco dei giovani risveglia il complesso di colpa per aver tradito le proprie originarie aspirazioni ideali». I più sensibili al richiamo sono ovviamente i docenti progressisti: per esempio a Milano i filosofi Ludovico Geymonat e Mario Dal Pra, ricorda Mario Capanna, non esitano a recarsi a San Vittore per consentire agli studenti arrestati di sostenere gli esami nelle loro materie.
Il discorso tuttavia vale anche per la Dc. Nel libro Silvano Bassetti, contestatore cattolico poi passato a Lotta Continua, racconta che Aldo Moro lo ricevette e lo ascoltò con grande attenzione e altrettanta angoscia. E Luigi Covatta, all’epoca leader studentesco della stessa area, narra di aver strappato al segretario democristiano Mariano Rumor i fondi per un convegno sul Vietnam. «In quegli anni - commenta Quagliariello - si fa strada nella Chiesa la teologia della liberazione, che legge le tesi del Concilio in chiave rivoluzionaria. E non dimentichiamo che Moro è un ex dossettiano».
«In sostanza - aggiunge Orsina - la classe politica riconosce i contestatori come figli suoi, che le rimproverano le promesse inadempiute del centrosinistra, alla cui retorica radicale è seguita una prassi moderata. Non a caso, come risulta da varie interviste, l’incubazione del Sessantotto avviene nei gruppi, di fatto legati ai partiti, che animavano i parlamentini studenteschi dell’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana (Unuri). Sia i cattolici dell’Intesa sia i socialcomunisti e i laici dell’Unione goliardica (Ugi), nel periodo precedente al 1968, cercano di adeguarsi al vento movimentista che soffia negli atenei, tanto da rigettare il loro patrimonio storico di forze istituzionali. Ma non sanno dare uno sbocco alla spinta dal basso, che monta fino a travolgerli».
La situazione diventa così ingovernabile. Naufraga la riforma universitaria proposta dal ministro democristiano Luigi Gui, di cui pure oggi alcuni strenui oppositori di allora, come Claudio Petruccioli e Marco Boato, riconoscono la validità. All’ultimo congresso dell’Ugi il candidato dei partiti Valdo Spini prevale su quello dei movimentisti, Luigi Bobbio (figlio del filosofo), solo grazie a manovre che tuttora Renato Nicolini e Paolo Flores d’Arcais bollano come truffaldine. Ma non serve a nulla, perché l’Ugi è ormai morente e Spini ne sarà soltanto, secondo la tagliente definizione del suo sponsor di allora, Gianni De Michelis, «il Romolo Augustolo» (ultimo imperatore romano d’Occidente).
«Manca in Italia - osserva Quagliariello - una risposta forte al Sessantotto, un confronto aperto tra valori alternativi, che invece si manifesta in Francia con il grande corteo gollista sugli Champs Elysées a Parigi. Perciò da noi le agitazioni si trascinano per molti anni, allontanano la politica da una prospettiva di modernizzazione occidentale, con il rifiuto della democrazia delegata in nome di una vuota utopia assembleare, e di fatto ostacolano il rinnovamento del Paese».
Poi c’è il capitolo violenza. Secondo Orsina, «la radicalizzazione del movimento non è frutto della repressione dello Stato, ma piuttosto della sua inerzia, dovuta alla cattiva coscienza della classe dirigente». E la strategia della tensione, che comincia nel 1969 con la bomba di piazza Fontana? «Non voglio sottovalutare le stragi, ma è indubbio che il sistema regge alle minacce autoritarie e rimane saldamente democratico. Mentre i contestatori che enfatizzano il pericolo di destra, presentando come fasciste anche le forze moderate, non fanno che contribuire a delegittimare le istituzioni».
Ma questa lettura non è troppo incentrata sull’Italia, visto che il Sessantotto tocca tutto l’Occidente? «La nostra - risponde Orsina - è una ricerca limitata al versante nazionale di un fenomeno globale. In tutto il mondo, alla fine degli anni Sessanta, si tenta di recuperare lo spirito del 1945, i sogni di pace e giustizia congelati dalla Guerra Fredda. Ma in Italia tali caratteri si accentuano e al mutamento culturale, frutto della frattura generazionale e del boom economico, si accompagna un pesante immobilismo politico».
Per chiarire il concetto, Quagliariello cita un recente saggio dello studioso americano Paul Berman, Power and the Idealists (Soft Skull, pp. 314, $ 23,95). «L’autore parte dalle famose foto in cui il futuro ministro tedesco Joschka Fischer picchiava un poliziotto, ai tempi della contestazione, per esortare i reduci del Sessantotto a fare i conti con il passato e a sposare senza riserve la democrazia liberale. Solo così, secondo Berman, la spinta ideale di allora si può recuperare in positivo. Io temo che in Italia tale riflessione sia mancata. Forse per questo da noi gli ex del Sessantotto si trovano al vertice soprattutto nei media, da critici esterni della politica, piuttosto che (come Fischer) al governo, dove è necessario assumersi precise responsabilità».
Corriere della Sera 14.11.05
Jean-Pierre Vernant
Negli anni Quaranta del secolo appena trascorso un giovane professore dirigeva la Resistenza armata nella zona di Tolosa. Sessant’anni dopo quest’uomo è uno dei più grandi intellettuali viventi, e il grecista probabilmente più originale e importante del XX secolo, Jean-Pierre Vernant. Di lui è in libreria un nuovo libro (Senza Frontiere. Memoria mito e politica , traduzione di Arianna Ghilardotti, introduzione di Giulio Guidorizzi, Raffaello Cortina Editore, pagine 176, 18), nel quale l’autore torna con la memoria su alcuni episodi del suo passato di resistente. Ma non lo fa per soffermarsi su di essi: uomo di straordinaria modestia, non ha mai voluto scrivere una autobiografia, e neppure questo libro è tale. Il passato è l’occasione per svolgere una serie di riflessioni che riconducono al tema a lui caro dell’attività della memoria e del legame tra memoria e identità. È questo, infatti, il tema che fa da filo conduttore a questo libro. Che legame c’è tra l’antico combattente e lo studioso che ha dedicato la vita a decifrare il passato? Qual è il rapporto tra lavoro di ricerca scientifica ed esperienza di vita personale? Lo studioso pensa, a volte, che una cosa siano i testi sui quali lavora, altra cosa il suo «io»: ma così non è. Tra ricerca e vita esiste un rapporto ambiguo e complesso, «il sé non è una cosa qualsiasi». Il vecchio professore che lavora nell’ombra delle biblioteche ha un «io» diverso da quello del giovane professore che ha combattuto i nazisti, eppure è la stessa persona. Racconta Vernant che una volta, nel corso di un dibattito, gli venne chiesto se esisteva un nesso tra la sua lettura di Omero e la sua attività nella resistenza. In un primo momento, egli ricorda, ne fu scandalizzato, ma riflettendoci si rese conto dei legami che avevano tessuto una sorta di rete invisibile di corrispondenze tra il suo passato e la sua interpretazione dei poemi omerici. L’esperienza di combattente aveva orientato la sua ricerca «erudita», facendogli privilegiare determinati aspetti della poesia epica: l’ideale eroico, la vita breve dell’eroe, la sua «bella morte», l’oltraggio al cadavere, la gloria imperitura, vero onore al di là della morte, la memoria del canto poetico… A ben vedere, è il concetto stesso di persona che viene in discussione, in questo libro. Allievo di Ignace Meyerson, fondatore della psicologia storica, e fortemente influenzato da Louis Gernet, antropologo del mondo antico, Vernant collega i fenomeni mentali e psicologici alle situazioni sociali. Dal complesso del materiale raccolto in Senza frontiere emerge, così, un «io» inteso come modo di rappresentare se stessi attraverso il lavoro della memoria, e l’indicazione di un metodo oggi più che mai importante. Storicizzare i fenomeni della psiche e dell’immaginario collettivo, mostrarne i nessi anche attraverso i miti che li contengono apre un campo d’indagine enorme, in gran parte ancora da esplorare, applicabile non solo alle culture classiche. Seguendo questa via, la psicologia storica di scuola francese si contrappone alle scuole (la psicanalisi freudiana e junghiana in particolare), che intendono la dimensione dell’inconscio e dell’immaginario come un dato di fatto universale, che non hanno un’immagine in divenire delle manifestazioni mentali.
A ncora una volta, in questo libro, Vernant offre il magistero di un pensiero libero, senza pregiudizi, sgombro da un’asfittica erudizione, pronto a giungere all’essenziale dei problemi. Ogni individuo, egli scrive, è un ponte tra se stesso e gli altri, tra passato e presente, tra esperienze e ricordi. Una personalità che pone se stessa al centro degli eventi presuppone una nozione chiusa dell’io. «Attraversare le frontiere» significa, appunto, che la storia personale è la capacità di creare legami con le varie parti di sé e con l’altro da sé (il titolo francese del libro era La traversée des frontières , e meglio sarebbe stato non modificarlo). Al di là delle frontiere non è detto che s’incontri un «altro», straniero e temibile come il Ciclope: si può incontrare una parte diversa di sé, in cui pure riconoscersi, tanto sul piano individuale quanto su quello sociale. In un mondo come quello di oggi, non c’è chi non veda l’importanza dell’antropologia delle proprie radici culturali, e la sua capacità di offrirsi come strumento fondamentale per comprendere non solo i greci, ma anche noi stessi.
Ancora una volta, per questo libro, siamo debitori di Jean- Pierre Vernant: per la sua straordinaria capacità di legare passato e presente, per la naturalezza con cui sa percorrere i secoli avanti e indietro, nel tempo e nella mente. Per averci insegnato, negli anni, a vedere i greci in un altro modo. Con lui, con la sua guida, i greci non sono «attualizzati». Senza perdere la loro diversità, sono veramente attuali. E indispensabili.
Yahoo! Salute 14.11.05
Generazione confusione: così i bambini sulla stampa
A cura de Il Pensiero Scientifico Editore
Consegnato a Roma, presso l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, il rapporto Bambini e Stampa 2005, secondo Rapporto dell’Osservatorio dell’Istituto degli Innocenti, che ha esaminato più di cinque mila articoli pubblicati nel corso del 2004 dai principali quotidiani italiani, valutando l’immagine che i giornali riflettono dell’infanzia, dell’adolescenza, delle famiglie e del loro mondo. L’indagine condotta sulla rassegna stampa costituisce uno strumento di riflessione sul ruolo dei media nell’influenzare la conoscenza e la percezione della realtà dei minori da parte degli adulti con ricadute non trascurabili nel campo delle politiche sociali e degli interventi tesi all’attuazione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.
Alla presentazione di Bambini e Stampa 2005 hanno partecipato Renzo del Boca, Presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, Alessandra Maggi, Presidente dell’Istituto degli Innocenti, la Senatrice Maria Grazia Sestini, Sottosegretario Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Marina D’Amato, Presidente del Centro Nazionale di Documentazione e Analisi per l’Infanzia e l’Adolescenza, Pamela Pantano, Assessore alle Politiche di promozione dell’infanzia e della famiglia del Comune di Roma, Roberto Volpi, curatore del Rapporto.
Il confronto sull’analisi della stampa vuole essere un’occasione di stimolo per tutti coloro che si occupano di infanzia: esperti, operatori sociali e amministratori pubblici, ma anche operatori dell’informazione, famiglie e soprattutto gli stessi ragazzi che troppo spesso non si riconoscono nella rappresentazione data di loro perché troppo drammatica e negativa. Il Rapporto Bambini e Stampa 2005 vuole incoraggiare una migliore informazione sull’infanzia che, riflettendo un’immagine più concreta dei nostri figli, ci permetta di avvicinarci a loro, di capirne meglio bisogni ed esigenze.
Nel corso dell’incontro è stato assegnato per la prima volta il Premio "Bambini e Stampa - Putto d’argento", voluto dall’Istituto degli Innocenti assieme all’Ordine dei Giornalisti, quale riconoscimento per il 2004. La vincitrice è stata una redattrice dell’Espresso, Sabina Minardi, che è stata premiata per un articolo dal titolo “Generazione confusione”.
l'Unità 14.11.05
Diritti negati
Quando raccontare bugie è una patologia (capito, Silvio?)
Luigi Cancrini
Caro Cancrini,
in un tuo articolo datato 30 dicembre 2002 intitolato «Troppo narcisista per non perdere il controllo» ipotizzavi possibili (e, ad oggi, aihmè, veritieri) scenari per nulla rassicuranti in relazione ai comportamenti dell'attuale Presidente del Consiglio e dei suoi «cortigiani».
In particolare, - alla luce dei recenti avvenimenti politici (affermazioni «dal sen fuggite» subito dopo smentite, rischio di approvazione della par condicio e della legge Salva-Previti) che hanno tutta l'aria di essere gli ultimi «colpi di coda» di una coalizione che «sente» di poter perdere il proprio potere, - volevo soffermarmi, da operatore della «salute mentale» quale sono, sull'aspetto della «verità» e della «bugia» che sta ormai permeando l'opinione (e la coscienza ?) pubblica costantemente sollecitata e, direi, disorientata su tale tema.
Personalmente, ritengo che oltre che su un piano etico e morale, la menzogna o la bugia siano strettamente collegata alla «sanità» mentale di una persona e che il lavoro psicoterapeutico possa essere letto anche come disvelamento e riconoscimento di aspetti intrapsichici che la persona «nega» a se stessa. Cosa ne pensi?
Alessandro Sartori
Parlando di bugie quello che mi ricordo sempre è un bambino di sette anni (io lo chiamerò qui Luca) visto in terapia tanti anni fa per questo motivo, perché continuava a raccontare bugie a casa e a scuola. Bugie fantastiche o verosimili, assurde o plausibili che stavano creando una situazione di vero e proprio panico intorno a lui. A casa e a scuola. Bugie di cui ci sembrò, in terapia, di poter cogliere il senso nel momento in cui ci dissero, gli zii che l'avevano accolto in casa con loro, che Luca aveva perso tre anni prima, quando aveva solo quattro anni, i due genitori, morti in un incidente aereo. Perché di bugie Luca era stato nutrito a lungo, allora, da adulti che volevano proteggerlo dall'impatto con un dolore pensato e sentito come insostenibile per lui. Perché di bugie Luca continuava a nutrirsi anche a distanza di anni, dopo che era stato costretto a sapere e a capire: mettendo in piedi una strategia difensiva che gli permetteva di vivere, con la fantasia, due mondi uno reale ed uno immaginario, il cui continuo alternarsi gli permetteva di dare sollievo ad un dolore ancora troppo forte. Non confrontandosi mai sino in fondo con una realtà ancora troppo difficile da accettare.
Mi sono chiesto molte volte, allora, quali fossero in realtà il vissuto e lo stato d'animo di Luca nel momento in cui diceva le sue bugie. L'assurdità dei particolari , l'inconsistenza delle storie e, soprattutto, la facilità con cui le bugie venivano ritoccate o negate mi davano allora l'idea di una sorta di limbo della sua coscienza. Lui non credeva alle cose che diceva, in sostanza, ma le fantasticava guardandosi scorrere accanto le loro immagini sullo schermo della mente. Sono vere le immagini che scorrono davanti a noi al cinema o in casa davanti alla televisione?
Che non siano vere lo sappiamo, mi dicevo, ed esse occupano tuttavia la mente come se lo fossero. Adempiendo in modo sostanzialmente corretto al compito di tenerle occupate, la mente e la coscienza, tenendo lontani altri pensieri. Perché questo, mi pare, è il compito fondamentale delle bugie dal punto di vista che più qui mi interessa, quello della condizione psicologica della persona che le dice.
Il discorso fatto per Luca può essere fatto anche a proposito delle bugie più strumentali (e più efficaci) proposte dal politico narcisista in difficoltà? Io credo proprio di sì. Occupata per definizione (e per sua sventura) dal culto della sua immagine, la persona che ha tratti narcisistici importanti di personalità mente, abitualmente, allo scopo di negare, a sé prima che agli altri, gli argomenti e le riflessioni scomode, i discorsi che potrebbero mettere in discussione quello che gli è più caro: la bellezza, la forza, la perfezione di quella immagine, appunto, che lo specchio immaginario della sua fantasia e quello, più reale, degli occhi e degli atteggiamenti degli altri che lo circondano gli restituiscono di sé, del suo comportamento e delle sue azioni.
È per questo motivo, credo, che la gran parte delle bugie più efficaci e più evidenti sono dette con quel particolare tipo di buonafede che deriva dalla capacità di stare in una sorta di limbo della coscienza dove il vero dei desideri (o dei sogni) e il vero della realtà si confondono. Dove diventa incerto il confine fra quello che pensiamo e quello che vorremmo pensare, fra quello che vediamo e quello che vorremmo vedere. Come a me pare sia evidente tutte le volte che si ascoltano parlare Berlusconi ed i suoi, da Previti a Castelli, da Bondi a Tremonti, da Giovanardi a Schifani. Di cui direi che si presentano in fondo alle telecamere soprattutto come dei sognatori. Ad occhi aperti ed a cervello ostinatamente chiuso. Per paura prima che per calcolo.
Parlo così per deformazione professionale? Può darsi. Il fatto è che mi sembra sempre più chiaro, mentre gli anni passano, il rapporto che c'è fra i comportamenti più difficili da accettare o da tollerare perché così apertamente lasciano trasparire una patologia grave del senso morale e un nodo antico di sofferenza e di fragilità che contribuisce in modo spesso determinante al loro verificarsi.
Come se mi venisse ormai naturale di vedere, dietro all'uomo che ha bisogno patologico di mentire, il bambino infelice che non riesce a tollerare la durezza della realtà o, per dirla con Bion, la fatica e il dolore del pensiero. Come se facessi difficoltà, insomma, a non vedere Luca dietro Previti che si difende dai suoi persecutori o a Berlusconi che parla dell'Europa cattiva e dei giudici comunisti.
Anche se una differenza c'è, importante, fra Luca e loro perché Luca ha molto meno paura di loro ed ha accettato facilmente quello che è purtroppo inaccettabile per loro: il bisogno di un altro con cui parlare della sua difficoltà e del suo dolore.
l'Unità 14.11.05
Montagna: scalate per superare problemi psichici
La psicoterapia si fa in cordata
di Francesca Sancin
Matti da legare, ma in una cordata e per scalare montagne: zaino e scarponi invece di divani su cui sprofondare e spazi immensi a sostituire uno spazio medicalizzato, costretto tra quattro pareti. Questa la sfida della montagnaterapia, un approccio terapeutico che con successo utilizza escursioni e alpinismo nel campo della salute mentale e della cardiologia. Ormai da alcuni anni varie Asl del Lazio hanno sperimentato la montagnaterapia come percorso integrativo alle terapie tradizionali. Lo scorso 10 novembre, nel corso della rassegna «Montagne in città», Roma ha ospitato il quinto convegno regionale di montagnaterapia, dal titolo «Camminando tra cielo e terra». Un importante momento di confronto tra i gruppi che hanno scelto il mondo verticale come terreno fertile per la cura: e sono tanti. Oltre a Roma, ci sono anche Rieti, Frosinone, Pescara, Trento, Cuneo, Barletta e molti altri centri, grandi e piccoli. Una rete capillare ed efficace, tessuta interamente nell'ambito del servizio sanitario pubblico, perché «la sanità è una funzione, prima di essere una struttura», come spiega Giulio Scoppola, psicologo, psicoterapeuta, dirigente della Asl RME, istruttore di alpinismo del Cai e papà della montagnaterapia.
Ma come funziona una «seduta» di montagnaterapia? «Si alterna un'escursione in montagna - spiega Scoppola - a un gruppo di elaborazione in città, utilizzando il metodo della videoconfrontazione. La montagna è un territorio che parla agli aspetti più profondi del sé. Noi non siamo solo corteccia, siamo fatti anche di emozioni. Durante le uscite in montagna, pazienti fortemente disturbati riescono ad avere un rapporto sanissimo col buio, col silenzio. Con il loro corpo, con l'ambiente. Questa esperienza e questo tipo di consapevolezza incidono profondamente, in positivo, nella vita di tutti i giorni. E il supporto del video, nella seduta “cittadina”, aiuta i pazienti a recuperare quelle emozioni». La montagna, insomma, non è un setting senza pareti: è «un elemento attivo, non da controllare, ma da vivere» come spiega un altro relatore del convegno, Sergio Nascimbeni. La montagna è il luogo che ci concede la libertà profonda di essere noi stessi. Con le nostre risorse e i nostri limiti. Nascimbeni aggiunge: «È come se la montagna desse il suo consenso, con l'inutile girovagare, al diritto a star male, che spesso, nel nostro campo, è più negato del diritto alla salute. Niente è più simile all'idea di libertà».
Si parte con corde, vestiti e vivande nello zaino e si torna con «un'aumentata capacità d'attenzione, con la scoperta della solidarietà e un patrimonio di fiducia da spendere nella vita di tutti i giorni» racconta Stefano Fausti, educatore professionale dell'Asl RMA.
Fausti ha accompagnato nel 2004 un gruppo di pazienti in un trekking di 13 giorni attorno al Monte Bianco: «Sono tornati e si sentivano eroi. Tutti ci sono riusciti, tutti sono arrivati in fondo». Su quest'esperienza è stato anche girato un docufilm premiato al festival Montagnacorto.