Corriere 21.5.16
Il leader senza eredi e la guerra tra radicali
La donazione di 100 mila euro di due mesi fa e il testamento in Croazia
I nodi: simboli, fondi e sede
ROMA
Separati in casa. Da una parte la vecchia guardia che difende il
fortino della memoria: i simboli, la radio, la storia. Dall’altra, i
giovani che si presentano alle elezioni, raccolgono firme e rivendicano
il presente e il futuro. La morte di Marco Pannella segna la fine della
storia radicale per come l’abbiamo conosciuta. Il futuro è tutto da
costruire. Ma se è vero che il vecchio leader non ha eredi, è anche vero
che siamo di fronte a una situazione paradossale. Con un rischio
concreto: non più qualche ripudio o defenestrazione, come da tradizione
pannelliana, ma la spaccatura tra due mondi che fanno fatica a parlarsi.
L’«eredità»
di Pannella? Maurizio Turco sorride: «Non c’è alcuna eredità, Marco non
possedeva nulla». Eppure non è proprio così. Pannella è stato finora il
padre nobile, ma anche il garante e, di fatto, il proprietario di
molto: dei simboli (dalla Rosa nel Pugno alla Lista Pannella) e della
sede di via di Torre Argentina. Insieme a lui, hanno gestito tutto i
fedelissimi Maurizio Turco, Matteo Angioli e Rita Bernardini. Che ne
sarà ora? E che ne sarà della radio, che con Massimo Bordin e Alessio
Falconio è stata sempre vicina ai dirigenti storici? Turco, prima della
morte di Pannella, al Corriere aveva previsto qualche «bacio di Giuda».
La guerra è scoppiata all’ultima assemblea del 23-24 aprile. Ma è solo
l'inizio.
Non è chiaro se vi sia un testamento di Pannella.
L’ultimo di cui si ha notizia, si sussurra, risale al 2011, quando andò
in Croazia. Ma qualcosa è cambiato negli ultimi due mesi. È passata
quasi sotto silenzio, nonostante un comunicato ufficiale, una
«donazione» di Pannella, già malato e rinchiuso nella casa di via della
Panetteria: il 25 marzo il leader radicale ha versato 100 mila euro di
tasca sua. Cinquantamila sono finiti al Comitato mondiale per lo Stato
di diritto, presieduto da Giulio Maria Terzi (segretario Matteo
Angioli). Altri 50 mila sono finiti al «partito». Che non ha un
presidente e non fa un congresso dal 2011. Ma è di fatto nelle mani
della vecchia guardia.
E i giovani? Paradossalmente sono in
maggioranza da tempo. Da Mario Staderini a Riccardo Magi, attuale
segretario dei Radicali italiani (cosa diversa dal partito), sono i
vincitori. Marco Cappato è candidato sindaco a Milano, contro il parere
della Bernardini. E Magi è capo di una lista radicale d’appoggio a
Giachetti, a Roma. Eppure, senza simboli, senza sede e senza soldi,
rischia di mancare l’agibilità politica. Due giorni dopo la
presentazione di Cappato a Milano, un comunicato firmato da Bernardini,
Turco, ma anche Marco Beltrandi, Sergio D’Elia e Elisabetta Zamparutti,
dichiarò «incomprensibile» la sua candidatura. Del resto la Bernardini è
chiara: «Siamo divisi, abbiamo idee diverse. A Roma voterò Giachetti.
Magi? Forse non lo voto». Risponde Magi: «Non capisco cosa ci
rimproverino, mi sembra tutto molto pretestuoso. E poi non c’è nessuna
frattura generazionale: la Bonino è con noi, ma anche Cicciomessere e
Spadaccia. Mi piacerebbe che ci potessimo chiarire in una sede
istituzionale, è arrivato il momento di fare il congresso del Partito
radicale. Quanto alle urne di Roma, faccio solo presente che Pannella
fece la scelta opposta a quella della Bernardini: all’epoca votò me e
non Ignazio Marino».
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
sabato 21 maggio 2016
La Stampa 21.5.2016
Ma gli “eredi” già si dividono tra i quarantenni filo-Bonino e la vecchia guardia pannelliana
Sede ipotecata, licenziati gli ultimi dipendenti
Fondazione. La vera cassaforte è l’associazione «lista Marco Pannella» che controlla la «Torre Argentina Spa» (titolare della sede) e la radio
Giuseppe Alberto Falci
Ci sono due eredità di Marco Pannella, quella politica e quella economica. E gli eredi sono fin troppi. Da quando le condizioni del leader radicale si sono aggravate, al terzo piano di via di Torre Argentina ci si interroga sul destino delle due creature più care a Pannella, il partito e la radio. Dal 1998 le varie incarnazioni delle liste radicali si sono cristallizzate nel «Partito Radicale Non violento Transnazionale». I soggetti costituenti sono cinque: i Radicali Italiani, l’associazione Luca Coscioni, Non c’è pace senza giustizia, Nessuno tocchi Caino, e infine l’esperantista “Era”. Il segretario dell’organizzazione è Demba Traorè, avvocato del Mali, esperto di Kung fu, di cui si sono perse le tracce dal 2011. Ecco perché il Prntt non fa un congresso da quella data. Le associazioni di cui sopra non ricevono più un soldo perché il partito transnazionale non eroga finanziamenti.
Poi c’è la vera cassaforte dei radicali, l’associazione politica “lista Marco Pannella” che controlla la “Torre Argentina Spa” (titolare della sede del partito) e il “Centro di produzione Spa” di Radio Radicale. Un’associazione, che di fatto - spiega un alto dirigente - «è una fondazione», ed è composta da Maurizio Turco, Rita Bernardini, Aurelio Candido e Laura Arconti. L’associazione ha sempre chiuso i bilanci in pareggio. La sede del partito, tuttavia, è sotto ipoteca. Negli ultimi mesi si è consumato uno strappo. I giovani del partito, che fanno riferimento ad Emma Bonino avrebbero chiesto di gestire insieme la cassaforte. Dall’altra parte Turco e i suoi, ovvero la vecchia guardia di «pannelliani», hanno sbarrato la porta. «Una cosa è Emma, è un’altra sono i suoi seguaci», sbottò chi si oppose. Del resto Bonino si è via via allontanata da Torre Argentina. E pur mantenendo un legame sentimentale, ha preso le distanze, non ha più preso parte alle campagne radicali. I numeri degli iscritti al partito quest’anno sono molto bassi. A oggi i radicali possono vantare infatti 650 iscritti, con una previsione di raggiungere gli 850 entro la fine dell’anno contro i circa 900 del 2015. Un numero esiguo, motivato anche dal costo del tesseramento. L’iscrizione al partito radicale ammonta a 200 euro, una cifra non popolare. Tra tessere e donazioni i ricavi si aggirano attorno ai 250 mila euro. Una cifra non sufficiente a mantenere la struttura, al punto da aver costretto il tesoriere Turco a licenziare gli ultimi 16 dipendenti. Oggi le uniche fonti di sostentamento della “galassia” sono il 5 per mille dell’Associazione Coscioni e la radio. Il destino di quest’ultima, che riceve ogni due anni una convenzione dallo Stato pari a 9 milioni di euro, è appeso alla scadenza di ottobre. Cosa succederà? E soprattutto chi si prenderà l’eredità di Pannella? «Non esiste un altro Marco», allargano le braccia a Torre Argentina, «se non cesserà la deriva libica e se non si metteranno da parte sentimenti e risentimenti rischiamo di fare la fine della Dc di Pino Pizza».
Ma gli “eredi” già si dividono tra i quarantenni filo-Bonino e la vecchia guardia pannelliana
Sede ipotecata, licenziati gli ultimi dipendenti
Fondazione. La vera cassaforte è l’associazione «lista Marco Pannella» che controlla la «Torre Argentina Spa» (titolare della sede) e la radio
Giuseppe Alberto Falci
Ci sono due eredità di Marco Pannella, quella politica e quella economica. E gli eredi sono fin troppi. Da quando le condizioni del leader radicale si sono aggravate, al terzo piano di via di Torre Argentina ci si interroga sul destino delle due creature più care a Pannella, il partito e la radio. Dal 1998 le varie incarnazioni delle liste radicali si sono cristallizzate nel «Partito Radicale Non violento Transnazionale». I soggetti costituenti sono cinque: i Radicali Italiani, l’associazione Luca Coscioni, Non c’è pace senza giustizia, Nessuno tocchi Caino, e infine l’esperantista “Era”. Il segretario dell’organizzazione è Demba Traorè, avvocato del Mali, esperto di Kung fu, di cui si sono perse le tracce dal 2011. Ecco perché il Prntt non fa un congresso da quella data. Le associazioni di cui sopra non ricevono più un soldo perché il partito transnazionale non eroga finanziamenti.
Poi c’è la vera cassaforte dei radicali, l’associazione politica “lista Marco Pannella” che controlla la “Torre Argentina Spa” (titolare della sede del partito) e il “Centro di produzione Spa” di Radio Radicale. Un’associazione, che di fatto - spiega un alto dirigente - «è una fondazione», ed è composta da Maurizio Turco, Rita Bernardini, Aurelio Candido e Laura Arconti. L’associazione ha sempre chiuso i bilanci in pareggio. La sede del partito, tuttavia, è sotto ipoteca. Negli ultimi mesi si è consumato uno strappo. I giovani del partito, che fanno riferimento ad Emma Bonino avrebbero chiesto di gestire insieme la cassaforte. Dall’altra parte Turco e i suoi, ovvero la vecchia guardia di «pannelliani», hanno sbarrato la porta. «Una cosa è Emma, è un’altra sono i suoi seguaci», sbottò chi si oppose. Del resto Bonino si è via via allontanata da Torre Argentina. E pur mantenendo un legame sentimentale, ha preso le distanze, non ha più preso parte alle campagne radicali. I numeri degli iscritti al partito quest’anno sono molto bassi. A oggi i radicali possono vantare infatti 650 iscritti, con una previsione di raggiungere gli 850 entro la fine dell’anno contro i circa 900 del 2015. Un numero esiguo, motivato anche dal costo del tesseramento. L’iscrizione al partito radicale ammonta a 200 euro, una cifra non popolare. Tra tessere e donazioni i ricavi si aggirano attorno ai 250 mila euro. Una cifra non sufficiente a mantenere la struttura, al punto da aver costretto il tesoriere Turco a licenziare gli ultimi 16 dipendenti. Oggi le uniche fonti di sostentamento della “galassia” sono il 5 per mille dell’Associazione Coscioni e la radio. Il destino di quest’ultima, che riceve ogni due anni una convenzione dallo Stato pari a 9 milioni di euro, è appeso alla scadenza di ottobre. Cosa succederà? E soprattutto chi si prenderà l’eredità di Pannella? «Non esiste un altro Marco», allargano le braccia a Torre Argentina, «se non cesserà la deriva libica e se non si metteranno da parte sentimenti e risentimenti rischiamo di fare la fine della Dc di Pino Pizza».
La Stampa 21.5.2016
Pannella al Papa: “Ti voglio bene”
L’ultima lettera a Bergoglio. Migliaia alla camera ardente, con Mattarella e Renzi Omaggio dal Dalai Lama: “Prego per lui”. Oggi i funerali laici in piazza Navona
di Francesco Maesano
A ciascuno il suo Pannella, perché nella camera ardente allestita ieri a Montecitorio di Pannella ce n’erano tanti. Il patriarca radicale, soprattutto, ma anche l’amico del Dalai Lama, del quale indossava una sciarpa bianca ricevuta in dono, e del Papa, al quale ha scritto una lettera negli ultimi giorni prima della scomparsa. «Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano. Ho preso in mano la croce che portava monsignor Romero, e non riesco a staccarmene. Ti voglio bene davvero. Tuo, Marco».
Fuori dalla Camera una lunga fila silenziosa e paziente in attesa di salutare il Pannella che ha amato di più: quello della battaglia vinta sul divorzio, quello della causa anti-proibizionista, quello che si è schierato con i detenuti per chiedere il rispetto dei diritti di chi abita le carceri. Anche loro, i prigionieri, l’hanno ricordato: quelli del penitenziario Bolognese di Dozza hanno iniziato uno sciopero della fame, come uno dei tanti che ha portato avanti Pannella per loro. Non chiedono molto: solo che l’amministrazione carceraria invii una corona di fiori alla grande cerimonia laica convocata per oggi a piazza Navona, il luogo storico dove si sono festeggiate le vittorie radicali.
Dentro al palazzo la processione della politica; le alte cariche, il premier Renzi, Giorgio Napolitano e, mezz’ora dopo, il capo dello Stato Sergio Mattarella.
Tanti ex radicali figli di Pannella che poi, nel tempo, hanno lasciato la casa del padre per andare a ingrossare le fila delle dirigenze di quasi tutti i partiti italiani. Ci sono Capezzone, Giachetti, Della Vedova, Vito.
Vicino al feretro Laura e Matteo, l’ultima famiglia di Pannella che l’ha accompagnato fino alla fine. L’ex compagna Mirella Parachini e poi Magi e Cappato, gli eredi di un partito radicale al minimo storico. Ovviamente Emma Bonino, che accetta un po’ di malavoglia il ruolo della “vedova politica”. Le offrono una sedia, prima la rifiuta, poi l’accetta. Abbraccia con parsimonia, riceve le condoglianze di prima e seconda Repubblica, si scioglie solo con Gianfranco Spadaccia, storico radicale e amicissimo di Pannella. Quando arriva Franco Marini gli si fa incontro Francesco Rutelli: «Siete degli abbruzzesacci», gli sussurra. Qualche lacrima scappa anche a Ignazio Marino.
Nell’andirivieni di politici e persone comuni irrompe il canto di due monaci tibetani che intonano una preghiera buddista. Il palazzo tace, il suono gutturale invade l’atrio della sala Aldo Moro in un contrasto ideale tra tutte le contraddizioni che ha rappresentato Pannella dentro e fuori di sé. L'attrice porno Ilona Staller lascia il suo ultimo saluto sul libro degli ospiti mentre una ragazza si avvicina al feretro, si fa il segno della croce, prega, piange qualche lacrima e se ne va.
Pannella al Papa: “Ti voglio bene”
L’ultima lettera a Bergoglio. Migliaia alla camera ardente, con Mattarella e Renzi Omaggio dal Dalai Lama: “Prego per lui”. Oggi i funerali laici in piazza Navona
di Francesco Maesano
A ciascuno il suo Pannella, perché nella camera ardente allestita ieri a Montecitorio di Pannella ce n’erano tanti. Il patriarca radicale, soprattutto, ma anche l’amico del Dalai Lama, del quale indossava una sciarpa bianca ricevuta in dono, e del Papa, al quale ha scritto una lettera negli ultimi giorni prima della scomparsa. «Caro Papa Francesco, ti scrivo dalla mia stanza all’ultimo piano, vicino al cielo, per dirti che in realtà ti stavo vicino a Lesbo quando abbracciavi la carne martoriata di quelle donne, di quei bambini, e di quegli uomini che nessuno vuole accogliere in Europa. Questo è il Vangelo che io amo e che voglio continuare a vivere accanto agli ultimi, quelli che tutti scartano. Ho preso in mano la croce che portava monsignor Romero, e non riesco a staccarmene. Ti voglio bene davvero. Tuo, Marco».
Fuori dalla Camera una lunga fila silenziosa e paziente in attesa di salutare il Pannella che ha amato di più: quello della battaglia vinta sul divorzio, quello della causa anti-proibizionista, quello che si è schierato con i detenuti per chiedere il rispetto dei diritti di chi abita le carceri. Anche loro, i prigionieri, l’hanno ricordato: quelli del penitenziario Bolognese di Dozza hanno iniziato uno sciopero della fame, come uno dei tanti che ha portato avanti Pannella per loro. Non chiedono molto: solo che l’amministrazione carceraria invii una corona di fiori alla grande cerimonia laica convocata per oggi a piazza Navona, il luogo storico dove si sono festeggiate le vittorie radicali.
Dentro al palazzo la processione della politica; le alte cariche, il premier Renzi, Giorgio Napolitano e, mezz’ora dopo, il capo dello Stato Sergio Mattarella.
Tanti ex radicali figli di Pannella che poi, nel tempo, hanno lasciato la casa del padre per andare a ingrossare le fila delle dirigenze di quasi tutti i partiti italiani. Ci sono Capezzone, Giachetti, Della Vedova, Vito.
Vicino al feretro Laura e Matteo, l’ultima famiglia di Pannella che l’ha accompagnato fino alla fine. L’ex compagna Mirella Parachini e poi Magi e Cappato, gli eredi di un partito radicale al minimo storico. Ovviamente Emma Bonino, che accetta un po’ di malavoglia il ruolo della “vedova politica”. Le offrono una sedia, prima la rifiuta, poi l’accetta. Abbraccia con parsimonia, riceve le condoglianze di prima e seconda Repubblica, si scioglie solo con Gianfranco Spadaccia, storico radicale e amicissimo di Pannella. Quando arriva Franco Marini gli si fa incontro Francesco Rutelli: «Siete degli abbruzzesacci», gli sussurra. Qualche lacrima scappa anche a Ignazio Marino.
Nell’andirivieni di politici e persone comuni irrompe il canto di due monaci tibetani che intonano una preghiera buddista. Il palazzo tace, il suono gutturale invade l’atrio della sala Aldo Moro in un contrasto ideale tra tutte le contraddizioni che ha rappresentato Pannella dentro e fuori di sé. L'attrice porno Ilona Staller lascia il suo ultimo saluto sul libro degli ospiti mentre una ragazza si avvicina al feretro, si fa il segno della croce, prega, piange qualche lacrima e se ne va.
Corriere 21.5.16
Giustizia l’intreccio da evitare
di Ernesto Galli della Loggia
Quale separazione può mai esserci tra la giustizia e la politica quando l’associazione che riunisce i magistrati è divisa al proprio interno in varie correnti, ognuna con un esplicito orientamento politico che ricalca la classica distinzione Destra/Centro/Sinistra? Quando tali correnti si affrontano a scadenza fissa in competizioni elettorali su rigide basi proporzionalistiche per designare i membri del Csm? Quando sempre all’interno del Csm la loro attività più qualificante è — analogamente a quanto potrebbe fare un qualunque partito — quella di procacciare ai propri affiliati-elettori di rango questo o quel posto ritenuto utile o importante?
E quale separazione può mai esserci quando all’interno del ministero di Grazia e Giustizia i massimi quadri direttivi sono ricoperti da magistrati scelti come è ovvio dai vari ministri, certamente per le loro capacità ma forse anche per la loro «vicinanza» politica? O forse dovremmo pensare che il capogabinetto di un ministro, ad esempio, o il responsabile di una Direzione generale strategica vengano nominati solo per il loro curriculum professionale?
Attenzione: con quanto detto finora non voglio sostenere che curriculum e capacità professionali non contino nulla. Contano, ma nella grande maggioranza dei casi da soli non bastano. Ciò che fa la differenza, alla fine, per esempio nelle nomine deliberate dal Csm, è sempre l’orientamento politico (pur nell’ovvio e molto italiano gioco sotterraneo delle alleanze trasversali).
I n Italia, dunque, esistono giudici di destra, di centro e di sinistra. Non è un’insinuazione maliziosa: è la constatazione di un fenomeno che è divenuto inevitabile, mi pare, nel momento in cui si è deciso, come ha deciso la Costituzione, che la magistratura si «autogovernasse». Cioè che esprimesse al proprio interno un «governo». Il quale governo davvero non si vede come diavolo potrebbe mai formarsi, essendo designato dal basso e rispettando le regole del gioco democratico, se non sulla base di un orientamento politico delle varie candidature.
Ma stando così le cose si presentano con tutta evidenza due nodi di problemi che riguardano in particolare la giustizia penale.
Il primo: dal momento che in un gran numero di casi accertare la natura di un reato e le circostanze in cui è stato commesso implica una valutazione in cui entrano fortemente in ballo criteri culturali, ideali, psicologici, come fa un cittadino (un cittadino qualunque ma soprattutto un cittadino con una rilevante immagine ed attività pubbliche) ad essere ragionevolmente sicuro dell’imparzialità di un giudice le cui opinioni, lungi dall’esser protette da un «velo d’ignoranza», sono viceversa note e conclamate e magari opposte alle sue? C’è poco da fare o da discettare: non ne può essere sicuro. Ciò che, come si capisce, è particolarmente grave nel caso della magistratura inquirente (l’ufficio del pubblico ministero) titolare dell’azione penale.
Il secondo nodo di problemi può essere illustrato con questa domanda: se un magistrato non è stato designato al posto cui ambiva e a cui aveva titolo perché questo è stato assegnato ad un altro suo collega, prescelto dalla maggioranza politico-correntizia di cui egli non fa parte, in che senso può dirsi che il meccanismo ha tutelato la sua «indipendenza», cioè la sua libertà d’opinione? A ogni evidenza appare esattamente il contrario: egli è stato penalizzato per avere opinioni diverse da quella della maggioranza padrona delle nomine. Da qui un quesito non proprio irrilevante, mi pare: l’autogoverno della magistratura posto a tutela della sua indipendenza dal potere politico governativo garantisce davvero anche l’indipendenza del singolo magistrato dal potere politico che regge l’organo di autogoverno?
Una domanda rilevante, giacché nel caso si dovesse rispondere ad essa in maniera non decisamente affermativa allora si porrebbe un ulteriore quesito, e cioè: la sovranità popolare in nome della quale la giustizia è amministrata e dalla quale deriva l’autorità della legge e dei magistrati, trova una più ragionevole e congrua espressione nella maggioranza politicizzata di una corporazione quale è in fin dei conti la magistratura o in una maggioranza parlamentare eletta dal popolo e che esprime un governo? Ciò che peraltro vorrebbe dire, tuttavia, me ne rendo conto, consegnare i magistrati all’esecutivo: con i vantaggi di chiarezza che ne seguirebbero ma anche con gli ovvi, gravi pericoli.
Sono tutte questioni, quelle fin qui elencate, circa le quali meriterebbe forse discutere con spirito di verità e senza pregiudizi, specie quando si dibatte del rapporto tra politica e giustizia. Con spirito di verità e senza pregiudizi in particolare a proposito di che cosa è veramente il Consiglio superiore della magistratura, quali sono le sue logiche interne, i suoi corti circuiti, il ruolo che vi giocano le correnti. E invece, se non m’inganno, i magistrati per primi, e innanzi tutto proprio quelli che hanno una maggiore visibilità pubblica, cercano perlopiù di evitare simili argomenti. Peccato. Peccato che anche chi in teoria dovrebbe aver fatto della limpidità e della coerenza il proprio abito di vita, nella pratica, invece, adotti l’italianissimo principio che i panni sporchi si lavano in famiglia .
Giustizia l’intreccio da evitare
di Ernesto Galli della Loggia
Quale separazione può mai esserci tra la giustizia e la politica quando l’associazione che riunisce i magistrati è divisa al proprio interno in varie correnti, ognuna con un esplicito orientamento politico che ricalca la classica distinzione Destra/Centro/Sinistra? Quando tali correnti si affrontano a scadenza fissa in competizioni elettorali su rigide basi proporzionalistiche per designare i membri del Csm? Quando sempre all’interno del Csm la loro attività più qualificante è — analogamente a quanto potrebbe fare un qualunque partito — quella di procacciare ai propri affiliati-elettori di rango questo o quel posto ritenuto utile o importante?
E quale separazione può mai esserci quando all’interno del ministero di Grazia e Giustizia i massimi quadri direttivi sono ricoperti da magistrati scelti come è ovvio dai vari ministri, certamente per le loro capacità ma forse anche per la loro «vicinanza» politica? O forse dovremmo pensare che il capogabinetto di un ministro, ad esempio, o il responsabile di una Direzione generale strategica vengano nominati solo per il loro curriculum professionale?
Attenzione: con quanto detto finora non voglio sostenere che curriculum e capacità professionali non contino nulla. Contano, ma nella grande maggioranza dei casi da soli non bastano. Ciò che fa la differenza, alla fine, per esempio nelle nomine deliberate dal Csm, è sempre l’orientamento politico (pur nell’ovvio e molto italiano gioco sotterraneo delle alleanze trasversali).
I n Italia, dunque, esistono giudici di destra, di centro e di sinistra. Non è un’insinuazione maliziosa: è la constatazione di un fenomeno che è divenuto inevitabile, mi pare, nel momento in cui si è deciso, come ha deciso la Costituzione, che la magistratura si «autogovernasse». Cioè che esprimesse al proprio interno un «governo». Il quale governo davvero non si vede come diavolo potrebbe mai formarsi, essendo designato dal basso e rispettando le regole del gioco democratico, se non sulla base di un orientamento politico delle varie candidature.
Ma stando così le cose si presentano con tutta evidenza due nodi di problemi che riguardano in particolare la giustizia penale.
Il primo: dal momento che in un gran numero di casi accertare la natura di un reato e le circostanze in cui è stato commesso implica una valutazione in cui entrano fortemente in ballo criteri culturali, ideali, psicologici, come fa un cittadino (un cittadino qualunque ma soprattutto un cittadino con una rilevante immagine ed attività pubbliche) ad essere ragionevolmente sicuro dell’imparzialità di un giudice le cui opinioni, lungi dall’esser protette da un «velo d’ignoranza», sono viceversa note e conclamate e magari opposte alle sue? C’è poco da fare o da discettare: non ne può essere sicuro. Ciò che, come si capisce, è particolarmente grave nel caso della magistratura inquirente (l’ufficio del pubblico ministero) titolare dell’azione penale.
Il secondo nodo di problemi può essere illustrato con questa domanda: se un magistrato non è stato designato al posto cui ambiva e a cui aveva titolo perché questo è stato assegnato ad un altro suo collega, prescelto dalla maggioranza politico-correntizia di cui egli non fa parte, in che senso può dirsi che il meccanismo ha tutelato la sua «indipendenza», cioè la sua libertà d’opinione? A ogni evidenza appare esattamente il contrario: egli è stato penalizzato per avere opinioni diverse da quella della maggioranza padrona delle nomine. Da qui un quesito non proprio irrilevante, mi pare: l’autogoverno della magistratura posto a tutela della sua indipendenza dal potere politico governativo garantisce davvero anche l’indipendenza del singolo magistrato dal potere politico che regge l’organo di autogoverno?
Una domanda rilevante, giacché nel caso si dovesse rispondere ad essa in maniera non decisamente affermativa allora si porrebbe un ulteriore quesito, e cioè: la sovranità popolare in nome della quale la giustizia è amministrata e dalla quale deriva l’autorità della legge e dei magistrati, trova una più ragionevole e congrua espressione nella maggioranza politicizzata di una corporazione quale è in fin dei conti la magistratura o in una maggioranza parlamentare eletta dal popolo e che esprime un governo? Ciò che peraltro vorrebbe dire, tuttavia, me ne rendo conto, consegnare i magistrati all’esecutivo: con i vantaggi di chiarezza che ne seguirebbero ma anche con gli ovvi, gravi pericoli.
Sono tutte questioni, quelle fin qui elencate, circa le quali meriterebbe forse discutere con spirito di verità e senza pregiudizi, specie quando si dibatte del rapporto tra politica e giustizia. Con spirito di verità e senza pregiudizi in particolare a proposito di che cosa è veramente il Consiglio superiore della magistratura, quali sono le sue logiche interne, i suoi corti circuiti, il ruolo che vi giocano le correnti. E invece, se non m’inganno, i magistrati per primi, e innanzi tutto proprio quelli che hanno una maggiore visibilità pubblica, cercano perlopiù di evitare simili argomenti. Peccato. Peccato che anche chi in teoria dovrebbe aver fatto della limpidità e della coerenza il proprio abito di vita, nella pratica, invece, adotti l’italianissimo principio che i panni sporchi si lavano in famiglia .
La Stampa 21.5.2016
Davigo: magistrati uccisi perché chi delinque trovò sponde nello Stato
Il pm Nordio: spero non si riferisca a Mori. Gelo del governo
di Grazia Longo
Ventisette giudici vittime della mafia o del terrorismo. Ma non solo. Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, punta il dito anche contro il sostegno di alcuni organismi dello Stato. «L’Italia è l’unico Paese in Europa in cui sono caduti per mano della criminalità così tanti magistrati - ha affermato ieri durante la premiazione di un concorso sulla legalità in un liceo pugliese - e su questo ci dovremmo interrogare. Ma il motivo è uno ed è accaduto perché chi delinque ha trovato sponde in alcuni apparati dello Stato». Considerazioni che suscitano perplessità nell’ex vice ministro alla Giustizia, Enrico Costa, attualmente titolare del dicastero agli Affari regionali. «Ritengo che quelle di Davigo siano parole molto forti - stigmatizza Costa - a cui mi auguro seguano delle prove. Da magistrato qualificato qual è, il presidente Anm non può non rendersi conto della necessità di presentare delle prova a sostegno delle accuse che rivolge ad esponenti dello Stato».
Critico anche il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio: «Voglio sperare che le affermazioni di Davigo non siano legate alla recente assoluzione in appello del generale Mori, sentenza che potrebbe influenzare il processo sulla trattativa Stato-mafia. Sono certo che nessun apparato dello Stato abbia mai favorito in alcun modo la mafia o il terrorismo. Le parole di Davigo alimentano sfiducia nelle istituzioni e sono quanto meno singolari perché provengono da una persona che enfatizza molto il carattere etico dello Stato».
Ma secondo Davigo il record di vittime tra i magistrati è un’anomalia tutta italiana. E il motivo è da ricondurre proprio al fatto che «in altri Paesi le organizzazioni che delinquono sanno che avrebbero contro tutto lo Stato». In Italia, invece, è andata diversamente: «Non succede in nessun Paese europeo che ci sia un numero così alto di magistrati uccisi, anzi non c’è ne sono mai. Nemmeno in Irlanda o Spagna che hanno avuto forme di terrorismo devastanti».
L’ex pm di Tangentopoli, sempre di fronte agli studenti, evidenzia inoltre come «la differenza tra la Repubblica e Cosa nostra sia il rispetto della legalità». E ancora: «L’articolo più importante della Costituzione è il numero 2, che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo e la giustizia è uno di questi diritti. La Costituzione, insieme alle convenzioni internazionali, garantisce che la Repubblica non può compiere atti contrari ai diritti umani e questo è un motivo del quale essere orgogliosi, per il quale si può morire e la magistratura ha pagato un tributo alto». Con orgoglio il presidente dell’Anm conclude: «Valeva la pena diventare magistrato».
Davigo: magistrati uccisi perché chi delinque trovò sponde nello Stato
Il pm Nordio: spero non si riferisca a Mori. Gelo del governo
di Grazia Longo
Ventisette giudici vittime della mafia o del terrorismo. Ma non solo. Piercamillo Davigo, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, punta il dito anche contro il sostegno di alcuni organismi dello Stato. «L’Italia è l’unico Paese in Europa in cui sono caduti per mano della criminalità così tanti magistrati - ha affermato ieri durante la premiazione di un concorso sulla legalità in un liceo pugliese - e su questo ci dovremmo interrogare. Ma il motivo è uno ed è accaduto perché chi delinque ha trovato sponde in alcuni apparati dello Stato». Considerazioni che suscitano perplessità nell’ex vice ministro alla Giustizia, Enrico Costa, attualmente titolare del dicastero agli Affari regionali. «Ritengo che quelle di Davigo siano parole molto forti - stigmatizza Costa - a cui mi auguro seguano delle prove. Da magistrato qualificato qual è, il presidente Anm non può non rendersi conto della necessità di presentare delle prova a sostegno delle accuse che rivolge ad esponenti dello Stato».
Critico anche il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio: «Voglio sperare che le affermazioni di Davigo non siano legate alla recente assoluzione in appello del generale Mori, sentenza che potrebbe influenzare il processo sulla trattativa Stato-mafia. Sono certo che nessun apparato dello Stato abbia mai favorito in alcun modo la mafia o il terrorismo. Le parole di Davigo alimentano sfiducia nelle istituzioni e sono quanto meno singolari perché provengono da una persona che enfatizza molto il carattere etico dello Stato».
Ma secondo Davigo il record di vittime tra i magistrati è un’anomalia tutta italiana. E il motivo è da ricondurre proprio al fatto che «in altri Paesi le organizzazioni che delinquono sanno che avrebbero contro tutto lo Stato». In Italia, invece, è andata diversamente: «Non succede in nessun Paese europeo che ci sia un numero così alto di magistrati uccisi, anzi non c’è ne sono mai. Nemmeno in Irlanda o Spagna che hanno avuto forme di terrorismo devastanti».
L’ex pm di Tangentopoli, sempre di fronte agli studenti, evidenzia inoltre come «la differenza tra la Repubblica e Cosa nostra sia il rispetto della legalità». E ancora: «L’articolo più importante della Costituzione è il numero 2, che riconosce e tutela i diritti inviolabili dell’uomo e la giustizia è uno di questi diritti. La Costituzione, insieme alle convenzioni internazionali, garantisce che la Repubblica non può compiere atti contrari ai diritti umani e questo è un motivo del quale essere orgogliosi, per il quale si può morire e la magistratura ha pagato un tributo alto». Con orgoglio il presidente dell’Anm conclude: «Valeva la pena diventare magistrato».
Corriere 21.5.16
Viaggio dentro CasaPound
di Goffredo Buccini
I ragazzi del passato che non passa ammoniscono (amabilmente) il cronista fin sul monumentale scalone di simboli pieno: «Non fare antropologia». È una parola... Dalla scelta cromatica del vessillo (campo rosso, cerchio bianco e logo nero) che fa tanto kommandantur penzolando sul triste rettilineo di via Napoleone III, alle gallerie di foto d’epoca (volontarie del Ventennio in piazza Venezia, marcia del 28 ottobre che «non si fermerà», futurismi marinettiani assortiti); dai poster su Ciavardini e la strage di Bologna sino ai materassi da campo Hobbit sparsi all’ultimo piano per i «camerati di fuori Roma» attesi al corteo: tutto, nel mondo parallelo di CasaPound, due passi dalla stazione Termini e forse vari passi oltre l’impolverata legge Scelba, tutto, invita all’abuso antropologico e allo stereotipo.
Tutto, tranne il realismo.
Perché i fascisti del Terzo millennio, suscitati vent’anni fa dal mangiafuoco nero Gianluca Iannone attorno al pub Cutty Sark, si sono mossi velocemente: e forse non è inutile capire in quale direzione. Oggi potrebbero sfilare a migliaia da piazza Vittorio, cuore multietnico di Roma, assieme ai parigini (tre anni fa in questa data si suicidò Dominique Venner, ex Oas, Nouvelle Droite ) e in simultanea con i fascisti di Madrid, Atene e Budapest: il rischio d’un sabato anni Settanta, con la contromanifestazione dei collettivi antagonisti a due passi, è concreto («ma noi manterremo la calma, il nostro corteo è autorizzato»). E già l’idea che giovani nati tra l’ultimo scorcio del Novecento e il primo del Duemila possano darsele di santa ragione brandendo bandiere nere o rosse la dice lunga sul fallimento della pedagogia politica degli ultimi decenni.
Ma ridurre i fascisti di CasaPound alla perturbante istantanea d’una piazza a braccia distese nel saluto romano è forse difficile, ormai: a Bolzano, sorpresa, hanno preso quasi il 7 per cento ed eletto 3 consiglieri comunali e 4 municipali. Declinazione italica della tragica propensione europea alla rinascita di muri contro crisi globali e migrazioni, hanno animato una dozzina d’occupazioni «non conformi» solo a Roma (la loro sede, occupata il 26 dicembre 2003, ospita ora una ventina di famiglie). Planano sulle contraddizioni delle periferie, «incappucciano» i parcometri di Torino, «bonificano» il parcheggio della stazione di Bolzano dagli spacciatori, irrompono nei mercatini dei rom applauditi dai residenti, fanno doposcuola agli studenti abruzzesi. Malmenano denunciando spesso di essere malmenati, via di mezzo tra muscolarismo squadrista e volontarismo Guardian Angels. Possono infiammare menti deboli (Gianluca Casseri, che nel 2011 ammazzò a Firenze due senegalesi e si uccise, bazzicava la sede pistoiese) ma molti ragazzini del loro Blocco Studentesco riempiono i vuoti d’anima con miti e valori presi a prestito ormai dai nonni più che dai padri. Dichiarano ottomila tesserati, 15 librerie, 20 pub, una tv web, un mensile, un trimestrale. E forse esagerano, ma il network ha cambiato anche l’approccio, fino a ieri improntato a un’occhiuta chiusura da centro sociale. Ora Mauro Antonini (candidato presidente del IV municipio a Roma) accoglie sorridendo taccuini e telecamere.
Il primo candidato sindaco di CasaPound, Simone Di Stefano (nativo di Garbatella, aprì la porta della locale sezione missina a una quindicenne Giorgia Meloni), cita la Costituzione a ogni piè sospinto. Smessi bomber e anfibi, gira per studi tv in completo blu e cravatta; azzarda l’ossimoro di un fascismo democratico, sfodera la Carta (nata dalla resistenza antifascista) in chiave sociale: «Anticostituzionale è chi chiude qui la fabbrica e la apre in Cambogia per produrre calzini pagando gli schiavi un euro al giorno, non noi»). Chiama il Duce «Sua Eccellenza» ma con una venatura di ironia (forse). Fatto il colpo a Bolzano e archiviata malamente l’alleanza con Salvini («non ha il coraggio di rompere col carrozzone del centrodestra»), gli allievi di Iannone puntano a Torino, Latina e soprattutto Roma: «Ci aspettiamo un risultato eclatante», dice Di Stefano. Qualche vocina azzarda il 3 per cento, forse il 5, sogni fascistissimi. Obiettivo realistico è piazzare almeno un consigliere comunale, puntando a eleggere, quando sarà, addirittura un deputato. La ricetta è di presa facile: mutuo sociale, soldi prima agli italiani, banche allo Stato, tiè. Al di là dell’antropologia, resta la storia, l’orrore. Di Stefano è preparato: «Il fascismo ha responsabilità verso gli ebrei, nessuno può negare l’Olocausto». Poi però rispolvera il comodo spartiacque delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler: fascismo buono prima, malato dopo. Ma è la vulgata di un Paese privo di valori condivisi e memoria. Come in fondo questa nuova parata di fantasmi con le facce e i cuori da balilla è forse — anche — frutto di segregazione. Che tenere in un angolo buio l’Italia degli sconfitti fosse stata una cattiva idea lo pensava, ormai tanti anni fa, Luciano Lama.
Viaggio dentro CasaPound
di Goffredo Buccini
I ragazzi del passato che non passa ammoniscono (amabilmente) il cronista fin sul monumentale scalone di simboli pieno: «Non fare antropologia». È una parola... Dalla scelta cromatica del vessillo (campo rosso, cerchio bianco e logo nero) che fa tanto kommandantur penzolando sul triste rettilineo di via Napoleone III, alle gallerie di foto d’epoca (volontarie del Ventennio in piazza Venezia, marcia del 28 ottobre che «non si fermerà», futurismi marinettiani assortiti); dai poster su Ciavardini e la strage di Bologna sino ai materassi da campo Hobbit sparsi all’ultimo piano per i «camerati di fuori Roma» attesi al corteo: tutto, nel mondo parallelo di CasaPound, due passi dalla stazione Termini e forse vari passi oltre l’impolverata legge Scelba, tutto, invita all’abuso antropologico e allo stereotipo.
Tutto, tranne il realismo.
Perché i fascisti del Terzo millennio, suscitati vent’anni fa dal mangiafuoco nero Gianluca Iannone attorno al pub Cutty Sark, si sono mossi velocemente: e forse non è inutile capire in quale direzione. Oggi potrebbero sfilare a migliaia da piazza Vittorio, cuore multietnico di Roma, assieme ai parigini (tre anni fa in questa data si suicidò Dominique Venner, ex Oas, Nouvelle Droite ) e in simultanea con i fascisti di Madrid, Atene e Budapest: il rischio d’un sabato anni Settanta, con la contromanifestazione dei collettivi antagonisti a due passi, è concreto («ma noi manterremo la calma, il nostro corteo è autorizzato»). E già l’idea che giovani nati tra l’ultimo scorcio del Novecento e il primo del Duemila possano darsele di santa ragione brandendo bandiere nere o rosse la dice lunga sul fallimento della pedagogia politica degli ultimi decenni.
Ma ridurre i fascisti di CasaPound alla perturbante istantanea d’una piazza a braccia distese nel saluto romano è forse difficile, ormai: a Bolzano, sorpresa, hanno preso quasi il 7 per cento ed eletto 3 consiglieri comunali e 4 municipali. Declinazione italica della tragica propensione europea alla rinascita di muri contro crisi globali e migrazioni, hanno animato una dozzina d’occupazioni «non conformi» solo a Roma (la loro sede, occupata il 26 dicembre 2003, ospita ora una ventina di famiglie). Planano sulle contraddizioni delle periferie, «incappucciano» i parcometri di Torino, «bonificano» il parcheggio della stazione di Bolzano dagli spacciatori, irrompono nei mercatini dei rom applauditi dai residenti, fanno doposcuola agli studenti abruzzesi. Malmenano denunciando spesso di essere malmenati, via di mezzo tra muscolarismo squadrista e volontarismo Guardian Angels. Possono infiammare menti deboli (Gianluca Casseri, che nel 2011 ammazzò a Firenze due senegalesi e si uccise, bazzicava la sede pistoiese) ma molti ragazzini del loro Blocco Studentesco riempiono i vuoti d’anima con miti e valori presi a prestito ormai dai nonni più che dai padri. Dichiarano ottomila tesserati, 15 librerie, 20 pub, una tv web, un mensile, un trimestrale. E forse esagerano, ma il network ha cambiato anche l’approccio, fino a ieri improntato a un’occhiuta chiusura da centro sociale. Ora Mauro Antonini (candidato presidente del IV municipio a Roma) accoglie sorridendo taccuini e telecamere.
Il primo candidato sindaco di CasaPound, Simone Di Stefano (nativo di Garbatella, aprì la porta della locale sezione missina a una quindicenne Giorgia Meloni), cita la Costituzione a ogni piè sospinto. Smessi bomber e anfibi, gira per studi tv in completo blu e cravatta; azzarda l’ossimoro di un fascismo democratico, sfodera la Carta (nata dalla resistenza antifascista) in chiave sociale: «Anticostituzionale è chi chiude qui la fabbrica e la apre in Cambogia per produrre calzini pagando gli schiavi un euro al giorno, non noi»). Chiama il Duce «Sua Eccellenza» ma con una venatura di ironia (forse). Fatto il colpo a Bolzano e archiviata malamente l’alleanza con Salvini («non ha il coraggio di rompere col carrozzone del centrodestra»), gli allievi di Iannone puntano a Torino, Latina e soprattutto Roma: «Ci aspettiamo un risultato eclatante», dice Di Stefano. Qualche vocina azzarda il 3 per cento, forse il 5, sogni fascistissimi. Obiettivo realistico è piazzare almeno un consigliere comunale, puntando a eleggere, quando sarà, addirittura un deputato. La ricetta è di presa facile: mutuo sociale, soldi prima agli italiani, banche allo Stato, tiè. Al di là dell’antropologia, resta la storia, l’orrore. Di Stefano è preparato: «Il fascismo ha responsabilità verso gli ebrei, nessuno può negare l’Olocausto». Poi però rispolvera il comodo spartiacque delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler: fascismo buono prima, malato dopo. Ma è la vulgata di un Paese privo di valori condivisi e memoria. Come in fondo questa nuova parata di fantasmi con le facce e i cuori da balilla è forse — anche — frutto di segregazione. Che tenere in un angolo buio l’Italia degli sconfitti fosse stata una cattiva idea lo pensava, ormai tanti anni fa, Luciano Lama.
il manifesto 21.5.16
«Casa Pound non è benvenuta a Roma»
Capitale. Oggi corteo dell’estrema destra, presidio antifascista all’Esquilino. La protesta ha mobilitato l’Anpi, centri sociali, sinistra e associazioni
Il manifesto di Zerocalcare "Roma not Welcome"
di Roberto Ciccarelli
ROMA Un presidio in piazza dell’Esquilino – lato Via Cavour – a partire dalle nove di stamattina. È quanto sono riusciti a strappare gli antifascisti e antirazzisti romani dalla Questura e dalla Prefettura dopo giorni di campagna sui social con l’hashtag #casapoundnotwelcome e un presidio in piazza SS. Apostoli mercoledì scorso. «La manifestazione ce la siamo conquistata – dicono gli attivisti – è lungo il percorso che era stato inizialmente richiesto ed autorizzato a Casapound, l’organizzazione neofascista promotrice di campagne di odio e intolleranza».
Il corteo dell’estrema destra è stato convocato in contemporanea con altre manifestazioni ad Atene, Budapest e Madrid dove sfileranno organizzazioni come Alba Dorata, Alternativ Europa e Hogar Social. Lo slogan è «Difendere l’Italia». Il corteo partirà alle 10 da via Napoleone III, dove ha sede il movimento, in uno dei quartieri multietnici della Capitale. Il 4 maggio scorso era stato chiesto un percorso fino al Colosseo. La Questura non lo ha accordato poiché in campagna elettorale non è sono previsti cortei nella zona archeologica. La manifestazione proseguirà su via dello Statuto fino all’arrivo all’ex polveriera di Colle Oppio. Nel parco con vista sul Colosseo, la questura e il comune guidato dal commissario Francesco Tronca, hanno autorizzato dalle 15 anche il concerto «nazi-rock» «Tana delle Tigri». Giunto all’ottava edizione, il concerto è stato promosso dagli ZetaZeroAlfa, la band del presidente di Casa Pound Gianluca Iannone. Parteciperanno, tra gli altri, gruppi come i «Mai Morti» o una band nazionalista francese «In Memoriam».
Per gli attivisti antifascisti «è a dir poco vergognoso che il Comune autorizzi simili manifestazioni, rendendosi di fatto responsabile della diffusione di messaggi della violenza, del razzismo, dell’omofobia e della transfobia che nulla hanno a che fare con i principi fondanti della Costituzione. Invece di preoccuparsi dell’ordinaria amministrazione si accanisce contro gli spazi sociali, le associazioni di volontariato, il terzo settore con sgomberi, ordinanze, multe, sfratti». Le vertenze sono quelle della campagna «Roma non si Vende» contro gli sgomberi di 860 spazi – associazioni, partiti, centri sociali; «Decide la città» che sta elaborando la «carta dei beni comuni urbani»; la lotta dei movimenti per la casa contro la delibera Tronca che ha stravolto un provvedimento regionale sull’emergenza abitativa nella capitale. Contro questo provvedimento 23 attivisti di Action continuano uno sciopero della fame nell’occupazione abitativa in via Santa Croce in Gerusalemme.
L’Esquilino sarà militarizzato. In città c’è un clima di allarme. Si annunciano imponenti misure di sicurezza. Mille uomini saranno schierati per evitare contatti tra le due manifestazioni. Lo schema è quello, consueto, degli opposti estremismi. L’Anpi, che ha chiesto al questore D’Angelo di vietare la manifestazione dell’estrema destra, non lo accetta: «I problemi di ordine pubblico dovranno essere costituiti unicamente dai contenuti anticostituzionali della manifestazione di Casa Pound – si legge in una nota – e dalla contraddizione emersa tra uno Stato finora impotente di fronte al riemergere di ideologie condannate dalla Storia, ed organizzazioni che si ripresentano nel nostro paese legittimate dalla competizione politica, in collaborazione e sintonia con altri noti movimenti neonazisti europei».
La candidatura di Casa Pound alle amministrative ha pesato. La conferma è arrivata ieri dalla Camera dove il sottosegretario all’Interno Gianpiero Ricci ha risposto a un’interrogazione presentata dal deputato Pd Marco Miccoli. «Casa Pound rappresenta oggi un gruppo politico che, come in passato, partecipa alla competizione elettorale in diversi enti locali – ha detto Ricci – In questo contesto il divieto avrebbe assunto il significato di una non consentita compressione del diritto di espressione del pensiero». Per il governo, il problema non è costituzionale, ma logistico e di ordine pubblico, vista la concomitanza di questi eventi con i funerali di Marco Pannella e la finale di Coppa Italia Milan-Juve. «Credo che nessuno possa permettere a nessuno di sfilare per le vie della città oltraggiando la storia della Roma democratica – ha risposto Miccoli – Autorizzare un corteo perché qualcuno ha candidato sindaco il leader territoriale a noi francamente sembra cosa inadeguata».
«Casa Pound non è benvenuta a Roma»
Capitale. Oggi corteo dell’estrema destra, presidio antifascista all’Esquilino. La protesta ha mobilitato l’Anpi, centri sociali, sinistra e associazioni
Il manifesto di Zerocalcare "Roma not Welcome"
di Roberto Ciccarelli
ROMA Un presidio in piazza dell’Esquilino – lato Via Cavour – a partire dalle nove di stamattina. È quanto sono riusciti a strappare gli antifascisti e antirazzisti romani dalla Questura e dalla Prefettura dopo giorni di campagna sui social con l’hashtag #casapoundnotwelcome e un presidio in piazza SS. Apostoli mercoledì scorso. «La manifestazione ce la siamo conquistata – dicono gli attivisti – è lungo il percorso che era stato inizialmente richiesto ed autorizzato a Casapound, l’organizzazione neofascista promotrice di campagne di odio e intolleranza».
Il corteo dell’estrema destra è stato convocato in contemporanea con altre manifestazioni ad Atene, Budapest e Madrid dove sfileranno organizzazioni come Alba Dorata, Alternativ Europa e Hogar Social. Lo slogan è «Difendere l’Italia». Il corteo partirà alle 10 da via Napoleone III, dove ha sede il movimento, in uno dei quartieri multietnici della Capitale. Il 4 maggio scorso era stato chiesto un percorso fino al Colosseo. La Questura non lo ha accordato poiché in campagna elettorale non è sono previsti cortei nella zona archeologica. La manifestazione proseguirà su via dello Statuto fino all’arrivo all’ex polveriera di Colle Oppio. Nel parco con vista sul Colosseo, la questura e il comune guidato dal commissario Francesco Tronca, hanno autorizzato dalle 15 anche il concerto «nazi-rock» «Tana delle Tigri». Giunto all’ottava edizione, il concerto è stato promosso dagli ZetaZeroAlfa, la band del presidente di Casa Pound Gianluca Iannone. Parteciperanno, tra gli altri, gruppi come i «Mai Morti» o una band nazionalista francese «In Memoriam».
Per gli attivisti antifascisti «è a dir poco vergognoso che il Comune autorizzi simili manifestazioni, rendendosi di fatto responsabile della diffusione di messaggi della violenza, del razzismo, dell’omofobia e della transfobia che nulla hanno a che fare con i principi fondanti della Costituzione. Invece di preoccuparsi dell’ordinaria amministrazione si accanisce contro gli spazi sociali, le associazioni di volontariato, il terzo settore con sgomberi, ordinanze, multe, sfratti». Le vertenze sono quelle della campagna «Roma non si Vende» contro gli sgomberi di 860 spazi – associazioni, partiti, centri sociali; «Decide la città» che sta elaborando la «carta dei beni comuni urbani»; la lotta dei movimenti per la casa contro la delibera Tronca che ha stravolto un provvedimento regionale sull’emergenza abitativa nella capitale. Contro questo provvedimento 23 attivisti di Action continuano uno sciopero della fame nell’occupazione abitativa in via Santa Croce in Gerusalemme.
L’Esquilino sarà militarizzato. In città c’è un clima di allarme. Si annunciano imponenti misure di sicurezza. Mille uomini saranno schierati per evitare contatti tra le due manifestazioni. Lo schema è quello, consueto, degli opposti estremismi. L’Anpi, che ha chiesto al questore D’Angelo di vietare la manifestazione dell’estrema destra, non lo accetta: «I problemi di ordine pubblico dovranno essere costituiti unicamente dai contenuti anticostituzionali della manifestazione di Casa Pound – si legge in una nota – e dalla contraddizione emersa tra uno Stato finora impotente di fronte al riemergere di ideologie condannate dalla Storia, ed organizzazioni che si ripresentano nel nostro paese legittimate dalla competizione politica, in collaborazione e sintonia con altri noti movimenti neonazisti europei».
La candidatura di Casa Pound alle amministrative ha pesato. La conferma è arrivata ieri dalla Camera dove il sottosegretario all’Interno Gianpiero Ricci ha risposto a un’interrogazione presentata dal deputato Pd Marco Miccoli. «Casa Pound rappresenta oggi un gruppo politico che, come in passato, partecipa alla competizione elettorale in diversi enti locali – ha detto Ricci – In questo contesto il divieto avrebbe assunto il significato di una non consentita compressione del diritto di espressione del pensiero». Per il governo, il problema non è costituzionale, ma logistico e di ordine pubblico, vista la concomitanza di questi eventi con i funerali di Marco Pannella e la finale di Coppa Italia Milan-Juve. «Credo che nessuno possa permettere a nessuno di sfilare per le vie della città oltraggiando la storia della Roma democratica – ha risposto Miccoli – Autorizzare un corteo perché qualcuno ha candidato sindaco il leader territoriale a noi francamente sembra cosa inadeguata».
Repubblica 21.5.16
Le “anime” del Pd
Quel compromesso illusorio
di Gian Giacomo Migone
CARO direttore, ho letto con attenzione il lungo ed argomentato intervento di Alfredo Reichlin pubblicato su Repubblica il 16 maggio. Sono abbastanza sicuro di averlo capito bene. Ci conosciamo da parecchi anni. Reichlin cerca di salvare da se stesso il presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd: un plebiscito potrebbe avere un effetto per lui disastroso, forse anche per il Paese (ma questo, presumo, gl’importi meno). Il suggerimento suo e forse di altri sembra avere sortito un effetto, immediato com’è nel suo stile, con l’improbabile argomento che sono gli oppositori della riforma costituzionale ad avere personalizzato il dissenso. In realtà, da buoni professoroni, abbiamo ripetutamente e noiosamente spiegato che di regole si tratta, che non devono essere soggette a maggioranze di governo, oltretutto puntellate da abusi di voti di fiducia. Soprattutto, che esse non devono ledere alcuni principi costituzionali a fondamento della nostra democrazia: sovranità popolare, con il conseguente diritto dei cittadini ad esprimere la propria rappresentanza, governo a cui corrisponda un Parlamento altrettanto forte, separazione dei poteri, autonomie non improvvisate.
Non credo di sbagliarmi se affermo che la sua preoccupazione di fondo sia quella di salvaguardare l’unità del Partito Democratico, offrendo una via d’uscita alla sua minoranza dalle sue ambasce attuali. Ricorrendo ad un antico timore della tradizione comunista, che fedelmente rievoca, quella di una “spaccatura del Paese”, Reichlin propone un compromesso: il segretario rinunci ad una tattica referendaria legata alla sua persona e in cambio riceva il sostegno al Sì degli oppositori interni, paghi della soddisfazione di avere eliminato il bicameralismo paritario, non importa come, con che cosa e a quale prezzo; eventualmente pronti a pronunciare qualche penultimatum riguardo alla vigente legge elettorale.
In realtà si tratta di un compromesso illusorio, non soltanto per la mercurialità del presidente del Consiglio, appena dimostrata con il voltafaccia sul voto al lunedì: fatto apparentemente banale, ma che nasconde la rinuncia ad una partecipazione dei cittadini al voto che costituiva uno dei motivi di forza della democrazia italiana rispetto ad altre. O anche questo è populismo?
Tuttavia, vi è un altro fatto che mina alla radice la stabilità del compromesso — meglio sarebbe chiamarla tregua — interno al Pd che Reichlin propone. Vittorio Foa lo chiamava il silenzio dei comunisti rispetto alla revisione della loro pur grande storia che ha contribuito in maniera decisiva non solo a scrivere la Costituzione, oggi messa in discussione in alcuni suoi gangli vitali, ma a salvaguardare l’Italia dal cosiddetto socialismo reale e da forme involutive all’interno della Nato cui Washington sapeva ricorrere alla bisogna. Ricordo una riunione della direzione del Pds in cui Reichlin aveva il compito di spiegarci che dovevamo tutti diventare socialdemocratici. Dissi allora: «Sono d’accordo, ma forse non basta la relazione ad una riunione della direzione, nemmeno un libro di Massimo L. Salvadori che rivaluti l’ex ”rinnegato Kautsky”. La Seconda Internazionale ha una storia più lunga della Terza. Wigforss, Beveridge, Meidner, Brandt… Non serve Blair». Con un sorriso mi rispose: «Tu ci odi veramente». Ebbene non è così. E la sinistra non comunista, sia laica che cattolica, cui appartengo per cultura politica, deve chiedersi quanto in Italia abbia realizzato in nome della sua maggiore comprensione della storia occidentale.
Ma non voglio divagare più di tanto. Ciò che manca, e che ancora costituisce problema per la democrazia italiana, al di là di tutte le conclamate rottamazioni, è una comprensione critica dello stato del Paese e quale sia il compito di forze, per quanto diversificate, che ne vogliano salvaguardare la democrazia. Tutto ciò in un contesto mondiale in cui il predominio della finanza tende a sostituirsi alle istituzioni politiche e l’impoverimento dei ceti medi apre inquietanti prospettive. E in cui la Banca Morgan, dopo avere contribuito a consolidare il regime mussoliniano negli anni Venti, ancora una volta consiglia di ridurre la democrazia specie nei Paesi caratterizzati da costituzioni postfasciste.
No, stiamo al merito, come dice giustamente, e come sembra dire, almeno fino al prossimo sondaggio d’opinione, colui che — presume — ci salva da ulteriori disgrazie, conservando gelosamente quella coalizione corporativa, la classe dirigente italica, politica e non, di cui amministra temporaneamente gl’interessi. E se, così facendo, senza plebisciti favorevoli e contrari, si dovesse spaccare il Paese sulla base di un diverso giudizio sul ddl Boschi… è la democrazia, bellezza!
Gian Giacomo Migone è stato presidente della Commissione Esteri del Senato dal 1994 al 2001
Le “anime” del Pd
Quel compromesso illusorio
di Gian Giacomo Migone
CARO direttore, ho letto con attenzione il lungo ed argomentato intervento di Alfredo Reichlin pubblicato su Repubblica il 16 maggio. Sono abbastanza sicuro di averlo capito bene. Ci conosciamo da parecchi anni. Reichlin cerca di salvare da se stesso il presidente del Consiglio, nonché segretario del Pd: un plebiscito potrebbe avere un effetto per lui disastroso, forse anche per il Paese (ma questo, presumo, gl’importi meno). Il suggerimento suo e forse di altri sembra avere sortito un effetto, immediato com’è nel suo stile, con l’improbabile argomento che sono gli oppositori della riforma costituzionale ad avere personalizzato il dissenso. In realtà, da buoni professoroni, abbiamo ripetutamente e noiosamente spiegato che di regole si tratta, che non devono essere soggette a maggioranze di governo, oltretutto puntellate da abusi di voti di fiducia. Soprattutto, che esse non devono ledere alcuni principi costituzionali a fondamento della nostra democrazia: sovranità popolare, con il conseguente diritto dei cittadini ad esprimere la propria rappresentanza, governo a cui corrisponda un Parlamento altrettanto forte, separazione dei poteri, autonomie non improvvisate.
Non credo di sbagliarmi se affermo che la sua preoccupazione di fondo sia quella di salvaguardare l’unità del Partito Democratico, offrendo una via d’uscita alla sua minoranza dalle sue ambasce attuali. Ricorrendo ad un antico timore della tradizione comunista, che fedelmente rievoca, quella di una “spaccatura del Paese”, Reichlin propone un compromesso: il segretario rinunci ad una tattica referendaria legata alla sua persona e in cambio riceva il sostegno al Sì degli oppositori interni, paghi della soddisfazione di avere eliminato il bicameralismo paritario, non importa come, con che cosa e a quale prezzo; eventualmente pronti a pronunciare qualche penultimatum riguardo alla vigente legge elettorale.
In realtà si tratta di un compromesso illusorio, non soltanto per la mercurialità del presidente del Consiglio, appena dimostrata con il voltafaccia sul voto al lunedì: fatto apparentemente banale, ma che nasconde la rinuncia ad una partecipazione dei cittadini al voto che costituiva uno dei motivi di forza della democrazia italiana rispetto ad altre. O anche questo è populismo?
Tuttavia, vi è un altro fatto che mina alla radice la stabilità del compromesso — meglio sarebbe chiamarla tregua — interno al Pd che Reichlin propone. Vittorio Foa lo chiamava il silenzio dei comunisti rispetto alla revisione della loro pur grande storia che ha contribuito in maniera decisiva non solo a scrivere la Costituzione, oggi messa in discussione in alcuni suoi gangli vitali, ma a salvaguardare l’Italia dal cosiddetto socialismo reale e da forme involutive all’interno della Nato cui Washington sapeva ricorrere alla bisogna. Ricordo una riunione della direzione del Pds in cui Reichlin aveva il compito di spiegarci che dovevamo tutti diventare socialdemocratici. Dissi allora: «Sono d’accordo, ma forse non basta la relazione ad una riunione della direzione, nemmeno un libro di Massimo L. Salvadori che rivaluti l’ex ”rinnegato Kautsky”. La Seconda Internazionale ha una storia più lunga della Terza. Wigforss, Beveridge, Meidner, Brandt… Non serve Blair». Con un sorriso mi rispose: «Tu ci odi veramente». Ebbene non è così. E la sinistra non comunista, sia laica che cattolica, cui appartengo per cultura politica, deve chiedersi quanto in Italia abbia realizzato in nome della sua maggiore comprensione della storia occidentale.
Ma non voglio divagare più di tanto. Ciò che manca, e che ancora costituisce problema per la democrazia italiana, al di là di tutte le conclamate rottamazioni, è una comprensione critica dello stato del Paese e quale sia il compito di forze, per quanto diversificate, che ne vogliano salvaguardare la democrazia. Tutto ciò in un contesto mondiale in cui il predominio della finanza tende a sostituirsi alle istituzioni politiche e l’impoverimento dei ceti medi apre inquietanti prospettive. E in cui la Banca Morgan, dopo avere contribuito a consolidare il regime mussoliniano negli anni Venti, ancora una volta consiglia di ridurre la democrazia specie nei Paesi caratterizzati da costituzioni postfasciste.
No, stiamo al merito, come dice giustamente, e come sembra dire, almeno fino al prossimo sondaggio d’opinione, colui che — presume — ci salva da ulteriori disgrazie, conservando gelosamente quella coalizione corporativa, la classe dirigente italica, politica e non, di cui amministra temporaneamente gl’interessi. E se, così facendo, senza plebisciti favorevoli e contrari, si dovesse spaccare il Paese sulla base di un diverso giudizio sul ddl Boschi… è la democrazia, bellezza!
Gian Giacomo Migone è stato presidente della Commissione Esteri del Senato dal 1994 al 2001
La Stampa 21.5.2016
“Se al referendum vince il no Renzi non deve dimettersi”
L’ex segretario Pd: non ci sia alcun legame tra governo e Costituzione Appoggerei Letta candidato alla segreteria? Su di lui nessun problema
intervista di Carlo Bertini
Pierluigi Bersani non sarà in piazza a celebrare il referendum day. A sentirlo parlare e a guardare l’espressione dei suoi occhi quando si rivolge a Renzi, non sembra esserci aria di quella tregua pre-elettorale chiesta dal premier. Per schierarsi col fronte del sì l’ex leader Pd pone una sfilza di condizioni, in primis che si confermi l’elezione e non la nomina dei senatori. Poi pretende che non si parli di espulsioni dalle liste elettorali di chi voterà no in dissenso dalla “ditta” e alza la voce quando lo dice.
Un comitato del sì a suo nome lo farà Bersani?
«Adesso concentriamoci sulle amministrative. Il mio giudizio su questa riforma è che nella somma tra pregi e difetti è comunque un passo avanti, purché ci sia la legge elettorale per i senatori e mettendo a verbale che c’è un problemone che si chiama Italicum. Quella legge va rivista e appena si dovesse riaprire la questione io dirò che serve il doppio turno di collegio, se vogliamo fare una cosa seria, altrimenti la questione è pericolosa sotto il profilo democratico».
Ma al referendum dirà sì?
«Voto sì se non si cambiano le carte in tavola. Non voglio che si usi la Costituzione per dividere un paese, per affermare supremazie personali o nuovi percorsi politici o per selezionare classi dirigenti. Quindi chiedo a Renzi di rispondere alla seguente domanda: se un insegnante, operaio o costituzionalista, intende votare o lavorare per il no è un gufo, un disfattista, va buttato fuori dal Pd, non può candidarsi nel Pd? Deve rispondere, se no io mi ritengo libero».
Se lei fosse segretario accetterebbe che qualcuno facesse comitati contro la riforma del Pd?
«Illustrerei l’indicazione del partito, mi aspetterei che non ci fosse un impegno organizzativo di un dirigente Pd nei comitati per il no, direi che ovviamente c’è libertà, ricorderei che la Costituzione è il campo delle regole di tutti. Invece di discutere di riforma del Senato qui si discute di come dividere l’Italia e far prevalere gli arcangeli sui gufi».
Ma cominciare la campagna referendaria a ridosso delle comunali non è un modo per motivare la vostra gente?
«Di qui a ottobre ci sono cinque mesi, dobbiamo chiedere il voto ai ballottaggi anche a gente orientata al no. Io giro per le amministrative, stiamo perdendo di vista che il centrosinistra ha la sua vera radice nel territorio. E poi il tema economico e sociale non può essere lasciato sullo sfondo: c’è il problema che cresciamo poco, che c’è poco lavoro e un allargamento della forbice sociale che non ha paragoni come dinamica dal dopoguerra ad oggi».
L’ok dell’Ue alla flessibilità è una conquista dell’Italia o no?
«L’Ue ha allargato le maglie con tutti perchè ha capito. E noi cresciamo poco perché abbiamo pochi investimenti e poca produttività. Mi aspetterei che si partisse da li. Cosa farei domattina? Senza riti, chiamerei industriali e sindacati per dirgli: metto in pista delle misure con pochi soldi per sollecitare investimenti pubblici e privati nelle frontiere tecnologiche che possono fertilizzare nuove attività. Assieme discutiamo della contrattazione decentrata per incoraggiare la produttività e discutiamo sul serio di welfare. Farei queste cose e lascerei perdere fondi a pioggia...».
Lei rigetta la personalizzazione. Se Renzi perdesse il referendum non si dovrebbe dimettere?
«Assolutamente no, trovo improprio che ci sia questo legame tra governo e Costituzione. Ma che precedenti stiamo costruendo? Diamo in mano la Costituzione al primo governo che passa? Finchè ci siamo noi che siamo bravi e democratici bene, ma attenzione, guardiamo come è messa l’Europa. E chi è democratico tenga conto che ogni cosa che fa può essere un precedente. E ne stiamo accumulando troppi. Diciamolo chiaro ancora una volta: un voto sulla Costituzione non può essere né un referendum sul governo né il laboratorio di un nuovo partito».
Si riferisce a Verdini?
«Queste transumanze trasformistiche lanciano un messaggio devastante, che la politica è “Francia o Spagna purché se magna”. Io non personalizzo, ma Verdini è un soggetto pseudo politico che si inventa per fare transumanze di ceto politico nazionale e locale, con le loro filiere elettorali. E queste filiere non portano più voti, fanno perdere dei buoni voti, quelli intenzionali».
A Roma voterà o no Giachetti?
«Voto Pd sempre con piacere e a lui, siccome dice che vuole lasciarsi alle spalle un pezzo di Pd, chiedo se si riferisce anche a me...».
E il congresso anticipato offerto da Renzi vi garba?
«Prima si fa meglio è, ma che sia una cosa seria, perchè lo stato del partito è molto friabile e permeabile e dunque facciamolo bene, in termini di regole. In modo da non svegliarsi un mattino con le gazzette locali che scoprono che è successo questo e altro».
Speranza è lo sfidante giusto contro Renzi?
«Io non faccio il king maker, ma lui sa cosa è la politica e la moralità della politica, quindi lo stimo».
Oppure potrebbe essere Letta il vostro candidato?
«Su Letta non ho mai avuto nessun problema. E continuo a dire che non è vietato, ma non lo ordina il dottore, che un segretario sia candidato premier. E al congresso porrò questo tema».
“Se al referendum vince il no Renzi non deve dimettersi”
L’ex segretario Pd: non ci sia alcun legame tra governo e Costituzione Appoggerei Letta candidato alla segreteria? Su di lui nessun problema
intervista di Carlo Bertini
Pierluigi Bersani non sarà in piazza a celebrare il referendum day. A sentirlo parlare e a guardare l’espressione dei suoi occhi quando si rivolge a Renzi, non sembra esserci aria di quella tregua pre-elettorale chiesta dal premier. Per schierarsi col fronte del sì l’ex leader Pd pone una sfilza di condizioni, in primis che si confermi l’elezione e non la nomina dei senatori. Poi pretende che non si parli di espulsioni dalle liste elettorali di chi voterà no in dissenso dalla “ditta” e alza la voce quando lo dice.
Un comitato del sì a suo nome lo farà Bersani?
«Adesso concentriamoci sulle amministrative. Il mio giudizio su questa riforma è che nella somma tra pregi e difetti è comunque un passo avanti, purché ci sia la legge elettorale per i senatori e mettendo a verbale che c’è un problemone che si chiama Italicum. Quella legge va rivista e appena si dovesse riaprire la questione io dirò che serve il doppio turno di collegio, se vogliamo fare una cosa seria, altrimenti la questione è pericolosa sotto il profilo democratico».
Ma al referendum dirà sì?
«Voto sì se non si cambiano le carte in tavola. Non voglio che si usi la Costituzione per dividere un paese, per affermare supremazie personali o nuovi percorsi politici o per selezionare classi dirigenti. Quindi chiedo a Renzi di rispondere alla seguente domanda: se un insegnante, operaio o costituzionalista, intende votare o lavorare per il no è un gufo, un disfattista, va buttato fuori dal Pd, non può candidarsi nel Pd? Deve rispondere, se no io mi ritengo libero».
Se lei fosse segretario accetterebbe che qualcuno facesse comitati contro la riforma del Pd?
«Illustrerei l’indicazione del partito, mi aspetterei che non ci fosse un impegno organizzativo di un dirigente Pd nei comitati per il no, direi che ovviamente c’è libertà, ricorderei che la Costituzione è il campo delle regole di tutti. Invece di discutere di riforma del Senato qui si discute di come dividere l’Italia e far prevalere gli arcangeli sui gufi».
Ma cominciare la campagna referendaria a ridosso delle comunali non è un modo per motivare la vostra gente?
«Di qui a ottobre ci sono cinque mesi, dobbiamo chiedere il voto ai ballottaggi anche a gente orientata al no. Io giro per le amministrative, stiamo perdendo di vista che il centrosinistra ha la sua vera radice nel territorio. E poi il tema economico e sociale non può essere lasciato sullo sfondo: c’è il problema che cresciamo poco, che c’è poco lavoro e un allargamento della forbice sociale che non ha paragoni come dinamica dal dopoguerra ad oggi».
L’ok dell’Ue alla flessibilità è una conquista dell’Italia o no?
«L’Ue ha allargato le maglie con tutti perchè ha capito. E noi cresciamo poco perché abbiamo pochi investimenti e poca produttività. Mi aspetterei che si partisse da li. Cosa farei domattina? Senza riti, chiamerei industriali e sindacati per dirgli: metto in pista delle misure con pochi soldi per sollecitare investimenti pubblici e privati nelle frontiere tecnologiche che possono fertilizzare nuove attività. Assieme discutiamo della contrattazione decentrata per incoraggiare la produttività e discutiamo sul serio di welfare. Farei queste cose e lascerei perdere fondi a pioggia...».
Lei rigetta la personalizzazione. Se Renzi perdesse il referendum non si dovrebbe dimettere?
«Assolutamente no, trovo improprio che ci sia questo legame tra governo e Costituzione. Ma che precedenti stiamo costruendo? Diamo in mano la Costituzione al primo governo che passa? Finchè ci siamo noi che siamo bravi e democratici bene, ma attenzione, guardiamo come è messa l’Europa. E chi è democratico tenga conto che ogni cosa che fa può essere un precedente. E ne stiamo accumulando troppi. Diciamolo chiaro ancora una volta: un voto sulla Costituzione non può essere né un referendum sul governo né il laboratorio di un nuovo partito».
Si riferisce a Verdini?
«Queste transumanze trasformistiche lanciano un messaggio devastante, che la politica è “Francia o Spagna purché se magna”. Io non personalizzo, ma Verdini è un soggetto pseudo politico che si inventa per fare transumanze di ceto politico nazionale e locale, con le loro filiere elettorali. E queste filiere non portano più voti, fanno perdere dei buoni voti, quelli intenzionali».
A Roma voterà o no Giachetti?
«Voto Pd sempre con piacere e a lui, siccome dice che vuole lasciarsi alle spalle un pezzo di Pd, chiedo se si riferisce anche a me...».
E il congresso anticipato offerto da Renzi vi garba?
«Prima si fa meglio è, ma che sia una cosa seria, perchè lo stato del partito è molto friabile e permeabile e dunque facciamolo bene, in termini di regole. In modo da non svegliarsi un mattino con le gazzette locali che scoprono che è successo questo e altro».
Speranza è lo sfidante giusto contro Renzi?
«Io non faccio il king maker, ma lui sa cosa è la politica e la moralità della politica, quindi lo stimo».
Oppure potrebbe essere Letta il vostro candidato?
«Su Letta non ho mai avuto nessun problema. E continuo a dire che non è vietato, ma non lo ordina il dottore, che un segretario sia candidato premier. E al congresso porrò questo tema».
Corriere 21.5.16
Aderire ai comitati del No? Così si divide la sinistra togata
di Giovanni Bianconi
ROMA Alla consultazione popolare di ottobre voteranno «No» e sosterranno pubblicamente questa scelta (la grande maggioranza, almeno), ma senza entrare nei comitati referendari contrapposti alla riforma costituzionale del governo Renzi. Così ha deciso il coordinamento di «Area», il cartello che riunisce le toghe di sinistra: quelle di Magistratura democratica, del Movimento per la giustizia e altre senza correnti di provenienza. Provocando così una distinzione (il termine «spaccatura» non piace perché troppo eclatante) al proprio interno. Già, perché Md ha aderito al Comitato per il No fin da gennaio; e così hanno fatto altri magistrati di spicco come il procuratore di Torino Armando Spataro, tra i fondatori del Movimento.
Il giudizio sulla riforma, nel comunicato di Area, è netto e fortemente critico. Basti dire che le modifiche costituzionali «comportano un depotenziamento del ruolo del Parlamento rispetto a quello del Governo e incidono sul principio di separazione dei poteri». Di qui la considerazione che «la partecipazione attiva dei magistrati che si riconoscono in Area ad iniziative volte ad approfondire tecnicamente il contenuto della riforma sia legittima e anzi opportuna». Tuttavia questo impegno «può realizzarsi efficacemente anche al di fuori dei comitati referendari, cui riteniamo di non aderire nel rispetto delle diverse posizioni e sensibilità esistenti in Area».
Appena questa determinazione ha cominciato a circolare, nella mailing list c’è chi ha notato la contraddizione tra motivazioni e conclusione. Il pubblico ministero genovese Francesco Pinto, con «benevola ironia», ha scritto: «Nel nostro mondo la non conformità tra quanto argomentato e il dispositivo finale dà luogo al fenomeno delle cosiddette “sentenze suicide”; mi auguro che non sia di cattivo auspicio per Area». Anche altri hanno storto il naso, e il procuratore Spataro non nasconde la delusione per il mancato «schieramento esplicito» di Area in favore del No: «Spero non si tratti di una conseguenza derivante dall’erronea qualificazione “politica” che si vuole attribuirgli. Ciò che lega quanti si riconoscono in un gruppo, anche di magistrati, non può che essere la condivisione di valori e principi, e quelli scritti nella nostra Costituzione, baluardo dell’equilibrio tra i poteri, sono all’evidenza i più importanti».
Il giudice civile Mario Suriano, portavoce di Area, difende una scelta a conclusione di «un articolato percorso di assemblee territoriali, dove ha prevalso la contrarietà alla riforma ma c’è stato pure chi l’ha sostenuta. Fermo restando il diritto a prendere pubblica posizione, e l’auspicio che si partecipi attivamente al dibattito, l’adesione ai comitati è stata scartata per rispettare le posizioni di tutti». A chi sospetta un condizionamento dettato dalle recenti polemiche, compreso l’altolà del vice-presidente del Csm Legnini e altre voci, Suriano ribatte che non è così: «Anzi, certe prese di posizione potevano determinare l’effetto contrario, secondo la nota reazione dell’arroccamento...».
Per paradossale che possa sembrare, dentro Md a molti la distinzione non dispiace. Perché quella corrente ha e rivendica una tradizione di militanza su temi «politici» ben più marcata, per cui un «profilo a più bassa intensità ideologica» da parte di Area garantisce alla corrente storica delle «toghe rosse» una propria visibilità, oltre che un’ulteriore ragion d’essere. Il Movimento per la giustizia, dal quale Spataro si attendeva una rapida scelta di campo, deciderà cosa fare nell’assemblea nazionale dell’11 e 12 giugno: «Tra di noi esistono diverse sensibilità — spiega il segretario Carlo Sabatini — ma comune è la preoccupazione per l’accentramento dei poteri nell’esecutivo e per gli squilibri che possono crearsi nei meccanismi di contrappeso e negli organi di garanzia, come il Csm». Nell’attesa, oggi l’Associazione magistrati, che non prenderà posizione, discuterà e deciderà in quali termini garantire alle correnti (oltre che ai singoli magistrati) l’adesione pubblica all’una o all’altra scelta.
Aderire ai comitati del No? Così si divide la sinistra togata
di Giovanni Bianconi
ROMA Alla consultazione popolare di ottobre voteranno «No» e sosterranno pubblicamente questa scelta (la grande maggioranza, almeno), ma senza entrare nei comitati referendari contrapposti alla riforma costituzionale del governo Renzi. Così ha deciso il coordinamento di «Area», il cartello che riunisce le toghe di sinistra: quelle di Magistratura democratica, del Movimento per la giustizia e altre senza correnti di provenienza. Provocando così una distinzione (il termine «spaccatura» non piace perché troppo eclatante) al proprio interno. Già, perché Md ha aderito al Comitato per il No fin da gennaio; e così hanno fatto altri magistrati di spicco come il procuratore di Torino Armando Spataro, tra i fondatori del Movimento.
Il giudizio sulla riforma, nel comunicato di Area, è netto e fortemente critico. Basti dire che le modifiche costituzionali «comportano un depotenziamento del ruolo del Parlamento rispetto a quello del Governo e incidono sul principio di separazione dei poteri». Di qui la considerazione che «la partecipazione attiva dei magistrati che si riconoscono in Area ad iniziative volte ad approfondire tecnicamente il contenuto della riforma sia legittima e anzi opportuna». Tuttavia questo impegno «può realizzarsi efficacemente anche al di fuori dei comitati referendari, cui riteniamo di non aderire nel rispetto delle diverse posizioni e sensibilità esistenti in Area».
Appena questa determinazione ha cominciato a circolare, nella mailing list c’è chi ha notato la contraddizione tra motivazioni e conclusione. Il pubblico ministero genovese Francesco Pinto, con «benevola ironia», ha scritto: «Nel nostro mondo la non conformità tra quanto argomentato e il dispositivo finale dà luogo al fenomeno delle cosiddette “sentenze suicide”; mi auguro che non sia di cattivo auspicio per Area». Anche altri hanno storto il naso, e il procuratore Spataro non nasconde la delusione per il mancato «schieramento esplicito» di Area in favore del No: «Spero non si tratti di una conseguenza derivante dall’erronea qualificazione “politica” che si vuole attribuirgli. Ciò che lega quanti si riconoscono in un gruppo, anche di magistrati, non può che essere la condivisione di valori e principi, e quelli scritti nella nostra Costituzione, baluardo dell’equilibrio tra i poteri, sono all’evidenza i più importanti».
Il giudice civile Mario Suriano, portavoce di Area, difende una scelta a conclusione di «un articolato percorso di assemblee territoriali, dove ha prevalso la contrarietà alla riforma ma c’è stato pure chi l’ha sostenuta. Fermo restando il diritto a prendere pubblica posizione, e l’auspicio che si partecipi attivamente al dibattito, l’adesione ai comitati è stata scartata per rispettare le posizioni di tutti». A chi sospetta un condizionamento dettato dalle recenti polemiche, compreso l’altolà del vice-presidente del Csm Legnini e altre voci, Suriano ribatte che non è così: «Anzi, certe prese di posizione potevano determinare l’effetto contrario, secondo la nota reazione dell’arroccamento...».
Per paradossale che possa sembrare, dentro Md a molti la distinzione non dispiace. Perché quella corrente ha e rivendica una tradizione di militanza su temi «politici» ben più marcata, per cui un «profilo a più bassa intensità ideologica» da parte di Area garantisce alla corrente storica delle «toghe rosse» una propria visibilità, oltre che un’ulteriore ragion d’essere. Il Movimento per la giustizia, dal quale Spataro si attendeva una rapida scelta di campo, deciderà cosa fare nell’assemblea nazionale dell’11 e 12 giugno: «Tra di noi esistono diverse sensibilità — spiega il segretario Carlo Sabatini — ma comune è la preoccupazione per l’accentramento dei poteri nell’esecutivo e per gli squilibri che possono crearsi nei meccanismi di contrappeso e negli organi di garanzia, come il Csm». Nell’attesa, oggi l’Associazione magistrati, che non prenderà posizione, discuterà e deciderà in quali termini garantire alle correnti (oltre che ai singoli magistrati) l’adesione pubblica all’una o all’altra scelta.
il manifesto 21.5.16
Banchetti di governo
Parte oggi l'inedita raccolta di firme tra i sostenitori del Sì che chiedono il referendum sulla riforma costituzionale. Studiata a palazzo Chigi, durerà poco
A. Fab.
Oggi, con il presidente del Consiglio come testimonial, parte la raccolta di firme (ne servono 500mila) dei sostenitori del Sì al referendum costituzionale. La raccolta promossa dai sostenitori del No è già partita da qualche settimana, anche se la stampa ne ha parlato pochissimo. Si tratta in entrambi i casi di iniziativa dal valore politico, non necessarie dal punto di vista pratico. Il referendum costituzionale, infatti, si farà – molto probabilmente a metà ottobre – perché lo hanno già chiesto deputati e senatori dell’opposizione. Successivamente anche i parlamentari della maggioranza renziana hanno fatto la loro richiesta, logicamente meno lineare dal momento che il referendum sulla legge di revisione costituzionale è un tentativo (l’ultimo) di fermare la riforma da parte di chi la contesta. Ma se è già successo, nei due unici precedenti di referendum costituzionale, che i parlamentari di maggioranza abbiano chiesto anche loro una verifica popolare del Sì, l’iniziativa renziana della raccolta delle firme per confermare la riforma è inedita. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd l’ha immaginata per mobilitare il partito – anche o soprattutto i poco convinti esponenti della minoranza bersaniana – ma anche per cominciare da subito il braccio di ferro con i sostenitori del No.
La scadenza che si è dato il Pd è eloquente. La campagna di raccolta comincia domani, la legge sul referendum concede tre mesi quindi potrebbe tranquillamente concludersi il 20 agosto. Invece Renzi ha deciso di dimezzarsi i tempi, e ha annunciato che la consegna delle firme in Cassazione sarà fatta l’8 luglio. Una prova di forza, richiesta anche dalla necessità di non prolungare troppo i tempi del referendum: per la fine di agosto Renzi immagina già di convocare il Consiglio dei ministri che dovrà fissare la data della consultazione. E allo stesso tempo una sfida diretta ai comitati del No, che invece proprio a luglio prevedono di consegnare le loro firme: il 13 per il referendum costituzionale e ancora prima (il 2 luglio) le firme per la richiesta di due referendum abrogativi della legge elettorale. Chi avrà più firme?
Renzi ha dalla sua il sostegno più o meno convinto del partito, quello che pare assai convinto dell’informazione e soprattutto potrà contare sui tour elettorali di ministri e sottosegretari. Se oggi il presidente del Consiglio sarà a Bergamo, la ministra Boschi sarà a Reggio Emilia per un’iniziativa istituzionale sul 70esimo anniversario del voto alle donne. Con l’occasione ha annunciato una visita ai primi banchetti per il Sì. L’Associazione nazionale partigiani, che compare tra gli organizzatori della manifestazione istituzionale, contesterà invece – con una lettera – le recenti parole della ministra che ha accomunato i sostenitori del No (come l’Anpi, per decisione dell’ultimo congresso) ai fascisti di Casa Pound. E proprio l’Anpi insieme all’Arci ha promosso a partire da domani una settimana di mobilitazione straordinaria per la raccolta delle firme (su riforma e Italicum) chiamando «i cittadini a esprimere il proprio dissenso verso una legge elettorale che umilia la loro rappresentanza in parlamento e verso una riforma della Costituzione che stravolge il bilanciamento dei poteri riducendo gli spazi di democrazia».
Banchetti di governo
Parte oggi l'inedita raccolta di firme tra i sostenitori del Sì che chiedono il referendum sulla riforma costituzionale. Studiata a palazzo Chigi, durerà poco
A. Fab.
Oggi, con il presidente del Consiglio come testimonial, parte la raccolta di firme (ne servono 500mila) dei sostenitori del Sì al referendum costituzionale. La raccolta promossa dai sostenitori del No è già partita da qualche settimana, anche se la stampa ne ha parlato pochissimo. Si tratta in entrambi i casi di iniziativa dal valore politico, non necessarie dal punto di vista pratico. Il referendum costituzionale, infatti, si farà – molto probabilmente a metà ottobre – perché lo hanno già chiesto deputati e senatori dell’opposizione. Successivamente anche i parlamentari della maggioranza renziana hanno fatto la loro richiesta, logicamente meno lineare dal momento che il referendum sulla legge di revisione costituzionale è un tentativo (l’ultimo) di fermare la riforma da parte di chi la contesta. Ma se è già successo, nei due unici precedenti di referendum costituzionale, che i parlamentari di maggioranza abbiano chiesto anche loro una verifica popolare del Sì, l’iniziativa renziana della raccolta delle firme per confermare la riforma è inedita. Il presidente del Consiglio e segretario del Pd l’ha immaginata per mobilitare il partito – anche o soprattutto i poco convinti esponenti della minoranza bersaniana – ma anche per cominciare da subito il braccio di ferro con i sostenitori del No.
La scadenza che si è dato il Pd è eloquente. La campagna di raccolta comincia domani, la legge sul referendum concede tre mesi quindi potrebbe tranquillamente concludersi il 20 agosto. Invece Renzi ha deciso di dimezzarsi i tempi, e ha annunciato che la consegna delle firme in Cassazione sarà fatta l’8 luglio. Una prova di forza, richiesta anche dalla necessità di non prolungare troppo i tempi del referendum: per la fine di agosto Renzi immagina già di convocare il Consiglio dei ministri che dovrà fissare la data della consultazione. E allo stesso tempo una sfida diretta ai comitati del No, che invece proprio a luglio prevedono di consegnare le loro firme: il 13 per il referendum costituzionale e ancora prima (il 2 luglio) le firme per la richiesta di due referendum abrogativi della legge elettorale. Chi avrà più firme?
Renzi ha dalla sua il sostegno più o meno convinto del partito, quello che pare assai convinto dell’informazione e soprattutto potrà contare sui tour elettorali di ministri e sottosegretari. Se oggi il presidente del Consiglio sarà a Bergamo, la ministra Boschi sarà a Reggio Emilia per un’iniziativa istituzionale sul 70esimo anniversario del voto alle donne. Con l’occasione ha annunciato una visita ai primi banchetti per il Sì. L’Associazione nazionale partigiani, che compare tra gli organizzatori della manifestazione istituzionale, contesterà invece – con una lettera – le recenti parole della ministra che ha accomunato i sostenitori del No (come l’Anpi, per decisione dell’ultimo congresso) ai fascisti di Casa Pound. E proprio l’Anpi insieme all’Arci ha promosso a partire da domani una settimana di mobilitazione straordinaria per la raccolta delle firme (su riforma e Italicum) chiamando «i cittadini a esprimere il proprio dissenso verso una legge elettorale che umilia la loro rappresentanza in parlamento e verso una riforma della Costituzione che stravolge il bilanciamento dei poteri riducendo gli spazi di democrazia».
Corriere 21.5.16
Una campagna in salita che il premier vuole vincere
di Massimo Franco
Sarà un inizio in salita. Eppure, Matteo Renzi sembra intenzionato a trasformare la campagna per il referendum sulle riforme istituzionali in una rivincita. Sugli avversari dentro e fuori dal Pd; e, se andassero male le Amministrative del 5 giugno, anche sugli elettori delusi. I volantini della mobilitazione che parte oggi lasciano capire che l’Italia sarà martellata sui successi dell’esecutivo, per quanto controversi. Qualunque dubbio o critica saranno rispediti al mittente.
Sostenere di avere «preso per mano l’Italia nel momento più duro», significa rivendicare una rinascita assai problematica. «Il Pd semplicemente ci sta provando», perché l’Italia «possa tornare leader in Europa e nel mondo». Il logo rassicurante afferma che «basta un sì» al referendum. Ma chiedendolo ad esempio «per togliere poteri alle regioni inefficienti», si dimentica che in maggioranza sono governate dal Pd. In più, i dati economici forniti dall’Istat sono da pesare e decifrare con attenzione e senza trionfalismo.
Le opposizioni li definiscono disastrosi, il governo incoraggianti, confermando la determinazione a non deflettere da una narrativa giocata in positivo, e refrattaria a qualunque pessimismo. Sarà difficile evitare l’accusa di voler personalizzare la consultazione. Il fatto che oggi, data del «referendum Day», il premier schieri il ministro Maria Elena Boschi e il sottosegretario Luca Lotti, evoca il nucleo duro del renzismo. I protagonisti sono e saranno in primo luogo i componenti del primo cerchio di Palazzo Chigi.
Renzi sarà a Bergamo, la Boschi a Reggio Emilia e Lotti a Firenze. Ma ci saranno anche i fautori del «no»: quelli che per ora i sondaggi danno, a sorpresa, in vantaggio; e che sperano a ottobre di liquidare Renzi. La virulenza dei loro attacchi è vistosa. Si evoca la «schiforma Renzi-Boschi della Costituzione», espressione coniata dal berlusconiano Renato Brunetta. A Reggio Emilia, quelle che si autodefiniscono «le vere donne di sinistra» cercano di boicottare la Boschi. «Non si accettano lezioni da una ministra che vuole cambiare la Costituzione» è la loro tesi, «e che ha equiparato il «no» alla riforma a casa Pound».
Se questa è l’aria, figurarsi quando la campagna entrerà nel vivo. Si confrontano «due idee dell’Italia», ribadisce il premier additando la propria opposta alla «palude». Replica alla minoranza del Pd, ricordando che il referendum «non è il congresso del partito». Rivendica il placet europeo sulla «flessibilità» in materia di spesa pubblica, legandolo alla credibilità del governo. E cerca di spoliticizzare le Amministrative, per mettere Palazzo Chigi al riparo da un eventuale risultato negativo: anche se in quel caso diventerebbe tutto più difficile.
Una campagna in salita che il premier vuole vincere
di Massimo Franco
Sarà un inizio in salita. Eppure, Matteo Renzi sembra intenzionato a trasformare la campagna per il referendum sulle riforme istituzionali in una rivincita. Sugli avversari dentro e fuori dal Pd; e, se andassero male le Amministrative del 5 giugno, anche sugli elettori delusi. I volantini della mobilitazione che parte oggi lasciano capire che l’Italia sarà martellata sui successi dell’esecutivo, per quanto controversi. Qualunque dubbio o critica saranno rispediti al mittente.
Sostenere di avere «preso per mano l’Italia nel momento più duro», significa rivendicare una rinascita assai problematica. «Il Pd semplicemente ci sta provando», perché l’Italia «possa tornare leader in Europa e nel mondo». Il logo rassicurante afferma che «basta un sì» al referendum. Ma chiedendolo ad esempio «per togliere poteri alle regioni inefficienti», si dimentica che in maggioranza sono governate dal Pd. In più, i dati economici forniti dall’Istat sono da pesare e decifrare con attenzione e senza trionfalismo.
Le opposizioni li definiscono disastrosi, il governo incoraggianti, confermando la determinazione a non deflettere da una narrativa giocata in positivo, e refrattaria a qualunque pessimismo. Sarà difficile evitare l’accusa di voler personalizzare la consultazione. Il fatto che oggi, data del «referendum Day», il premier schieri il ministro Maria Elena Boschi e il sottosegretario Luca Lotti, evoca il nucleo duro del renzismo. I protagonisti sono e saranno in primo luogo i componenti del primo cerchio di Palazzo Chigi.
Renzi sarà a Bergamo, la Boschi a Reggio Emilia e Lotti a Firenze. Ma ci saranno anche i fautori del «no»: quelli che per ora i sondaggi danno, a sorpresa, in vantaggio; e che sperano a ottobre di liquidare Renzi. La virulenza dei loro attacchi è vistosa. Si evoca la «schiforma Renzi-Boschi della Costituzione», espressione coniata dal berlusconiano Renato Brunetta. A Reggio Emilia, quelle che si autodefiniscono «le vere donne di sinistra» cercano di boicottare la Boschi. «Non si accettano lezioni da una ministra che vuole cambiare la Costituzione» è la loro tesi, «e che ha equiparato il «no» alla riforma a casa Pound».
Se questa è l’aria, figurarsi quando la campagna entrerà nel vivo. Si confrontano «due idee dell’Italia», ribadisce il premier additando la propria opposta alla «palude». Replica alla minoranza del Pd, ricordando che il referendum «non è il congresso del partito». Rivendica il placet europeo sulla «flessibilità» in materia di spesa pubblica, legandolo alla credibilità del governo. E cerca di spoliticizzare le Amministrative, per mettere Palazzo Chigi al riparo da un eventuale risultato negativo: anche se in quel caso diventerebbe tutto più difficile.
il manifesto 21.5.16
Renzi: “Io non c’entro, si vota per i comuni”
Amministrative. Brutti sondaggi per il Pd in vista delle amministrative del 5 giugno. E il presidente del Consiglio si chiama fuori
di Andrea Colombo
«Il voto per i sindaci non è per il governo». Lo dice Matteo Renzi e lo si può capire. Sa leggere i sondaggi e avverte l’odore della sconfitta. E pensare che la stampa amica raccontava ieri tutta un’altra storia. I media italiani, che da sempre offrono lo spettacolo peggiore quando le elezioni si avvicinano, esibivano un orgiastico tripudio.
I sondaggi di ieri erano gli ultimi «legali» prima della corsa finale, dunque gli ultimi che giornali e tv potessero interpretare per dare una mano a chi di dovere
Repubblica si è distinta. Il quadro nelle piazze principali tutto è tranne che rassicurante per il partito che governa (e che occupa in pianta stabile le televisioni). Urge rimediare con un titolo, per correggere il lettore, dovesse mai dar retta ai numeri e alle cifre: «Nella corsa ai sindaci il centrosinistra regge».
Figurarsi. Alla prova dei fatti magari scopriremo che resiste alla grande. Ai nastri di partenza però non pare.
Prendiamo Roma: la rilevazione Demos vede Giachetti staccato di sei punti rispetto alla candidata a cinque stelle: 30,5% contro il 24,5%. Senza il regalo di zio Silvio, quella candidatura Marchini che resta col fiatone nonostante l’ossigeno azzurro, il Pd a Roma sarebbe già fuori gara e anche così rischia di non arrivare alla sfida finale. Meloni lo tallona con il 23,1% e quell’11,4% che sceglie Marchini potrebbe sterzare una volta appurato che l’erede dei costruttori al Campidoglio non ci arriverà mai. In compenso non è facile che l’ottima percentuale di Fassina, 8,1%, rifluisca su Giachetti. Non lo sarebbe neppure se Fassina elargisse inviti in questo senso, e non lo farà. Poco male. «Il Pd regge».
Esultanza invece nella capitale morale: «A Milano in testa Sala». In effetti l’ex uomo-Expo guida la corsa con il 39,2% contro il 35,8 di Parisi. Però, anche a non tener conto del fatto che sul Corriere della Sera, campeggiano previsioni diverse, con il candidato di Renzi in testa solo di un punto, resta il fatto che la stessa Demos indica una partita che più aperta non si può. Trattandosi di una piazza dove non doveva proprio esserci gioco, ci sarà davvero da stappare lo champagne?
Per fortuna che c’è Torino e lì con il sindaco Fassino in testa addirittura con il 42,5% contro il 23,1% della principale sfidante Chiara Pendino, M5S, si può festeggiare. Mica vero, e basta scambiare quattro chiacchiere con qualche esponente del Pd, meglio se di fede renziana, per sincerarsene. Ci si sentirà ripetere che «Fassino deve vincere senza ballottaggio, sennò il rischio è enorme». Un po’ tutti i direttori degli istituti di sondaggi concordano. «Nelle sfide dirette Pd-M5S , il Pd perde ovunque», confermano sul Corriere.
Niente paura però. Il Pd regge.
Di Napoli converrebbe non parlare proprio, per non mitragliare la croce rossa. È vero, De Magistris, stando ai sondaggi, dovrebbe andare al ballottaggio, essendo accreditato del 42,1%. A inseguirlo (da lontano) però c’è il candidato della destra Lettieri, col 19,7%, con dietro il lombardo napoletano a cinque stelle Brambilla. Valeria Valente, la candidata imposta dal genio di palazzo Chigi, arranca al quarto posto.
E che vuol dire? Il Pd regge.
È opportuno segnalare che il sondaggio di cui sopra è il più favorevole al «partito che regge», con l’eccezione di quello Winpoll dell’Huffington post, che a Roma vede il renziano a un’incollatura dalla grillina, sotto di appena due punti. Ottimo, se non fosse che la stessa Winpoll profetizza poi mazzata senza scampo al ballottaggio: 60% contro 40%.
I sondaggi si sa sono giochini. La partita è aperta.
Le sparate di ieri provano una cosa sola: che i media italiani hanno ripreso le pessime abitudini di quando, nel 2008, si inventarono un testa a testa inesistente per compiacere Walter Veltroni, che parlava di rimonta senza precedenti nemmeno stesse disquisendo di calcetto ai giardinetti invece che del governo del Paese.
E questa è solo la prova generale. I botti davvero sorprendenti arriveranno col referendum: non è mica un caso se da destra a sinistra, dall’etere alla carta stampata, i direttori favorevoli al no stanno cadendo come le foglie d’autunno.
Renzi: “Io non c’entro, si vota per i comuni”
Amministrative. Brutti sondaggi per il Pd in vista delle amministrative del 5 giugno. E il presidente del Consiglio si chiama fuori
di Andrea Colombo
«Il voto per i sindaci non è per il governo». Lo dice Matteo Renzi e lo si può capire. Sa leggere i sondaggi e avverte l’odore della sconfitta. E pensare che la stampa amica raccontava ieri tutta un’altra storia. I media italiani, che da sempre offrono lo spettacolo peggiore quando le elezioni si avvicinano, esibivano un orgiastico tripudio.
I sondaggi di ieri erano gli ultimi «legali» prima della corsa finale, dunque gli ultimi che giornali e tv potessero interpretare per dare una mano a chi di dovere
Repubblica si è distinta. Il quadro nelle piazze principali tutto è tranne che rassicurante per il partito che governa (e che occupa in pianta stabile le televisioni). Urge rimediare con un titolo, per correggere il lettore, dovesse mai dar retta ai numeri e alle cifre: «Nella corsa ai sindaci il centrosinistra regge».
Figurarsi. Alla prova dei fatti magari scopriremo che resiste alla grande. Ai nastri di partenza però non pare.
Prendiamo Roma: la rilevazione Demos vede Giachetti staccato di sei punti rispetto alla candidata a cinque stelle: 30,5% contro il 24,5%. Senza il regalo di zio Silvio, quella candidatura Marchini che resta col fiatone nonostante l’ossigeno azzurro, il Pd a Roma sarebbe già fuori gara e anche così rischia di non arrivare alla sfida finale. Meloni lo tallona con il 23,1% e quell’11,4% che sceglie Marchini potrebbe sterzare una volta appurato che l’erede dei costruttori al Campidoglio non ci arriverà mai. In compenso non è facile che l’ottima percentuale di Fassina, 8,1%, rifluisca su Giachetti. Non lo sarebbe neppure se Fassina elargisse inviti in questo senso, e non lo farà. Poco male. «Il Pd regge».
Esultanza invece nella capitale morale: «A Milano in testa Sala». In effetti l’ex uomo-Expo guida la corsa con il 39,2% contro il 35,8 di Parisi. Però, anche a non tener conto del fatto che sul Corriere della Sera, campeggiano previsioni diverse, con il candidato di Renzi in testa solo di un punto, resta il fatto che la stessa Demos indica una partita che più aperta non si può. Trattandosi di una piazza dove non doveva proprio esserci gioco, ci sarà davvero da stappare lo champagne?
Per fortuna che c’è Torino e lì con il sindaco Fassino in testa addirittura con il 42,5% contro il 23,1% della principale sfidante Chiara Pendino, M5S, si può festeggiare. Mica vero, e basta scambiare quattro chiacchiere con qualche esponente del Pd, meglio se di fede renziana, per sincerarsene. Ci si sentirà ripetere che «Fassino deve vincere senza ballottaggio, sennò il rischio è enorme». Un po’ tutti i direttori degli istituti di sondaggi concordano. «Nelle sfide dirette Pd-M5S , il Pd perde ovunque», confermano sul Corriere.
Niente paura però. Il Pd regge.
Di Napoli converrebbe non parlare proprio, per non mitragliare la croce rossa. È vero, De Magistris, stando ai sondaggi, dovrebbe andare al ballottaggio, essendo accreditato del 42,1%. A inseguirlo (da lontano) però c’è il candidato della destra Lettieri, col 19,7%, con dietro il lombardo napoletano a cinque stelle Brambilla. Valeria Valente, la candidata imposta dal genio di palazzo Chigi, arranca al quarto posto.
E che vuol dire? Il Pd regge.
È opportuno segnalare che il sondaggio di cui sopra è il più favorevole al «partito che regge», con l’eccezione di quello Winpoll dell’Huffington post, che a Roma vede il renziano a un’incollatura dalla grillina, sotto di appena due punti. Ottimo, se non fosse che la stessa Winpoll profetizza poi mazzata senza scampo al ballottaggio: 60% contro 40%.
I sondaggi si sa sono giochini. La partita è aperta.
Le sparate di ieri provano una cosa sola: che i media italiani hanno ripreso le pessime abitudini di quando, nel 2008, si inventarono un testa a testa inesistente per compiacere Walter Veltroni, che parlava di rimonta senza precedenti nemmeno stesse disquisendo di calcetto ai giardinetti invece che del governo del Paese.
E questa è solo la prova generale. I botti davvero sorprendenti arriveranno col referendum: non è mica un caso se da destra a sinistra, dall’etere alla carta stampata, i direttori favorevoli al no stanno cadendo come le foglie d’autunno.
il manifesto 21.5.16
È notte in Israele, l’estrema destra dilaga
Netanyahu e Lieberman. L’esercito diventa l’elemento moderato rispetto a una popolazione aizzata e in preda all’isteria
di Zvi Schuldiner
«Pericolosi estremisti si stanno impadronendo del governo e del paese»: questo titolo non è nostro, né di qualche sinistrorso o traditore della patria (israeliana). La frase fa parte del discorso pronunciato ieri da Moshe «Bogi» Yaalon, ministro della difesa di Israele, dimissionario. Il dicastero passerà – se le trattative vanno in porto – all’estremista e ultrà Avigdor Liberman.
Yaalon non ha accettato la carica di ministro degli esteri che Benjamin Netanyahu gli avrebbe offerto e ha rinunciato anche al suo seggio in Parlamento, che sarà occupato da Yehuda Glik, personaggio centrale nella campagna per la ricostruzione del Tempio sacro (per gli ebrei) al posto della moschea Al Aqsa.
Come si è arrivati a questa «soluzione» negli sforzi di Netanyahu per allargare la coalizione governativa? Per molti mesi, il premier e i suoi rappresentanti hanno portato avanti trattative segrete con i laburisti, soprattutto con il loro leader Herzog. Le conversazioni non erano poi così segrete, ne erano circolate alcune versione, e nelle ultime settimane sono diventate pubbliche.
I laburisti? Herzog? Ma non era quell’opposizione che doveva lottare contro il malgoverno del premier? Sì, però…il senso della responsabilità nazionale, la preoccupazione per il futuro, e soprattutto le grandi possibilità diplomatiche che si sarebbero dischiuse per il paese con l’ingresso dei laburisti nel governo…Insomma Herzog e i suoi si sono accodati allegramente al premier. Le poltrone governative come prova del progresso politico dell’opposizione.
Nella fase del negoziato, si sono mossi nell’ombra alcuni illustri intermediari, preoccupati per la pace in Medioriente. Sembra aver giocato un ruolo centrale l’ex primo ministro britannico Tony Blair, sodale e architetto di George W. Bush nella guerra «di liberazione» dell’Iraq, grande artefice del neoliberismo con vaselina socialdemocratica. Si è pronunciato a favore dell’idea anche John Kerry, frustrato nei suoi tentativi di far avanzare il cammino negoziale fra israeliani e palestinesi. Ecco poi le dichiarazioni del presidente egiziano al Sissi (pare previa consultazione con Kerry): un lungo discorso a favore della ripresa dei negoziati israelo-palestinesi con il sostegno e il patrocinio di Egitto e di altri paesi arabi. Questo sembra aver disturbato un po’ l’intenzione francese di favorire dei passi un po’ più indipendenti dagli Stati uniti.
Il leader laburista Herzog, al culmine dell’eccitazione pseudo-pacifista, quando ha ascoltato il presidente egiziano ha preteso da Netanyahu un documento scritto circa l’accordo. Allora probabilmente il premier ha cominciato a spaventarsi pensando all’opposizione da parte dell’estrema destra nel suo partito e dei circoli ultranazionalisti e fondamentalisti in generale. Oltre al vero pericolo: una coalizione più moderata con un appoggio internazionale avrebbe potuto portarlo a passi «esagerati» tali da complicare i suoi rapporti con la base di estrema destra, ormai dilagante in Israele.
Nel frattempo gli inviati di Netanyahu negoziavano con Liberman, il quale mercoledì scorso convocava una conferenza stampa con un messaggio semplice e chiaro: «Il primo ministro è un baro, ma se volesse davvero un governo nazionale di destra, con queste condizioni: ministero della difesa, pena di morte, ecc., il mio telefono ce l’ha»… pochi minuti dopo Netanyahu lo ha chiamato.
Il «problema Yaalon» aveva già assunto importanza negli ultimi mesi. Attenzione: Yaalon è di destra, molto di destra, ma in una versione che comprende alcuni freni richiamantisi al realismo liberale. Negli ultimi lunghi mesi della terza intifada, l’esercito nei territori occupati si è comportato con moderazione maggiore di quella dei politici in Israele. Mentre a Gerusalemme è «normale» non consegnare per mesi i cadaveri dei palestinesi uccisi dalle forze di polizia in seguito ad atti terroristici o presunti tali «per non trasformare i funerali in manifestazioni politiche», o per punizione, o come dimostrazione di forza, nei territori l’esercito non solo ha fatto il contrario ma ha dichiarato in varie circostanze che l’Autorità palestinese svolgeva una funzione moderatrice, che era necessario aumentare il numero di palestinesi con permesso di lavoro in Israele, ecc.
L’esercito insomma è diventato un elemento moderato e moderatore rispetto a una popolazione la cui isteria è stata fomentata in misura strumentale rispetto alla radicalizzazione della destra. Il comandante dell’esercito ha anche provocato il disgusto dei leader della destra, quando ha chiesto pubblicamente il rispetto delle leggi in materia di uso delle armi contro chi attacca israeliani, e insinuando che alcuni – soprattutto in vari casi di azioni di polizia – esagerano e alimentano le violenze.
A Hebron, due palestinesi avevano attaccato senza successo alcuni soldati i quali avevano risposto uccidendone uno e ferendo l’altro; mentre quest’ultimo era per terra, un soldato certamente di ultradestra gli si era avvicinato e lo aveva assassinato. Purtroppo per gli estremisti, il crimine è stato ripreso e in poche ore le immagini si sono diffuse in tutto il mondo; l’esercito ha annunciato che si è trattato di un assassinio, il soldato è stato arrestato, il comandante e il ministro della difesa si sono pubblicamente impegnati a trascinare in giudizio l’omicida.
Dapprima anche Netanyahu ha condannato il fatto. Ma pochi giorni dopo tutta l’ultradestra salutava l’eroe, il deputato Lieberman si presentava alla prima seduta della corte per assicurare il proprio appoggio al soldato, e il ministro dell’educazione Benet si pronunciava nello stesso senso. A quel punto il premier ha provocato la costernazione generale telefonando al padre del soldato assassino per assicurargli «la condivisione del dolore e della preoccupazione di un padre…anche io sono padre di un soldato».
È poi arrivato il giorno della commemorazione dell’Olocausto. Il vicecomandante dell’esercito ha compiuto il crimine irreparabile che la destra non gli perdona: in un discorso brillante ed equilibrato ha espresso preoccupazione per il processo di imbarbarimento, estremismo e razzismo in corso in Israele; ha sottolineato la necessità di contenere queste derive– così simili a quelli verificatisi in Europa e Germania negli anni 1930 – prima che si arrivi alla tragedia. Il ministro della difesa ha apertamente difeso il diritto del generale Golan di esprimersi in materia di valori; il premier Netanyahu, al contrario, ha reagito con furia e lo ha pubblicamente ammonito. Quando, pochi giorni dopo, Yaalon ha nuovamente detto ai generali che devono sì obbedire al governo ma anche sentirsi liberi di esprimere i propri valori, Netanyahu lo ha chiamato per ammonirlo.
Lieberman, un estremista radicale di destra, colono nei territori occupati, potrebbe diventare nei prossimi giorni ministro della difesa di un governo di estrema destra. Il membro della Knesset Beny Begin, figlio del grande Begin, rispettato membro del partito Likud, ha detto che si tratta di una decisione delirante. Il presidente Riblin, anch’egli del Likud, ha espresso disappunto per la rinuncia di Yaalon, un grande patriota. Non pochi scrivono su Facebook che è stato un peccato che Hitler non abbia fatto fuori tutti i sinistrorsi israeliani o gli arabi.
I miasmi del razzismo si respirano ovunque. Intanto il leader dei laburisti imputa il fallimento delle trattative e la nomina di Lieberman a membri del suo partito alleati con la sinistra radicale! Israele è in piena festa del caos, in questo maggio 2016.
È notte in Israele, l’estrema destra dilaga
Netanyahu e Lieberman. L’esercito diventa l’elemento moderato rispetto a una popolazione aizzata e in preda all’isteria
di Zvi Schuldiner
«Pericolosi estremisti si stanno impadronendo del governo e del paese»: questo titolo non è nostro, né di qualche sinistrorso o traditore della patria (israeliana). La frase fa parte del discorso pronunciato ieri da Moshe «Bogi» Yaalon, ministro della difesa di Israele, dimissionario. Il dicastero passerà – se le trattative vanno in porto – all’estremista e ultrà Avigdor Liberman.
Yaalon non ha accettato la carica di ministro degli esteri che Benjamin Netanyahu gli avrebbe offerto e ha rinunciato anche al suo seggio in Parlamento, che sarà occupato da Yehuda Glik, personaggio centrale nella campagna per la ricostruzione del Tempio sacro (per gli ebrei) al posto della moschea Al Aqsa.
Come si è arrivati a questa «soluzione» negli sforzi di Netanyahu per allargare la coalizione governativa? Per molti mesi, il premier e i suoi rappresentanti hanno portato avanti trattative segrete con i laburisti, soprattutto con il loro leader Herzog. Le conversazioni non erano poi così segrete, ne erano circolate alcune versione, e nelle ultime settimane sono diventate pubbliche.
I laburisti? Herzog? Ma non era quell’opposizione che doveva lottare contro il malgoverno del premier? Sì, però…il senso della responsabilità nazionale, la preoccupazione per il futuro, e soprattutto le grandi possibilità diplomatiche che si sarebbero dischiuse per il paese con l’ingresso dei laburisti nel governo…Insomma Herzog e i suoi si sono accodati allegramente al premier. Le poltrone governative come prova del progresso politico dell’opposizione.
Nella fase del negoziato, si sono mossi nell’ombra alcuni illustri intermediari, preoccupati per la pace in Medioriente. Sembra aver giocato un ruolo centrale l’ex primo ministro britannico Tony Blair, sodale e architetto di George W. Bush nella guerra «di liberazione» dell’Iraq, grande artefice del neoliberismo con vaselina socialdemocratica. Si è pronunciato a favore dell’idea anche John Kerry, frustrato nei suoi tentativi di far avanzare il cammino negoziale fra israeliani e palestinesi. Ecco poi le dichiarazioni del presidente egiziano al Sissi (pare previa consultazione con Kerry): un lungo discorso a favore della ripresa dei negoziati israelo-palestinesi con il sostegno e il patrocinio di Egitto e di altri paesi arabi. Questo sembra aver disturbato un po’ l’intenzione francese di favorire dei passi un po’ più indipendenti dagli Stati uniti.
Il leader laburista Herzog, al culmine dell’eccitazione pseudo-pacifista, quando ha ascoltato il presidente egiziano ha preteso da Netanyahu un documento scritto circa l’accordo. Allora probabilmente il premier ha cominciato a spaventarsi pensando all’opposizione da parte dell’estrema destra nel suo partito e dei circoli ultranazionalisti e fondamentalisti in generale. Oltre al vero pericolo: una coalizione più moderata con un appoggio internazionale avrebbe potuto portarlo a passi «esagerati» tali da complicare i suoi rapporti con la base di estrema destra, ormai dilagante in Israele.
Nel frattempo gli inviati di Netanyahu negoziavano con Liberman, il quale mercoledì scorso convocava una conferenza stampa con un messaggio semplice e chiaro: «Il primo ministro è un baro, ma se volesse davvero un governo nazionale di destra, con queste condizioni: ministero della difesa, pena di morte, ecc., il mio telefono ce l’ha»… pochi minuti dopo Netanyahu lo ha chiamato.
Il «problema Yaalon» aveva già assunto importanza negli ultimi mesi. Attenzione: Yaalon è di destra, molto di destra, ma in una versione che comprende alcuni freni richiamantisi al realismo liberale. Negli ultimi lunghi mesi della terza intifada, l’esercito nei territori occupati si è comportato con moderazione maggiore di quella dei politici in Israele. Mentre a Gerusalemme è «normale» non consegnare per mesi i cadaveri dei palestinesi uccisi dalle forze di polizia in seguito ad atti terroristici o presunti tali «per non trasformare i funerali in manifestazioni politiche», o per punizione, o come dimostrazione di forza, nei territori l’esercito non solo ha fatto il contrario ma ha dichiarato in varie circostanze che l’Autorità palestinese svolgeva una funzione moderatrice, che era necessario aumentare il numero di palestinesi con permesso di lavoro in Israele, ecc.
L’esercito insomma è diventato un elemento moderato e moderatore rispetto a una popolazione la cui isteria è stata fomentata in misura strumentale rispetto alla radicalizzazione della destra. Il comandante dell’esercito ha anche provocato il disgusto dei leader della destra, quando ha chiesto pubblicamente il rispetto delle leggi in materia di uso delle armi contro chi attacca israeliani, e insinuando che alcuni – soprattutto in vari casi di azioni di polizia – esagerano e alimentano le violenze.
A Hebron, due palestinesi avevano attaccato senza successo alcuni soldati i quali avevano risposto uccidendone uno e ferendo l’altro; mentre quest’ultimo era per terra, un soldato certamente di ultradestra gli si era avvicinato e lo aveva assassinato. Purtroppo per gli estremisti, il crimine è stato ripreso e in poche ore le immagini si sono diffuse in tutto il mondo; l’esercito ha annunciato che si è trattato di un assassinio, il soldato è stato arrestato, il comandante e il ministro della difesa si sono pubblicamente impegnati a trascinare in giudizio l’omicida.
Dapprima anche Netanyahu ha condannato il fatto. Ma pochi giorni dopo tutta l’ultradestra salutava l’eroe, il deputato Lieberman si presentava alla prima seduta della corte per assicurare il proprio appoggio al soldato, e il ministro dell’educazione Benet si pronunciava nello stesso senso. A quel punto il premier ha provocato la costernazione generale telefonando al padre del soldato assassino per assicurargli «la condivisione del dolore e della preoccupazione di un padre…anche io sono padre di un soldato».
È poi arrivato il giorno della commemorazione dell’Olocausto. Il vicecomandante dell’esercito ha compiuto il crimine irreparabile che la destra non gli perdona: in un discorso brillante ed equilibrato ha espresso preoccupazione per il processo di imbarbarimento, estremismo e razzismo in corso in Israele; ha sottolineato la necessità di contenere queste derive– così simili a quelli verificatisi in Europa e Germania negli anni 1930 – prima che si arrivi alla tragedia. Il ministro della difesa ha apertamente difeso il diritto del generale Golan di esprimersi in materia di valori; il premier Netanyahu, al contrario, ha reagito con furia e lo ha pubblicamente ammonito. Quando, pochi giorni dopo, Yaalon ha nuovamente detto ai generali che devono sì obbedire al governo ma anche sentirsi liberi di esprimere i propri valori, Netanyahu lo ha chiamato per ammonirlo.
Lieberman, un estremista radicale di destra, colono nei territori occupati, potrebbe diventare nei prossimi giorni ministro della difesa di un governo di estrema destra. Il membro della Knesset Beny Begin, figlio del grande Begin, rispettato membro del partito Likud, ha detto che si tratta di una decisione delirante. Il presidente Riblin, anch’egli del Likud, ha espresso disappunto per la rinuncia di Yaalon, un grande patriota. Non pochi scrivono su Facebook che è stato un peccato che Hitler non abbia fatto fuori tutti i sinistrorsi israeliani o gli arabi.
I miasmi del razzismo si respirano ovunque. Intanto il leader dei laburisti imputa il fallimento delle trattative e la nomina di Lieberman a membri del suo partito alleati con la sinistra radicale! Israele è in piena festa del caos, in questo maggio 2016.
venerdì 20 maggio 2016
Repubblica 20.5.16
Io e Marco, i primi radicali
di Eugenio Scalfari
CI SIAMO conosciuti per un’intera vita ma siamo andati d’accordo poche volte, quando si lottava per la conquista di nuovi diritti: soprattutto il divorzio e l’aborto. Io accanto ai diritti vedevo anche i doveri; Marco i doveri li vedeva poco o niente, anzi per essere esatti vedeva i doveri dello Stato (anch’io ovviamente) ma assai meno o per niente quelli inerenti ai cittadini.
Ora che la sua morte mi dia dolore è dir poco: come capita spesso è un pezzo della vita che se ne va. Ne resta la memoria, ma ciascuno ha la propria, che cambia di giorno in giorno e non coincide mai con quella degli altri.
Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola “radical” equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.
Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d’azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l’avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.
I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della “legione lombarda”: i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com’era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.
Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.
Accadde poi che nel 1956 noi, “Amici del Mondo” fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell’associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel ’58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall’inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un’ora l’inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un’assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo – come ho già detto prima – quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie.
Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte.
Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell’apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.
Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell’aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall’altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.
Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c’è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell’aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l’amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.
Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l’ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all’interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L’obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.
Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c’era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c’era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.
Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente.
Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c’erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.
A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.
Andai. La scusa era una mia opinione sull’andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. «Il rischio c’è, l’ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell’esistenza». «Lei sa qual è l’ostacolo, l’ho detto pubblicamente» «sì lo so, ma una via d’uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale».
Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava.
Che sia stato un grande attore l’ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.
Non ci sono morti, l’ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.
Io e Marco, i primi radicali
di Eugenio Scalfari
CI SIAMO conosciuti per un’intera vita ma siamo andati d’accordo poche volte, quando si lottava per la conquista di nuovi diritti: soprattutto il divorzio e l’aborto. Io accanto ai diritti vedevo anche i doveri; Marco i doveri li vedeva poco o niente, anzi per essere esatti vedeva i doveri dello Stato (anch’io ovviamente) ma assai meno o per niente quelli inerenti ai cittadini.
Ora che la sua morte mi dia dolore è dir poco: come capita spesso è un pezzo della vita che se ne va. Ne resta la memoria, ma ciascuno ha la propria, che cambia di giorno in giorno e non coincide mai con quella degli altri.
Il fatto saliente che ci ha accomunato è stato il Partito radicale. In Italia, come in Francia e in Spagna, i radicali ci sono sempre stati. Erano un partito di sinistra con matrice liberale. Negli altri Paesi di ceppo inglese e tedesco la parola “radical” equivaleva e tuttora equivale al comunismo. In Italia tuttavia la radice liberale ha molti significati e molte parole che li definiscono: liberale, libertario, libertino.
Noi di matrice crociana ed anche gobettiana eravamo liberali di sinistra; di fatto discendevamo dal Partito d’azione e dallo slogan partigiano di Giustizia e Libertà. Marco era soprattutto libertario, cioè la libertà come valore unico da praticare in tutti i modi. Per fornire un esempio una donna come Ilona noi non l’avremmo mai collocata al vertice del partito e non ne avremmo appoggiato il suo ingresso alla Camera dei deputati.
I nostri antenati erano storicamente Cavallotti e i garibaldini della “legione lombarda”: i Cairoli, i Dandolo, i Manara. Marco, forse anche a lui piacevano ma non in modo particolare. Lui piaceva soprattutto a se stesso, convinto com’era che il vero radicalismo cominciasse da lui e dai suoi compagni.
Liberali lo eravamo tutti, Marco soprattutto nel suo modo di vita, noi in parte allo stesso modo ma in maggior parte col pensiero. Per noi il libertinaggio intellettuale era quello di Voltaire, di Diderot, di Mirabeau, di Condorcet e poi di Roosevelt e di Churchill. Dunque la nostra pasta umana era molto diversa dalla sua.
Accadde poi che nel 1956 noi, “Amici del Mondo” fondammo il Partito radicale: Pannella e un gruppo di suoi amici che militavano nell’associazione goliardica di sentimenti laici chiamati Ugi (Unione goliardica italiana) entrarono nel nostro partito nel ’58 ma furono sempre un gruppo in qualche modo estraneo. Nelle riunioni di partito alle quali partecipavano presentavano fin dall’inizio mozioni di procedura preliminare ostacolando a dir poco per un’ora l’inizio della discussione politica alla quale partecipavano poco e poi abbandonavano la riunione manifestando esplicitamente un’assoluta indifferenza verso i temi da noi esaminati. Salvo – come ho già detto prima – quando si trattava di nuovi diritti da conquistare: allora eravamo tutti uniti e combattevamo con passione il difficile tema cercando di diffonderlo il più possibile nella pubblica opinione e poi con altri mezzi costituzionali: progetti di legge di iniziativa popolare, dimostrazioni di piazza in tutta Italia, iniziative referendarie.
Eravamo pochi di numero ma ci moltiplicavamo lavorando in tutte le ore del giorno e della notte.
Avvenne poi che nel 1962 il nostro Partito radicale si spaccò sul tema dell’apertura a sinistra. Alcuni di noi volevano i socialisti al governo con la Dc e i repubblicani; altri accettavano solo un appoggio esterno dei socialisti. La soluzione fu che tutti i radicali decisero di dimettersi dal partito e così cessò di esistere. Ma Pannella e i suoi quattro amici no, restarono e rifondarono il partito. Mantenendogli il nome ma cambiandone radicalmente il contenuto fino ad oggi, guidati da Marco, da Emma Bonino e da qualche altro di cui purtroppo non ricordo il nome.
Da allora non ci incontrammo più, salvo nelle occasioni del divorzio e dell’aborto anche perché Marco voleva essere in Parlamento con qualcuno dei suoi e per ottenere questo risultato ne fece di tutti i colori: scioperi della fame, poi della sete, alleanze politiche ed elettorali con personaggi centristi e cattolici, un paio di volte addirittura con Berlusconi. Naturalmente non ne condivideva le idee e proprio per questo una alleanza elettorale faceva ancor più chiasso perché ciascuno sosteneva tesi diverse dall’altro ma tuttavia si presentavano insieme davanti ai cittadini.
Qualcuno oggi lo paragona a Grillo. Qualche somiglianza c’è ma le distanze sono molte. Sono due attori, Grillo professionista, Pannella dilettante. Grillo ha politicamente lo scopo di abbattere tutte le istituzioni esistenti, quello che verrà dopo si vedrà. Pannella voleva invece cambiarle, ma non distruggerle e spingere ed allargare il più possibile il tema dei diritti per ottenere i quali avrebbe preso qualunque iniziativa. Diritti soprattutto sociali. Per questo è andato a trovare perfino il Papa. Chi lo conosce sa che Marco non si è mai posto il problema dell’aldilà. Lui credeva soltanto nella vita. Amava i viventi e desiderava che tutti l’amassero. Non ha mai avuto il problema del potere ma quello della notorietà, quello sì.
Quando faceva lo sciopero della fame che dopo qualche giorno diventava anche quello della sete, l’ha fatto quasi sempre sul serio. Gli costruivano una tenda all’interno della quale riposava con un medico sempre accanto e gli amici che si avvicendavano per venirlo a trovare. L’obiettivo che lui aveva per fermarsi dallo sciopero era di ottenere il successo sulla tesi che in quel modo stava sostenendo.
Ricordo molto bene la prima volta del suo sciopero della sete. Era buona stagione e c’era il sole. Marco aveva chiesto di essere ricevuto dal Presidente della Repubblica che era allora Giovanni Leone nella sua qualità di segretario del Partito radicale, ma non c’era in quella legislatura alcun radicale in Parlamento.
Leone rifiutò. Era disponibile a riceverlo come persona, ma non in quella pubblica veste altrimenti avrebbe creato un precedente per un qualunque cittadino con la voglia di essere ricevuto al Quirinale inventandosi un partito inesistente e con quella motivazione incontrare il Presidente.
Naturalmente Pannella proprio quello voleva e tanto più in quanto i radicali in Parlamento in quel momento non c’erano, ma la carica sì ed era questo che doveva contare.
A quel punto il Presidente Leone mi convocò, sapeva che conoscevo Pannella molto bene e voleva conoscere la mia opinione in merito. Era il 1971 ed io ero deputato socialista.
Andai. La scusa era una mia opinione sull’andamento della lira perché io mi interessavo molto di temi economici, ma in realtà arrivammo subito al problema Pannella. Leone mi domandò se fosse possibile che spingesse la situazione fino al punto di essere in grave pericolo di morte. «Il rischio c’è, l’ha detto anche il medico, ma che Pannella lo voglia credo di poterlo escludere. Però bisogna stare molto attenti ad una vita spinta fino al limite dell’esistenza». «Lei sa qual è l’ostacolo, l’ho detto pubblicamente» «sì lo so, ma una via d’uscita si può trovare. Pannella è anche presidente di molte associazioni importanti. Lei può riceverlo per quelle sue cariche aggiungendo che è anche segretario del Partito radicale».
Così andarono le cose e Marco ottenne quel successo per il quale aveva sfiorato il peggio. Del resto altri scioperi della sete ne ha fatti e sono sempre terminati come lui sperava.
Che sia stato un grande attore l’ha ancora una volta dimostrato perché alla vigilia della morte, stavolta inevitabile, ha trasformato la sua casa in una sorta di locale di festa tra amici, con lui protagonista.
Non ci sono morti, l’ho già detto, ma momenti in cui il grande attore regala a se stesso e ai suoi amici il divertimento nei limiti in cui ancora può. Ha vissuto col gusto di vivere ed ha voluto che anche gli altri facessero lo stesso da questo punto di vista non ha mai considerato che cosa sarebbe accaduto o non accaduto dopo. Alla fine arriva sorella Morte e tutto è finito.
Corriere 20.5.16
Marco Bellocchio «Diede scandalo per l’alleanza con Berlusconi»
di Alessandro Trocino
ROMA «In Italia comandano i morti». Chissà se la battuta del «Regista di matrimoni» diventerà realtà per Marco Pannella. Perché in vita, i riconoscimenti sono stati scarsi. Tra i non moltissimi che lo hanno sempre appoggiato, candidandosi anche un paio di volte sotto le insegne della Rosa nel Pugno e della Lista Bonino-Pannella, c’è il regista di quel film, Marco Bellocchio. Che, dopo «Fai bei sogni» (in questi giorni a Cannes), sta scrivendo un film su Tommaso Buscetta.
Bellocchio, chi è stato Pannella?
«Un grand’uomo. Per me è stato un padre della patria. Una figura gigantesca, non solo della politica. Un italiano straordinario, una figura rarissima».
Anche molto criticata.
«La sua forza è stata anche il coraggio con il quale è passato sopra alle critiche. Ricordo le sue battaglie per la laicità, la sua non violenza».
Negli ultimi anni, certi successi degli inizi, dal divorzio all’aborto, non si sono ripetuti.
«Lui era un isolato, che è riuscito a trascinare l’Italia in vittorie straordinarie. Negli ultimi tempi faticava a trovare posto in una società effimera, basata sui sondaggi. Altri radicalismi hanno sostituito Pannella e il suo partito, un modo di vivere la politica più fuggevole e superficiale. Era diventato più difficile per alcuni comprendere la sua intelligenza e la sua coerenza».
Gli fu rimproverata a sinistra, come incoerenza, l’alleanza con Berlusconi.
«Per alcuni allearsi con Berlusconi è stato un sacrilegio, uno scandalo. Per me no. Posso avere dissentito da lui, ma ogni politico fa le sue scelte per perseguire i suoi fini. Anche allearsi con il diavolo, come era considerato allora Berlusconi. La politica è anche questo, ma lui non si è mai sporcato le mani. I suoi fini non sono mai stati quelli di occupare poltrone o il potere per il potere, né i soldi. In questo era assolutamente disinteressato. E l’alleanza con Berlusconi, in forma leggera poi, non intacca la sua integrità di grande cittadino italiano».
C’è chi lo voleva senatore a vita, chi ministro, chi invece presidente della Repubblica.
«Lui se n’è sempre fregato. Cercava consenso per portare avanti le sue battaglie. Era troppo scomodo per fare il ministro. La Bonino, altro grande personaggio, è più discreta, delicata, diplomatica. Lui no. Ma poi son sciocchezze: quanti ministri son passati nella storia e sono dimenticati?».
Quando l’ha conosciuto?
«Durante il processo Braibanti, che era accusato per plagio, reato che non esiste più. Mi ricordo il suo coraggio nel difenderlo».
Lei è stato candidato un paio di volte con i radicali.
«Sì, candidature di testimonianza. Ma ho fatto poco, non voglio intestarmi nulla e non ero un suo grande amico. Lo ammiravo: resta unico, un esempio per tutti».
Marco Bellocchio «Diede scandalo per l’alleanza con Berlusconi»
di Alessandro Trocino
ROMA «In Italia comandano i morti». Chissà se la battuta del «Regista di matrimoni» diventerà realtà per Marco Pannella. Perché in vita, i riconoscimenti sono stati scarsi. Tra i non moltissimi che lo hanno sempre appoggiato, candidandosi anche un paio di volte sotto le insegne della Rosa nel Pugno e della Lista Bonino-Pannella, c’è il regista di quel film, Marco Bellocchio. Che, dopo «Fai bei sogni» (in questi giorni a Cannes), sta scrivendo un film su Tommaso Buscetta.
Bellocchio, chi è stato Pannella?
«Un grand’uomo. Per me è stato un padre della patria. Una figura gigantesca, non solo della politica. Un italiano straordinario, una figura rarissima».
Anche molto criticata.
«La sua forza è stata anche il coraggio con il quale è passato sopra alle critiche. Ricordo le sue battaglie per la laicità, la sua non violenza».
Negli ultimi anni, certi successi degli inizi, dal divorzio all’aborto, non si sono ripetuti.
«Lui era un isolato, che è riuscito a trascinare l’Italia in vittorie straordinarie. Negli ultimi tempi faticava a trovare posto in una società effimera, basata sui sondaggi. Altri radicalismi hanno sostituito Pannella e il suo partito, un modo di vivere la politica più fuggevole e superficiale. Era diventato più difficile per alcuni comprendere la sua intelligenza e la sua coerenza».
Gli fu rimproverata a sinistra, come incoerenza, l’alleanza con Berlusconi.
«Per alcuni allearsi con Berlusconi è stato un sacrilegio, uno scandalo. Per me no. Posso avere dissentito da lui, ma ogni politico fa le sue scelte per perseguire i suoi fini. Anche allearsi con il diavolo, come era considerato allora Berlusconi. La politica è anche questo, ma lui non si è mai sporcato le mani. I suoi fini non sono mai stati quelli di occupare poltrone o il potere per il potere, né i soldi. In questo era assolutamente disinteressato. E l’alleanza con Berlusconi, in forma leggera poi, non intacca la sua integrità di grande cittadino italiano».
C’è chi lo voleva senatore a vita, chi ministro, chi invece presidente della Repubblica.
«Lui se n’è sempre fregato. Cercava consenso per portare avanti le sue battaglie. Era troppo scomodo per fare il ministro. La Bonino, altro grande personaggio, è più discreta, delicata, diplomatica. Lui no. Ma poi son sciocchezze: quanti ministri son passati nella storia e sono dimenticati?».
Quando l’ha conosciuto?
«Durante il processo Braibanti, che era accusato per plagio, reato che non esiste più. Mi ricordo il suo coraggio nel difenderlo».
Lei è stato candidato un paio di volte con i radicali.
«Sì, candidature di testimonianza. Ma ho fatto poco, non voglio intestarmi nulla e non ero un suo grande amico. Lo ammiravo: resta unico, un esempio per tutti».
Il Sole 20.5.16
Libertà, chiave dell’economia
di Guido Gentili
Alla fine se n’è andato con un “grazie”, lasciando la sua soffitta nel cuore di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, e avendo come solo orizzonte un fulmineo, e pietoso, ricovero. Quell’unica parola, “grazie”, gli dovrebbe essere ora tributata dalla comunità civile e politica, senza distinzione alcuna.
Grazie Marco Pannella per esserci stato, per aver fatto politica come l’ha fatta: a tutto campo, nel quartiere che amava, per strada, in giro per il mondo, negli appuntamenti di partito così come nelle aule parlamentari, a Roma e in Europa. Senza riserve, senza risparmiarsi, con una passione autentica e mai ipocrita, facendo pensare e discutere davvero.
Pannella è un caso irripetibile e incomprimibile. Pannella è Pannella, e anche la storia, per la quale ha scritto col movimento dei Radicali pagine memorabili in tema di libertà e diritti, dovrà prenderne atto, evitando di etichettarlo. La sua biografia personale e politica è un fiume in piena, padre abruzzese, madre francese, uno zio monsignore (Don Giacinto, l’unico della famiglia «con interessi culturali», spiegò), una serie infinita di successi e insuccessi politici dagli anni ’50 ad oggi. Fondatore e Rottamatore, di politiche e uomini. Parlatore instancabile, brillante e noioso: straordinarie certe sue Conversazioni della domenica alle 17 su Radio Radicale con lo storico direttore Massimo Bordin, tra sbuffi di fumo, ira e pazienza. Digiunatore per protesta (ma al lottatore e propositore politico questa parola non piaceva). Divagatore astuto quando necessario. Realista e sognatore. Tutto insieme, divorato dalla sigarette e dalla politica. E personalmente indifferente al denaro come l’Enrico Cuccia tratteggiato da Indro Montanelli. Il che, nella politica e nella finanza, è un dato che si fa apprezzare.
In economia il suo maestro fu Ernesto Rossi, uno dei padri del Manifesto di Ventotene per l’Europa federalista. Rossi era un antimonopolista ruggente – compreso quello sindacale - e fustigatore del capitalismo assistito. Cose da sinistra liberale, come può dirsi in parte di Pannella, il quale però faceva riferimento (anche) alla Destra storica. Nella ventata referendaria del 2000 in cui si proponeva anche l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (venti referendum proposti, solo 7 ammessi dalla Cassazione, nessuno passato) c’è tutto il liberal-riformismo di Pannella e ed Emma Bonino. Che alla fine – come era avvenuto e continuò ad avvenire in seguito anche per il debito pubblico - restarono però soli. Nel 2000 Silvio Berlusconi e i suoi alleati non se la sentirono di affondare il colpo. Ma a vedere lungo sui cambiamenti della società, allora come negli anni Settanta, a partire dalla battaglia per il divorzio, furono i Radicali, nessun altro.
Grandissimo, Pannella, lo è stato però anche nei difetti. Ieri Daniele Capezzone, allievo importante della scuola politica (d’eccellenza) radicale, oggi parlamentare dei Conservatori e Riformisti, ha scomodato il filosofo Schopenhauer e “Il mondo come volontà e rappresentazione”: “un’affermazione potente e assoluta di volontà, di soggettività, di riconduzione della realtà a ciò, e solo a ciò, che un uomo – in questo caso, lui, Marco- voleva e vedeva”. Esagerazioni? No. Ha scritto un radicale doc come Massimo Teodori: Pannella “ha vissuto l’azione politica come la forma più nobile di realizzazione della sua stessa personalità, fortissima e strabordante, e attraverso essa ha tracimato in tutte le direzioni”.
D’altra parte Pannella è stato anche “Il signor Hood” della canzone che Francesco De Gregori gli dedicò molti anni fa: “Era un galantuomo sempre ispirato dal sole, con due pistole caricate a salve e un canestro pieno di parole”. Oggi da quel cesto ne tiriamo fuori solo una: grazie.
Libertà, chiave dell’economia
di Guido Gentili
Alla fine se n’è andato con un “grazie”, lasciando la sua soffitta nel cuore di Roma, a due passi da Fontana di Trevi, e avendo come solo orizzonte un fulmineo, e pietoso, ricovero. Quell’unica parola, “grazie”, gli dovrebbe essere ora tributata dalla comunità civile e politica, senza distinzione alcuna.
Grazie Marco Pannella per esserci stato, per aver fatto politica come l’ha fatta: a tutto campo, nel quartiere che amava, per strada, in giro per il mondo, negli appuntamenti di partito così come nelle aule parlamentari, a Roma e in Europa. Senza riserve, senza risparmiarsi, con una passione autentica e mai ipocrita, facendo pensare e discutere davvero.
Pannella è un caso irripetibile e incomprimibile. Pannella è Pannella, e anche la storia, per la quale ha scritto col movimento dei Radicali pagine memorabili in tema di libertà e diritti, dovrà prenderne atto, evitando di etichettarlo. La sua biografia personale e politica è un fiume in piena, padre abruzzese, madre francese, uno zio monsignore (Don Giacinto, l’unico della famiglia «con interessi culturali», spiegò), una serie infinita di successi e insuccessi politici dagli anni ’50 ad oggi. Fondatore e Rottamatore, di politiche e uomini. Parlatore instancabile, brillante e noioso: straordinarie certe sue Conversazioni della domenica alle 17 su Radio Radicale con lo storico direttore Massimo Bordin, tra sbuffi di fumo, ira e pazienza. Digiunatore per protesta (ma al lottatore e propositore politico questa parola non piaceva). Divagatore astuto quando necessario. Realista e sognatore. Tutto insieme, divorato dalla sigarette e dalla politica. E personalmente indifferente al denaro come l’Enrico Cuccia tratteggiato da Indro Montanelli. Il che, nella politica e nella finanza, è un dato che si fa apprezzare.
In economia il suo maestro fu Ernesto Rossi, uno dei padri del Manifesto di Ventotene per l’Europa federalista. Rossi era un antimonopolista ruggente – compreso quello sindacale - e fustigatore del capitalismo assistito. Cose da sinistra liberale, come può dirsi in parte di Pannella, il quale però faceva riferimento (anche) alla Destra storica. Nella ventata referendaria del 2000 in cui si proponeva anche l’abrogazione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (venti referendum proposti, solo 7 ammessi dalla Cassazione, nessuno passato) c’è tutto il liberal-riformismo di Pannella e ed Emma Bonino. Che alla fine – come era avvenuto e continuò ad avvenire in seguito anche per il debito pubblico - restarono però soli. Nel 2000 Silvio Berlusconi e i suoi alleati non se la sentirono di affondare il colpo. Ma a vedere lungo sui cambiamenti della società, allora come negli anni Settanta, a partire dalla battaglia per il divorzio, furono i Radicali, nessun altro.
Grandissimo, Pannella, lo è stato però anche nei difetti. Ieri Daniele Capezzone, allievo importante della scuola politica (d’eccellenza) radicale, oggi parlamentare dei Conservatori e Riformisti, ha scomodato il filosofo Schopenhauer e “Il mondo come volontà e rappresentazione”: “un’affermazione potente e assoluta di volontà, di soggettività, di riconduzione della realtà a ciò, e solo a ciò, che un uomo – in questo caso, lui, Marco- voleva e vedeva”. Esagerazioni? No. Ha scritto un radicale doc come Massimo Teodori: Pannella “ha vissuto l’azione politica come la forma più nobile di realizzazione della sua stessa personalità, fortissima e strabordante, e attraverso essa ha tracimato in tutte le direzioni”.
D’altra parte Pannella è stato anche “Il signor Hood” della canzone che Francesco De Gregori gli dedicò molti anni fa: “Era un galantuomo sempre ispirato dal sole, con due pistole caricate a salve e un canestro pieno di parole”. Oggi da quel cesto ne tiriamo fuori solo una: grazie.
La Stampa 20.5.16
I terroristi attaccano Londra ma è il 1913
Edgar Wallace anticipò in un romanzo gli incubi di oggi, dalla paura degli attentati alle leggi speciali
di Paolo Bertinetti
È sorprendente come in un suo libro di oltre cento anni fa, La Quarta Peste, Edgar Wallace anticipi temi e paure di oggi, dall’azione terroristica di cellule segrete alla guerra batteriologica, dal ricatto allo Stato alla proposta di leggi speciali.
Il prologo della vicenda si svolge in Toscana, ma non in quel di Arezzo, bensì a Siena, dove il conte Festini dirigeva le attività della sezione locale di un’organizzazione segreta, La Mano Rossa, che dall’Italia meridionale si era estesa al Nord. Dopo che l’attentatore che voleva far saltare il treno Roma–Firenze era stato arrestato e aveva confessato, era stato facile risalire al conte Festini. Il quale, invece di fuggire all’estero, si era sparato. Altri tempi: siamo infatti nell’Italia di fine Ottocento, non in quella della P 2 di pochi decenni fa.
Dopo il prologo italiano la vicenda si sposta in Inghilterra, a Londra e nella lussuosa dimora nella campagna inglese di Sir Ralph, giudice severissimo e appassionato collezionista di antichi cimeli. In quell’uggiosa Inghilterra così lontana dalla solare Toscana, La Mano Rossa sta mettendo a punto una micidiale operazione. Per la verità la cosa è decisamente fantasiosa, degna di Dan Brown. Si immagina infatti che all’interno di un medaglione (che fa parte della collezione di Sir Ralph) ci sia la ricetta escogitata da Leonardo Da Vinci per creare sinteticamente lo stesso bacillo della peste che un tempo aveva annientato un terzo della popolazione europea. Il capo della Mano Rossa in Inghilterra, il figlio del suddetto conte Festini, al comando di un gruppo di italiani, riesce a impossessarsi del medaglione e a creare in laboratorio decine di fiale contenenti il bacillo della peste.
Il motivo di interesse della vicenda sta nel fatto che l’organizzazione segreta ricatta il governo di Sua Maestà. Sui muri di Londra appaiono infatti i manifesti in cui La Mano Rossa annuncia di avere chiesto al governo dieci milioni di sterline e un salvacondotto per i suoi membri. Se entro dieci giorni non si provvederà ad accogliere tali richieste, il bacillo della peste verrà diffuso in tutta Londra. Il libro è concentrato sul modo in cui l’investigatore italiano, chiamato tempo prima dal governo inglese per indagare sulle attività criminali della Mano Rossa, il professor Tillizini, uno studioso con licenza di uccidere, svolge le sue indagini per scongiurare la minaccia della Mano Rossa.
Per chi lo legge oggi colpiscono di più, per la loro attualità, i meccanismi che tale minaccia riesce a scatenare. L’organizzazione segreta, che in questa circostanza agisce come un gruppo terroristico, ricatta un governo e un intero Paese. Il Parlamento, costretto a discutere sull’opportunità di cedere al ricatto, dignitosamente decide di no. Ma si interroga anche sulla necessità di promulgare leggi speciali per combattere i terroristi; e almeno una leggina per concedere la licenza di uccidere all’investigatore italiano in effetti l’approva.
Infine, nell’ultima e decisiva fase, l’esercito viene mobilitato a fianco delle forze di polizia. Tillizini rivolge un nobile discorso ai parlamentare inglesi, lodandone la volontà di non superare i confini posti dal rispetto dei principi democratici. Nella lotta al terrore, come tragicamente ci ricordano le cronache di oggi, il problema si pone in termini non molto diversi. E non molto diverso è lo stato d’animo di paura e di insicurezza che la minaccia determina nella popolazione. Dobbiamo sperare che i Tillizini di oggi riescano a scongiurarla.
I terroristi attaccano Londra ma è il 1913
Edgar Wallace anticipò in un romanzo gli incubi di oggi, dalla paura degli attentati alle leggi speciali
di Paolo Bertinetti
È sorprendente come in un suo libro di oltre cento anni fa, La Quarta Peste, Edgar Wallace anticipi temi e paure di oggi, dall’azione terroristica di cellule segrete alla guerra batteriologica, dal ricatto allo Stato alla proposta di leggi speciali.
Il prologo della vicenda si svolge in Toscana, ma non in quel di Arezzo, bensì a Siena, dove il conte Festini dirigeva le attività della sezione locale di un’organizzazione segreta, La Mano Rossa, che dall’Italia meridionale si era estesa al Nord. Dopo che l’attentatore che voleva far saltare il treno Roma–Firenze era stato arrestato e aveva confessato, era stato facile risalire al conte Festini. Il quale, invece di fuggire all’estero, si era sparato. Altri tempi: siamo infatti nell’Italia di fine Ottocento, non in quella della P 2 di pochi decenni fa.
Dopo il prologo italiano la vicenda si sposta in Inghilterra, a Londra e nella lussuosa dimora nella campagna inglese di Sir Ralph, giudice severissimo e appassionato collezionista di antichi cimeli. In quell’uggiosa Inghilterra così lontana dalla solare Toscana, La Mano Rossa sta mettendo a punto una micidiale operazione. Per la verità la cosa è decisamente fantasiosa, degna di Dan Brown. Si immagina infatti che all’interno di un medaglione (che fa parte della collezione di Sir Ralph) ci sia la ricetta escogitata da Leonardo Da Vinci per creare sinteticamente lo stesso bacillo della peste che un tempo aveva annientato un terzo della popolazione europea. Il capo della Mano Rossa in Inghilterra, il figlio del suddetto conte Festini, al comando di un gruppo di italiani, riesce a impossessarsi del medaglione e a creare in laboratorio decine di fiale contenenti il bacillo della peste.
Il motivo di interesse della vicenda sta nel fatto che l’organizzazione segreta ricatta il governo di Sua Maestà. Sui muri di Londra appaiono infatti i manifesti in cui La Mano Rossa annuncia di avere chiesto al governo dieci milioni di sterline e un salvacondotto per i suoi membri. Se entro dieci giorni non si provvederà ad accogliere tali richieste, il bacillo della peste verrà diffuso in tutta Londra. Il libro è concentrato sul modo in cui l’investigatore italiano, chiamato tempo prima dal governo inglese per indagare sulle attività criminali della Mano Rossa, il professor Tillizini, uno studioso con licenza di uccidere, svolge le sue indagini per scongiurare la minaccia della Mano Rossa.
Per chi lo legge oggi colpiscono di più, per la loro attualità, i meccanismi che tale minaccia riesce a scatenare. L’organizzazione segreta, che in questa circostanza agisce come un gruppo terroristico, ricatta un governo e un intero Paese. Il Parlamento, costretto a discutere sull’opportunità di cedere al ricatto, dignitosamente decide di no. Ma si interroga anche sulla necessità di promulgare leggi speciali per combattere i terroristi; e almeno una leggina per concedere la licenza di uccidere all’investigatore italiano in effetti l’approva.
Infine, nell’ultima e decisiva fase, l’esercito viene mobilitato a fianco delle forze di polizia. Tillizini rivolge un nobile discorso ai parlamentare inglesi, lodandone la volontà di non superare i confini posti dal rispetto dei principi democratici. Nella lotta al terrore, come tragicamente ci ricordano le cronache di oggi, il problema si pone in termini non molto diversi. E non molto diverso è lo stato d’animo di paura e di insicurezza che la minaccia determina nella popolazione. Dobbiamo sperare che i Tillizini di oggi riescano a scongiurarla.
il manifesto 20.5.16
Lieberman alla Difesa vuole la pena di morte per i “terroristi”
Israele. Con un colpo a sorpresa il premier Netanyahu rinuncia all'alleanza con il laburista Herzog e sceglie per uno dei ministeri più delicati, responsabile per i Territori palestinesi occupati, un esponente della destra più radicale
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Con Avigdor Lieberman alla Difesa gli israeliani «andranno nei rifugi anti-bomba». È questo uno dei titoli che il quotidiano liberal Haaretz dedicava ieri alla scelta, non ancora ufficiale, fatta dal premier Netanyahu di nominare nuovo ministro della difesa uno degli esponenti della destra più radicale. Un esponente politico che qualche anno fa fece notizia in tutto il mondo per aver chiesto il bombardamento atomico della diga egiziana di Aswan. Dovranno però preoccuparsi molto di più i palestinesi, specialmente quelli di Gaza, che non hanno neanche rifugi dove cercare riparo. Lieberman, nel 2014, quando era ministro degli esteri, contestò quella che definiva la «politica arrendevole» del governo nei confronti di Gaza e di Hamas. Non riuscì a soddisfarlo neppure l’operazione militare “Margine Protettivo” (2.200 palestinesi morti e migliaia di case distrutte). L’anno scorso Lieberman, leader del partito Yisrael Beitenu, restò fuori dalla coalizione perché il primo ministro non si era detto disposto ad accettare tutte le sue condizioni.
Un anno dopo Netanyahu quelle condizioni si è detto pronto ad accoglierle pur di avere Lieberman nel governo e di rafforzare con altri sei seggi la sua risicata maggioranza alla Knesset. Oltre al ministero della difesa, il capo di Yisrael Beitenu ha ottenuto il via libera del Likud, il partito di Netanyahu, alla pena di morte per i «terroristi», palestinesi naturalmente. Arutz Sheva, l’agenzia d’informazione del movimento dei coloni israeliani nei Territori occupati, ieri commentava con evidente soddisfazione che l’accordo di governo prevede che le corti militari potranno decidere la condanna a morte di un “terrorista” con il voto favorevole di due giudici su tre. Dalla sua fondazione Israele ha applicato la condanna a morte soltanto una volta, nei confronti del nazista Adolf Eichmann.
Qualcuno in queste ore scrive e spiega, anche all’estero, che Netanyahu avrebbe fatto una scelta di convenienza per rafforzare la maggioranza e per saldare i conti con il ministro della difesa uscente e suo compagno di partito Moshe Yaalon, anche lui un falco che però sembra credere nel rispetto delle regole, almeno in certe circostanze. Di recente Yaalon ha chiesto la condanna del sergente Elor Azaria responsabile dell’uccisione a sangue freddo di un palestinese a Hebron e si è schierato dalla parte del vice capo di stato maggiore Yair Golan che aveva criticato pubblicamente l’intolleranza e gli sviluppi autoritari e antidemocratici all’interno della società israeliana. Cacciando Yaalon, il primo ministro ritiene di aver anche colpito quella parte dei vertici militari che lo aveva biasimato per aver attaccato frontalmente il presidente Usa Barack Obama favorevole all’accordo sul programma nucleare iraniano. Invece la scelta di Netanyahu si inserisce pienamente nel solco ideologico della destra ultranazionalista alla quale anche lui appartiene sia pure con un linguaggio diverso da quello usato da altri rappresentanti di questa parte politica. Il premier era davanti a un bivio. Poteva scegliere l’alleanza con il laburista Isaac Herzog – che, peraltro, ha sterzato a destra anche lui negli ultimi mesi – sapendo però che ciò lo avrebbe costretto a ridimensionare il peso nella coalizione di un altro alleato, il ministro nazionalista religioso Naftali Bennett, un leader dei coloni israeliani, e a dover accettare l’idea di una ripresa dei negoziati con i palestinesi forse sulla base dell’iniziativa diplomatica francese che sta cercando di silurare.
Ha perciò scelto Lieberman, un alleato scomodo, imprevedibile ma ideologicamente e politicamente vicino, al quale sarà affidato il compito di “governare” i Territori occupati e quattro milioni circa di palestinesi. Non sorprende che Casa ebraica, il partito di Naftali Bennett, abbia esultato sottolineando che il nuovo esecutivo «sarà il governo più a destra nella storia di Israele». La nomina di Lieberman a ministro della difesa potrebbe ora indurre il partito Fatah del presidente Abu Mazen e Hamas a realizzare quella riconciliazione nazionale palestinese tante volte annunciata e mai realizzata. Di sicuro spingerà i palestinesi a puntare con ancora più decisione sull’intervento dell’Onu e della diplomazia internazionale, anche se la speranza di ottenere risultati è ridottissima. «Questa decisione israeliana – ha commentato il ministero degli esteri dell’Anp – è la risposta di Netanyahu agli sforzi diplomatici francesi e internazionali e regionali e invia un messaggioforte al mondo che Israele preferisce l’estremismo, il perpetuare l’occupazione e la liquidazione della pace».
Lieberman alla Difesa vuole la pena di morte per i “terroristi”
Israele. Con un colpo a sorpresa il premier Netanyahu rinuncia all'alleanza con il laburista Herzog e sceglie per uno dei ministeri più delicati, responsabile per i Territori palestinesi occupati, un esponente della destra più radicale
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Con Avigdor Lieberman alla Difesa gli israeliani «andranno nei rifugi anti-bomba». È questo uno dei titoli che il quotidiano liberal Haaretz dedicava ieri alla scelta, non ancora ufficiale, fatta dal premier Netanyahu di nominare nuovo ministro della difesa uno degli esponenti della destra più radicale. Un esponente politico che qualche anno fa fece notizia in tutto il mondo per aver chiesto il bombardamento atomico della diga egiziana di Aswan. Dovranno però preoccuparsi molto di più i palestinesi, specialmente quelli di Gaza, che non hanno neanche rifugi dove cercare riparo. Lieberman, nel 2014, quando era ministro degli esteri, contestò quella che definiva la «politica arrendevole» del governo nei confronti di Gaza e di Hamas. Non riuscì a soddisfarlo neppure l’operazione militare “Margine Protettivo” (2.200 palestinesi morti e migliaia di case distrutte). L’anno scorso Lieberman, leader del partito Yisrael Beitenu, restò fuori dalla coalizione perché il primo ministro non si era detto disposto ad accettare tutte le sue condizioni.
Un anno dopo Netanyahu quelle condizioni si è detto pronto ad accoglierle pur di avere Lieberman nel governo e di rafforzare con altri sei seggi la sua risicata maggioranza alla Knesset. Oltre al ministero della difesa, il capo di Yisrael Beitenu ha ottenuto il via libera del Likud, il partito di Netanyahu, alla pena di morte per i «terroristi», palestinesi naturalmente. Arutz Sheva, l’agenzia d’informazione del movimento dei coloni israeliani nei Territori occupati, ieri commentava con evidente soddisfazione che l’accordo di governo prevede che le corti militari potranno decidere la condanna a morte di un “terrorista” con il voto favorevole di due giudici su tre. Dalla sua fondazione Israele ha applicato la condanna a morte soltanto una volta, nei confronti del nazista Adolf Eichmann.
Qualcuno in queste ore scrive e spiega, anche all’estero, che Netanyahu avrebbe fatto una scelta di convenienza per rafforzare la maggioranza e per saldare i conti con il ministro della difesa uscente e suo compagno di partito Moshe Yaalon, anche lui un falco che però sembra credere nel rispetto delle regole, almeno in certe circostanze. Di recente Yaalon ha chiesto la condanna del sergente Elor Azaria responsabile dell’uccisione a sangue freddo di un palestinese a Hebron e si è schierato dalla parte del vice capo di stato maggiore Yair Golan che aveva criticato pubblicamente l’intolleranza e gli sviluppi autoritari e antidemocratici all’interno della società israeliana. Cacciando Yaalon, il primo ministro ritiene di aver anche colpito quella parte dei vertici militari che lo aveva biasimato per aver attaccato frontalmente il presidente Usa Barack Obama favorevole all’accordo sul programma nucleare iraniano. Invece la scelta di Netanyahu si inserisce pienamente nel solco ideologico della destra ultranazionalista alla quale anche lui appartiene sia pure con un linguaggio diverso da quello usato da altri rappresentanti di questa parte politica. Il premier era davanti a un bivio. Poteva scegliere l’alleanza con il laburista Isaac Herzog – che, peraltro, ha sterzato a destra anche lui negli ultimi mesi – sapendo però che ciò lo avrebbe costretto a ridimensionare il peso nella coalizione di un altro alleato, il ministro nazionalista religioso Naftali Bennett, un leader dei coloni israeliani, e a dover accettare l’idea di una ripresa dei negoziati con i palestinesi forse sulla base dell’iniziativa diplomatica francese che sta cercando di silurare.
Ha perciò scelto Lieberman, un alleato scomodo, imprevedibile ma ideologicamente e politicamente vicino, al quale sarà affidato il compito di “governare” i Territori occupati e quattro milioni circa di palestinesi. Non sorprende che Casa ebraica, il partito di Naftali Bennett, abbia esultato sottolineando che il nuovo esecutivo «sarà il governo più a destra nella storia di Israele». La nomina di Lieberman a ministro della difesa potrebbe ora indurre il partito Fatah del presidente Abu Mazen e Hamas a realizzare quella riconciliazione nazionale palestinese tante volte annunciata e mai realizzata. Di sicuro spingerà i palestinesi a puntare con ancora più decisione sull’intervento dell’Onu e della diplomazia internazionale, anche se la speranza di ottenere risultati è ridottissima. «Questa decisione israeliana – ha commentato il ministero degli esteri dell’Anp – è la risposta di Netanyahu agli sforzi diplomatici francesi e internazionali e regionali e invia un messaggioforte al mondo che Israele preferisce l’estremismo, il perpetuare l’occupazione e la liquidazione della pace».
il manifesto 20.5.16
A quali cinesi piace Trump
Usa/Cina. Un recente sondaggio on line condotto su 3.300 cinesi ha sancito che il 54% del campione apprezzerebbe più Donald Trump di Hillary Clinton. Questo dato è diventato subito una notizia in Occidente: «ai cinesi piace Trump» è stato scritto. Si tratta di un’affermazione che non è falsa ma neanche completamente vera, come spesso accade quando si tratta di Cina
di Simone Pieranni
In Cina Donald Trump lo chiamano – ufficialmente – Tangnade Telangpu. Ma sul web viene preferito il più colloquiale Chuanpu, benché i primi a utilizzare questo nome siano stati i taiwanesi. Molti netizen cinesi – inoltre – preferirebbero chiamarlo Chuangpo che significa «letto rotto». Questo per dire che nei confronti di Trump in Cina si è sviluppato un interesse cresciuto in parallelo al percorso elettorale del tycoon americano. Un recente sondaggio on line condotto su 3.300 cinesi ha sancito che il 54% del campione apprezzerebbe più Donald Trump di Hillary Clinton. Questo dato è diventato subito una notizia in Occidente: «ai cinesi piace Trump» è stato scritto. Si tratta di un’affermazione che non è falsa ma neanche completamente vera, come spesso accade quando si tratta di Cina.
Sul Global Times – il quotidiano ufficiale del Partito comunista che sul suo sito in cinese, huanqiu.com, ha ospitato il sondaggio – un professore dell’Istituto di studi americani dell’Accademia delle scienze sociali di Pechino ha spiegato che «la maggior parte dei cinesi sa poco delle opinioni politiche di Trump o delle elezioni statunitensi in generale. Per loro Trump è una specie di intrattenitore».
Data questa affermazione come punto di partenza, si potrebbe sostenere – generalizzando un minimo – che in Cina, su Trump e sulle elezioni americane, le posizioni sono specificamente tre. Partiamo da quella che potremmo definire come la posizione dell’estabilishment politico ed economico. C’è da credere che questa parte della società cinese sia completamente contraria ad un’eventuale vittoria di Trump alle presidenziali Usa.
Le ragioni sono di duplice natura: i funzionari politici non hanno in grande considerazione tutto ciò che appare come un salto nel vuoto. E quindi, benché Hillary si sia sempre espressa in modo molto netto sulla Cina e sul Pacifico (non cambierà la strategia del pivot to Asia, anzi), la leadership politica pechinese preferirebbe lei a Trump, perché saprebbe di muoversi su un terreno conosciuto. Se gli Usa non cambiano nel loro approccio, neanche la Cina dovrà cambiare più di tanto.
La comunità economica, analogamente, è conservativa: se Obama da un punto di vista diplomatico ha «disturbato» la Cina, le comunità economiche sono intrecciate e i tanti riferimenti anti cinesi di Trump (come testimonia un video ormai virale dove per tre minuti The Donald dice solo «China») rischiano di complicare le cose.
Diverso è il discorso della popolazione cinese, genericamente parlando. In questo caso la natura dell’apprezzamento nei confronti di Trump va chiarita. Quel 54% rappresenta coloro dunque che stimano davvero Trump. Perché è ricco, è un imprenditore, ha fama di self made man e non ha granché rispetto per le minoranze etniche.
Tutte caratteristiche che piacciono a parte della working class anti politica americana e perfino a quella cinese. Se dimentichiamo per un attimo le differenze evidenti tra Cina e Usa, non si può non registrare anche in Cina una sorta di sentimento anti establishment, che finisce per appoggiare o provare simpatie per quelli che percepisce come propri simili in altri paesi. Daniel Bell, studioso apprezzato della Cina contemporanea, al New Yorker ha spiegato che «c’è simpatia per Trump in Cina, perché i cinesi sono vicini al suo risentimento nei confronti dell’establishment».
Non a caso a questi cinesi – pare una contraddizione, ma non lo è – piace anche Xi Jinping, l’attuale presidente, perché la sua battaglia anti corruzione viene letta proprio come una guerra ai «potenti».
C’è poi un altro, il terzo, tipo di «simpatia» dei cinesi nei confronti di Trump. E si tratta di un sentimento politico e, anche se appare un paradosso, iper-nazionalistico cinese. Trump piace perché mette in evidenza tutti i limiti del sistema democratico e in particolare di quello statunitense, capace di creare «mostri», proprio come quello di Trump.
A quali cinesi piace Trump
Usa/Cina. Un recente sondaggio on line condotto su 3.300 cinesi ha sancito che il 54% del campione apprezzerebbe più Donald Trump di Hillary Clinton. Questo dato è diventato subito una notizia in Occidente: «ai cinesi piace Trump» è stato scritto. Si tratta di un’affermazione che non è falsa ma neanche completamente vera, come spesso accade quando si tratta di Cina
di Simone Pieranni
In Cina Donald Trump lo chiamano – ufficialmente – Tangnade Telangpu. Ma sul web viene preferito il più colloquiale Chuanpu, benché i primi a utilizzare questo nome siano stati i taiwanesi. Molti netizen cinesi – inoltre – preferirebbero chiamarlo Chuangpo che significa «letto rotto». Questo per dire che nei confronti di Trump in Cina si è sviluppato un interesse cresciuto in parallelo al percorso elettorale del tycoon americano. Un recente sondaggio on line condotto su 3.300 cinesi ha sancito che il 54% del campione apprezzerebbe più Donald Trump di Hillary Clinton. Questo dato è diventato subito una notizia in Occidente: «ai cinesi piace Trump» è stato scritto. Si tratta di un’affermazione che non è falsa ma neanche completamente vera, come spesso accade quando si tratta di Cina.
Sul Global Times – il quotidiano ufficiale del Partito comunista che sul suo sito in cinese, huanqiu.com, ha ospitato il sondaggio – un professore dell’Istituto di studi americani dell’Accademia delle scienze sociali di Pechino ha spiegato che «la maggior parte dei cinesi sa poco delle opinioni politiche di Trump o delle elezioni statunitensi in generale. Per loro Trump è una specie di intrattenitore».
Data questa affermazione come punto di partenza, si potrebbe sostenere – generalizzando un minimo – che in Cina, su Trump e sulle elezioni americane, le posizioni sono specificamente tre. Partiamo da quella che potremmo definire come la posizione dell’estabilishment politico ed economico. C’è da credere che questa parte della società cinese sia completamente contraria ad un’eventuale vittoria di Trump alle presidenziali Usa.
Le ragioni sono di duplice natura: i funzionari politici non hanno in grande considerazione tutto ciò che appare come un salto nel vuoto. E quindi, benché Hillary si sia sempre espressa in modo molto netto sulla Cina e sul Pacifico (non cambierà la strategia del pivot to Asia, anzi), la leadership politica pechinese preferirebbe lei a Trump, perché saprebbe di muoversi su un terreno conosciuto. Se gli Usa non cambiano nel loro approccio, neanche la Cina dovrà cambiare più di tanto.
La comunità economica, analogamente, è conservativa: se Obama da un punto di vista diplomatico ha «disturbato» la Cina, le comunità economiche sono intrecciate e i tanti riferimenti anti cinesi di Trump (come testimonia un video ormai virale dove per tre minuti The Donald dice solo «China») rischiano di complicare le cose.
Diverso è il discorso della popolazione cinese, genericamente parlando. In questo caso la natura dell’apprezzamento nei confronti di Trump va chiarita. Quel 54% rappresenta coloro dunque che stimano davvero Trump. Perché è ricco, è un imprenditore, ha fama di self made man e non ha granché rispetto per le minoranze etniche.
Tutte caratteristiche che piacciono a parte della working class anti politica americana e perfino a quella cinese. Se dimentichiamo per un attimo le differenze evidenti tra Cina e Usa, non si può non registrare anche in Cina una sorta di sentimento anti establishment, che finisce per appoggiare o provare simpatie per quelli che percepisce come propri simili in altri paesi. Daniel Bell, studioso apprezzato della Cina contemporanea, al New Yorker ha spiegato che «c’è simpatia per Trump in Cina, perché i cinesi sono vicini al suo risentimento nei confronti dell’establishment».
Non a caso a questi cinesi – pare una contraddizione, ma non lo è – piace anche Xi Jinping, l’attuale presidente, perché la sua battaglia anti corruzione viene letta proprio come una guerra ai «potenti».
C’è poi un altro, il terzo, tipo di «simpatia» dei cinesi nei confronti di Trump. E si tratta di un sentimento politico e, anche se appare un paradosso, iper-nazionalistico cinese. Trump piace perché mette in evidenza tutti i limiti del sistema democratico e in particolare di quello statunitense, capace di creare «mostri», proprio come quello di Trump.