l’Unità 21.4.11
Il deputato azzurro Ceroni propone: modificare l’articolo 1 della Costituzione
«Il Parlamento viene prima del Presidente, dei magistrati, della Consulta»
Pdl contro il Quirinale «Tutto il potere alle Camere»
Solerti pidiellini fanno guerra al Quirinale: il deputato Remigio Ceroni ha presentato un disegno di legge per modificare l’articolo 1 della Costituzione: il «Parlamento è sovrano», non il popolo. Ma il Pdl lo lascia solo.
di Natalia Lombardo
Goccia a goccia, colpo su colpo, le «iniziative individuali» dei solerti parlamentari del Pdl, come quelle del candidato milanese, rafforzano l’attacco al Capo dello Stato sferrato da Berlusconi e megafonato da Giuliano Ferrara su RaiUno.
Così ora un deputato del Pdl, il marchigiano Remigio Ceroni, è balzato alla ribalta mediatica sostituendosi addirittura ai padri costituenti. Vuole cambiare l’articolo 1 della Carta. In una proposta di legge depositata due giorni fa alla Camera vuole cancellare il dettato sul «popolo sovrano» per sostituirlo con la centralità «del Parlamento sovrano», che, secondo il deputato, «gerarchicamente viene prima degli altri organi costituzionali come magistratura e Consulta e presidenza della Repubblica». Ceroni va oltre, parla di «eversione dell'ordine democratico» per il «sopravvento di poteri non eletti dal popolo sovrano». Il Quirinale, per dire. Nel Pdl prendono le distanze: «Iniziativa personale» per il capogruppo Cicchitto, mai sentito dire a Palazzo Grazioli.
L’articolo 1 della Costituzione recita: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» e al comma 2 «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». Ecco, il Ceroni vuole unificare i comma in «L'Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del Parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale».
Insomma, secondo Ceroni, il Parlamento sarebbe «troppo debole», ma non perché vota solo decreti governativi e pure con la fiducia.
E dato che non si può fare la riforma «presidenziale che vuole Berlusconi», allora Ceroni si accontenta di ribadire «la centralità del Parlamento troppo spesso mortificata, quando fa una legge, o dal presidente della Repubblica che non la firma o dalla Corte Costituzionale che la abroga». Ristabilire «la gerarchia tra i poteri dello Stato», dire quale è «superiore» in caso di conflitto, è il Remigio pensiero.
Nel Pdl cascano dalle nuvole: Ceroni chi? «Quale proposta di legge? Non ne so nulla», afferma Annamaria Bernini, portavoce del Pdl che in commissione Affari Costituzionali non ha visto nulla. Maurizio Lupi scuote la testa, «parliamo di cose più serie». Ma il protagonismo dei peones che fanno a gara nel megafonare i diktat del cavaliere, fosse solo per assicurarsi una ricandidatura, rafforza il bombardamento su Napolitano. Saranno solo provocazioni (non reggerebbero i quattro passaggi parlamentari e un referendum), ma concorrono alla rappresentazione di un Capo dello Stato «di parte» che va disegnando Berlusconi.
LA DIABOLICA CLASSIFICA
In un Transatlantico prefestivo due ex di Forza Italia ironizzano sulla «pioggia di proposte di legge, le più assurde, che vengono presentate. E bisogna anche stare attenti a firmarle, guardare la prima pagina...», racconta Giorgio Lainati. Secondo Gregorio Fontana bisognerebbe «mettere una tassa a chi propone leggi che poi restano in archivio» però fanno clamore (come quella sull’abolizione del divieto di ricostituzione del partito fascista, sulla quale si è tirato indietro di corsa il finiano Egidio Digidio). Sarà forse per «quella classifica di Openpolis che premia la produttività dei parlamentari che presentano più leggi?», si chiede Fontana.
Remigio Ceroni conferma che la sua è «una iniziativa personale» e assicura di non averne parlato prima con Berlusconi. Non è neppure membro della I commissione, la Affari Costituzionali, bensì delle Bilancio, vigilanza sulla Cassa depositi e prestiti e Questioni regionali. Persino Brunetta si era limitato a contestare l’articolo 1: «L’italia non è fondata sul lavoro», ha gridato, ma a vuoto. N. L.
l’Unità 21.4.11
Napolitano marca le distanze: Il Colle non scende in guerra
Nessuna eco al Quirinale dell’iniziativa di Remigio Ceroni. Anche fosse farina del sacco di qualcun altro, non sono certo questi argomenti a muovere gli interventi di Napolitano. Che non abbocca alle brame di guerra altrui.
di Marcella Ciarnielli
L’iniziativa «personale» del deputato Remigio Ceroni non ha trovato alcuna eco al Quirinale nonostante il fin qui sconosciuto, a dispetto del suo stare praticamente sempre in Parlamento, parlamentare marchigiano abbia chiamato in causa esplicitamente il presidente Napolitano parlando di «ingerenza inaccettabile» a proposito dell’iter di alcune leggi. Silenzio al Colle. In una situazione come quella di questi giorni, in cui appare sempre più evidente il desiderio di vedergli compiere un errore, di vedergli, per così dire un’invasione di campo, il Capo dello Stato era abbastanza scontato che non intervenisse in alcun modo sulla iniziativa, legittima anche se sorprendente, dell’onorevole. Non restava davanti ad essa, un altro segnale di quella voglia di creare un clima di tensione, di impegnarsi in piccole ma significative prove di forza, che mantenere un giusto distacco. Pena l’accusa di non riconoscere ad un eletto dal popolo la libertà di opinione e di iniziativa.
Peraltro in questi giorni difficili sono già troppi i motivi di preoccupazione perché ci si metta ad inseguire le trovate di un parlamentare che d’improvviso decide di modificare la Costituzione e, per giunta, in uno dei suoi articoli, il primo, fin qui considerato intangibile, uno dei principi fondamentali. Ancora più sorprendente l’intenzione di stabilire una graduatoria di importanza tra gli organi costituzionali privilegiando proprio quel Parlamento che la parte politica del Ceroni non fa funzionare se non nell’interesse del premier. Contraddizioni. Provocazioni. Voglia di scontro piuttosto che di confronto nonostante il più volte ripetuto invito di Napolitano, a tutte le parti, a «non esasperare il clima» ma puntando, piuttosto al confronto. E non è certo con le iniziative personali che tendono a stabilire «la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale» che si ristabilisce un clima di dialogo costruttivo nell’interesse del Paese. Il primo effetto evidente è stato solo la sovraesposizione mediatica di un deputato di cui fin qui non si conosceva neanche il nome. Però è anche vero che in altre occasioni «l’iniziativa personale» è poi diventata patrimonio dell’intera maggioranza nella battaglia parlamentare. Questa volta, almeno per ora, Ceroni sembra destinato ad una (forse) imprevista solitudine. Chissà se si aspettava di essere mollato così in fretta dai suoi colleghi di coalizione. Al momento è così. Poi si vedrà .
Il premier intanto scalpita. Lui al Quirinale vorrebbe salirci di persona per cercare ancora una volta di illustrare le necessità inderogabili di ampliare il numero dei componenti del suo governo. Se il famoso rimpasto di cui tanto si parla, ma su cui anche ieri su tempi e modi, sono state riportate contraddittorie informazioni da due autorevoli esponenti del Pdl alla fine dello stesso vertice, passa per le forche caudine di un numero maggiore di poltrone rispetto a quelle previste dalla normativa in vigore. Su questo il presidente della Repubblica è stato chiaro fin dalla prima richiesta. Se si tratta di ricevere informazioni e presentazioni dei candidati, porte aperte. Ma l’aumento del numero può passare solo per un disegno di legge che dovrà compiere il suo completo iter parlamentare. Ed a proposito di riforme c’è sem-
pre quell’espresso desiderio di inviare al Colle il ministro Alfano per ulteriori approfondimenti sulla «epocale» riforma della giustizia. Finora non c’è stata alcuna richiesta. Peraltro il presidente della Repubblica, parlando per ultimo a Praga nei giorni scorsi, ha fatto ben intendere che non c’è alcun bisogno di ricevere ulteriori spiegazione. Al momento opportuno, quando l’itinerario in Parlamento sarà compiuto, entreranno in campo le prerogative del Presidente che valuterà il testo con l’attenzione di sempre. Ben nota a tutti.
l’Unità 21.4.11
Il retroscena
Dopo Lassini, Ceroni Silvio lancia gli scagnozzi
Altro che tregua. C’è chi fa il lavoro sporco per il Capo, che si dice «all’oscuro». Ma ormai la strategia è evidente e svelata anche da Ferrara: trasformare Napolitano in un avversario Nuova promessa ai Responsabili: rimpasto subito dopo Pasqua: «Salirò al Colle per le nomine»
di Ninni Andriolo
Altro che «tregua pasquale»! I primi a non credere al Cavaliere erano stati i pdl destinatari del consiglio. Con l’esodo alle porte e la colomba sulla tavola di milioni di italiani, la promessa di «abbassare i toni» appariva ai consiglieri del premier una mossa sensata, anche se poco realistica. Ieri, per la verità, Silvio si è detto «all’oscuro», ma tutte le indiscrezioni fatte trapelare da Palazzo Grazioli segnalavano l’escalation di propositi di guerra. Dal conflitto sollevato davanti la Consulta contro i giudici milanesi del processo Mediaset che non ritennero legittimo l’impedimento accampato dal premier; alla carica data a coordinatori e capigruppo Pdl convocati a Palazzo Grazioli per trasformare le amministrative nella resa dei conti con le procure che «perseguitano» Silvio; fino alla nuova sfida al Capo dello Stato per interposta persona.
Se il clima che fomenta il Cavaliere è quello dello scontro «perché serve a vincere, e i sondaggi lo dimostrano» come si fa poi a sostenere che un tal Ceroni sia partito in quarta con l’idea di riscrivere l’articolo 1 della Costituzione, solo «a titolo personale»? Come Lassini ha preso alla lettera sui manifesti il Cavaliere sul «brigatismo giudiziario», Ceroni ha trasformato in disegno di legge di riforma costituzionale gli attacchi del premier a pm, Consulta e Quirinale. I fedelissimi di Silvio prendono le distanze, ma giustificano. «Ceroni ha cercato di ribadire la centralità del Parlamento spiega Giorgio Stracquadanio Sinistra e Udc non sono interessati al tema solo perché alla Camera e al Senato la maggioranza è di centrodestra?».
Il gesto dell’azzurro che «sbaglia», in realtà, suona come l’ennesimo tentativo di trascinare Napolitano nella contesa per non farlo apparire «super partes» nello «scontro finale» sulla riforma ad personam della giustizia. Un’offensiva che passa per le amministrative dove Silvio «ha messo la faccia». Ieri, i maggiorenti riuniti a Palazzo Grazioli, hanno fissato due grandi manifestazioni elettorali con Berlusconi, il 7 maggio a Milano e il 13 a Napoli. Ai milanesi, tra l’altro, il Cavaliere invierà una lettera personale. A dispetto della propaganda sulla «vittoria certissima», l’astensionismo che si registra nell’elettorato di centrodestra preoccupa il premier. Concentrato sulla «battaglia campale» del voto, Berlusconi avrebbe voluto occuparsi il meno possibile dei responsabili.
Ieri, però, Scilipoti&Co gli hanno ricordato che grazie a loro è stato evitato «il golpe» del 14 dicembre. E il premier è stato costretto a ricevere Luciano Sardelli per l’ennesima volta. La promessa? La stessa, inevasa, delle settimane scorse: «il rimpasto di governo». Sarà la volta buona per Pionati, Calearo e soci? Dopo Pasqua nove sottosegretari e uno/due viceministri: questa la promessa solenne del Cavaliere al capogruppo alla Camera di Ir.
Impegni fatti apposta per mandare su tutte le furie azzurri e leghisti in lista d’attesa per uno strapuntino di governo, sacrificati alle ragioni del «figliol prodico che ritorna» malgrado la fedeltà dimostrata a Silvio. Per loro, però, il Cavaliere annuncia un disegno di legge ad hoc per allargare le panchine di governo. Un altro espediente, a ben vedere, per gettare altra benzina sul fuoco dei rapporti con il Colle.
il Fatto 21.4.11
I parlamentari-schiavi all’ombra del Caimano
Deputati e senatori pronti a tutto pur di compiacerlo
di Paola Zanca
Uno accorcia, l'altro allunga. Uno sogna di cambiare l'articolo 1 della Costituzione, l'altro si accontenta di modificare il 136. Lavorano nell'ombra fino al giorno in cui le riflessioni di una vita finiscono lì, in una proposta di legge. Ieri, Remigio Ceroni ha compiuto il suo personalissimo miracolo: alla sua terza iniziativa presentata come primo firmatario, con il 99,85 per cento di presenze in aula, ha sfondato il muro del silenzio. Su tutti i siti web ieri, su tutti i giornali oggi, perché vorrebbe cambiare le prime righe con cui comincia la nostra Carta, quelle in cui si dichiara “la centralità del Parlamento nel sistema istituzionale della Repubblica”. Consulta e presidente della Repubblica la smettano di intromettersi, le leggi votate dalla maggioranza non si toccano.
Ridurre lo zelo dei parlamentari a brama di popolarità, però, sarebbe riduttivo. Perché una cosa in comune, le decine di proposte incardinate nelle commissioni di Camera e Senato ce l'hanno: piacciono tanto a lui, il presidente del Consiglio.
Luigi Vitali per ora è a quota tre. Tre proposte di legge che sembrano ricalcate sugli anatemi di Berlusconi. È diventato famoso grazie alla cosiddetta prescrizione breve - la norma che accorcia i tempi per incensurati e over 65 – ma in passato (era febbraio del 2009) aveva già chiesto modifiche agli articoli 107 e 110 della Costituzione “in materia di esercizio dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati”. Si era poi dedicato alle intercettazioni: voleva introdurre nel codice di procedura penale una sanzione per riparare a “ingiusta intercettazione di comunicazioni telefoniche o di conversazioni”. L'obiettivo non è ancora stato centrato per questo poco più di un mese fa, il 3 marzo, Maurizio Bianconi è tornato alla carica con un nuovo testo che permetta di evitare che le telefonate “prese a pezzi, poi utilizzati con il copia e incolla, divengano clave da utilizzare per emettere sentenze di condanna anticipata o strumenti per montare processi popolari di discredito della stampa”. Controcorrente alla proposta di Vitali, invece, è quella di Franco Mugnai: anziché breve, lui il processo lo vuole lungo. Infiniti elenchi di testimoni da ascoltare, con lo stesso obiettivo di sempre: arrivare alla prescrizione. Mugnai sta al Senato, e di certo dovrà farne di strada prima di eguagliare il lavoro del suo collega in commissione Giustizia, Giuseppe Valentino, che di riforme ne ha annunciate parecchie. Della Costituzione, per esempio, vorrebbe cambiare almeno cinque articoli: quelli che riguardano l'immunità parlamentare, la nomina della Consulta, nonché del Csm.
Valentino è in buona compagnia. A Raffaello Vignali, di articoli della Carta, piacerebbe modificarne tre: un classico, l'immunità, e due new entry: il 136, relativo alle sentenze della Corte costituzionale che dichiarano illegittima una legge, e il 41, quello sull'iniziativa economica privata. Che – Berlusconi dixit – costringe gli imprenditori italiani a lavorare con regole di “matrice cattocomunista”.
Ma con la nascita dei Responsabili, la concorrenza si è fatta agguerrita. Mario Pepe, che ha sacrificato un suo seggio nel Pdl per alimentare il gruppo neonato, il 2 marzo ha proposto di modificare due articoli in un colpo solo: il 70 e l'82. Uno riguarda la “semplificazione del procedimento legislativo”, l’altro le funzioni “di indirizzo politico, di controllo e di inchiesta del Parlamento”. Sarà un caso, ma poco dopo è arrivate l'idea di “indagare” sui giudici di Milano a firma Gasparri e Quagliariello. Non voleva essere da meno Domenico Scilipoti. Il medico omeopata si è buttato anche lui sulle intercettazioni: l'8 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 192 del codice di procedura penale, “in materia di valutazione delle dichiarazioni acquisite mediante intercettazione”. Ultimo, chissà fino a quando, Luciano Sardelli, che dei Responsabili è capogruppo: il 12 aprile ha chiesto la modifica dell'articolo 94 della Costituzione, che riguarda la disciplina delle mozioni di fiducia e di sfiducia nei confronti del premier. Infine, c'è chi ha fatto strada. Edmondo Cirielli, dai tempi della firma (poi ritirata) alla legge sulla recidiva che accorciava i tempi di prescrizione, ha conquistato un po' di sano egoismo. Il 29 marzo, da deputato e presidente della Provincia di Salerno ha chiesto la modifica dell'articolo 131 della Costituzione: chiede che nella città campana venga istituito un “Principato”.
Corriere della Sera 21.4.11
La plastica istituzionale
di Michele Ainis
P otremmo iscrivere alla fiera dell’ovvio la proposta dell’onorevole Ceroni, benché il Palazzo l’abbia salutata con fragore. Potremmo gettare nel cestino dei farmaci scaduti quest’ultima iniezione ri-costituente. A che serve infatti dichiarare — già nel primo articolo della nostra Carta — che il Parlamento è l’organo centrale del sistema, che per suo tramite s’esprime la volontà del popolo, che il popolo a sua volta designa deputati e senatori attraverso un rito elettorale? Magari può servire a ricordarci che in quel posto lì ci si va per elezione, non per cooptazione, non per nomina d’un signorotto di partito, come c’è scritto nel «Porcellum» . Ma tutto il resto è già nero su bianco nella Costituzione: articoli 55 e seguenti. Basta sfogliarne qualche pagina, dopotutto non è una gran fatica. Le leggi inutili, diceva Montesquieu, indeboliscono quelle necessarie. E infatti almeno un quarto del tempo speso dai costituenti nel 1947 fu dedicato a interrogarsi su quanto avesse titolo per entrare nella Carta, allo scopo di non sottrarle dignità e prestigio. Scrupoli d’altri tempi, diremmo col senno di poi. D’altronde, proprio l’articolo 1, con questa folla di chirurghi plastici che sgomita attorno al suo capezzale, ne è la prova più eloquente. C’è per esempio la proposta — avanzata a turno da Segni e da Brunetta, dai radicali, dallo stesso Berlusconi — d’espellere il lavoro dai fondamenti della nostra convivenza. Parola comunista, dicono: meglio libertà. Anche se la libertà già alberga, come noce nel mallo, nella democrazia evocata dall’articolo 1. Non importa, costruiremo una democrazia al quadrato. E poi, libertà di chi? Del popolo, ovviamente. Sicché potremmo scrivere così: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul Popolo della libertà» . Il guaio è che proprio questa parrebbe l’intenzione di Ceroni, nonché dei molti che annuiscono in silenzio. Se non il testo, stavolta fa fede il contesto. Ossia la relazione che accompagna la proposta, dove s’alza il tiro contro gli organi di garanzia costituzionale, a partire dal capo dello Stato. Dove si denunciano abusi e prepotenze a scapito della «centralità parlamentare» (a proposito, ma non fu uno slogan degli anni Settanta, i nostri anni più rossi? Si vede che i politici sono diventati un po’ daltonici). Dove infine si disegna un modello di democrazia plebiscitaria. Conviene allora dirlo con chiarezza: così usciremmo fuori dalla Costituzione. Non solo da quella italiana, ma da qualunque altra. Come scrissero i rivoluzionari del 1789, se una società non regola la separazione dei poteri, non ha una Costituzione. Eppure è esattamente questo che ci sta succedendo. La proposta Ceroni è figlia d’un clima che nega il valore stesso delle regole, perché l’unica regola vigente è quella che ciascuno sagoma attorno al suo pancione, come una cintura. Non a caso la parola più abusata è «eversione» , e infatti ieri è risuonata mille volte. Nel frattempo sulla Consulta piovono conflitti come rane (l’ultimo è sempre di ieri). Servirebbe una tregua, una vacanza, un giorno di riposo. Ma intanto ci servirà l’ombrello.
l’Unità 21.4.11
Intervista a Emma Bonino
«Vittima dei nemici politici ma la Ue si fa anche male da sé»
Per la vicepresidente del Senato suscita preoccupazione l’avanzata dei partiti xenofobi nelle elezioni e nei sondaggi in diversi Paesi europei
di Gabriel Bertinetto
Acolloquio con Emma Bonino, vicepresidente del Senato, ex-ministra per le politiche europee con Prodi.
Recenti risultati elettorali (dalla Finlandia all'Ungheria) e sondaggi d'opinione (l'ascesa del Fronte nazionale in Francia) riflettono la crescita di atteggiamenti xenofobi, chiusure nazionaliste, settarismi culturali. Come valuta questi fenomeni?
«Con preoccupazione, soprattutto perché non vedo contrappesi istituzionali. Per entrare in Europa si fissano dei parametri severi ma una volta entrati non esiste meccanismo che possa mettere in dubbio lo status di paese membro. Neppure di fronte a derive che vanno contro lo spirito e la lettera dei Trattati istitutivi e della Convenzione europea sui diritti dell' uomo. Non a caso, anche il Consiglio d'Europa, custode della Convenzione, è molto preoccupato tanto da incaricare un gruppo di personalità europee, di cui faccio parte, di redigere un rapporto sul tema della convivenza in Europa nel 21mo secolo. Lo presenteremo tra un paio di settimane».
Il rafforzamento di formazioni politiche euroscettiche condiziona le politiche dei singoli Stati. La Ue può resistere a queste spinte disgregatrici? «Solo se troverà la forza di rilanciare subito la sua azione in maniera da evitare che i microinteressi nazionali o sub-nazionali diventino egemoni nel processo politico europeo. Con il Partito Radicale Nonviolento da anni sostengo che i nazionalismi, l'Europa delle patrie, rischiano di determinare la fine non solo della patria europea, ma delle patrie stesse. È ora di tornare al progetto dei padri fondatori, abbandonando l'idea antistorica dell'Europa dei piccoli Stati-nazione. Nessun paese, neanche la Germania o la Francia, figuriamoci una piccola Italietta autarchica, è in grado da solo di affrontare i passaggi chiave di quest’epoca, o di sedersi al tavolo con i giganti Russia, India, Cina o Stati Uniti. Questo può farlo solo l’Europa. O, meglio, gli Stati Uniti d'Europa».
Berlusconi e Maroni ipotizzano l'uscita dalla Ue. Sparate propagandistiche? «Forse non sono solo sparate propagandistiche, ma temo elementi fondativi di questa coalizione di governo e di questo blocco politico». Tremonti suggerisce di abrogare i trattati esistenti e ricostruire l'Europa da zero. Vuole consolidare le istituzioni comunitarie o affossarle?
«Quando parla di un'Europa rafforzata Tremonti dovrebbe chiarire a che entità si riferisce, senza dimenticare però che la prima ferita profonda alla coesione europea fu inferta nel 2003 quando Germania e Francia violarono il Patto di Stabilità, anche con il consenso di Tremonti, che in quel momento era presidente dell' Ecofin. Due anni dopo il Consiglio dei ministri europei bocciò, se non ricordo male all'unanimità, una proposta di iniziativa della Commissione in seguito alle rivelazioni sui dati alterati dalla Grecia per essere ammessa nella zona euro tesa ad affidare ad Eurostat un potere di audit sulle statistiche nazionali». Minacciata dai nemici politici, la Ue è poco aiutata dai suoi stessi dirigenti. Barroso, Ashton e altre figure di spicco dell'Unione sembrano esse stesse contagiate dall'euroscetticismo. Esiste un problema di leadership inadeguata?
«Sì, purtroppo da troppo tempo anche nelle istituzioni europee si celebra una messa senza fede. La Commissione Barroso rinuncia troppo spesso a fare il proprio mestiere riducendosi a fare da segretariato al Consiglio. Sarebbe bello se ogni tanto facesse delle battaglie a tutela degli interessi europei e del loro rafforzamento e avanzasse, esercitando il proprio diritto d'iniziativa, proposte magari impopolari agli occhi del Consiglio, anche a costo di farsele bocciare. Almeno si capirebbe che l’Europa vuole esistere al di là delle resistenze nazionali. E invece no: quando la Commissione capisce che una proposta rischia di non passare in Consiglio, neanche la avanza. Però, più che buttare la croce addosso ai Barroso e alle Ashton, le responsabilità sono dei governi che li hanno nominati».
Una, due, tre scelte urgenti e importanti per rivitalizzare la Ue... «Gli Stati Uniti d'Europa, cioè una politica estera e di difesa comune, un solo esercito anziché 27, una politica comune dell'immigrazione e dell'energia. Senza dimenticare che molte cose si potrebbero fare a trattati vigenti, ad esempio portare a compimento il mercato interno, come l'ex commissario Monti ben documenta nel suo rapporto. Occorre poi rivedere i rapporti con il Sud del Mediterraneo, i cui sconvolgimenti di questi mesi fanno emergere il fallimento delle nostre politiche. Non si può rinviare oltre l'accelerazione del processo di adesione della Turchia».
il Fatto 21.4.11
Immigrazione “Noi che curiamo il mal d’Italia”
Viaggio nei centri che assistono gli stranieri con problemi psichici
di Ferruccio Sansa
“Anche gli immigrati hanno sogni. E incubi. Voi pensate… ancora grazie che hanno un lavoro. Non immaginate che possano soffrire. Io sono una badante, venti ore al giorno chiusa in un appartamento, in una città di cui non capisco la lingua. Con una donna morente. Sono depressa fino alla disperazione”. Elisa è lituana, ha 47 anni. Sta zitta per ore, ma appena l’interprete traduce i discorsi scopri che cosa si nasconde dietro i suoi occhi azzurri.
“È dura far accettare che gli immigrati soffrono come noi di depressione, esaurimento, panico. Per di più con il trauma della migrazione”. Francesca Vallarino Gancia, psicoterapeuta, è nel suo Centro Etnopsichiatrico. Il nome astruso contrasta con l’ambiente pieno di vita. Siamo nella periferia torinese. Il Centro è una vecchia cascina dimenticata tra i condomini. Un’isola, così devono vederla gli immigrati che vi approdano per essere aiutati.
Mamre si chiama l’associazione di cui Vallarino Gancia è presidente. Qui lavorano 29 psicoterapeuti, mediatori culturali e antropologi. Ma c’è anche la cooperativa “Il Crinale” a Milano, c’è il Dipartimento di Salute Mentale Roma B. Decine di strutture che in Italia, con approcci diversi, affrontano la sofferenza psichica degli immigrati. “Mancano i fondi. E bisogna superare l’indifferenza”, spiega Ida Finzi, psicoterapeuta del Crinale. “Pochi si rendono conto di quanto pesi cambiare mondo. Ciascuno di noi appartiene a un luogo, a una cultura. È un involucro che contiene e delimita il senso di sé”, spiega Finzi. Già, da una parte le radici, dall’altra l’ambiente in cui vorresti integrarti. E comincia la sofferenza: giovani divisi tra la cultura dei genitori e quella dei compagni, donne sole ad affrontare la maternità, uomini consumati da lavori allucinanti. E famiglie separate per anni: al ricongiungimento sono estranei.
“LE DONNE affrontano l’emozione della maternità in solitudine. Nel loro Paese avevano la famiglia che le sosteneva perché la nascita altrove coinvolge tutti”, racconta Finzi. Ecco la prima differenza con la nostra società individualista. Nel lavoro di Vallarino Gancia, Finzi, del professor Alfredo Ancora, le teorie diventano storie vere (raccontate nel libro Terapia transculturale per le famiglie migranti di Cattaneo e dal Verme). Come quella di Berenice: 40 anni, intelligente, ma non parla una parola di italiano. Vive qui da anni con il marito e tre figli. Finché arriva una gravidanza, non desiderata, ma accettata. Poi la depressione post partum: “I dottori mi aiutavano – racconta – ma io non capivo cosa mi facevano, mi sentivo terribilmente sola”.
È difficile per gli immigrati chiedere aiuto. Tutto è diverso, a cominciare dall’interpretazione della sofferenza. “In Cina dicono che i disturbi mentali sono come il vento. Non si vedono, non si capisce da dove vengano”, racconta Alfredo Ancora, professore di psichiatria transculturale all’Università di Siena e psichiatra della Asl Roma B. Sahid, 18 anni, parla di ciò che noi chiamiamo panico: “Al mio Paese se stai così male ti portano dal guaritore in contatto con gli spiriti che ti proteggono”. Verrebbe da sorridere, ma Ancora avverte: “Pensate all’effetto che avrebbe su uno straniero la nostra figura dell’angelo custode”.
Già, raccomanda Ancora, “non pensiamo che la nostra cultura sia la migliore. Confrontiamoci senza giudicare”. Così si affronta la terapia. In gruppo: il paziente e gli psicoterapeuti, ma essenziale è il mediatore culturale. Che deve parlare la lingua dell’immigrato, conoscerne la cultura.
UN LAVORO complesso. Ma ecco Liang, sedicenne cinese, che si apre dopo anni di silenzi: “Quando i miei genitori sono venuti in Italia io sono rimasta in Cina con mia nonna, in un villaggio di montagna. Ero felice. Sono venuta a Milano a dodici anni, da sei non vedevo i genitori, non li conoscevo più. Mio fratello non l’avevo mai visto. Andavo a scuola, imparavo l’italiano, ma tacevo. A chi interessava la mia storia? È la prima volta che racconto queste cose, qui di fronte a tante persone”.
Parole diverse, differenti espressioni degli occhi e del sorriso, ma gli stati d’animo sono uguali. Quanti di noi si identificherebbero in Francis, originaria dell’Ecuador: “Ho paura che mia madre muoia senza rivedermi. Quando le ho detto che venivo da mio marito, mi ha risposto che facevo bene, ma lei perdeva il più bel fiore del suo giardino”. Nessuno si era accorto del dolore di Francis. E di quello di Anna e Jussef: “Ci conosciamo da ragazzi. Ma in Italia non riconoscevo più il mio sposo. Mi picchiava”, racconta Anna. E Jussuf, un ottimo padre: “Nel mio Paese quelle non erano considerate violenze”. Sì, Anna e Jussuf è come se si fossero conosciuti due volte. Dopo la terapia si sono ritrovati.
Adesso il professor Ancora sperimenta incontri con immigrati e italiani. Luca, ragazzo delle borgate di Roma, si trova di fronte Mohammed, coetaneo tunisino zoppo. Entrambi affrontano il “male oscuro”. E all’inizio è scontro. Luca urla: “Ci rubate il lavoro”. Ma poi la tensione scompare. Oggi Luca porta a casa Mohammed che non cammina. Alfredo Ancora è convinto: “L’incontro nasce spesso dallo scontro, ma se c’è conflitto meglio tirarlo fuori. E alla fine la sofferenza unisce”.
il Fatto 21.4.11
Tutta colpa dei giovani
Il governo sostiene che i ragazzi devono riscoprire i lavori umili, ma nessun dato conferma questa tesi
di Stefano Feltri
La tesi ha il fascino della semplicità: se la disoccupazione giovanile è al 30 per cento, la ragione è che i giovani non accettano i lavori disponibili perché non li considerano alla loro altezza. Lo ha detto il ministro Giulio Tremonti, da Washington pochi giorni fa, dicendo che gli immigrati sono meno schizzinosi. Ieri il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini ha scritto una lunga lettera al Corriere della Sera spiegano che il governo aiuterà i ragazzi a “superare il pregiudizio verso l’istruzione tecnica e professionale”. Una diffidenza che “per troppo tempo ha allontano i nostri giovani da prospettive occupazionali che consentono invece una straordinaria realizzazione di sè”. La tesi non è condivisa solo dal governo, ma è stata rilanciata dal Censis di Giuseppe De Rita e da editorialisti come Dario Di Vico che, sempre sul Corriere, invitava ad arruolare “i testimonial più trendy” per spiegare il fascino del lavoro manuale. Peccato che tutte queste certezze non si fondino sui numeri. Sono atti di fede.
Non c'è alcuna indicazione sul fatto che la difficoltà di reperimento dipende dall'età, di solito deriva dalla mancanza di professionalità adeguata o di esperienza.
“NON C’È ALCUN dato ufficiale sul fatto che i giovani rifiutino lavori poco appaganti”, spiega Michele Pasqualotto, ricercatore della società Data-giovani, specializzata in analisi del mercato del lavoro giovanile. Spiega ancora Pasqualotto: “Tra le domande del questionari Istat, su cui si fondano tutte le analisi, non c'è n’è alcuna sui lavori rifiutarti, viene soltanto chiesto che cosa sarebbero di-sposti a fare per lavorare”.
Su cosa si fonda, allora, tutta questa necessità di riscoprire il lavoro manuale? Su alcuni dati piegati a sostegno dello snobismo dei ragazzi. Il rapporto Unioncamere-ministero del Lavoro studia le richieste delle imprese: stando alle previsioni di assunzioni relative al 2010 (le più recenti a disposizione) e alla difficoltà di reperimento del personale ricercato, risulta che è difficilissimo trovare 2860 meccanici per autoveicoli, una rarità i montatori e riparatori di serramenti e infissi (ne mancano 1350). Questo significa che tutti i giovani devono diventare meccanici o montatori di infissi? Assolutamente no, è lo stesso rapporto Unioncamere a precisarlo. “Se si eccettua il 2009 [quando il Pil è crollato del 5 per cento], le assunzioni di laureati e diplomati programmate dalle imprese sono continuamente aumentate in termini assoluti, segnando entrambe, in ciascun anno, variazioni superiori alla media di molti punti”. E quindi tra il 2004 e il 2009 le assunzioni dei laureati sono cresciute dall’8,4 per cento all’11,9 per cento. Mentre quelli con la sola licenza dell’obbligo sono diminuiti dal 41 al 30,4 per cento. Studiare, insomma, conviene anche se meno di un tempo, come racconta il rapporto di Alma-laurea (il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea specialistica è salito tra il 2008 e il 2009 da 16,2 a 17,7). “Inoltre il rapporto Unioncamere non specifica se la difficoltà di reperimento si traduce poi in un congruo numero di assunzioni”, spiega Pasqualotto di Data-giovani.
Anche i numeri del Censis di Giuseppe De Rita sono una fragile base per le asserzioni del governo. Il ragionamento dell’istituto è questo: nei lavori più strettamente manuali la presenza di lavoratori under 35 è diminuita tra il 2005 e il 2010 dal 34,3 al 27,6 per cento. Negli stessi anni è però cresciuta la percentuale di lavoratori stranieri, dal 10 al 18,8 per cento.
ERGO, conclude il Censis, gli stranieri hanno preso il posto dei giovani. Ma è solo una teoria, tutta da dimostrare. Che, per esempio, non tiene conto del fatto che i giovani sono i più facili da espellere dal mercato del lavoro perché quasi tutti precari (nel 2010 il 36 per cento dei nuovi assunti era giovane, mentre i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti di un altro 15 per cento). E non considera neppure il fatto che, se gli stranieri aumentano (e hanno in prevalenza un basso tasso di istruzione) e i giovani italiani diminuiscono, una certa sostituzione è fisiologica.
Quello sul fascino del lavoro manuale resta comunque un dibattito tutto italiano. Basta scorrere il rapporto dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro (dell’Onu) di agosto 2010, dal titolo “Trend globali dell’occupazione per i giovani” . Non c’è alcun cenno alla necessità di spiegare che, in tempi di magra, qualunque lavoro va bene. Ma si insiste sulla necessità della formazione continua, basata su tre principi chiave: “1) Fare tutto il possibile per evitare l’abbandono scolastico 2) Promuovere la combinazione di studio e lavoro 3) Offrire a ogni giovane una seconda chance di formazione”, per recuperare chi ha lasciato gli studi troppo presto. Ma consigliare a chi è tentato dall’università di andare a bottega a imparare un mestiere, magari lavorando gratis e scomparendo dalle statistiche, è molto più semplice.
il Fatto 21.4.11
Ma lo straniero costa sempre meno
Gli immigrati hanno salari più bassi anche del 30 per cento
di Salvatore Cannavò
Nella vulgata leghista sono quelli che “rubano il lavoro agli italiani”. Ministri come Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti difendono la tesi che i migranti facciano i lavori che gli italiani non vogliono più fare.Laradiografiaoffertadaidati ufficiali, in realtà, mostra un lavoro migrante che in realtà si sposta là dove il lavoro già c'è. Lavoro essenzialmente operaio e legato all'industria manifatturiera, ma soprattutto che pagato fino al 30 per cento in meno degli italiani. Fino al 30 per cento in meno. Secondo il rapporto Caritas gli stranieri residenti in Italia sono circa 4,5 milioni, il 7,5 per cento della popolazione italiana. I lavoratori sono stimati tra 1,5 e 2 milioni di cui la metà circa è iscritto ai sindacati.
DELL’OLTRE milione e mezzo iscritto all’Inps nel 2008 (come mostra la tabella in pagina) circa la metà lavora nel Nord del paese e in particolare in tre regioni: Piemonte, Lombardia e Veneto, il cuore dell'insediamento leghi-sta. Circa 200 mila lavorano invece in Emilia Romagna e poi 120 mila nel Lazio. A parte i 59 mila della Campania, la presenza di lavoratori immigrati nel Sud è poco rilevante: meno di centomila. Dove i tassi di disoccupazione sfiorano il 30 per cento, quindi, i migranti non ci sono. Fino al 2009 i lavoratori immigrati in Italia provenivano per la maggioranza dall'Est europeo e "solo" il 21 per cento dal Nordafrica.
Sempre secondo i dati dell'Inps, riferiti al 2008, la grande maggioranza (72,7 per cento) di questi lavoratori sono dipendenti, ma esiste anche un 5,3% di lavoratori autonomi (di cui più della metà artigiani), un 4 per cento di operai agricoli (di cui la stragrande maggioranza a tempo determinato e insediati soprattutto nel meridione) fino a un 16,5 per cento di lavoratori domestici pari a circa 260 mila persone. Un dato sottostimato vista la quantità di lavoro nero tra colf e badanti, lavori al 90% femminili. Ancora la Caritas sottolinea che a Milano ci sono più pizzaioli egiziani che napoletani mentre in Val di Non le mele sono raccolte quasi esclusivamente dai senegalesi. Nel Veneto la concia delle pelli è fatta da lavoratori nigeriani mentre in Campania e nel basso Lazio a occuparsi dell'allevamento delle bufale sono i sikh.
NEL DOCUMENTO più completo redatto dall'Inps dopo l'introduzione della Bossi-Fini – che riepiloga i dati raccolti fino al 2003 quindi prima dell'ingresso della Romania nella Ue e prima delle ultime regolarizzazioni degli ultimi due anni ma che comunque offre una radiografia indicativa - le categorie in cui i lavoratori migranti sono maggiormente concentrati sono il commercio (34,5%), l'edilizia (18,1), la metallurgia e la meccanica (14,3), trasporti e telecomunicazioni (5,2), tessile e abbigliamento (5,2), chimica e gomma (4,5). Nel complesso, il settore maggiormente rappresentativo è l'industria (50,1%) e poi il terziario con il 42% di impiego. Dove sostituiscono gli italiani? Certamente nel settore edile dove gli immigrati rappresentano il 15% dei lavoratori regolari (ma dopo l'ingresso della Romania nella Ue questa percentuale è più alta); nella lavorazione del legno (10%), nel tessile (9,7) dove si registra un'alta presenza di lavoro autonomo in particolare cinese, e poi trasporti, commercio, estrazione e trasformazione minerali e chimica con una percentuale di lavoro immigrato di circa il 7%. L'Inps fa notare che gli immigrati "si inseriscono in tutti quei settori dove c'è bisogno di manodopera aggiuntiva" ma vanno a occupare qualifiche medio-basse. L'85% sono operai (contro il 55% dei lavoratori dipendenti italiani), l'8,9 impiegati (35% gli italiani).
SEMPRE L'INPS sottolinea che la maggiore presenza di immigrati nel commercio e nell'edilizia si spiega per "la minore consistenza delle retribuzioni e per la maggiore faticosità del lavoro" così come nel settore domestico e nell'agricoltura. Secondo la Cgia di Mestre in media, oggi i lavoratori stranieri percepiscono 965 euro netti al mese, 319 euro in meno rispetto agli italiani.
il Fatto 21.4.11
Per chi usa il cervello qui non c’è posto
di Alessandro Rosina
Le fregature per le nuove generazioni italiane vanno a stagioni. C’è stata quella dell’enorme debito pubblico creato nel corso degli anni Ottanta fino ai primi anni Novanta. É seguita la stagione della riforma generazionalmente squilibrata delle pensioni. Poi la riforma del mercato del lavoro senza adeguamento del sistema di welfare pubblico, che anziché flessibilità ha introdotto precarietà.
Siamo diventati uno dei paesi industrializzati che meno crescono e meno offrono spazio e opportunità per i giovani. Il dato Eurostat più fresco ci vede fanalino di coda in Europa in termini di occupazione degli under 30. Colpa dei giovani o di scelte pubbliche sbagliate? Ecco allora che oggi avanza il nuovo inganno. Si fa sempre più strada nella nostra (matura) classe dirigente la convinzione che il problema risieda in una distorsione di fondo propria delle nuove generazioni. Che a sostenerlo sia chi nel governo ha responsabilità sui temi dell’economia e del lavoro non meraviglia. È evidente da tempo che la principale preoccupazione di costoro è tutelare l’esistente. Ma l’idea che siano i giovani ad avere ambizioni e attese mal calibrate va ben oltre il governo e i suoi sostenitori. Cosa dovrebbero allora fare le nuove generazioni secondo questa sempre più diffusa linea di pensiero? Accontentarsi di quello che trovano, compresi i lavori più umili che sinora si son lasciati fessamente sfilare sotto il naso dagli immigrati.
E se il problema vero, invece, fosse questa classe dirigente e i limiti del modello di sviluppo che ha imposto al Paese? Possiamo pensare alla condizione dei giovani come a quella di chi entra in un ristorante ritenuto almeno di media qualità e si trova invece con un’offerta di cibo mediocre. Ecco però che con incredibile faccia tosta il cuoco, anziché chieder scusa e impegnarsi a rimediare, si mette ad accusare i clienti di essere troppo schizzinosi ed esigenti. Il problema, insomma , starebbe nel fatto che i clienti vogliono mangiar bene. Ma i giovani non sono fessi e la controprova la trovano quando vanno all’estero. Cambiando ristorante capiscono che il problema non sono loro e che, anzi, altrove i loro gusti sono tanto più apprezzati quanto più sono raffinati. Come mai qui in Italia il capitale umano delle nuove generazioni non vale nulla e nelle altre economie avanzate è invece valorizzato? E’ questa la domanda cruciale.
I dati sono impietosi. Da fonte Eurostat apprendiamo che l’Italia risulta essere uno dei Paesi con minor crescita delle professioni più qualificate, intellettuali e dirigenziali. Secondo l’Istat, poi, sono oltre un milione gli under 30 che svolgono un lavoro sottoinquadrato, accontentandosi di una occupazione che richiede un titolo di studio inferiore a quello acquisito.
Come mai ci troviamo in questa situazione? I motivi sono molti. Ma una delle maggiori conferme dell’incapacità italiana di riorientare l’uso delle risorse a favore di un maggiore e migliore contributo dei giovani alla crescita del paese, la si può trovare nel basso investimento in ricerca e sviluppo. A questa voce noi destiniamo il 50 per cento in meno rispetto alla media europea. Siamo lontani anni luce dalla Germania che pur è attenta anche alla formazione tecnica.
L’innovazione è parte essenziale di quel circolo virtuoso che spinge al rialzo sviluppo economico e lavoro. Ed è soprattutto l’occupazione dei giovani a essere legata alle opportunità che si creano nei settori più dinamici e innovativi. Qui le nuove generazioni possono diventare una risorsa strategica per la crescita. Negli ultimi anni persino il Rwanda ci ha superati nella classifica globale sulla facilità di fare impresa stilata dalla Banca Mondiale. Eppure l’Italia le potenzialità le ha. Non mancano certo i talenti, quello di cui difettiamo strutturalmente è la loro valorizzazione.
Dato però che chi guida il Paese non sa come valorizzarli allora basta con l’uso dei cervelli, concentriamoci su quello che si può fare con le mani. L’alternativa, forse, è cambiare chi guida. Nel frattempo chi vuole usare il cervello vada all’estero, per gli altri qui ancora c’è posto.
L’autore è professore Associato di Demografia all’Università Cattolica di Milano
il Fatto 21.4.11
La giornata dei palestinesi dedicata a Vittorio Arrigoni
Il primo ministro Fayyad: “Chi lo ha ucciso è nostro nemico”
di Giampiero Calapà
“Dal Golfo all’Oceano c’è un movimento che chiede libertà e diritti: non saremo gli ultimi!”. Il vento della primavera araba soffia anche nei Territori occupati. Le parole di Abbas Zacki dell’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) sono una dichiarazione di intenti, perché il prossimo settembre rappresenta l’ultima speranza palestinese: il rapporto delle Nazioni Unite dello scorso aprile afferma che l’Anp (Autorità nazionale palestinese) è pronta ad annunciare la nascita di uno Stato sovrano e indipendente da Israele, entro i confini del 1967. A Gerusalemme starebbero anche valutando l’ipotesi di ritirare le truppe per quella data, ma di evacuare le colonie non se ne parla, come riferisce Ha’aretz, il principale quotidiano israeliano. “Speriamo che a settembre si potrà attraversare tutta la Cisgiordania senza chiedere permessi ai soldati israeliani”, ammonisce ancora Zacki. Nelle stesse ore, dalla Tunisia, dove la primavera araba pare aver già compiuto il suo corso, interviene il presidente dell’Anp Abu Mazen per scongiurare l’idea di una terza Intifada (nella seconda, cominciata il 28 settembre 2000, ci furono più di 7 mila vittime palestinesi e mille israeliane): “Non è la risposta giusta allo stallo del processo di pace, le rivolte degli ultimi dieci anni sono state disastrose per i palestinesi”.
A BIL’IN villaggio palestinese isolato e messo a dura prova dal muro che divide e separa al loro interno i Territori da Israele e dalle colonie, Zacki parla alla platea della sesta conferenza internazionale della resistenza popolare palestinese, quest’anno dedicata alla memoria di Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano ucciso pochi giorni fa a Gaza, appena 90 chilometri da qui, da estremisti islamici salafiti. In collegamento video dalla Striscia altri attivisti dell’Ism annunciano il varo di Oliva: “Con questo peschereccio proteggeremo i pescatori di Gaza e romperemo il blocco navale imposto da Gerusalemme”. L’importanza della conferenza di Bil’in per i palestinesi è testimoniata dalla presenza del primo ministro dell’Anp Salam Fayyad, il cui primo pensiero è rivolto proprio ad Arrigoni: “Condanniamo questo vergognoso crimine compiuto contro Vittorio da oltranzisti che sono nostri nemici. E ci prendiamo la responsabilità di affrontare tutti coloro che utilizzano la religione per una cultura di violenza”. Le parole che la platea attende con ansia sono quelle riferite a settembre. La Palestina sarà finalmente Stato? “L’occupazione israeliana rappresenta una difficoltà insormontabile”, Fayyad si ferma un attimo, guarda i volti di donne e uomini arrivati qui in questo villaggio sperduto della West Bank (anche dall’Italia con una delegazione guidata dall’ex europarlamentare di Rifondazione Luisa Morgantini), poi riprende: “Tuttavia il mondo guarda all’Anp per la dichiarazione di settembre e, quindi, Israele nel rispetto della legalità internazionale deve ritirarsi e garantirci la possibilità di creare un nostro Stato”.
IL PALCO DA DOVE Fayyad parla è dominato da una gigantografia di Vittorio Arrigoni, accanto a quella dell’americana Rachel Corrie, anche lei attivista dell’Ism, ferita a morte nel 2003 a Rafah, mentre tentava di impedire a un bulldozer di demolire un’abitazione palestinese. C’è sua madre, Cindy: “Quando ho saputo della morte di Vittorio ho sentito lo stesso dolore procurato dalla perdita di Rachel. È tempo di mettere un limite a questi crimini. In tutte le forme possibili: sia con la fine immediata del lancio di missili dalla Striscia di Gaza verso le città israeliane, sia con il ritiro definitivo delle truppe militari dalla Palestina”. Con questo stesso spirito da Gerusalemme un gruppo di 17 intellettuali vincitori del prestigioso Israel Prize, la massima onorificenza del Paese, annunciano una petizione, a favore di uno Stato palestinese, che chiede “la fine completa dell’occupazione” come “condizione essenziale per la liberazione dei due popoli”.
Repubblica 21.4.11
All´origine della regalità sovrannaturale
Quel potere del sovrano
In principio il re aveva qualcosa di magico Gli antichi regnanti erano
sciamani e guaritori sanavano i sudditi imponendo le mani ed erano il
legame tra uomini e dei
di Marino Niola
Una monarchia può essere instaurata dall´oggi al domani. Ma non la regalità. Che viene da molto lontano. E precede tutti i regimi politici. Perché è la materia prima del potere, il basic instinct della sovranità. Non a caso la fiaba, che rievoca il tempo delle origini, inizia sempre con il fatidico "c´era una volta un re".
E in principio il re non governa per volontà della nazione ma regna grazie a una forza che ha qualcosa di sovrumano. E ne fa un dio fra gli uomini. Superiore per natura prima ancora che per investitura. Come indicano molti dei titoli che ancora oggi si rivolgono ai monarchi. Altezza, grazia, maestà. Parole che hanno come primo significato la grandezza, la bellezza, lo splendore. Lo stesso termine rex, da cui viene il nostro re, nonché l´indiano rahja, derivano da una medesima radice indoeuropea che ha a che fare con il reggere, con il dominare, ma anche con la luccicanza. Come dire che il potere supremo nasce da uno shining soprannaturale.
Ecco perché gli antichi sovrani regnano sia sulla società che sulla natura. Da loro dipendono l´ordine politico e l´ordine cosmico. Un po´ sacerdoti, come quelli della Roma antica. Un po´ maghi come quelli polinesiani. Un po´ belve feroci come quelli africani. Autentici re leoni. In realtà l´analogia tra il sire degli animali e quello degli umani si ritrova anche nell´immaginario delle monarchie europee. Come nell´Inghilterra di re Riccardo, detto non a caso Cuor di Leone. E nella Francia di Carlo Martello dove si credeva che un felino non avrebbe mai aggredito un individuo di stirpe reale perché avrebbe istintivamente riconosciuto in lui un suo simile. Al punto che nel Trecento, l´inglese Edoardo III sfidò Filippo VI di Francia a entrare in una gabbia di leoni affamati per certificare il suo sangue blu.
I superpoteri del sovrano ne facevano insomma un catalizzatore di energie, un trasformatore di forze, un interfaccia tra società e natura, tra uomini e dei. Tanto è vero che nell´antico Egitto si credeva che la vita eterna fosse un privilegio esclusivo del faraone. È stata la successiva democratizzazione dell´aldilà operata dalle filosofie e dalle religioni che ha spalmato l´immortalità regale sulle anime di tutti i comuni mortali.
Il loro potere di vita e di morte rende gli antichi re molto simili a sciamani e guaritori. In grado di sanare i sudditi con la sola imposizione della mano. È il caso del Mikado, l´imperatore giapponese, considerato figlio della dea solare Amaterasu e depositario del potere rigeneratore della grande madre.
Ma l´esempio più celebre è quello dei re taumaturghi di Francia e d´Inghilterra cui a partire dall´alto medioevo viene attribuito il potere di guarire la scrofola, nome popolare dell´adenite tubercolare. Conosciuta anche come mal du roi e king´s evil. Pare che Luigi XIV, il re sole, perfino sul letto di morte abbia ricevuto 1700 ammalati. L´ultimo a toccare le scrofole è stato Carlo X nel 1825, ben trentacinque anni dopo la rivoluzione francese e in piena civiltà industriale.
È la sua natura straordinaria dunque a svincolare il sovrano archetipico dalle regole che egli stesso fa rispettare. A renderlo letteralmente assoluto, ovvero sciolto. Custode incustodito dell´ordine, incarnazione dello stato d´eccezione. In questo senso l´ombra del re rimane ancora imprigionata al fondo della democrazia moderna. Come fantasma ricorrente degli spiriti animali del potere. O della sua fascinazione misteriosa, pronta a riaffiorare nella fiaba mediatica di un royal wedding.
Repubblica 21.4.11
Bertinotti all´Osservatore "Imparai da Wojtyla"
CITTÀ DEL VATICANO - «Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II». Così l´Osservatore Romano titola un «colloquio» con l´ex leader di Rifondazione, Fausto Bertinotti. É un´analisi del rapporto di stima fra Karol Wojtyla e il capo dei comunisti italiani. Un´intervista che non deve stupire. Forse molti ricordano una foto di Bertinotti intento a leggere il quotidiano ufficiale della Santa Sede. Così come intenso fu il suo rapporto con Wojtyla. Bertinotti ha voluto ricordare i suoi incontri con il Papa polacco. «Un uomo realmente capace di ascolto. Guardava l´altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani"». Ed è questa capacità di sguardo, continua Bertinotti, ad aver provocato nelle persone che entravano in contatto con lui «un atteggiamento di attenzione e ascolto». Wojtyla era un Papa capace di intervenire «in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell´Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell´uomo sull´uomo». Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana sulla doppia festa del 1 maggio si legge: «In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio». Chiosa Bertinotti: «La frase del Pontefice su Gandhi vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano».
(m. ans.)
L’Osservatore Romano 21.4.11
A colloquio con Fausto Bertinotti
Cosa ho imparato da Giovanni Paolo II
di Silvia Guidi
"Bertinotti santo subito"; non sono teneri i blogger di sinistra con il presidente della Fondazione Camera dei deputati, accusato di "alto tradimento ideologico" e complicità attiva nello scippo simbolico del primo maggio che quest'anno si consumerà a Roma, giorno in cui la festa dei lavoratori sarà oscurata mediaticamente dalla beatificazione di Papa Wojtyla. Lo accusano perché il 20 aprile l'ex segretario di Rifondazione comunista sconfina, tecnicamente, in terra straniera - il palazzo della Cancelleria, a Roma gode dell'extraterritorialità vaticana - per intervenire, insieme al cardinale Renato Raffaele Martino, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, al ministro del Lavoro e delle politiche sociali italiano Maurizio Sacconi, e al segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, all'incontro organizzato da Elea "Un primo maggio speciale: Giovanni Paolo II celebrato nel giorno della festa del lavoro". Una contaminazione tra sindacalismo e Chiesa sgradita a molti, come la simpatia un po' troppo esplicita dell'ex leader di Rifondazione comunista per il Papa polacco che ha contribuito ad abbattere il muro di Berlino, un feeling sospetto, secondo tanti suoi ex sostenitori ed ex compagni di partito, che non si limita a generici discorsi di circostanza: dalla frequentazione dei monasteri del monte Athos in Grecia, all'ammirazione per la nave-cattedrale di Richard Meier costruita nelle estreme propaggini della periferia romana, a Tor Tre Teste (una stima molto concreta: qualche anno fa il risarcimento di una causa per diffamazione vinta da Bertinotti ha finanziato la costruzione del campo da calcio dell'oratorio). Nel "cursus honorum di ateo devoto del subcomandante Fausto" come chiosano con duro sarcasmo i suoi detrattori, ci sono anche due lauree honoris causa provenienti dalle università cattoliche del Perú e dell'Ecuador, oltre al Premio Giovanni Paolo II ricevuto nel settembre scorso dall'associazione campana Aglaia.
Tra l'altro, Bertinotti non ha mai fatto mistero di essere un attento lettore del nostro giornale: non solo per collezionare spunti di polemica e occasioni di dissenso, ma proprio per i suoi contenuti e per il suo taglio originale, oltre che per seguire la campagna contro le morti bianche condotta dall'"Osservatore Romano" che, ha dichiarato più volte il presidente della Fondazione Camera, "ha contribuito a ispirare la nostra battaglia per la sicurezza sul lavoro".
La stima per Giovanni Paolo II non è solo personale, non si ferma alla simpatia istintiva per la celebre ola al raduno della gioventù di undici anni fa - un "gesto irrituale capace di unire spontaneità, partecipazione e autorevolezza" - è anche, a tutti gli effetti, politica: è un riconoscimento, da parte di un non cristiano, delle positive conseguenze politiche di una visione del mondo cristiana.
"Storicamente - aveva riconosciuto Bertinotti all'indomani della morte di Papa Wojtyla - è stato un formidabile anticorpo contro il rischio possibile dell'apertura di un conflitto di civiltà. Ha dato un'idea integrale dell'uomo, un'idea non banale, non legata al mito pubblicitario del benessere, della forza, della bellezza".
Alla vigilia della beatificazione, l'ex leader di Rifondazione lo ricorda come un uomo realmente capace di ascolto. "Guardava l'altro come uno da cui imparare. Mi torna in mente una sua frase su Gandhi: "I cristiani potrebbero imparare da lui a essere più cristiani". Questa capacità di sguardo ha promosso negli altri un atteggiamento di rispetto, attenzione e ascolto; è questo, secondo me, che ha reso così potente la presenza di questo Pontefice nella storia, in un periodo che non era più lo stato di grazia dell'immediato dopoguerra, parlando dell'Europa occidentale ovviamente, e neanche la fase della "speranza ascendente"".
Questo Papa - continua Bertinotti - "interviene in un mondo in crisi, con i rapporti di lavoro che tendono a rovesciarsi, impegnato nel contribuire a liberare i Paesi dell'Est e contemporaneamente a denunciare il peccato dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, così come in un'altra condizione, in pieno sommovimento del mondo, nella spirale guerra-terrorismo ha detto parole di pace di una pregnanza acutissima. A me stupisce che su due questioni cruciali della crisi della civiltà occidentale, il lavoro e la coppia pace-guerra, questo Pontefice si sia pronunciato con le parole del futuro".
Nei forum in rete che ospitano i commenti della sinistra italiana un po' meno manichea sulla doppia festa del primo maggio si legge anche: "In fondo si tratta della beatificazione di un prete operaio". Del resto, quando le forze di occupazione naziste chiusero l'università, il giovane Karol Wojtyla entrò nella Solvay polacca, lavorando per quattro anni nelle cave di pietra di Zakrzówek, poi alle caldaie di Borek Falecki e Nowa Huta. "La frase del Pontefice su Gandhi - dice Bertinotti al nostro giornale - vale anche per noi, vale anche per me, che resto individualmente comunista e non sono cristiano. Ho imparato da lui. E davvero trovo in questo rifiuto del dialogo una chiusura un po' inquietante. Sono stato a Torino in anni straordinari per la vita sociale di quella città; ebbi l'avventura e la fortuna di incontrare un sacerdote, arcivescovo e poi cardinale, Michele Pellegrino. La sua pastorale, il suo "camminare insieme" per molti di noi divenne un viatico; comunisti, socialisti, cattolici, protestanti, nella Federazione lavoratori metalmeccanici ci sentivamo una comunità, uniti nell'emancipazione della persona che lavora, per usare un termine caro a Maritain. Da presidente della Camera avrei voluto creare in Parlamento un luogo di meditazione, come nel Bundestag tedesco; mi è dispiaciuto non avere avuto il tempo di realizzarlo, c'era un largo consenso su questa iniziativa".
E conclude il nostro incontro ribadendo che "l'appartenenza non è un totem, è una strada da percorrere; è importante custodire i confini, ma anche avere il coraggio di oltrepassarli".
Associazione Culturale Amore e Psiche
supplemento di "segnalazioni" -
spogli di articoli apparsi sulla stampa e sul web
mercoledì 20 aprile 2011
l’Unità 20.4.11
Centrosinistra durissimo sul dietrofront del governo. Bersani: vogliono sfuggire ai referendum
«Solo un trucco contro il voto sul legittimo impedimento»
Un trucco, un colpo di mano per far saltare i referendum. Soprattutto quello sul legittimo impedimento. Opposizioni unite contro la mossa del governo. Bersani: fuggono dalle loro decisioni. ora risposte sulle rinnovabili.
di A.C.
Un colpo di mano, un trucco per far saltare il referendum, una truffa. Il centrosinistra boccia compatto la parziale retromarcia del governo sul nucleare. Tutti d’accordo, da D’Alema a Di Pietro, nel dire che il vero obiettivo di Berlusconi non è impostare una nuova e più moderna politica energetica. Ma tentare di far saltare il quorum del 12 e 13 giugno, per evitare che passi il quesito sul legittimo impedimento. «Il governo ha sfilato il nucleare non per l'incidente di Fukushima, di cui non gli importa niente, ma perchè si è reso conto che poteva fare da traino al referendum sul legittimo impedimento di cui a Berlusconi importa moltissimo», ha detto D’Alema. L'emendamento del governo, rincara Bersani, «è un pretesto, un tentativo di scappare dal confronto sul referendum ma è anche una sconfessione delle politiche del governo». Il leader Pd ricorda le dichiarazioni dei ministri dopo l’incidente in Giappone, il coro di conferme al programma nucleare, e sottolinea la «vittoria» di chi «già prima dell'incidente di Fukushima aveva messo in luce l'assurdità del piano così come il governo lo aveva concepito». «Scappano dalle loro stesse decisioni. Noi lavoreremo perché ci sia il quorum anche per gli altri referendum. Il governo non dice quale sia la politica energetica e, mentre si abbandonano i vecchi passi, si distruggono le politiche sulle rinnovabili». Oggi il leader Pd presenterà alla Camera un question time sulle rinnovabili: «Hanno sospeso tutto da un giorno all'altro con più di centomila occupati, soprattutto giovani, che rischiano il posto di lavoro. Vogliamo risposte».
Anna Finocchiaro parla di «confusione» e «malafede» della maggioranza». «Lasciano aperta la strada ad un eventuale ripensamento prossimo venturo sulla scelta nucleare, un’ambiguità inaccettabile». «L'ennesima truffa del governo agli italiani», attacca Di Pietro. «La paura fa novanta, ma questo gioco sporco è scoperto. O dicono esplicitamente che il nucleare non lo vogliono più o si vota». Per questo Di Pietro presenterà un ulteriore sub-emendamento «per l'abrogazione totale della legge sul nucleare». «Siamo alle comiche finali, hanno paura della democrazia», dice Nichi Vendola. «Sono dei banditi che utilizzano il potere per impedire la partecipazione popolare di cui hanno paura», rincara il leader del Prc Paolo Ferrero. «È una finta ritirata», avverte il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «Il governo non ha assolutamente cambiato idea sul nucleare. Come mai, infatti l'Agenzia guidata da Veronesi rimane operativa e non viene soppressa?».
L’ULTIMA PAROLA ALLA CASSAZIONE
Sarà l'ufficio centrale della Cassazione a dire l’ultima parola. La Suprema Corte, spiega il presidente emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, dovrà infatti stabilire se l'abrogazione delle norme sulla realizzazione di nuovi impianti nucleari sia «sufficiente nel senso richiesto dai promotori del referendum». Nel caso in cui la Cassazione dovesse ritenere che l'emendamento del governo al decreto omnibus soddisfi solo parzialmente le richieste dei comitato promotore, la consultazione del 12 e 13 giugno si terrebbe lo stesso, anche se con un quesito «ristretto». Anche in caso di responso negativo della Cassazione, i promotori, spiega Stefano Ceccanti del Pd, potrebbero comunque fare ricorso alla Corte Costituzionale.
l’Unità 20.4.11
Occupazione giovanile
Troppi laureati. La favola reazionaria del ministro Tremonti
I ragazzi italiani con laurea sono il 19% Nella Ue il 30%
di Pietro Greco
È una favola. Reazionaria. È una favola quella che in questi giorni vanno raccontando non solo il (recidivo) ministro dell’Economia, ma anche sociologi ed economisti di grande notorietà, secondo cui nel nostro Paese ci sono «troppi» laureati e che un giovane italiano su tre è disoccupato perché, a causa della sua cultura, rifiuta il lavoro manuale. Che, invece, ci sarebbe.
Basta fare una banale analisi comparata – sulla base di dati dell’Ocse o di Eurostat – per verificare, invece, che è esattamente il contrario. In Italia i laureati sono troppo pochi: appena il 13% della popolazione tra i 25 e i 64 anni. Contro il 24% della Germania, il 26% della Francia, il 28% della Spagna, il 31% della Gran Bretagna. Anche i giovani laureati sono troppo pochi: i ragazzi italiani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con la laurea sono il 19%, contro il 30% degli altri Paesi europei e il 60% della Corea del Sud. Non è vero che la laurea è un fattore frenante dell’economia. Nel 1980 la Corea vantava una percentuale di laureati (meno del 10%) inferiore a quella italiana (poco più del 10%) e un reddito procapite pari a un quarto di quello italiano. In 30 anni la ricchezza in Corea è aumentata a una velocità superiore a quella di ogni altro Paese al mondo (esclusa la Cina) e 4 volte superiore a quella dell’Italia: tanto che oggi il reddito medio pro capite di un coreano ha superato quello di un italiano. Ciò è avvenuto anche perché Seul ha puntato come nessun altro su una cultura universitaria di massa: oggi la Corea detiene il record mondiale di laureati tra i suoi giovani.
Siamo, infatti, entrati nella società e nell’economia della conoscenza. E la Corea lo ha capito prima e meglio degli altri. Ma non si tratta di un pensiero economico isolato, se l’Unione europea invita i suoi stati membri a raggiungere almeno il 40% di giovani laureati. Tutti gli altri Paesi dell’Europa (e del mondo) si stanno adeguando, solo da noi il numero di iscritti all’università diminuisce: proprio come chiede (e non solo a parole) Tremonti.
I laureati italiani, dunque, non sono troppi. Sono troppo pochi. Ma anche l’altra parte della narrazione è una favola senza agganci con la realtà. Un recente rapporto di Alma Laurea dimostra sia che l’occupazione tra i laureati (77%) è più alta che tra i diplomati (66%), sia che lo stipendio medio di un laureato anche in Italia è del 55% superiore a quello di un diplomato. Quindi se avete dei figli, malgrado tutto, fateli laureare.
Ma perché è reazionaria, la favola di Tremonti? Per due motivi. Perché prefigura un’Italia ottocentesca, con il lavoro intellettuale destinato a pochi ricchi e il lavoro manuale a bassi salari per tutti gli altri. Ma soprattutto perché un’Italia così sarebbe fuori dall’economia della conoscenza – l’unica possibile, oggi – e dunque sarebbe destinata a un declino economico, oltre che sociale, civile, ecologico, ancora più profondo di quello attuale.
l’Unità 20.4.11
«Duello» fra il presidente del Copasir e il direttore di MicroMega: «Se Berlusconi vince, colpa vostra»
All’Alpheus si è d’accordo solo un fatto: «Se il Cav va al Quirinale è una tragedia per la democrazia»
D’Alema a Flores: «La tua è vecchia logica stalinista»
Botta e risposta ieri a Roma tra Massimo D’Alema e Paolo Flors D’Arcais. Il direttore di Micromega: «La forza di Berlusconi deriva della debolezza dell’opposizione». La replica: «Logica stalinista».
di Maria Zegarelli
Scintille tra Massimo D’Alema e il direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais nel corso di in un confronto pubblico su «Come liberare l’Italia», ovviamente da Silvio Berlusconi. «La sua forza gli deriva dalla debolezza dell’opposizione e penso che ogni giorno c’è qualcosa che non si fa», incalza il filosofo. Dal conflitto di interessi, a leggi contro «l’ostruzione della giustizia, la falsa testimonianza» ai manifesti di cui le città non vengono tappezzate per denunciare i provvedimenti ad personam, le notti bravi con le minorenni... D’Alema ascolta, ogni tanto gli sfugge una smorfia, prende la parola e non usa il fioretto: «Dire che Berlusconi vince perché è colpa dell’opposizione è una forma logica tipica dello stalinismo, profondamente radicata nel subconscio della sinistra. Non si offenda Flores anche perché la sua storia va in un’altra direzione, ma quello che manca in Italia è la forza della maggioranza, Helmut Khol si è dimesso perché glielo ha imposto il suo partito non la minoranza». Flores: «Faccio finta di non aver sentito la parola stalinismo». D’Alema: «ma era un paradosso». Silenzio di sorpresa nella sala dell’Alpheus.
LA GRANDE ALLEANZA
Su una cosa però sono d’accordo: se Berlusconi dovesse vincere ancora una volta le elezioni scatterebbe «un allarme gravissimo per il paese» perché «si voterà anche per il Quirinale e potrebbe aprirsi uno scenario preoccupante. Il bunga-bunga al Quirinale porterebbe al disgregarsi della coscienza civile del Paese», dice il presidente del Copasir mentre Flores prevede lo stravolgimento della Corte Costituzionale e della stessa Costituzione. Per il resto, se la diagnosi sul male è concorde è sulla cura che i due si dividono. «Occorre andare ad elezioni aprendo la coalizione alle liste civiche,dei senza partito, perché è l’unico modo per intercettare chi non vota o non sa cosa votare. Si deve combattere l’antipolitica e dare vita a primarie vere aperte a tutti», prescrive il filosofo. «Nessuna preclusione alle liste civiche, non l’abbiamo mai fatto e mi risulta che ci siamo aperti anche troppo l’ultima volta che abbiamo vinto le elezioni replica il leader Pd -. C’è bisogno di una grande alleanza per risolvere e affrontare i problemi del paese, dal riordino del sistema democratico, puntando ad un bipolarismo maturo, ad una vera e propria fase costituente. Ma c’è bisogno anche di grande responsabilità e disciplina politica tra chi entrerà nella coalizione e in passato di disciplina ce ne è stata poca». Un’alleanza allargata oltre il confine della sinistra, ma mai più «voglio dover sudare per conquistare il voto di un Rossi o di un Turigliatto di turno sulla missione dell’Italia in Libia». Insomma, le grandi ammucchiate no, il centrosinistra ha già dato. E no anche alle leggi «punitive» contro il premier, né «facendo un manifesto per dire che va con le prostitute», come invece propone il direttore di Micromega, non è così «che si vince», ma «con un programma per far ripartire il Paese». Sguardo desolato quello che rimanda il presidente del Copasir quando osserva che «Berlusconi non è stato un incidente di percorso la risposta non è una parentesi, ma è un fenomeno più profondo, è una espressione di questo Paese». Il direttore de l’Espresso Bruno Manfellotto, coordinatore, chiede quali sono i tempi della «liberazione». «Oggi il 60% dell’opinione pubblica non è più con lui ragiona D’Alema .Non è un caso se noi vogliamo andare alle elezioni e lui no: sa che le perde». Ma per il voto anticipato deve cadere la maggioranza in parlamento. Oppure, «se ci fosse un risultato clamoroso, in particolare al Nord, questo potrebbe aprire la crisi del governo. Noi ci impegneremo». E forse sì è a Milano che Berlusconi si gioca la partita della vita.
il Fatto 20.4.11
L’incontro con Flores D’Arcais
E D’Alema confessò: L’importante è non vincere le elezioni
di Wanda Marra
“Ho perso la speranza”. Allarga le braccia a un certo punto, Bruno Manfellotto, direttore dell’Espresso, che modera il dibattito tra Paolo Flores d’Arcais e Massimo D’Alema, ieri pomeriggio all’Alpheus di Roma. In effetti, difficile trovare punti di mediazione tra un esponente di punta della società civile e un pezzo grosso della politica-politica italiana. E se il Lìder Maximo arriva a dare dello “stalinista” al suo interlocutore, l’altro lo ripaga ricordando la bicamerale come l’inizio della “no opposizione”. “Non condivido la sua analisi”, ammette alla fine D’Alema (“nonostante la mia simpatia per Paolo”). E la parola “condivisione” a chi ha assistito al dibattito sembra un obiettivo molto lontano. L’occasione dell’incontro era la presentazione del numero di Micromega dedicato a “Berlusconi e il fascismo”. In realtà l’oggetto diventa il ruolo della sinistra (anzi delle sinistre) di fronte al berlusconismo. Fa fresistenza D’Alema. “Se si fosse capito che le liste civiche sono essenziali non saremmo arrivati a questo, perché Prodi avrebbe avuto anche al Senato quei 50 voti di vantaggio che gli avrebbero consentito di governare senza ricatti. É necessaria dunque una coalizione ampia con quante più liste civili possibili”, attacca il direttore di Micromega. Risponde l’altro: “Non mi pare di ricordare che nel 2006 abbiamo escluso qualche lista civica. Direi che abbiamo accettato tutto, anzi troppo”. E poi “anche una lista civica, nel momento in cui si presenta alle elezioni, diventa una formazione politica. E se non ha una disciplina politica diventa pericolosa. Una parte grande della sinistra italiana non è stata educata alla prova del governo. Io a combattere con un senatore Rossi o un senatore Turigliatto di turno sulla politica estera non mi ci voglio più trovare”. Poi, sposta il discorso: “Dobbiamo mettere insieme un’alleanza ampia non per vincere le elezioni, ma per governare” (anche se a chi gli aveva chiesto cosa pensasse delle affermazioni di Asor Rosa aveva replicato che “per liberarsi di Berlusconi sarà sufficiente il voto”).
PERCHÉ “il ventre è sempre grande, Berlusconi è il prodotto della società italiana”. Non si lascia inchiodare D’Alema da Manfellotto che gli chiede tempi e strumenti per mandare a casa il Caimano: “I tempi sono quelli costituzionali, a meno che il governo non cada”. Strategie? “Non ho nessun piano segreto. E pure se ce l’avessi, certo non ve lo direi”. È a questo punto che il dibattito s’impenna. S’infervora Flores, assume toni da comizio: “Si parla del dopo Berlusconi come se fosse un dato ovvio. Ma se vince le prossime elezioni ce lo troviamo al Quirinale”. Attacca senza mezzi termini: “Il regime è tale perché l’opposizione non fa nulla”. Ribadisce la gravità degli attacchi ai magistrati e ricorda l’importanza di ripristinare reati come falsa testimonianza e falso in bilancio. Propone di nuovo l’Aventino dei parlamentari, si lamenta del fatto che in occasione del baciamano di Berlusconi a Gheddafi il centrosinistra non abbia riempito le città di manifesti. Sbuffa D’Alema, mantiene la calma. Ricorda con il suo sorriso più sprezzante che la politica non si “fa con i manifesti”. Strappa risate e applausi alla platea. Ci va giù pesante: “È tipico dello stalinismo dire che il tuo avversario ha vinto perché uno dei tuoi ha tradito”. Si lancia in un’analisi teorico-sociale quando parla dell’etica della classe dirigente italiana che è manchevole. Se la prende con la stampa borghese che mentre si vota la prescrizione breve disquisisce della responsabilità dei politici. Pur non risparmiando gli affondi: “Berlusconi con una mossa estremamente disinvolta, che dimostra che siamo governati da gente improbabile, ha cancellato il nucleare, che costituiva il 50% del suo programma, perché temeva che il referendum abrogativo potesse avere un effetto trainante su quello sul legittimo impedimento”. E poi, è vero, “il paese può tenere pure con lui presidente del Consiglio, ma il bunga bunga al Quirinale comporterebbe la disgregazione della convivenza civile”.
Flores non ci sta. E a questo punto ricorda la Bicamerale (“avrei voluto parlare del futuro, non del passato”), come inizio dell’opposizione che non si oppone. Quasi non vuole rispondere D’Alema. Poi fa un sospiro profondo (d’altra parte era palesemente arrivato col ramoscello d’ulivo) e propone: “Voglio parlare di contenuti. Tu hai una rivista molto importante, Micromega. Io ho Italianieuropei”. Finisce così, con la tregua delle riviste. Mentre D’Alema se ne va, qualcuno lo insegue urlandogli: “Puzzi di muffa”.
Corriere della Sera 20.4.11
Il Pd: è l’unica via d’uscita. Per Ferrara c’è «aria di elezioni»
Dal premier ai Democratici Il partito del voto anticipato Le urne Gli scenari I casi dagli anni 90
di Maria Teresa Meli
Le invoca Rosy Bindi: «La cosa migliore per il Paese sarebbe andare al voto» . Le evoca Silvio Berlusconi: «C’è da chiedersi se non gioverebbe andare a votare» . Le elezioni— quelle politiche, non le amministrative di maggio. tornano alla ribalta. E si profilano come un possibile sbocco autunnale. Il presidente del Consiglio lascia intendere ai fedelissimi che si potrebbe andare alle urne tra ottobre e novembre. Sarebbe un’ipotesi da non trascurare, a suo giudizio, nel caso in cui «si vinca a Milano e Napoli» . La vittoria in quelle due città, è il ritornello che Berlusconi ripete in questi giorni ai suoi interlocutori, «va ottenuta a tutti i costi» perché «metterebbe a tacere Fini, i malumori della Lega e le fibrillazioni del Pdl» . Non solo: «rappresenterebbe una risposta» anche nei confronti di Giorgio Napolitano. Di quel Napolitano che vorrebbe andare fino in fondo sulle questioni sollevate in questi giorni, perché delle due l’una: o il premier non ha detto il vero quando ha sostenuto che un magistrato gli ha riferito del patto segreto tra il presidente della Camera e l’Anm, e la cosa non può non avere conseguenze, o quel che ha affermato corrisponde alle realtà e quindi toccherebbe a Fini pagarne il dazio. Dunque, dopo un successo elettorale a Milano e Napoli il centrodestra potrebbe pensare ad andare alle urne per sparigliare tutti i giochi. Speculare il ragionamento che viene fatto nel Partito democratico. Massimo D’Alema si incarica di illustrarlo: «Se ci fosse un risultato clamoroso alle amministrative, specialmente al Nord, questo potrebbe aprire la crisi del governo» . E portare alle elezioni politiche, che restano sullo sfondo anche per il Pd. Come dice esplicitamente il vice segretario Enrico Letta: «Noi vogliamo il voto anticipato» . È «l’unica via d’uscita» — ribadisce il presidente del Copasir. Anche il moderato Pier Ferdinando Casini, d’altra parte, la pensa così: «In una situazione come questa sarebbe doveroso restituire la parola agli elettori» . Pure Il Foglio di Giuliano Ferrara ieri, in prima pagina, adombrava la possibilità di uno scioglimento anticipato della legislatura e titolava in questo modo: «Tira aria di elezioni» . Tant’è vero che torna a rimbalzare nei palazzi della politica la voce secondo cui il capo dello Stato, di fronte a una situazione bloccata e all’impossibilità di mandare avanti l’attività parlamentare in modo proficuo, potrebbe accelerare sullo scioglimento. Voce, questa, che viene smentita al Quirinale ma che, ciò nonostante, continua a circolare: segno della difficoltà dell’attuale frangente politico e dell’impazzimento della situazione. Indiscrezioni, «rumors» , espedienti propagandistici o minacce che siano, le notizie che accreditano la possibilità di un precipitare degli eventi politici sono inevitabilmente e indissolubilmente legate all’avvicinarsi del voto amministrativo di maggio. L’approssimarsi di questa competizione elettorale accende i toni e rende più aspro lo scontro. Berlusconi si sta spendendo in prima persona, ci ha messo come si suol dire la faccia, presentandosi come capolista sia a Milano che a Napoli, convinto com’è che politicizzare quel voto sia per il centrodestra un’arma vincente. Il Pd ha fiutato la trappola e per questo motivo il segretario Pier Luigi Bersani continua a ripetere che quelle elezioni «non saranno un referendum su Berlusconi sì, Berlusconi no, ma rappresenteranno una scelta per le città e per il Paese, perché non se ne può più di parlare dei problemi del premier, è ora di parlare dei problemi della gente» . Però la tentazione di mandare l’avversario al tappeto è forte e il leader del Pd non riesce a sottrarsi completamene alla sfida lanciata dal presidente del Consiglio: «Berlusconi dice che è un test nazionale? Se ci cerca, ci trova. Sono ottimista sulle amministrative, in particolare per Milano» . Già, perché il sogno del Partito democratico è quello di riuscire a espugnare una città roccaforte del centrodestra e nel contempo far cadere il governo (la Lega ha già fatto sapere che se si perde nel capoluogo lombardo crolla tutto). Quindi Bersani tenta di galvanizzare gli elettori per mandarli a votare. Certo, così facendo c’è il rischio di risvegliare anche quelli di centrodestra e di ridurre le sacche d’astensione da quella parte, ma evidentemente secondo Bersani è un rischio che vale la pena di correre.
Corriere della Sera 209.4.11
«Direttore a 87 anni? Sì. E orienterò la politica»
Macaluso, ex pci, guiderà «Il Riformista»: sarà una faticaccia, volevo sfilarmi ma si sono impuntati
di Fabrizio Roncone
«E va bene, d’accordo... la facciamo, questa intervista, la facciamo... però, prima, dobbiamo intenderci, eh?» . Su cosa, direttore? «Dico: non è che il sottoscritto, Emanuele Macaluso, è così imbecille da non capire che la situazione è complessa, e che rimettermi a fare il direttore di un giornale, nel caso specifico de Il Riformista, a 87 anni, sarà una faticaccia notevole...» . È anche un bella sfida. Guidasti «L’Unità» una trentina d’anni fa e... «Senti: sarà anche, come dici tu con un po’ di retorica, una bella sfida. Ma vuoi la verità? Beh, la verità è che per far ripartire questo giornale, un po’ tutti, ad un certo punto, hanno concordato sul mio nome. Io avrei voluto sfilarmi, ma quelli, niente: si sono impuntati» . Serviva... «Dai, è facile: gli serve uno in grado di garantire, per un certo periodo, linea politica ed editoriale. Punto» . Gli Angelucci sono fuori. «Gli Angelucci sono usciti, accollandosi tutti i debiti. Noi prendiamo la testata libera e pulita» . Noi chi? «Noi che siamo nella cooperativa de Le ragioni del socialismo, la rivista che io già dirigo e che è sempre stata titolare del finanziamento pubblico. Per adesso siamo soli in questa avventura. Ma è chiaro che speriamo presto di essere in buona compagnia con altri finanziatori» . Il presidente della cooperativa è Gianni Cervetti, 77 anni, altro ex grande dirigente comunista di area «migliorista» . «E allora?» . C’è curiosità sulla linea politica. «Io voglio fare un giornale libero, senza partiti di riferimento. Anzi: io immagino che possa essere Il Riformista a determinare un po’ della politica italiana» . Mi stai dicendo che non avrai rapporti con il Pd? «Rapporti? Sentimi bene: io non sono iscritto al Pd. E sai perché? Perché io ero contrario alla sua fondazione. Tanto contrario da scriverci su un libro: Al capolinea. Solo che alla fine il Pd ce lo ritroviamo ugualmente, e però lo vedi anche tu cos’è, no? Non ha una base politico culturale, non ha regole...» . Mi sa che vuoi dargli una mano. «Beh, senti cosa ti dico: io non giocherò né allo sfascio del Pd, né inseguirò le sue fortune. Cercherò invece di lavorare per dargli un’amalgama» . Spiegati: a chi ti rivolgerai? «Io voglio un giornale che stia nella tradizione riformista della sinistra italiana, pensando alla sinistra cattolica e poi al grande mondo dei sindacati, delle cooperative, del volontariato...» . Cosa pensi di Bersani? «Penso che eserciti il suo ruolo con dignità e onestà. È la struttura del partito che non tiene. Ti sarai accorto che non sono in grado di fare una battaglia sul testamento biologico solo perché c’è un pezzo di partito che sta lì, minaccioso, con le valigie pronte» . Quanto pesa D’Alema? «D’Alema è una personalità del partito, ma non è lui, se è questo che vuoi farmi dire, il problema. Il guaio del Pd è l’assenza di fondamenta. Per questo non riesce a darsi una leadership » . Immagino non ti piaccia Renzi, il «rottamatore» dei vecchi. «Renzi dovrebbe capire che a casa ti manda il popolo, il voto, gli iscritti ti mandano a casa, non uno che al mattino s’è svegliato un po’ storto...» . Berlusconi. «Eh... Potremmo parlarne per ore, ma voglio dirti una cosa a cui tengo: non mi piacciono i magistrati, come il procuratore aggiunto di Palermo Ingroia, che salgono sul palco insieme ai leader di partito a fare comizi sulla giustizia. I loro comizi, purtroppo, aiutano Berlusconi a sostenere che la magistratura fa politica» . Da Antonio Polito erediti una redazione irriverente, di talento. «Lo so, e questo mi conforta. Ho chiesto a Stefano Cappellini, che ha diretto il giornale nell’ultimo periodo, di restarmi al fianco. Io mi porterò solo un altro vice» . Il primo editoriale, quando? «Forse il Primo Maggio, in omaggio al mio passato da sindacalista» . (Nella segreteria del Pci con Togliatti, Longo e Berlinguer. Deputato e senatore. Amico personale del presidente Giorgio Napolitano).
il Fatto 20.4.11
Golpista sarà B.
Asor Rosa: “Vi spiego il mio colpo di Stato”
di Luca Telese
Asor Rosa dopo la provocazione: “Usano le urne come una clava contro la democrazia”
Ha innescato un putiferio pubblicando su Il Manifesto una proposta-choc: per risolvere l’anomalia di Silvio Berlusconi – sostiene – sarebbe salutare “un intervento dell’Arma dei carabinieri”. Di più: occorre un golpe costituzionale a difesa della democrazia. Subito dopo si è corretto. Non certo per fare marcia indietro, quanto per cesellare un ironico addendum: “Non vorrei in nessun modo escludere da questa importante missione guardie forestali e polizia”. Ieri ha sparato un’altra pallottola: un editoriale al curaro in cui articola con maggior forza la sua analisi, aperto da un tributo sarcastico: “Grazie presidente! Grazie Silvio Berlusconi!”. Motivo? “Mi ha fatto capire che le cose non stavano come scrivevo nell’articolo. Ma molto peggio”. E così (mentre si gode una vacanza pasquale fuori Roma) il professor Alberto Asor Rosa non molla. Da giorni è finito nel mirino del Foglio che – ogni mattina – gli dedica un editoriale o un corsivo di fuoco – e lo definisce “un golpista radical chic”. Il professore inizia l’intervista all’insegna dell’ironia, non risparmia analisi caustiche su Giuliano Ferrara, paragona la sua polemica, “Agli strumenti classici del totalitarismo novecentesco. Quello che punta alla distruzione della persona piuttosto che alla contestazione delle loro idee”.
Professor Asor Rosa, anche oggi il Foglio parla di lei, è divertito o preoccupato?
(Sorriso imperturbabile). Preoccuparmi non posso.
Eccesso di sicurezza?
No: nella località italiana in cui mi trovo non arriva una copia del Foglio. Se in questi giorni non risponderò per le rime, non sarà per noncuranza, ma per ignoranza: non posso leggerlo.
Però ha letto i primi fondi in cui viene definito “golpista”.
Era una reazione che avevo messo in conto.
Ovvero?
Prevedevo delle reazioni, anche violente. Ma non immaginavo che l’armata dei sicari del regime scendesse in campo in maniera così compatta e ossessiva.
Si è dato una spiegazione?
Oh, ma è semplice! C’è una necessità “tecnica” di far fuori chi resiste al berlusconismo.
Lei è accusato, dalla destra, di non rispettare il voto delle urne.
Direi il contrario. Si utilizza il verdetto delle urne come una clava per rovesciare le leggi della democrazia.
Ferrara dice: c’è una pattuglia di intellettuali di sinistra radical chic che disprezza il voto popolare.
Si sbaglia: non so se sono chic, ma di sicuro non disprezzo quel voto. Disprezzo chi lo usa per i propri interessi contro la democrazia.
La black list di Ferrara: Scalfari, Zagrebelsky, la Spinelli e poi lei.
È una bellissima compagnia. Preferibile a quella del suo estensore, non trova?
Come si spiega la durezza di questa polemica?
Si punta a distruggere i centri che fanno resistenza al potere del principe. Primo obiettivo fare a pezzi la magistratura. Secondo bersaglio la scuola pubblica. Terzo, “gli intellettuali”. Mi chiedo: dov’è la stampa moderata?
Un vignettista con un passato extraparlamentare, Vincino, l’ha definita “Alberto Asor Rosa dei venti”, in un gioco di parole che evoca il golpista Amos Spiazzi e la sua rosa dei venti.
Anche molti amici di sinistra si sono risentiti: dagli anni Settanta persiste una certa diffidenza nei confronti delle istituzioni di polizia.
Lei non ce l’ha, invece?
Direi che negli ultimi 20 anni le forze dell’ordine hanno fatto il loro mestiere con un rigore molto maggiore di quello della politica. Il cuore della mia provocazione era tutto qui.
Ferrara dice che lei è intriso della cultura massimalista di Potere Operaio.
Peccato che io non abbia mai fatto parte di Potere Operaio.
Siete stati insieme nel Pci.
Ricordo un giovanissimo Ferrara: un ragazzotto che si aggirava per i corridoi dell’Università di Roma negli anni caldi.
È stato un suo studente?
Come si può facilmente dedurre, no.
Le ruggini di oggi si innestano su contese antiche?
Guardi, sinceramente non mi ricordo nulla di quel Ferrara. Mai che abbia scambiato una parola con lui ricavandone una impressione.
Possibile?
(Sorriso). Se non è possibile, evidentemente devo averlo rimosso. Non ho mai avuto il piacere di frequentarlo. Ha visto i suoi toni?
Lei considera questa polemica un lavoro da sicari, però. Non è un giudizio tenero.
Senta, Ferrara è uno che ha rinnegato il suo passato per intraprendere carriere prestigiose al servizio del potente di turno.
Gli dà del rinnegato?
Non è un insulto, è una constatazione per così dire, biografica. Anche se da questa campagna si può notare che non si è affrancato del tutto.
Cosa vuol dire?
La componente dell’ingiuria personale, in questi giorni fortissima, è un retaggio evidente di quella componente comunistico-staliniana del Ferrara giovane.
Lei era nella sinistra comunista, lui un amendoliano...
E filosovietico. Sono radici diverse: la tecnica della repressione delle opinioni libere e critiche, il tormentone del disprezzo antintellettuale accomuna, nel Novecento, i tre totalitarismi.
Anche lei però personalizza.
No, io faccio un’analisi. Vede, la scuola pubblica, con tutti i suoi difetti, è il tessuto fondamentale della nostra unità democratica. È ovvio che chi vuole demolire questa democrazia inizi da lì. E parte dai professori per passare ai libri di testo.
Se Ferrara sta dalla parte del Potere, lei dove sta?
Vede, io sono un pensionato dello Stato che quindi difende, con una qualche riconoscenza, il soggetto che gli fornisce i mezzi di sostentamento.
Corriere della Sera 20.4.11
Slitta l’esame del biotestamento. Nuovo scontro alla Camera
L’ira di Sacconi
di Lorenzo Fuccaro
Sul biotestamento scontro alla Camera tra maggioranza e opposizioni, con il governo che, per bocca di Maurizio Sacconi (ministro del Welfare), auspica «il più tempestivo esame del disegno di legge nella convinzione che il Parlamento non possa abdicare al suo ruolo in favore del ruolo creativo dei segmenti ideologizzati della magistratura» . Il nuovo braccio di ferro scoppia in seguito alla decisione del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di confermare nella conferenza dei capigruppo il calendario della precedente riunione in base al quale il disegno di legge sul fine vita era posto all’ultimo punto dell’ordine del giorno, una decisione alla quale si è giunti in assenza di un accordo tra opposizione e Pdl, Lega nord e Responsabili. La maggioranza, invece, ha insistito nella richiesta di anticipare alla prossima settimana l’esame in Aula del provvedimento. E così le norme che hanno già ottenuto il via del Senato all’indomani dell’emozione provocata dalla morte di Eluana Englaro saranno discusse soltanto il prossimo mese di maggio. Il motivo, secondo quanto è stato fatto trapelare dall’entourage di Fini, dipende dalla decisione del governo che ieri ha trasmesso il Documento di economia e finanza (Def) (ha precedenza assoluta dovendo essere votato entro la fine di aprile), costringendo così il presidente della Camera a riunire subito la conferenza dei capigruppo per fissare i tempi della discussione. In quel contesto Pdl, Lega nord e Responsabili hanno proposto di esaminare nel corso della prossima settimana anche il biotestamento, cosa che non è stata accolta dalle opposizioni e così, mancando l’unanimità, Fini ha confermato il calendario dei lavori precedentemente fissato. «Ormai è cosa fatta— dice il capogruppo del Pd, Dario Franceschini—. Il Pdl e la Lega nord vogliono solo fare campagna elettorale su temi che andrebbero discussi in un clima di confronto pacato. Portarlo in Aula in campagna elettorale fa semplicemente orrore» . Gli fa eco Benedetto della Vedova (Futuro e libertà): «Vogliono fare campagna elettorale sulla pelle dei malati e delle famiglie» . La scelta, però, irrita non poco i gruppi di maggioranza al punto che Marco Reguzzoni (Lega nord) obietta: «Un argomento del genere non può stare fermo anni, ma ovviamente Fini ha dato ragione alle minoranze. E l’Udc, che in un primo momento con Pier Ferdinando Casini aveva chiesto di accelerare, oggi (ieri, ndr) si è schierata con l’opposizione» . Non solo. Reguzzoni coglie dietro l’escamotage tecnico-procedurale un risvolto politico e, proprio per questo, una sorta di contraddizione nel campo dell’Udc. «C’è — argomenta — una volontà politica manifesta di non fare approvare la legge. Insomma, l’Udc dice una cosa fuori e ne fa un’altra nei palazzi» . Questa sottolineatura — come la presa di posizione del ministro Sacconi che denuncia «gli evidenti tentativi di dilazionare sine die l’esame della legge» — fa scattare Luciano Galletti, che in una lettera a Fini annuncia la disponibilità dell’Udc a «lavorare ad oltranza» . E Casini, respingendo le obiezioni di Sacconi e Reguzzoni, chiarisce: «Sul biotestamento non accetto speculazioni da parte di nessuno, tantomeno da chi ha presentato in ritardo il Def, obbligando la Camera ad anteporlo ad altri argomenti in discussione» . E preannuncia, venendo così incontro alla pretesa della maggioranza, che «la prossima settimana chiederò l’inversione dell’ordine del giorno alla Camera e l’esame immediato di quella legge» .
La Stampa 20.4.11
L’intervista a Benedetto XVI verrà trasmessa il Venerdì santo
Il papa in tv, l’anima e lo stato vegetativo
di Andrea Tornielli
Le persone che vivono in stato vegetativo percepiscono l’amore di chi li circonda. E l’anima di coloro che si trovano in questa condizione non si stacca dal loro corpo. Lo dirà Benedetto XVI nell’intervista trasmessa da «A Sua immagine» su Raiuno il pomeriggio del 22 aprile, Venerdì santo, rispondendo alla domanda della madre di Francesco Grillo, un giovane di Busto Arsizio affetto da sclerosi multipla e da due anni in coma. La donna ha chiesto al Papa: «Dove si trova l’anima di mio figlio?».
Per la prima volta un Pontefice partecipa a un programma televisivo e affronta quesiti raccolti tra i fedeli. Nel giorno in cui la Chiesa rivive la passione di Gesù, Ratzinger parlerà della sofferenza, del dramma del dolore innocente, delle difficoltà dei cristiani perseguitati.
L’intervista, programmata da tempo, è stata realizzata da Rosario Carello, il conduttore di «A Sua immagine» ed è stata registrata lo scorso venerdì in Vaticano, nella biblioteca del palazzo apostolico.
Inizialmente era stato annunciato che il Papa avrebbe risposto a tre soli quesiti sul suo nuovo libro dedicato a Gesù. Visto l’interesse suscitato dall’iniziativa e il numero considerevole richieste raccolte dalla redazione – ne sono arrivate oltre duemila – gli è stato proposto allungare i tempi e di allargare l’orizzonte. Lui ha accettato, mostrando ancora una volta di non volersi sottrarre alle domande più spinose e all’occhio della telecamere. L’intervista tv arriva pochi mesi dopo quella realizzata dal giornalista tedesco Peter Seewald e trasformata nel best seller Luce del mondo.
La domanda sull’anima di chi vive in stato vegetativo, registrata dalla madre di Francesco Grillo accanto al letto del figlio assistito all’ospedale della Fondazione Raimondi di Gorla Minore, è stata la più toccante. Maria ha chiesto a Benedetto XVI se l’anima di Francesco abbia già abbandonato il suo corpo o sia ancora accanto a lui, malgrado la sua condizione di incoscienza.
Il Papa teologo ha spiegato che l’anima non abbandona il corpo, anche se la persona è in stato di incoscienza. Ma ha insistito sul fatto che le persone in coma, anche quelle che vivono in questo stato da molti anni, possono percepire l’amore, l’affetto, l’attenzione di chi sta loro intorno. Un affetto con il quale Francesco è continuamente a contatto. A visitarlo, ogni giorno, arriva la sorella del giovane, spesso accompagnata dalle tre figlie di 4, 6 e 8 anni. «Sono davvero attaccatissime allo zio, gli parlano, lo accarezzano, gli chiedono di svegliarsi»
Non meno commovente, sarà la prima domanda a cui Ratzinger risponderà, quella di una bambina giapponese di 7 anni, Elena, che ha il padre italiano. La piccola durante il recente terremoto era in Giappone, ha visto morire molti bambini, è ancora spaventata. E ha scritto al Papa chiedendo perché queste cose accadano. Anche questo un tema dibattuto, al centro di recenti polemiche per le dichiarazioni del vicepresidente del Cnr Roberto De Mattei. Alle catastrofi naturali Benedetto XVI ha fatto cenno domenica durante la messa delle Palme, quando ha ricordato: i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità».
Tra le domande ci sarà quella di una mamma musulmana che vive in Costa d’Avorio, e quella di sette studenti cristiani di Baghdad. Il Papa affronterà anche il tema della «discesa agli inferi» di Gesù dopo la sua morte.
il Riformista 20.4.11
Perché in Italia l’opposizione è così disperata?
di Ritanna Armeni
qui
http://www.scribd.com/doc/53404072
l’Unità 20.4.11
Conversando con Emilio Lupo segretario di Psichiatria Democratica
Ecco come si può uscire dall’inferno dei manicomi criminali
di Roberta Monteforte
Al «manicomio giudiziario» di Aversa un’altra vittima. Mercoledì scorso si è suicidato un cittadino romeno. Aveva 58 anni. Era ospite della struttura «ospedaliera». Non c’è l’ha fatta. «Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari vanno chiusi e subito. Sono una vergogna non soltanto per chi è direttamente coinvolto: gli operatori, i “reclusi” e i loro parenti, ma per l’intero Paese. Chiudere queste strutture proprio nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia sarebbe veramente un bel gesto.
Rappresenterebbe uno vero e di coesione». Non ha dubbi Emilio Lupo, Psichiatra e Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica, indignato per la notizia. Lui che ha alle spalle tante battaglie per l’applicazione anche a Napoli della «Legge Basaglia» per chiudere «bene e definitivamente i manicomi garantendo adeguati servizi di Salute Mentale sul territorio», ha idee chiare. «Come allora è necessario rigore, preparazione e coinvolgimento di tutte le realtà interessate spiega attingendo all’esperienza acquisita sul campo da tanti operatori».
La legge del 2008. Che gli “OPG” di Aversa, Napoli-Secondigliano, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione dello Stiviere vadano chiusi lo stabilisce la legge del 2008, con il loro passaggio al Sistema Sanitario Nazionale e la competenza delle Asl. Sulla cancellazione di questa vergogna pare che l’accordo sia trasversale. Soprattutto dopo la denuncia della commissione parlamentare di indagine sul sistema sanitario presieduta dal senatore Ignazio Marino (Pd) che ha evidenziato cosa siano questi «ospedali» e come sono trattati gli oltre 1.535 «internati». «Un girone infernale che offende la dignità di tutti», così lo ha descritto. Roba da Medioevo documentata da un video-reportage di Riccardo Iacona su Rai3 che ha scandalizzato anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Il quando e il come si arriverà a questa chiusura: è questo il punto. «Gli OPG sono l’incompiuta della 180, la legge di abolizione dei manicomi» osserva Lupo. Oggi, in quelle strutture non si cura, né si punta al recupero di chi ha commesso un reato. Che assistenza possono offrire pochi medici per quattro ore a settimana per strutture di 300 «reclusi»? Per non parlare di chi, circa 375 internati tra tutti gli Opg, è in «proroga»: avrebbe cioè dovuto essere dimesso da tempo, ma in mancanza di progetti di reinserimento esterno, di sei mesi in sei mesi, anche per dieci anni, si è visto prorogare «la sua pena» dal magistrato.
«Va rotta questa logica fatta di pigrizie e improvvisazione, di abbandono che porta con sé ingiustizie e disumanità. Occorrono, invece, scelte rigorose e assunzioni di responsabilità per passare dalla denuncia alla reale chiusura degli Opg» afferma il segretario di Psichiatria Democratica che con il collega Cesare Bondioli (responsabile nazionale per Carceri e OPG), avanza proposte di risoluzione concrete. Sono quelle scaturite dal seminario congiunto di Psichiatria Democratica e Magistratura Democratica “Disumanità della pena:quali alternative?” tenutosi lo scorso 26 marzo a Vico Equense (Napoli) e condivise anche dal segretario di Magistratura Democratica, Pier Giorgio Morosini.
Sono quattro i punti. Il primo è procedere alle dismissioni dei circa 300 pazienti ancora in «proroga». Il secondo punto, sono i programmi per il loro reinserimento e le strutture esterne per accoglierli che andrebbero definiti dalle Asl. «Ora che le risorse ci sono, circa 15 milioni di euro, non ci sono più alibi. Vanno definiti percorsi rigorosi e personalizzati di recupero e di reinserimento dei pazienti» spiega Lupo. Insiste molto sul “rigore” e sulla programmazione dei diversi passaggi. Non vi possono essere improvvisazioni. Nessuno va lasciato solo. Occorre un quadro di riferimento e di responsabilità precisi. È anche così che si rassicura l'opinione pubblica.
Terzo obiettivo. «Il Parlamento deve fissare un tempo massimo per la chiusura degli Opg – continua il segretario nazionale di PD -, imponendo penalizzazioni anche economiche agli Enti, sino ad arrivare alla nomina di “commissari ad acta” per gli inadempienti». Poi vanno definiti «programmi personalizzati» per ciascun paziente, che spiegano Lupo e Bondioli «vanno costruiti con tutti i soggetti interessati a cominciare dagli stessi internati» e «definiti in modo condiviso con tutti gli attori coinvolti, a partire dalle Regioni, dai comuni e dalle Asl dove insistono le strutture Opg interessate ed anche quelle di provenienza dei pazienti». Per PD occorre avvalersi del supporto operativo di personale pubblico o del privato sociale «comunque adeguatamente formato». «Il coordinamento e il monitoraggio dell'intero processo va affidato al Servizio Pubblico e deve fare riferimento alla Conferenza Stato Regioni, che dovrà operare in rapporto con le commissioni Sanità di Camera e Senato, oltre che con i tecnici e con la famiglie». « È così – insistono Lupo e Bondioli che l’operazione si fa veramente concreta».
«Il rapporto tra il “dentro e il fuori” spiega Lupo è l’altro punto essenziale. Quello tra gli Opg e le strutture sanitarie e sociali presenti sul territorio, anche quelle di provenienza dei degenti da dimettere, dove andranno reinseriti». Un compito delicato ed essenziale che – nella proposta di PD – andrebbe assolto da specifiche strutture: «le équipe e gli uffici di dismissioni». «Sarà loro compito tenere i contatti con la commissione StatoRegioni, con il sindaco e quindi con la struttura sanitaria territoriale che verifica le condizioni socio-economiche del paziente e della sua famiglia e costruisce un percorso adeguato di reinserimento in base alle esigenze di cura». I progetti di recupero non possono che essere individuali, «perché spiegano vanno definiti in base alle condizioni di ciascun paziente: vi è chi può “rientrare” in famiglia e quelli, invece, per i quali è necessaria la collocazione in piccoli gruppi in “case famiglia”, in comunità, ma sempre collocati nei territori di provenienza». Ad esempio se ad Aversa vi è un paziente di Cagliari è in quest’ultimo territorio che bisogna individuare una comunità o una struttura che dovrà accoglierlo, ed attivare un programma perché ciò avvenga nei tempi e nelle forme giuste. «Sono indispensabili verifiche periodiche della situazione» insistono Lupo e Bondioli. Chi “esce” deve essere seguito anche “fuori” e in modo costante e ospitato in strutture adeguate. «Quello che va evitato è che si riformino “manicomi sul territorio”». Sono proposte precise, messe sul tappeto al servizio di tutti.
La Commissione Marino ha individuato tre «Opg» da chiudere subito. Rispondendo all’interrogazione di Anna Teresa Formisano (Udc) nel corso del question time lo scorso 23 marzo il ministro dalla Salute, Ferruccio Fazio ha fatto capire che per il governo i tempi non saranno brevi. Il rischio è che tutto nella sostanza resti fermo. La Formisano ha risposto che non si può attendere un minuto per chiudere queste «prigioni e con queste persone trattate come cani». Psichiatria Democratica aiuta a individuare un percorso per fare presto e nell’interesse di tutti. Per questo ha chiesto un incontro urgente alla Commissione di inchiesta sulla Sanità pubblica presieduta da Ignazio Marino.
il Fatto 20.4.11
Intervista. Giancarlo Galan
“Perché Sgarbi no”
Il neoministro della Cultura: “É la legge che gli vieta di andare a Venezia”
di Marco Lillo
Vittorio Sgarbi era furioso ieri sera a Rai News 24. Corradino Mineo provava ad arginarlo mentre il critico d’arte, tra una difesa d’ufficio di Silvio Berlusconi sul caso Ruby e il lancio della sua trasmissione, sparava a zero contro il ministro Giancarlo Galan e i suoi uomini: “I dirigenti Antonella Recchia e Salvo Nastasi lo hanno preso in giro e non gli hanno spiegato che io posso essere nominato Soprintendente di Venezia perché c’è una norma che lo prevede”, tuonava Sgarbi.
Il ministro ha accettato di replicare a caldo con questa intervista al Fatto, nella quale risponde all’attacco di Sgarbi ma anche al commento pubblicato sul nostro giornale a firma di Tommaso Montanari. “Il povero Galan è a un bivio”, scriveva ieri Montanari, “o dispiacere al Capo o deludere subito tutti coloro che sono disposti a credere che lui sia meglio del Bondi mannaro”. L’ex ministro aveva ceduto alle pressioni dall’alto nominando il critico alla guida della Sovrintendenza nella quale si era distinto per assenteismo, sancito da una condanna nel 1996. Il doppio veto della Corte dei Conti rimette il pallino in mano a Galan.
Ministro, cosa ha deciso di fare di fronte al bivio posto ieri dal Fatto?
Andiamo dalla parte della legge. Come mi ha fatto notare il direttore generale Antonella Recchia, si può ricorrere alla nomina di un esterno come Sgarbi solo se non esiste una domanda per quel posto presentata da un dirigente interno. Purtroppo per Sgarbi i dirigenti interni sono 4 e il problema quindi non è comparare Sgarbi con loro ma scegliere il migliore. Questo dice la legge e la Corte dei Conti.
Perfetto. Ieri Il Fatto scriveva: ‘Galan manderebbe un messaggio rivoluzionario: ‘il ministro fa il ministro e permette che il direttore generale faccia il direttore generale’. Lei ha scelto la strada della legge ma Bondi aveva fatto una scelta opposta
Infatti la Corte dei Conti gli ha dato torto. Anche io avrei preferito Sgarbi ma non lo posso fare.
Ministro quando Sgarbi fu nominato da Bondi lei non bocciò il critico per ragioni di legge
Sì ricordo che non ero entusiasta della sua nomina ma vede io ho un buon carattere e dimentico facilmente. Ho dimenticato anche quello che Sgarbi ha detto dopo su di me.
Non c’entra niente la sentenza contro Sgarbi per il suo assenteismo quando lavorava a Venezia?
No. Perché io non ho fatto una comparazione. Conosco Sgarbi per i suoi mille pregi e per i suoi difetti ma non ho scelto sulla base né delle virtù né dei difetti perché non potevo farlo. Ho deciso in base alla legge. Non ho valutato Sgarbi.
Le rileggo quello che lei disse di Sgarbi quando fu nominato da Bondi: ‘trovo singolare proporre a quella fondamentale responsabilità Sgarbi che negli ultimi venti anni di tutto si è occupato tranne che di un umile e fattivo lavoro nella pubblica amministrazione dei Beni culturali”.
Me l’ero dimenticata. Lo vede come sono fatto? Adesso spero solo che Sgarbi, che non ha un carattere docile, si incazzi per la mia scelta ma poi continui a fare quello che stava facendo per il ministero e magari faccia qualcosa di nuovo perché lo considero una risorsa unica in Italia.
Sgarbi ha dichiarato ieri: ‘se Galan non mi conferma alla Soprintendenza lascio anche la Biennale’. Cosa ha pensato quando ha letto questa sorta di diktat?
Non mi ricordo più nemmeno questo. Lo faccio apposta a dimenticare, come tutti quelli che hanno un buon carattere e non sono permalosi. Comunque spero ci ripensi, non voglio nemmeno pensare all’ipotesi. Se poi dovesse insistere nel suo proposito dovremmo trovare una soluzione ma si perderebbe una bella dose di originalità.
Lei dice che dimentica ma non sarà che è solo un permaloso che sa aspettare? Non sarà che Sgarbi insomma stia pagando la richiesta, della quale hanno parlato i giornali, rivolta a Berlusconi di non farla ministro?
Mah anzitutto penso che non sia vero e poi, se dovessi serbare rancore per tutti quelli che hanno parlato male di me avrei di fronte una brutta vita.
Lei sta dando una grande delusione a Berlusconi. Sgarbi va tutti i giorni in tv a difendere il premier con veemenza per le accuse del caso Ruby e lei lo scarica così?
Eh va bene, ho capito ma io sono il garante del rispetto delle leggi. Se faccio contento o scontento qualcuno, cosa posso farci? E poi le dico una cosa a cui lei non crederà: Berlusconi non mi ha mai telefonato in 17 anni per influenzare una mia scelta.
Sgarbi contesta la sua scelta e dice che i suoi dirigenti le nascondono una norma che permetterebbe di nominarlo.
Io non commento. Posso solo dirle che ho chiesto un parere alla Direzione Generale per il paesaggio e le belle arti. Mi ha risposto che la nomina a Commissario per Piazza Armerina, che Sgarbi vanta come titolo equiparabile alla dirigenza interna, non basta. Le leggo il parere del direttore generale Recchia: “è priva di ogni riscontro giuridico l’asserita qualifica di Sgarbi come direttore generale della Regione Siciliana in quanto Alto commissario di Piazza Armerina. Infatti tale incarico è a termine. E Sgarbi non è nei ruoli dirigenziali della Regione siciliana’.
Corriere della Sera 20.4.11
Quei fantasmi dell’intolleranza che si alzano dalla mia Ungheria
a nuova Carta magiara risveglia gli incubi del passato nazista e comunista
di Giorgio Pressburger
L’Europa a poco a poco sta diventando di nuovo un ricettacolo di fantasmi. Fantasmi nuovi e vecchi si aggirano per le nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre case. E anche nella nostra mente. Chi avrebbe creduto, fino a quindici, vent’anni fa di sentir risuonare vecchie marce che incitano all’odio, parole d’ordine che toccano i toni del forsennato razzismo, del becero disprezzo per gli altri, per chi non siamo noi? Chi noi? I membri della nostra Nazione, della nostra Regione, città, del nostro quartiere, pianerottolo. Non abbiamo forse visto un bambino ucciso perché appartenente a una famiglia troppo rumorosa? C’è una tendenza a esaltare tutte le forme di egoismo. Tutto questo succede nel nostro Paese, sul nostro Continente. Su quel Continente, sul quale duemilacinquecento anni fa è nata la democrazia. E anche se certi slogan che risuonano oggi in Ungheria come in Finlandia, simili a quelli di alcuni nostri Partiti, che incitano al volgare disprezzo (föra di bal) possono suonare soltanto come battute elettorali, pure fanno sorgere dalla terra, dai soffitti delle case, dagli scantinati, vecchi fantasmi macabri, fantasmi di morte. In Ungheria come da noi. Chi, come me, in questi Paesi, ha visto la propria famiglia sterminata dai nazisti tedeschi e anche da quelli casalinghi, a sentire il vocìo di questi fantasmi, non può restare indifferente. Le sfilate di guardie nazionaliste, le mezze frasi antisemite buttate lì mettono paura. C’è un partito che ha il 18%dei voti, che basa i suoi programmi su atteggiamenti di questo tipo. Un mio amico ha preferito trasferirsi a Berlino. Un altro in Israele. Nei Paesi dell’Europa centrale questi fantasmi si infilano dappertutto nelle case, come i famosi «Poltergeist» , delle favole e dei film d’orrore. E ora nella civilissima Ungheria, nel Paese di dieci milioni di abitanti che può annoverare dieci premi Nobel tra scienziati e scrittori, che ha dato i natali all’inventore dei computer, ai più grandi musicisti del secolo passato come Liszt, Bartòk o Ligeti o Kurtàg, a insigni psichiatri e medici, nelle pieghe della nuova Costituzione varata in questi giorni dal Parlamento con i due terzi dei voti, si insinuano le figure di questi fantasmi. La costituzione abolisce il nome di Repubblica Ungherese e conferisce quello di Paese Magiaro. (Magyarorszàg). Questo forse per ammonire certe minoranze tra le quali zingari e ebrei? Quella Costituzione è stata varata e progettata da un solo partito di nome Fidesz. La sinistra si è ritirata dall’aula, al momento della votazione. Ma i due terzi erano della Fidesz. Molti articoli vincolano i voti a venire ai due terzi della maggioranza. Quindi chissà quanto peseranno sulla politica ungherese del futuro. I fondi delle pensioni sono proprietà dello stato. Le tasse (16%) sono uguali per tutti per i ricchi e per i poveri. C’è una legge che inficia pesantemente la libertà dei mezzi di comunicazione. Tutto però entro un limite ambiguo e non sempre identificabile. Durante la conversazione con un vecchio amico avvocato civilista domando come la gente prende tutto questo. «Con indifferenza. Sì, la settimana scorsa ci sono state quattro manifestazioni, ma il resto è: indifferenza» . Come sappiamo l’indifferenza è un morbo terribile. Può condurre a disastri. È possibile che il Paese in cui sono cresciuto, dove ho imparato ad amare la letteratura, la musica, dove tutti i bambini sapevano (e molti sanno ancora) suonare qualche strumento, dove avevo appreso e poi divulgato l’amore per l’Italia, è possibile che queste disgustose figure prendano vita di nuovo? «Il 57%degli ungheresi dichiarano che avrebbero preferito il referendum a questa sorta di appropriazione» , mi dice un amico scrittore. «Ma si vede che dormono. Se ne accorgeranno al risveglio» . Molti chiamano la Costituzione ungherese Costituzione di Pasqua. Sarà firmata dal presidente infatti lunedì. La Resurrezione dunque. Resurrezione della grande Ungheria (mire territoriali?). Ma torniamo all’amore per l’Italia. A dire il vero molti affermano a Budapest che i consiglieri per la comunicazione del premier ungherese siano gli stessi del Primo Ministro italiano. Populismo dunque? Sì, c’è la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro. Non abbiamo sentito per caso questa stessa frase qui da noi? Il lavoro secondo la Nuova Costituzione sarà obbligatorio per tutti (come sotto il regime di Stalin). Questo pare soddisfare coloro che affermano che i rom non amano il lavoro. E per questo, se è il caso, vanno puniti. Da parte mia questo mi riporta a sessant’anni fa, quando, terminato il liceo davvero brillantemente, mi vidi negata la possibilità di accedere agli studi universitari. Non ero figlio di operai, nè di contadini poveri. Ma di un poverissimo piccolissimo borghese: autore di cruciverba, panettiere, garzone cartolaio, calciatore. Io andai a lavorare come panettiere. Poi venne il ’ 56 e la rivolta. Cosa contrapporre allora oggi ai pericolosi fantasmi del passato? Il sogno dell’Europa, per esempio. (La nuova costituzione ungherese decreta che la moneta ufficiale è il fiorino. Niente euro, dunque. Due terzi dei voti per abolire questo). Il sogno dell’Europa, senza mire di supremazia per puro populismo, per puro egoismo, pura indomabile, inesauribile avidità di ricchezza. Gli esempi positivi ci sono. (Guardiamo al Nord). E se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Inventare è una delle principali facoltà degli esseri umani.
Corriere della Sera 20.4.11
Onorevole Speroni legga questi libri
di Aldo Cazzullo
Impegnato com’era a scegliere cravattine alla texana e giacche fucsia o giallo paglierino con cui rompere l’anonimato, l’eurodeputato Francesco Speroni, la cui attività è ricordata più che altro per l’assunzione come portaborse al Parlamento europeo (12.750 euro al mese) di Riccardo Bossi, il figlio maggiore dell’amico Umberto, non ha mai trovato il tempo per leggere libri sull’emigrazione italiana. Ne avesse letti, non avrebbe osato dire le parole indecenti dell’altro giorno: «Noi siamo invasi, c’è gente che viene in Italia senza permesso, violando tutte le regole. A questo punto vanno usati tutti i mezzi per respingerli, eventualmente anche le armi» . E se fossero in fuga da persecuzioni, guerre, genocidi? Sempre clandestini sono! «Non ce l’hanno certo scritto in fronte se sono profughi!» . Come a dire: intanto spariamo, poi si vedrà. E se fossero cristiani sudanesi o nigeriani in fuga dai macellai dell’Islam fanatico? Amen. I «nuovi crociati» che marcano il territorio affiggendo il crocifisso alla parete non possono curarsi di questi dettagli. Se avesse letto il reportage di Egisto Corradi che nell’inverno del 1947 attraversò il Piccolo San Bernardo con i clandestini «nostri» , l’ignaro Speroni saprebbe che solo lì col bel tempo «passavano centinaia e centinaia di emigranti per notte: una volta ne passarono mille in poco più di ventiquattr’ore, con nidiate intere di bambini. Tra gli ultimi passati una donna incinta, percossa dalla straordinaria fatica, partorì due settimane fa, mentre scendeva il versante francese» . Se avesse letto Il cammino della speranza di Sandro Rinauro sarebbe stato seppellito da migliaia di citazioni di documenti ufficiali che dimostrano che «gli italiani hanno detenuto a lungo il primato dell’esodo clandestino» . Un esempio? Citiamo fra i tanti il direttore della Manodopera straniera del ministero del Lavoro francese Alfred Rosier, secondo cui alla fine del 1948 (Speroni era già nato) «dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95%era irregolare o clandestino» . Se avesse letto il bellissimo Addio patria di Ulderico Bernardi o lo struggente New Italy di Floriano Volpato, conoscerebbe la storia di quei circa trecento trevigiani che nell’aprile 1880, imbrogliati da un marchese francese che prometteva di fondare una «Nouvelle France» papalina al di là del Borneo, passarono clandestinamente il confine con la Francia e clandestinamente quello con la Spagna per imbarcarsi sul piroscafo India diretto verso l’estremo oriente per arrivare infine a Sydney, stremati e pazzi di dolore per avere perduto lungo il viaggio tantissimi bambini e tantissimi vecchi, 368 giorni dopo la partenza. Ma certo, conoscere quelle e tante altre storie di emigrazione disperata e illegale italiana, lo imbarazzerebbe poi al momento di sparare sciocchezze sulla nostra «diversità» . Meglio non sapere, giusto? Meglio fingere di non sapere...
l’Unità 20.4.11
L’annuncio durante il sesto congresso del partito comunista
Lascia la carica di primo segretario ed esce dal comitato centrale
Fidel si fa da parte Dopo 50 anni Cuba senza lider maximo
Ieri l’annuncio ufficiale: Fidel Castro Ruz abbandona la carica di primo segretario del partito comunista e quella di membro del Comitato centrale. Un lungo addio cominciato nel 2006 dopo un intervento chirurgico.
di Bruno Gravagnuolo
Inimaginabile, fino a qualche anno fa. E forse anche fino a ieri l’altro. Non solo Fidel Castro Ruz, ha lasciato la carica di segretario del Partito comunista, ma persino quella di membro del Comitato centrale. «Ho vissuto abbastanza ha scritto e mietuto abbastanza onori, senza mai pormi il problema di quando avrei lasciato...». Finalmente i giovani «nonni» della Revolution, con Raul Castro in testa e i due vicepresidenti Machado e Valdés, potranno sentirsi più liberi di gestire la nuova fase di caute liberalizzazioni. Già sancita dal VI Congresso, e che prevede 130mila contadini privati, 171mila licenze di commercio e piccole aziende, con lo spostamento di 1milione e 800mila lavoratori dal settore pubblico a quello privato (su un totale di 5milioni). Dunque, almeno simbolicamente, un mutamento d’epoca, e l’uscita dal castrismo a tutto tondo. Quello che dal 1959 in poi ha plasmato l’isola caraibica.
Resta, di là dell’eredità in via di superamento e di meriti o demeriti, l’«imponenza» non solo fisica della figura di Fidel, cifra di un’epoca e di una parte del ’900 conteso tra i blocchi geopolitici. Ma come ha fatto Fidel Castro Ruz ha incidersi così a lungo nel suo tempo e anche oltre?
C’è un aneddoto, confermato dai biografi, sull’uomo nato il 13 agosto 1926 a Biràn, da un piantatore asturiano e una creola (Angel Castro e Lina Ruz). Racconta di quando Fidel bambino minacciò il padre di incendiargli la piantagione. Se non lo avesse mandato a studiare a Santiago. Di lì comincia l’avventura: buoni studi privati, e poi dal 1941 al 1945 in collegio dai Gesuiti a L’Avana. Che lo allevano all’«onore» e alla «dignità ispanica», in una Cuba ben diversa da quei valori. Poi c’è il leader studentesco antimperalista e nazional-democratico, avvocato e deputato mancato. Per il colpo di stato di Fulgencio Batista. E l’organizzatore del fallito assalto alla Caserma Moncada, del 26 luglio 1953 (festa nazionale di Cuba). Con 80 assalitori uccisi e lui in prigione.
Celebre la sua arringa difensiva: «la storia mi assolverà». Segue l’amnistia, il rapporto con scrittori, foto-
grafi e attori americani, l’amore/ odio per gli Usa, dove va in viaggio di nozze già nel 1948, con la moglie Mirta Diaz Balart, studentessa di filosofia. E dal 2 dicembre 1956 in avanti, la lunga marcia, iniziata con lo sbarco del Granma, poi vittoriosa il 31 dicembre 1959, quando i barbudos, con Cienfuegos e Guevara entrano a L’Avana. Infine il comunismo. Trovato per strada, dopo i contrasti con gli Usa acuiti dalla nazionalizzazione della «United Fruit», e dal rifiu-
to americano di raffinare il petrolio sovietico. Una dittatura quella di Fidel. Di taglio populista e nazionalista, segnata per molti anni da consenso patriottico, contro l’implacabile ostilità americana: dopo la Baia dei Porci tentano di ucciderlo 638 volte.
Avventuroso, «hemingwayano», per molti intellettuali occidentali, ma soprattutto «politico». Persuaso sempre di poter esercitare un ruolo di punta tra i blocchi geopolitici, anche al segno di spingere il mondo sull’orlo dell’abisso, con la crisi dei missili Urss puntati contro la minaccia Usa, a 90 miglia da L’Avana. Lascia partire per la Bolivia il Che e ipotizza una cauta espansione del suo modello socialista, senza strappi. A parte l’avventura in Angola, per rompere l’assedio americano con un ponte in Africa. Fino al 1990-91, che vede Cuba abbandonata dall’Urss ormai in dissoluzione.
E qui Fidel si inventa un profilo anti-global, anti-fame nel mondo, «bolivarista» e dialogante coi cattolici. Armi che lo aiutano a puntellare il fallimento del «periodo especial», ostinatamente vincolato a ricette egualitarie e stataliste. E forse il più grande fallimento, non è stato solo la dura violazione dei diritti umani, acuita dall’ostilità Usa e dagli anticastristi, (temperata da turismo aperto e assistenza per tutti sui bisogni di base). E stata la difficoltà a costruire un vero ricambio generazionale. Problema che è tutto dinanzi ai giovani «nonni» e a Raul, il fratello riformista di cui invece si diceva fosse un duro («Que viene Raul!» pare sibilasse Fidel rivolto agli scontenti). Infine un dato: il consenso a Fidel. Innegabile e lungo, benché ormai molto scalfito. Si spiega così: il suo carattere di leader nazionale. Che ha tenuto in scacco i tradizionali padroni di Cuba. E padroni per legge in Costituzione, fino al 1959: gli Stati Uniti d’America. Forse oggi decisi anche essi a voltare pagina. Dopo che lo ha fatto Castro, col suo tirarsi in disparte.
Repubblica 20.4.11
René Girard
"Non possiamo più dirci apocalittici"
"Quello che accade nel mondo arabo mostra che Islam e Occidente non sono inconciliabili"
Intervista di Leonetta Bentivoglio
"Molte volte nella nostra storia il grande capro espiatorio è diventato il popolo"
Intervista allo studioso celebrato in Francia con una raccolta di scritti
"Bisogna abbandonare il pessimismo: il mondo sta cambiando in meglio"
Il pensiero di René Girard vira in senso ottimistico. In questi nostri tempi "apocalittici", uno dei più affascinanti e trasversali pensatori contemporanei – è antropologo, esperto di psicoanalisi, critico letterario e saggista che cattura nello svelarci i miti come eventi vividi e provocatori delle violenze perpetrate dalla Storia – vede il mondo proiettato in un corso pacificatorio e unificante: i conflitti si attenuano, aumenta il dialogo, l´umanità sembra puntare alla conciliazione. «È sempre più sviluppato il contatto tra le genti», afferma Girard al telefono da Stanford, la città californiana in cui vive da molti anni e nella quale ha sede l´università dove ha insegnato più a lungo. «Persino l´isolazionismo statunitense cede il passo ad aperture nuove nei confronti di luoghi distanti ed economicamente fragili. Gli americani, che prima non si curavano di vicende lontane da loro, si stanno interessando come non mai alle rivolte che sconvolgono gli assetti dei paesi arabi. Basta guardare lo spazio enorme che ha dato la tivù statunitense a quel che è accaduto in Egitto, in Tunisia, in Siria, in Libia e nello Yemen», segnala Girard. A 88 anni la sua voce è incerta e faticata; ma sulla questione araba si esprime in modo vigoroso, quasi martellante.
Eppure nel passato recente, Professor Girard, la sua prospettiva sul futuro pareva molto pessimistica.
«Ma la realtà sa trasformarsi in fretta: oggi i paesi arabi stanno compiendo una metamorfosi che fino a poco tempo fa sarebbe stata inconcepibile. Molte nazioni islamiche vorrebbero somigliare alle democrazie occidentali, e i popoli arabi si scagliano contro regimi corrotti e autoritari in nome di valori condivisi come la giustizia e la libertà: non è un caso che l´Egitto si sia affrancato senza alcun intervento da parte degli islamisti. Ovunque, nel mondo, le persone tendono a riconoscersi come individui e sono più sensibili a ciò che avviene nel resto del pianeta. Perciò non parliamo più di apocalisse, per favore: è un termine tanto di moda quanto inappropriato».
Le mode, certo, non si addicono a un filosofo indifferente agli "ismi" come Girard, che è nato ad Avignone nel 1923 ma ha lavorato soprattutto negli Stati Uniti, accolto fin dagli anni Cinquanta nelle più prestigiose università americane. Con dichiarata estraneità all´intellighenzia francese di sinistra, e totalmente allergico a celebrati capofila come Althusser e Lévi-Strauss, l´anticonformista Girard, durante tutta la sua vita, ha tradotto la propria adesione al cristianesimo in un irrinunciabile motore cognitivo. Atteggiamento che molti intellettuali suoi connazionali non gli hanno perdonato. In questi ultimi tempi, tuttavia, la Francia sembra averlo riscoperto, come se il trascorrere degli anni ne avesse dimostrato lo spessore: «Non avendo mai cercato di essere nel vento», ha scritto L´Express, «René Girard è sfuggito a ogni tempesta».
Un´ottima accoglienza ha meritato il suo Achever Clausewitz, tradotto anche da Adelphi (suo editore italiano di riferimento) col titolo Portando Clausewitz all´estremo: un saggio che analizza i terrorismi e i fondamentalismi odierni partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Carl von Clausewitz. E sono appena usciti in francese, con estremo ritardo, due libri che riguardano o coinvolgono Girard, entrambi per Flammarion. Uno è Avons-nous besoin d´un bouc émissaire?, che il teologo austriaco Raymund Schwager (1935-2004) ha dedicato alla concezione del capro espiatorio, perno del sistema filosofico girardiano: suggestiva teoria che al meccanismo sacrificale, dominante in tutte le società, oppone l´unicità del messaggio cristiano, capace di decretare, col sacrificio di Gesù, l´innocenza della vittima. L´altro, Sanglantes origines, raccoglie testi di antropologi americani ed europei (tra cui lo stesso Girard) sulle radici delle civiltà, riconducibili a un nucleo essenziale del pensiero del filosofo di Avignone, ben intrecciato alla sua tesi-principe sul capro espiatorio: quello del "desiderio mimetico", cioè plasmato sul desiderio altrui e quindi suscitatore di rivalità, essendo l´eccitazione mimetica ciò che spinge il gruppo a compiere delitti, che si considerano sanciti dal fato o da una divinità. Da parte sua Girard, in quell´evento-chiave del cristianesimo che è la crocifissione, identifica l´anti-sacrificio capace di smascherare il male, ricondotto alla sua natura terrena e quindi spogliato dalla menzogna pseudo-espiatoria creata per "divinizzarlo". Da qui attinge la sua sostanza di filosofo cristiano.
Che ne dice del consenso finalmente ottenuto dai suoi scritti in Francia?
«Mi sembra che si sia affermata da tempo una considerazione notevole del mio lavoro anche nel mio paese, come confermano i numerosi riconoscimenti ufficiali che vi ho ricevuto».
È dunque ottimista anche da questo punto di vista?
«Come si può non esserlo, oggi? Gli eventi di questi ultimi mesi sono confortanti. Quello che è successo in gennaio al Cairo - insieme alla rivolta tunisina di dicembre, alle proteste in Libia, all´opposizione sollevatasi nello Yemen, ai fatti della Giordania - è una prova concreta della possibilità di unire l´Islam e i valori occidentali. La ribellione parte dal basso, dalla gente vera, e attacca tutti i regimi autocratici».
Vede il medesimo clima positivo in Europa?
«L´Italia è agitata e instabile, ma non la Francia. Il governo di Sarkozy sta garantendo stabilità. So quanto la sinistra francese gli sia ostile, ma è impossibile non rendersi conto dell´ottima impostazione della sua politica economica. E l´ondata di terrorismo islamico, che per un certo periodo ha minacciato il continente, oggi sembra superata».
Come si è collocata, in questa sua prospettiva ottimistica, la crisi libica?
«Gheddafi è la peste: un tiranno vero. Il rifiuto che lo ha investito all´interno del suo paese è un altro frutto dello tsunami politico mediorientale. La presa di coscienza del popolo libico non può che considerarsi salutare».
Chi è il capro espiatorio, in una situazione del genere?
«Spesso è il popolo a diventare la vittima sacrificale. La storia del popolo russo, da questo punto di vista, è emblematica. Per centinaia di anni ha avuto la funzione di capro espiatorio. Oggi, forse, è meno vittima di prima, ma è ancora ingiustamente sofferente. Gli uomini hanno sempre bisogno di capri espiatori. È la catarsi espressa anche dalla poetica di Aristotele: l´eroe muore e lo spettacolo consolida la collettività, che chiede condanne a morte per istituirsi. Quella del capro espiatorio è un´eccitazione mimetica della comunità contro una vittima designata per motivi accidentali o in quanto oggetto di desiderio. Il che, certamente, non s´applica a vittime tutt´altro che innocenti come lo fu Saddam Hussein, o come lo potrebbe diventare adesso Gheddafi. Ma una tragedia che può fungere da esempio di tale meccanismo, nella storia recente, è rappresentata dall´Olocausto».
il Riformista 20.4.11
Marxismo-leninismo a Capri
Partita a scacchi con la storia
Un secolo fa il fondatore dello Stato sovietico soggiornò con il dirigente Aleksandr Bogdanov nell’isola degli esiliati. Dove il grande scrittore, Gorkij, aveva fondato una «scuola della tecnica rivoluzionaria per la preparazione scientifica dei propagandisti del socialismo russo»
di Giancarlo Mancini
qui
http://www.scribd.com/doc/53404072
Repubblica 20.4.11
In un nucleo familiare su tre manca il padre "Accoglienza e servizi, tutto diventa più facile"
Le ragazze-madri scelgono Berlino "Ecco perché è la nostra città"
Spesso le donne si trasferiscono nella capitale dopo essere state lasciate dai mariti
di Andrea Tarquini
Le incontri a far la spesa, cariche di buste gonfie e con la carrozzina, e nessuno al fianco. Le incroci al semaforo, sono al volante col volto teso. Sono le eroine sconosciute della vivace, postmoderna Berlino: le ragazze-madri. Vivono di corsa, si dividono tra lavoro e figli, metà di loro riceve poco o nulla in alimenti e aiuti dal padre. Le più povere le salva il welfare. Sono in tante, sempre più numerose: un terzo delle mamme berlinesi tira avanti senza l´aiuto del marito o del compagno. È una realtà nascosta e dura della vivace città-laboratorio, e le pone nuove sfide. Ma al tempo stesso, è anche un nuovo volto della normalità quotidiana, una parte vivace e coraggiosa della città, che ce la fa e va avanti nella vita stringendo i denti ogni giorno.
«Le mamme single non sono considerate di per sé, in generale, come un gruppo sociale gravato di problemi, spiega Martina Krahl, esponente del Landesverband alleinerziehender Muetter und Vaeter, l´associazione cittadina dei genitori soli. «A Berlino», spiega, «vivono molte donne che hanno deciso di preferire il ruolo di ragazza-madre», hanno scelto di crescere i figli da sole anziché in conflitto permanente con un partner con cui nulla funziona più.
Berlino insomma non è solo la città sognata dai turisti giovani di tutto il mondo: è anche una capitale mondiale delle ragazze-madri. I dati fotografano realtà estreme. A Berlino, vivono in totale circa 430mila nuclei familiari. Di questi oltre un terzo, cioè 150mila, sono composti da genitori soli. Di cui le ragazze madri sono l´89 per cento, la stragrande maggioranza: 134mila. I ragazzi-padri sono appena l´11 per cento restante. Trend in aumento: l´anno scorso, rispetto al 2009, le precise anagrafi della città e dei suoi servizi di welfare hanno contato 15mila mamme sole in più.
Sembra paradossale, ma proprio una metropoli vivace, bella e vivibile come Berlino non è l´ambiente ideale per la garanzia d´una famiglia che duri. Oltre metà dei matrimoni, nell´ex città del Muro, falliscono dopo pochi anni. E almeno metà dei padri che fanno le valigie e vanno via pagano raramente o mai gli alimenti. «In una grande città come Berlino le ragazze-madri affrontano meno pregiudizi ostili che non in provincia», dice lo psicologo Thomas Kornbichler.
Molti piccoli berlinesi apprendono vita e mondo con un genitore solo: 378 mila bambini vivono nella capitale con genitori sposati, 73mila con coppie di fatto, e ben 209mila con uno solo dei genitori, il più delle volte mamma, appunto. Non è sempre facile: è dura farsi assumere quando il datore di lavoro sa che hai uno o più bimbi da accudire a casa, è più difficile riscuotere abbastanza fiducia da prendere un appartamento in affitto. Le ragazze madri stringono i denti, e vanno avanti. Non è nemmeno raro che, nella moda, nei media o in altre realtà di lavoro, s´impongano e facciano carriera. Eroine nascoste, su cui spesso in ogni ambiente e fascia di reddito il mondo circostante chiude gli occhi. La vita dura nella grande città non è più quella della Londra di Dickens o della Berlino di Weimar narrata da Doeblin o da Zille, ma colpisce ancora. Specie l´altra metà del cielo.
Repubblica 20.4.11
Da Chopin ai Beatles così la musica ci emoziona
di Pam Belluk
In un brano cambi di ritmo e variazioni a sorpresa piacciono al cervello
Paul Simon: "Il pubblico riconosce il tocco umano e io ho un sesto senso per queste cose"
Mentre Paul Simon stava provando una delle sue canzoni preferite, "Darling Lorraine", che parla di un amore che inizia rovente ma pian piano si raffredda, si è ritrovato a riflettere su uno schema ritmico di tre note, verso la fine, nel momento in cui Lorraine si ammala e muore. Simon ha detto: «La canzone ha come sottofondo continuo una successione di tre note, che prosegue per l´intero brano. Ma a un certo punto volevo che si interrompesse, perché la storia di colpo diventa molto seria. Interrompere un sound o i ritmi è importante. Se invece si lascia che la cosa continui all´infinito alla fine perde di efficacia».
Un´intuizione come questa può sembrare puramente soggettiva, distante da qualsiasi cosa uno scienziato possa essere in grado di analizzare e quantificare. Invece, alcuni studiosi si propongono di fare proprio questo: cercare di comprendere e quantificare che cosa renda la musica espressiva. I risultati delle ricerche stanno contribuendo a farci comprendere molto meglio il funzionamento del cervello e l´importanza che la musica ha nello sviluppo dell´essere umano.
A comunicare vera emozione potrebbero non essere la melodia né il ritmo, bensì i momenti in cui i musicisti apportano lievi modifiche ai loro schemi. Daniel J. Levitin, direttore del laboratorio per la percezione della musica presso la McGill University di Montreal, ha iniziato a porsi alcune domande sull´espressione musicale analizzando uno ad uno gli elementi dell´espressione musicale in modo scientifico. Ha fatto suonare a un pianista alcuni Notturni di Chopin su un pianoforte dotato di sensori sotto a tutti i tasti, per registrare quanto a lungo tenesse premuta ogni singola nota e quanto forte pigiasse ogni singolo tasto. I dati raccolti nota dopo nota sono interessanti, perché i musicisti di rado suonano la musica proprio come compare sullo spartito, ma la interpretano aggiungendo la loro personalità. La registrazione del pianista è diventata l´esecuzione considerata di base. Poi i ricercatori hanno iniziato a manipolarla in diverse versioni.
Ad alcuni soggetti, poi, sono stati fatti ascoltare i brani originali e variati in ordine casuale, facendo loro assegnare un punteggio in funzione delle emozioni derivate dall´ascolto. Tutti gli ascoltatori hanno trovato più ricca di emozioni la versione originale e molto meno emozionanti le altre. Tutto ciò ha senso per Paul Simon: «Trovo affascinante che la gente si accorga di quale sia la versione originale, e che quella sia il massimo. La gente avverte il tocco umano». I risultati dello studio di Levitin indicano che quanto più numerosi sono gli elementi sorpresa in un brano, tante più emozioni percepiscono gli ascoltatori, ma solo se i momenti particolari hanno una loro logica. Secondo la cantante Rosanne Cash le sperimentazioni hanno mostrato che l´emozione nella musica dipende dalle imperfezioni umane. La Cash racconta di aver imparato dal padre Johnny che «lo stile è una funzione dei tuoi limiti, più che una funzione delle tue capacità. Se come cantante hai dei limiti, forse sarai costretto a trovare una sfumatura in un modo al quale non ricorreresti se potessi cantare con un´estensione di quattro ottave».
Si è appurato che il cervello elabora le sfumature della musica in molti modi. Edward W. Large, musicologo della Florida Atlantic University, ha effettuato risonanze magnetiche al cervello di alcune persone mentre ascoltavano due versioni di uno Studio di Chopin, il primo inciso da un pianista, il secondo limitato alla riproduzione testuale di quello che scrisse Chopin, senza variazioni nel ritmo e nella dinamica. Durante la performance originale, le aree cerebrali connesse all´emozione si sono attivate molto più che nella versione priva di alterazioni.
Gli studi di Levitin e Lange hanno riscontrato che il ritmo delle note è più importante del loro volume. Paul Simon suona con ritmo costante. «Ho un sesto senso per il ritmo, e so quando è necessario dargli intensità e quando abbandonarlo». E Geoff Emerick, tecnico del suono dei Beatles, dice: «Spesso quando registravamo brani ritmati dei Beatles, capitava di commettere un errore. Quando lo si analizzava si scopriva che di fatto "suonava" bene e quindi proseguivamo tenendone conto. Quando tutto è perfettamente ritmato e a tempo, l´orecchio o la mente tendono a ignorarlo, proprio come si ignora il ticchettio della sveglia in camera da letto. Dopo un po´, non ci si fa più caso».
(Traduzione di Anna Bissanti Copyright New York Times-La Repubblica )
La Stampa Tuttoscienze 20.4.11
A un passo dalla materia oscura
Cosmologia. Le prime informazioni sulle particelle Wimp dall’esperimento “Xenon” in corso al Gran Sasso L’ideatrice delle ricerche Elena Aprile: “Il cerchio si sta stringendo, siamo più vicini a una possibile scoperta”
di Gabriele Beccaria
Prendete 160 chili di un gas, lo Xenon, raffreddatelo a 90 gradi sotto zero per liquefarlo, e rovesciatelo in una vasca multistrato. Infilate il tutto in un luogo inaccessibile, sotto i 1400 metri di roccia del Monte Aquila, nei Laboratori del Gran Sasso, e aggiungete l’inevitabile mix ad alta tecnologia di elettronica, sensori e computer. Avrete il kit per tentare di rispondere a una domanda che toglie il sonno a molti fisici: che cos’è la materia oscura, che, sebbene invisibile e inafferrabile, costituisce più di tre quarti della massa dell’Universo?
La risposta che tutti vorrebbero non c’è ancora, ma un nuovo passo è stato compiuto. L’enigma comincia a presentare qualche punto debole e la materia oscura sta trascolorando in qualcosa di un po’ meno oscuro di quando fu teorizzata per la prima volta negli Anni 70.
Il merito è di Elena Aprile, italiana di Napoli e ora cittadina americana, professoressa alla Columbia University di New York, alla guida dell’esperimento «Xenon100» e di un team internazionale (60 scienziati di 8 Paesi) impegnato a raccogliere dati e a decifrarli. «Un primo indizio è arrivato», spiega la scienziata, che dà la caccia a un particolare tipo di «mattoncini», le «Wimp», sigla che sta per «Weakly interacting massive particles», vale a dire particelle massive debolmente interagenti. Distribuite in un alone che avvolge la nostra galassia, sono loro le sospettate numero uno e dovrebbero, quindi, comporre la colla gravitazionale che tiene insieme le galassie. La vasca è stata ideata proprio per tentare di intercettare il loro debole soffio, che, colpendo i nuclei di Xenon, deposita una piccola quantità di energia, sufficiente per essere rivelata e studiata e per fornire, finalmente, un primo identitik della materia oscura.
«Eravamo in condizioni “blinded” - racconta Elena Aprile, riferendosi al fatto che un’analisi prima del momento concordato avrebbe potuto condizionare i risultati -. Non volevamo essere influenzati da dati non corretti e fare errori. E così, quando abbiamo spinto il bottone dei computer per analizzare quei 100 giorni, abbiamo cominciato a indagare quanti eventi si fossero verificati in una specifica regione d’energia». Le previsioni ne facevano supporre un paio, causati dal «rumore di fondo» dell’esperimento, mentre dai display ne sono emersi tre. La spiegazione - ha subito sottolineato la studiosa sul website della rivista «Physical Review Letters» - è una sorta di informazione a rovescio, un’assenza invece di una presenza, ma non per questo meno significativa. Se delle Wimp non c’è ancora l’evidenza che si cercava, adesso il cerchio si stringe e si può affinare ulteriormente la trappola per afferrarle.
«La ricerca, infatti, continua e gli ulteriori dati che stiamo raccogliendo ci porteranno più vicini a un'eventuale scoperta. Già adesso - continua Elena Aprile - i risultati ottenuti pongono vincoli più stringenti sulle interazioni di queste particelle con i nuclei della materia ordinaria. E questo grazie alle prestazioni straordinarie del nostro rivelatore, in cui siamo riusciti a ridurre il fondo radioattivo a livelli senza precedenti».
Visto che tutto si gioca con deboli scontri e flebili flash energetici, quelli che in gergo si definiscono fenomeni di scintillazione e ionizzazione, il prossimo passo - aggiunge Elena Aprile - è rendere ancora più sensibili i fotomoltiplicatori, i rilevatori di luce capaci di accorgersi delle interazioni tra materia oscura e Xenon. La sensazione è di non essere tanto lontani da qualche scoperta decisiva e così cresce l’eccitazione. Il tempo stringe, perché la competizione sale di tono. Mentre al Gran Sasso, il laboratorio dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, si spera di vincere un altro round con un «upgrade» dei test, creando un nuovo mega-contenitore da una tonnellata, dagli Usa al Giappone altri gruppi sono in corsa per trovare le Wimp. E anche l’acceleratore del Cern potrebbe presto dire la sua, mentre la prossima settimana partirà con lo shuttle l’esperimento «Ams», che potrebbe fornire ulteriori indicazioni sulla materia oscura.
«E’ una grande sfida», si entusiasma la scienziata che è stata una delle allieve del Nobel Carlo Rubbia e l’Italia - almeno in questo settore - ha un ruolo di primo piano che solo la miopia di chi tiene stretti i cordoni della borsa potrebbe vanificare: «Io sono qui per arrivare prima!».
La Stampa Tuttoscienze 20.4.11
Così ci attraversano i neutrini
di Gianni Parrini
L’esperimento «Borexino»
Sono gli orfani dell'Universo. Al momento del Big Bang, mentre gli altri componenti della materia si sono legati insieme per l'eternità, loro sono rimasti disaccoppiati e da allora viaggiano in solitario, senza interagire mai (o quasi) con i loro simili. Parliamo dei neutrini, particelle elementari dalla massa infinitesimale (migliaia di volte inferiore a quella dell'elettrone), privi di carica elettrica, ma presenti in grandi quantità nel cosmo: in un centimetro cubo ce ne sono circa 300.
Per quanto anonimo, il loro vagare senza meta non è privo di interesse per la scienza, che ha saputo prestare loro orecchio: i neutrini, infatti, si sono rivelati straordinari messaggeri in grado di comunicare numerose informazioni su molti dei fenomeni astronomici di cui non conosciamo bene i meccanismi. Tra i centri più qualificati nello studio di queste particelle ci sono i laboratori dell' Istituto nazionale di fisica nucleare al Gran Sasso, dove sono stati presentati i risultati di un esperimento rivolto all'«ascolto» dei neutrini di bassissima energia (inferiore a un 1 Mev) che rappresentano il 90% di quelli provenienti dal centro del Sole.
«Queste particelle sono prodotte dalle reazioni nucleari che avvengono nel cuore della stella, così come i fotoni - spiega Gianpaolo Bellini, responsabile scientifico del progetto -. Ma, mentre questi ultimi impiegano 100 mila anni per passare dal centro alla superficie, subendo interazioni che ne alterano il contenuto, i neutrini sbucano fuori in 2-3 secondi e sono in grado di mantenere intatte le informazioni sui processi che li hanno generati». Dunque, questi microscopici pezzetti di materia sono come una sonda in grado di penetrare in profondità e di portare fino a noi notizie sul funzionamento del Sole. Così, quando la stellamadre comincerà a esaurire il combustibile che la fa brillare (un evento previsto tra miliardi di anni), osservando l'emissione dei neutrini, potremmo accorgercene immediatamente.
Una massa quasi nulla, dunque, permette a queste particelle di attraversare pianeti, stelle e qualunque aggregato di materia. Anche voi lettori: in questo momento, mentre leggete, miliardi di neutrini provenienti dal Sole entrano ed escono indisturbati dal vostro corpo. Se da un lato questa caratteristica li rende interessanti, dall'altro complica il rilevamento. Per «acchiapparne» qualcuno, infatti, occorrono grandi apparati sotterranei, come quelli dei laboratori Infn del Gran Sasso, dove i raggi provenienti dal cosmo sono schermati e la radioattività ambientale è stata limitata. «Oggi Borexino è l'unico strumento in grado di registrare i neutrini di bassissima energia e ha abbassato di 10 volte la soglia precedentemente toccata in analoghi progetti in Canada e Giappone. Ciononostante, in un giorno riesce a rilevarne solo una cinquantina».
L'esperimento è attivo dal 2007 e lo rimarrà fino al 2016. «Vista l'evanescenza di queste particelle, occorrono tempi lunghi", prosegue Bellini. Ma sono già stati raggiunti importanti risultati: «Sappiamo che i neutrini di bassa energia cambiano in parte identità attraversando la materia solare, secondo la cosiddetta “oscillazione”, un fenomeno di “nuova fisica” non previsto dal Modello Standard, di cui restano da chiarire ancora diversi aspetti - conclude -. Inoltre, abbiamo appurato che l'attraversamento della Terra, al contrario di quanto avviene per il Sole, non influenza l'identità del neutrino».
Il Mattino 20.4.11
Saramago vive ancora nella casa ora museo
di Paola Del Vecchio
«Aprire la casa è una maniera di ricordare ma soprattutto di far continuare José Saramago». Per Pilar del Rio, la compagna di vita, traduttrice allo spagnolo e dallo scorso 18 giugno vedova di José Saramago, aprire al pubblico «A Casa», la residenza di Tias, a Lanzarote, in cui il premio Nobel portoghese ha vissuto gli ultimi 18 anni, non è solo un tributo alla memoria ma la forma di dare conto di una presenza. Quella che si aggira fra il sofà nella grande biblioteca tappezzata di libri, e la scrivania dove venivano scritte le annotazioni letterarie, le memorie, le riflessioni politiche. «Lo annunciai a Lanzarote, alla fine dello scorso anno - ricorda Pilar, giornalista e presidentessa della Fondazione intitolata alla scrittore - Per me far continuare José Saramago era andare in Portogallo, come fece Ricardo Reis alla morte di Fernando Pessoa, ma era anche lasciare aperta la casa e la biblioteca in cui lui abitò, riempirla di respiri, di vita, di calore umano». Pilar disse che avrebbe aperto «A Casa» nove mesi «dopo la morte di chi per molti non morrà». Ed ha mantenuto la promessa. All’inaugurazione c'erano anche Violante, la figlia di Saramago, e i nipoti Ana e Tiago. E i tanti amici, gli editori, i traduttori venuti da Portogallo, Spagna e Italia, per godere dell'immensità del mare o della maestosità della vista dei vulcani, che si aprivano allo sguardo dell'autore de Il viaggio dell'elefante o di Saggio sulla lucidità. Una casa «fatta di libri», come la definì Saramago stesso, in cui nessun quadro, nessun oggetto è stato spostato da dove lui l'aveva poggiato. In cui, spiega Pilar, «la vita si mantiene nello spazio di Saramago e Saramago sarà non solo nei suoi libri, ma anche negli alberi del giardino, negli olivi che piantò, nelle palme forti, nel tavolo, nella sedia consumata, nelle foto dei nonni...». Il mondo del Nobel portoghese che, così, continua a vivere per tutti coloro che vogliono ancora respirare la sua opera.
Repubblica Firenze 20.4.11
Leonardo e Michelangelo
I disegni perfetti e la sfida infinita dei geni rivali
di Mara Amorevoli
Una mostra nella Casa Buonarroti per la prima volta mette a confronto stili e tecniche dei maestri del Rinascimento
Cavalli, ritratti e architetture La rassegna (aperta oggi fino ad agosto) anticipa l´appuntamento previsto ai Musei Capitolini di Roma
Piccoli fogli ingialliti con disegni a matita, penna e inchiostro color seppia, che raffigurano cavalli, corpi muscolosi, teste maschili e femminili, architetture. Segni perfetti, ora più sfumati e delicati, ora più calcati e irruenti. È un confronto tra giganti quello che, per la prima volta, riunisce i disegni di Leonardo e di Michelangelo. Un "derby" tra geni, in nome di una supposta e romanzata rivalità, ospitato al museo di Casa Buonarroti. Dove Leonardo e il più giovane Michelangelo (nato nel 1475, 23 anni dopo il già famoso "rivale") si fronteggiano con 12 disegni dell´uno - giunti a Firenze dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, depositaria di 2300 disegni del Codice Atlantico e altri fogli, ossia del più ricco patrimonio grafico leonardesco - e 10 dell´altro, scelti tra gli oltre 200 custoditi nell´archivio Buonarroti.
Una sfida che si rinnova nel nome de La scuola del mondo, titolo della mostra che prende il nome dalla definizione che Benvenuto Cellini dette ai cartoni preparatori che i due maestri del Rinascimento avevano dipinto per realizzare i monumentali affreschi celebrativi delle vittorie fiorentine nella Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, oggi Salone dei Cinquecento. Due prototipi perduti, diventati talmente famosi da essere copiati e studiati da tutti gli artisti contemporanei, strumenti appunto imprescindibili di quella "scuola del mondo" che i due geni rappresentarono con i loro disegni. E se ancora oggi si cerca la perduta "Battaglia di Anghiari" nelle pareti del Salone di Palazzo Vecchio, commissionata dalla Signoria fiorentina nel 1503 a Leonardo, incaricato di raffigurare la vittoria contro i milanesi nel 1440, al contrario Michelangelo non fece in tempo a realizzare nel 1504 la "Battaglia di Cascina" (che vide i fiorentini sconfiggere i pisani nel 1364) di cui concepì, prima di partire per Roma, solo quel cartone poi perduto.
Due capolavori di cui restano solo le copie, in cui i due maestri si confrontarono con grovigli di cavalli e figure di guerrieri e "ignudi" eroici in battaglia. Le stesse che compaiono nei fogli in mostra, con lo studio di un cavallo per la "Battaglia di Anghiari", di un nudo di schiena riferito a quella di Cascina. Possenti schiene di cavalli, corpi e volti con tratti anatomici perfetti, e poi progetti di fortificazioni, schizzi di fontane che testimoniano l´ingegno supremo nel primato del disegno, in quei tratteggi strumento di ogni artista. Due stili e paradigmi diversi, improntati a tecniche e visioni del mondo diverse, analizzati dai curatori Pietro C. Marani per Leonardo e Pina Ragionieri, direttrice di Casa Buonarroti per Michelangelo. «Per Leonardo il disegno è indagine scientifica, sperimentazione, esercizio intellettualistico. Per Michelangelo il disegno è trasfigurazione, progettazione simbolica» osservano i due studiosi. La rassegna aperta da oggi al 1 agosto (via Ghibellina 70, 10-17, chiuso martedì, 6,50 euro, 8 euro cumulativo con il complesso di Santa Croce, info 055-241752-www. casabuonarroti. it) anticipa quella che si terrà prossimamente a Roma ai Musei Capitolini, e nasce dalla collaborazione con MetaMorfosi, associazione di Pietro Folena, che per 6 anni ha l´esclusiva di organizzare eventi in Italia e nel mondo con il patrimonio di Casa Buonarroti. «Accordo che ci permette di incassare 180 mila euro all´anno, un terzo del nostro bilancio» ha spiegato il presidente della Fondazione museo Eugenio Giani.
Corriere Fiorentino 20.4.11
I due geni
Leonardo e Michelangelo: battaglie, nudi, volti, cavalli Le meraviglie nei disegni
di Valeria Ronzani
«La scuola del mondo» , sintesi mirabile che si deve a quel geniaccio di Benvenuto Cellini, racchiude in una frase una delle stagioni più stupefacenti dell’ingegno umano. La scuola del mondo è «il marchio di fabbrica» che Pietro C. Marani e Pina Ragionieri hanno voluto anteporre al titolo dell’esposizione alla Casa Buonarroti: Leonardo e Michelangelo Disegni a confronto. Dieci disegni di Leonardo e due di Giovanni Antonio Boltraffio, uno dei primissimi allievi di Leonardo, provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano coi suoi 2200 fogli è la più ricca collezione al mondo di autografi di Leonardo), a stretto contatto con dieci disegni del Buonarroti, cui Casa custodisce la maggior raccolta esistente di suoi disegni. Circa 200 fogli sopravvissuti, perché Michelangelo stesso, ce lo narra Vasari, sul finire dell’esistenza fece un gran falò di tutto quello che, ai suoi occhi, non appariva perfetto. Gettando nella costernazione pure il Granduca Cosimo I, che già assaporava di sfogare la sua brama collezionistica delle cui voglie frustrate fece le spese il povero Tommaso Cavalieri, il giovane amico a cui Michelangelo aveva donato un meraviglioso disegno raffigurante Cleopatra, costretto a «mollarlo» a Cosimo. Ciò non toglie che anche sul fronte michelangiolesco la mostra offre l’occasione di ammirare veri capolavori, ad iniziare dal celeberrimo Nudo di schiena, in cui è stato individuato uno studio precoce per una delle figure della Battaglia di Cascina. E qui si torna a quella «Scuola del mondo» di cui ragionava Cellini. Perché una vera scuola del mondo, che impresse la propria lezione agli artisti dei secoli a venire, furono quei due cartoni che Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti realizzarono per ottemperare alla commissione della Repubblica Fiorentina. Nel Salone dei Cinquecento, uno in fronte all’altro, a celebrare i fasti di quella piccola grande città che, cacciati i Medici, bruciato Savonarola coi suoi troppi rigori, aveva ricercato nel suo intermezzo di libertà la moderazione di un gonfaloniere come Piero Soderini. Che chiamò il genio affermato, Leonardo, e l’astro più che nascente, Michelangelo, a immortalare nel ricordo de La battaglia di Cascina (Michelangelo) e La battaglia di Anghiari (Leonardo) le glorie repubblicane. Come andò a finire è cosa nota; Michelangelo se ne andò a Roma lasciando le cose a mezzo (realizzò solo il cartone), Leonardo sperimentò, sperimentò, ma l’esperimento non andò a buon fine, e tutto, ma forse non tutto, si sciolse. Ecco che uno dei gialli più avvincenti dei nostri giorni è la caccia ad eventuali testimonianze sopravvissute, sulla parete già individuata, nel Salone dei Cinquecento. Di quei due meravigliosi progetti ci resta memoria attraverso studi preparatori, schizzi, autografi e non, o vere e proprie copie. In mostra, oltre al nudo di schiena, uno Studio di torso sempre per la Battaglia di Cascina, mentre sul fronte Leonardo un foglio del Codice Atlantico affianca un vibrante studio di cavallo rampante (legato alla Battaglia di Anghiari), con tutta l’instabilità e mobilità dell’animale, schizzato coi tratti di una morbida matita, a uno spettacolare disegno a penna e inchiostro di un tratto di mura merlate attraversate da una pioggia di proiettili. Le scelte operate da Pietro Marani vogliono dare un saggio delle diverse tecniche grafiche privilegiate da Leonardo nel corso della sua carriera. Così come i disegni che Pina Ragionieri ha scelto dal corpus michelangiolesco focalizzano alcuni momenti salienti della sua biografia, per chiudersi con un foglio ascrivibile agli ultimi anni dell’artista, uno studio di cavalli a matita nera, con tracce di matita rossa, quasi un ribaltamento della vulgata che vuole Michelangelo interessato solo agli uomini. La mostra è una sorta di preludio all’appuntamento autunnale ai Musei Capitolini di Roma, dove l’associazione Metamorfosi, che ha una partnership forte con Casa Buonarroti, organizzatrice dell’appuntamento fiorentino, metterà in piedi un’esposizione che dovrebbe proporre una settantina di disegni di Leonardo e Michelangelo. Stessi curatori, stessi partner istituzionali. Ma già nelle piccole stanze fiorentine gli stimoli si sprecano. Si vede come Leonardo, negli anni delle battaglie contrapposte, si avvicini al nudo eroico di Michelangelo. Relativizzando il celebre passo del manoscritto 8936 di Madrid, con l’allusione a figure come «sacchi di noci» per i troppi muscoli. Si respirano le stesse radici, ma si sintetizzano le radicali distanze, due visioni del mondo differenti» , nota la Ragionieri. E Marani chiosa: «Per Leonardo il disegno un’indagine scientifica, che si attiene sempre alla realtà, per Michelangelo è trasfigurazione, è già simbolico» .
Corriere Fiorentino 20.4.11
La coppia degli eterni rivali, che duelli nel Rinascimento
di Vincenzo Bonami
Immaginiamo una mostra dove la Monna Lisa è appesa su una parete davanti al David. Se questa mostra fosse possibile (perché no?) potrebbe sintetizzare perfettamente il rapporto fra Leonardo e Michelangelo. Chi era più bravo? Domanda oziosa. Essendo entrambi al di sopra di qualsiasi giudizio. Oggi. Ma quando erano vivi anche loro erano uomini. Anche loro, al di là del loro genio, avevano le debolezze degli altri esseri umani. Anzi di più perché gli artisti più grandi sono più insicuri della loro grandezza si dimostrano. Non solo gli artisti dell’arte ma anche quelli di ogni altra disciplina dove il talento ha la meglio spesso sulla volontà o l’intelligenza. Pep Guardiola e Mourinho, Bartali e Coppi, Federer e Nadal per fare solo dei nomi dello sport. Ma anche in letteratura o musica la rivalità e le gelosie sono all’ordine del giorno. Pensiamo al Salieri e al giovane Mozart. Gli artisti soffrono sempre quando davanti loro trovano un talento uguale se non più grande e peggio ancora se più giovane. È naturale. Non importa la dimensione dell’ego perché in un artista il demone dell’insicurezza si annida nella profondità dell’anima. Più uno è egocentrico, più uno è un grande artista, più uno è un genio, più sa capire quando davanti a se ha un rivale pericoloso e forse migliore. Matisse deve avere sofferto le pene dell’inferno davanti alla furia creativa di Picasso che da ogni scarabocchio poteva tirare fuori un capolavoro. Eppure Matisse è un gigante. Non importa. Jeff Koons è geloso di Charles Ray, lo scultore che ha creato il famoso ragazzo con la rana in cima a Punta della Dogana a Venezia. Eppure Koons è più ricco e famoso dell’altro. Non importa perché un artista sa quando un altro artista crea qualcosa di assoluto e superiore aldilà della fama e dei soldi. Ma torniamo al sorrisetto della Gioconda davanti agli attributi maschile del giovane David. Sorride la donna frigidamente davanti alla sensualità del bambinone. Sta qui la grande differenza fra due geni. Leonardo genio frigido Michelangelo genio sensuale. Leonardo deve aver sofferto le pene dell’inferno, lui cinquantenne, calcolatore, razionale, famoso, trovandosi davanti questo giovanotto, forse non bravo in matematica o ingegneria come lui, meno talentuoso come pittore ma certamente imbattibile sul piano dell’energia spirituale, emotiva e creativa. Leonardo morirà prima ma se fosse vissuto più a lungo davanti ad un capolavoro come la Pietà Rondanini, oggi al Castello Sforzesco di Milano, gli sarebbe venuto un disturbo nervoso. Leonardo era un calcolatore e come tutti i calcolatori quando sbagliava negava l’errore nascondendo l’evidenza. Michelangelo era un istintivo e come tutti gli artisti istintivi capaci di fermarsi prima di raggiungere la perfezione mostrando e accettando la meraviglia dell’imperfezione, che è poi quello che ci rende umani e meravigliosi al tempo stesso. Difficile emozionarsi davanti ad una tavola di Leonardo. Anche davanti all’Ultima Cena a Milano è più la mitologia e la storia dell’affresco che ci appassiona che l’anima del dipinto. Ma davanti alla scultura di Michelangelo, particolarmente quelle dove il genio e la tecnica cedono l’onore delle armi al tormento e al dubbio del nostro destino umano, è impossibile non essere sopraffatti dall’entusiasmo. Non è quindi una questione di chi fosse o chi sia il migliore. La questione è quella di osservare due modi completamente diversi di essere artisti. In Leonardo la tecnica deve essere al servizio delle idée e dei concetti. In Michelangelo tecnica e concetti sono solamente gregari delle idée e della passione. Leonardo come tutti i perfezionisti vuole dimostrare quanto bravo ed intelligente fosse. Per questo trovandosi a dover decidere della sorte del capolavoro del collega più giovane prova a mettergli i bastoni fra le ruote. Michelangelo non ha bisogno di dimostrare nulla. Sa che le sue opere parlano da sole, per questo davanti all’esamino pedante al quale è sottoposto il suo David s’arrabbia. Sa che è una questione di gelosia e non di logica la decisione di dove andrà a finire. Nella disputa fra Leonardo e Michelangelo c’è tutta la natura umana. La paura del vecchio che vede avanzare il nuovo e che irrazionalmente vuole bloccarlo pur sapendo che il futuro è inevitabile. Una parabola eccezionale per l’Italia di oggi dove i Leonardi, si fa per dire, usano qualsiasi mezzo per soffocare i Michelangioli, si fa sempre per dire, che scalpitanti voglio creare e trasformare.
Corriere Fiorentino 20.4.11
«Sciopero ad personam per il Primo Maggio» I sindacati: «Sì, è così»
Ma Cgil, Cisl e Uil oggi lo estenderanno a tutta la Toscana
di Federica Sanna
Il Primo Maggio sarà uno sciopero ad personam» per il sindaco Renzi. Vale dire contro di lui. «I sindacati della Toscana non lo hanno proclamato, anche se in tante città i negozi rimarranno aperti— dice— mentre a Firenze si farà contro il sindaco» . Così dopo la decisione presa da Cgil, Cisl e Uil, Palazzo Vecchio ha deciso di annullare l’incontro di ieri con le grandi catene di negozi, per prevedere la volontarietà nel giorno di festa. In serata Cgil, Cisl e Uil hanno stabilito di estendere lo sciopero a tutta la regione, l’ufficializzazione arriverà oggi. I sindacati fiorentini hanno indetto lo sciopero del Primo Maggio in risposta all’ordinanza del Comune, che permette ai negozi del centro storico di aprire. Una scelta presa nonostante la disponibilità data dal Comune a parlare con le categorie per concedere di dare libertà di decidere se lavorare o meno ai loro dipendenti. Risultato: «Lo sciopero rompe tutto — afferma il sindaco — qualche sindacato preferisce fare una frittata per poter cavalcare politicamente questa protesta e non risolvere davvero il problema» . Un’occasione persa secondo il sindaco: «Avevamo cercato di trovare un punto di equilibrio per quelle commesse che lavorano tutte le domeniche, volevamo invitare i grandi magazzini del centro a non farle lavorare, anche se hanno firmato un accordo che dice che devono farlo» . E ancora: «Avevamo proposto di far lavorare gli interinali per far diventare la festa del lavoro una festa di chi il lavoro non ce l’ha. Ma i sindacati si sono messi di traverso e a malincuore abbiamo rinunciato alla possibilità di accordo» . «Eravamo vicini a trovare una soluzione — aggiunge il vicesindaco Nardella— ma sono stati vanificati i nostri sforzi, questo sciopero ci lascia allibiti» . Per Palazzo Vecchio è impensabile che le migliaia di persone che arrivano a Firenze «trovino una città chiusa perchè nessuno può aprire» . Poi un messaggio ai lavoratori: «Alle commesse stufe di lavorare tutte le domeniche dico che è un problema di accordi sindacali firmati, non è un problema del Comune» . E aggiunge: «È una scelta fatta anche da tanti altri Comuni, non è un obbligo. Ma a Firenze siamo agli scioperi ad personam» . «È assolutamente vero che lo sciopero è rivolto contro di lui — ammette Barbara Orlandi della Cgil — perchè a lui avevamo chiesto di revocare l’ordinanza» . Intanto Confesercenti ha consegnato, ieri, una petizione di 150 firme di negozi che appoggiano la scelta di Palazzo Vecchio.
Corriere Fiorentino 20.4.11
«Commesse al lavoro? Tenga aperti gli asili»
di Claudio Bozza
Roberto Pistonina, segretario della Cisl di Firenze, il sindaco taccia la protesta unitaria dei sindacati per il Primo Maggio come uno sciopero «ad personam» . Che ne pensa? «Se Matteo Renzi ha deciso di esprimersi in questi termini sono problemi suoi. La Festa dei lavoratori, fino a quando c’era Leonardo Domenici, era una giornata intoccabile» . Il sindaco sostiene da sempre che non chiuderà mai la città per motivi ideologici. «Rispondo con una domanda: che motivo aveva di andare toccare una giornata del genere, colpendo una categoria, già fragilissima, come quella delle commesse? Tutti abbiamo molto da fare e certo non perdiamo tempo con scioperi "ad personam". Un sindacato deve difendere i diritti dei lavoratori, questo è il suo mestiere» . Non crede che il sindacato abbia perso rappresentatività e autorevolezza? «Noi siamo qui per regolamentare un rapporto di lavoro, non per accettare supinamente le decisioni del sindaco e ci batteremo con tutte le nostre forze. Ci sono quattro festività intoccabili: Natale, Pasqua, Primo dell’anno e Primo maggio. Renzi giustifica la sua decisione sventolando gli alberghi pieni e turisti che hanno necessità di avere le vetrine aperte? Allora tenga gli asili comunali aperti fino alle 21, per venire incontro a chi lavora fino a tardi» . I negozi di città come Siena e quelle della costa staranno aperte regolarmente. Perché per il Primo Maggio sciopererete solo a Firenze e non in tutta la Toscana? «Perché sono due anni che Renzi fa il sindaco e due anni che se ne esce con questa provocazione. Basta con la demagogia: non può venire a dire che ognuno può lavorare su base volontaria. Non è scelta opzionale. Vuol dire non conoscere il mercato del lavoro di questo Paese, specie se aspira diventare un leader nazionale del Pd. Il sindaco, che è di centrosinistra ma forse se lo è dimenticato, non capisce che le commesse e i commessi che hanno firmato contratti in bianco con le domeniche "obbligatorie"sono persone con l’acqua alla gola» . Ma si può scioperare in un giorno festivo? «Se qualcuno ti obbliga ad andare a lavorare sì. C’è una deroga del sindaco che ha legittimato i datori di lavoro e la proclamazione di questo sciopero è l’unica arma che abbiamo per difendere chi non ha quasi più diritti» . Dove sarà il Primo Maggio? «Sarò a fianco dei lavoratori, dopo il corteo di protesta stiamo organizzando un comizio conclusivo in piazza della Repubblica» . La questione Primo Maggio pare un collante con la Cgil. «Non voglio strumentalizzazioni. A livello nazionale ci sono frizioni evidenti, mentre a Firenze ci sono relazioni politiche che ci consentono di stringere intese unitarie: siamo sufficientemente intelligenti per trovare sintesi sulle questioni principali» .
Centrosinistra durissimo sul dietrofront del governo. Bersani: vogliono sfuggire ai referendum
«Solo un trucco contro il voto sul legittimo impedimento»
Un trucco, un colpo di mano per far saltare i referendum. Soprattutto quello sul legittimo impedimento. Opposizioni unite contro la mossa del governo. Bersani: fuggono dalle loro decisioni. ora risposte sulle rinnovabili.
di A.C.
Un colpo di mano, un trucco per far saltare il referendum, una truffa. Il centrosinistra boccia compatto la parziale retromarcia del governo sul nucleare. Tutti d’accordo, da D’Alema a Di Pietro, nel dire che il vero obiettivo di Berlusconi non è impostare una nuova e più moderna politica energetica. Ma tentare di far saltare il quorum del 12 e 13 giugno, per evitare che passi il quesito sul legittimo impedimento. «Il governo ha sfilato il nucleare non per l'incidente di Fukushima, di cui non gli importa niente, ma perchè si è reso conto che poteva fare da traino al referendum sul legittimo impedimento di cui a Berlusconi importa moltissimo», ha detto D’Alema. L'emendamento del governo, rincara Bersani, «è un pretesto, un tentativo di scappare dal confronto sul referendum ma è anche una sconfessione delle politiche del governo». Il leader Pd ricorda le dichiarazioni dei ministri dopo l’incidente in Giappone, il coro di conferme al programma nucleare, e sottolinea la «vittoria» di chi «già prima dell'incidente di Fukushima aveva messo in luce l'assurdità del piano così come il governo lo aveva concepito». «Scappano dalle loro stesse decisioni. Noi lavoreremo perché ci sia il quorum anche per gli altri referendum. Il governo non dice quale sia la politica energetica e, mentre si abbandonano i vecchi passi, si distruggono le politiche sulle rinnovabili». Oggi il leader Pd presenterà alla Camera un question time sulle rinnovabili: «Hanno sospeso tutto da un giorno all'altro con più di centomila occupati, soprattutto giovani, che rischiano il posto di lavoro. Vogliamo risposte».
Anna Finocchiaro parla di «confusione» e «malafede» della maggioranza». «Lasciano aperta la strada ad un eventuale ripensamento prossimo venturo sulla scelta nucleare, un’ambiguità inaccettabile». «L'ennesima truffa del governo agli italiani», attacca Di Pietro. «La paura fa novanta, ma questo gioco sporco è scoperto. O dicono esplicitamente che il nucleare non lo vogliono più o si vota». Per questo Di Pietro presenterà un ulteriore sub-emendamento «per l'abrogazione totale della legge sul nucleare». «Siamo alle comiche finali, hanno paura della democrazia», dice Nichi Vendola. «Sono dei banditi che utilizzano il potere per impedire la partecipazione popolare di cui hanno paura», rincara il leader del Prc Paolo Ferrero. «È una finta ritirata», avverte il presidente dei Verdi Angelo Bonelli. «Il governo non ha assolutamente cambiato idea sul nucleare. Come mai, infatti l'Agenzia guidata da Veronesi rimane operativa e non viene soppressa?».
L’ULTIMA PAROLA ALLA CASSAZIONE
Sarà l'ufficio centrale della Cassazione a dire l’ultima parola. La Suprema Corte, spiega il presidente emerito della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, dovrà infatti stabilire se l'abrogazione delle norme sulla realizzazione di nuovi impianti nucleari sia «sufficiente nel senso richiesto dai promotori del referendum». Nel caso in cui la Cassazione dovesse ritenere che l'emendamento del governo al decreto omnibus soddisfi solo parzialmente le richieste dei comitato promotore, la consultazione del 12 e 13 giugno si terrebbe lo stesso, anche se con un quesito «ristretto». Anche in caso di responso negativo della Cassazione, i promotori, spiega Stefano Ceccanti del Pd, potrebbero comunque fare ricorso alla Corte Costituzionale.
l’Unità 20.4.11
Occupazione giovanile
Troppi laureati. La favola reazionaria del ministro Tremonti
I ragazzi italiani con laurea sono il 19% Nella Ue il 30%
di Pietro Greco
È una favola. Reazionaria. È una favola quella che in questi giorni vanno raccontando non solo il (recidivo) ministro dell’Economia, ma anche sociologi ed economisti di grande notorietà, secondo cui nel nostro Paese ci sono «troppi» laureati e che un giovane italiano su tre è disoccupato perché, a causa della sua cultura, rifiuta il lavoro manuale. Che, invece, ci sarebbe.
Basta fare una banale analisi comparata – sulla base di dati dell’Ocse o di Eurostat – per verificare, invece, che è esattamente il contrario. In Italia i laureati sono troppo pochi: appena il 13% della popolazione tra i 25 e i 64 anni. Contro il 24% della Germania, il 26% della Francia, il 28% della Spagna, il 31% della Gran Bretagna. Anche i giovani laureati sono troppo pochi: i ragazzi italiani di età compresa tra i 25 e i 34 anni con la laurea sono il 19%, contro il 30% degli altri Paesi europei e il 60% della Corea del Sud. Non è vero che la laurea è un fattore frenante dell’economia. Nel 1980 la Corea vantava una percentuale di laureati (meno del 10%) inferiore a quella italiana (poco più del 10%) e un reddito procapite pari a un quarto di quello italiano. In 30 anni la ricchezza in Corea è aumentata a una velocità superiore a quella di ogni altro Paese al mondo (esclusa la Cina) e 4 volte superiore a quella dell’Italia: tanto che oggi il reddito medio pro capite di un coreano ha superato quello di un italiano. Ciò è avvenuto anche perché Seul ha puntato come nessun altro su una cultura universitaria di massa: oggi la Corea detiene il record mondiale di laureati tra i suoi giovani.
Siamo, infatti, entrati nella società e nell’economia della conoscenza. E la Corea lo ha capito prima e meglio degli altri. Ma non si tratta di un pensiero economico isolato, se l’Unione europea invita i suoi stati membri a raggiungere almeno il 40% di giovani laureati. Tutti gli altri Paesi dell’Europa (e del mondo) si stanno adeguando, solo da noi il numero di iscritti all’università diminuisce: proprio come chiede (e non solo a parole) Tremonti.
I laureati italiani, dunque, non sono troppi. Sono troppo pochi. Ma anche l’altra parte della narrazione è una favola senza agganci con la realtà. Un recente rapporto di Alma Laurea dimostra sia che l’occupazione tra i laureati (77%) è più alta che tra i diplomati (66%), sia che lo stipendio medio di un laureato anche in Italia è del 55% superiore a quello di un diplomato. Quindi se avete dei figli, malgrado tutto, fateli laureare.
Ma perché è reazionaria, la favola di Tremonti? Per due motivi. Perché prefigura un’Italia ottocentesca, con il lavoro intellettuale destinato a pochi ricchi e il lavoro manuale a bassi salari per tutti gli altri. Ma soprattutto perché un’Italia così sarebbe fuori dall’economia della conoscenza – l’unica possibile, oggi – e dunque sarebbe destinata a un declino economico, oltre che sociale, civile, ecologico, ancora più profondo di quello attuale.
l’Unità 20.4.11
«Duello» fra il presidente del Copasir e il direttore di MicroMega: «Se Berlusconi vince, colpa vostra»
All’Alpheus si è d’accordo solo un fatto: «Se il Cav va al Quirinale è una tragedia per la democrazia»
D’Alema a Flores: «La tua è vecchia logica stalinista»
Botta e risposta ieri a Roma tra Massimo D’Alema e Paolo Flors D’Arcais. Il direttore di Micromega: «La forza di Berlusconi deriva della debolezza dell’opposizione». La replica: «Logica stalinista».
di Maria Zegarelli
Scintille tra Massimo D’Alema e il direttore di Micromega Paolo Flores D’Arcais nel corso di in un confronto pubblico su «Come liberare l’Italia», ovviamente da Silvio Berlusconi. «La sua forza gli deriva dalla debolezza dell’opposizione e penso che ogni giorno c’è qualcosa che non si fa», incalza il filosofo. Dal conflitto di interessi, a leggi contro «l’ostruzione della giustizia, la falsa testimonianza» ai manifesti di cui le città non vengono tappezzate per denunciare i provvedimenti ad personam, le notti bravi con le minorenni... D’Alema ascolta, ogni tanto gli sfugge una smorfia, prende la parola e non usa il fioretto: «Dire che Berlusconi vince perché è colpa dell’opposizione è una forma logica tipica dello stalinismo, profondamente radicata nel subconscio della sinistra. Non si offenda Flores anche perché la sua storia va in un’altra direzione, ma quello che manca in Italia è la forza della maggioranza, Helmut Khol si è dimesso perché glielo ha imposto il suo partito non la minoranza». Flores: «Faccio finta di non aver sentito la parola stalinismo». D’Alema: «ma era un paradosso». Silenzio di sorpresa nella sala dell’Alpheus.
LA GRANDE ALLEANZA
Su una cosa però sono d’accordo: se Berlusconi dovesse vincere ancora una volta le elezioni scatterebbe «un allarme gravissimo per il paese» perché «si voterà anche per il Quirinale e potrebbe aprirsi uno scenario preoccupante. Il bunga-bunga al Quirinale porterebbe al disgregarsi della coscienza civile del Paese», dice il presidente del Copasir mentre Flores prevede lo stravolgimento della Corte Costituzionale e della stessa Costituzione. Per il resto, se la diagnosi sul male è concorde è sulla cura che i due si dividono. «Occorre andare ad elezioni aprendo la coalizione alle liste civiche,dei senza partito, perché è l’unico modo per intercettare chi non vota o non sa cosa votare. Si deve combattere l’antipolitica e dare vita a primarie vere aperte a tutti», prescrive il filosofo. «Nessuna preclusione alle liste civiche, non l’abbiamo mai fatto e mi risulta che ci siamo aperti anche troppo l’ultima volta che abbiamo vinto le elezioni replica il leader Pd -. C’è bisogno di una grande alleanza per risolvere e affrontare i problemi del paese, dal riordino del sistema democratico, puntando ad un bipolarismo maturo, ad una vera e propria fase costituente. Ma c’è bisogno anche di grande responsabilità e disciplina politica tra chi entrerà nella coalizione e in passato di disciplina ce ne è stata poca». Un’alleanza allargata oltre il confine della sinistra, ma mai più «voglio dover sudare per conquistare il voto di un Rossi o di un Turigliatto di turno sulla missione dell’Italia in Libia». Insomma, le grandi ammucchiate no, il centrosinistra ha già dato. E no anche alle leggi «punitive» contro il premier, né «facendo un manifesto per dire che va con le prostitute», come invece propone il direttore di Micromega, non è così «che si vince», ma «con un programma per far ripartire il Paese». Sguardo desolato quello che rimanda il presidente del Copasir quando osserva che «Berlusconi non è stato un incidente di percorso la risposta non è una parentesi, ma è un fenomeno più profondo, è una espressione di questo Paese». Il direttore de l’Espresso Bruno Manfellotto, coordinatore, chiede quali sono i tempi della «liberazione». «Oggi il 60% dell’opinione pubblica non è più con lui ragiona D’Alema .Non è un caso se noi vogliamo andare alle elezioni e lui no: sa che le perde». Ma per il voto anticipato deve cadere la maggioranza in parlamento. Oppure, «se ci fosse un risultato clamoroso, in particolare al Nord, questo potrebbe aprire la crisi del governo. Noi ci impegneremo». E forse sì è a Milano che Berlusconi si gioca la partita della vita.
il Fatto 20.4.11
L’incontro con Flores D’Arcais
E D’Alema confessò: L’importante è non vincere le elezioni
di Wanda Marra
“Ho perso la speranza”. Allarga le braccia a un certo punto, Bruno Manfellotto, direttore dell’Espresso, che modera il dibattito tra Paolo Flores d’Arcais e Massimo D’Alema, ieri pomeriggio all’Alpheus di Roma. In effetti, difficile trovare punti di mediazione tra un esponente di punta della società civile e un pezzo grosso della politica-politica italiana. E se il Lìder Maximo arriva a dare dello “stalinista” al suo interlocutore, l’altro lo ripaga ricordando la bicamerale come l’inizio della “no opposizione”. “Non condivido la sua analisi”, ammette alla fine D’Alema (“nonostante la mia simpatia per Paolo”). E la parola “condivisione” a chi ha assistito al dibattito sembra un obiettivo molto lontano. L’occasione dell’incontro era la presentazione del numero di Micromega dedicato a “Berlusconi e il fascismo”. In realtà l’oggetto diventa il ruolo della sinistra (anzi delle sinistre) di fronte al berlusconismo. Fa fresistenza D’Alema. “Se si fosse capito che le liste civiche sono essenziali non saremmo arrivati a questo, perché Prodi avrebbe avuto anche al Senato quei 50 voti di vantaggio che gli avrebbero consentito di governare senza ricatti. É necessaria dunque una coalizione ampia con quante più liste civili possibili”, attacca il direttore di Micromega. Risponde l’altro: “Non mi pare di ricordare che nel 2006 abbiamo escluso qualche lista civica. Direi che abbiamo accettato tutto, anzi troppo”. E poi “anche una lista civica, nel momento in cui si presenta alle elezioni, diventa una formazione politica. E se non ha una disciplina politica diventa pericolosa. Una parte grande della sinistra italiana non è stata educata alla prova del governo. Io a combattere con un senatore Rossi o un senatore Turigliatto di turno sulla politica estera non mi ci voglio più trovare”. Poi, sposta il discorso: “Dobbiamo mettere insieme un’alleanza ampia non per vincere le elezioni, ma per governare” (anche se a chi gli aveva chiesto cosa pensasse delle affermazioni di Asor Rosa aveva replicato che “per liberarsi di Berlusconi sarà sufficiente il voto”).
PERCHÉ “il ventre è sempre grande, Berlusconi è il prodotto della società italiana”. Non si lascia inchiodare D’Alema da Manfellotto che gli chiede tempi e strumenti per mandare a casa il Caimano: “I tempi sono quelli costituzionali, a meno che il governo non cada”. Strategie? “Non ho nessun piano segreto. E pure se ce l’avessi, certo non ve lo direi”. È a questo punto che il dibattito s’impenna. S’infervora Flores, assume toni da comizio: “Si parla del dopo Berlusconi come se fosse un dato ovvio. Ma se vince le prossime elezioni ce lo troviamo al Quirinale”. Attacca senza mezzi termini: “Il regime è tale perché l’opposizione non fa nulla”. Ribadisce la gravità degli attacchi ai magistrati e ricorda l’importanza di ripristinare reati come falsa testimonianza e falso in bilancio. Propone di nuovo l’Aventino dei parlamentari, si lamenta del fatto che in occasione del baciamano di Berlusconi a Gheddafi il centrosinistra non abbia riempito le città di manifesti. Sbuffa D’Alema, mantiene la calma. Ricorda con il suo sorriso più sprezzante che la politica non si “fa con i manifesti”. Strappa risate e applausi alla platea. Ci va giù pesante: “È tipico dello stalinismo dire che il tuo avversario ha vinto perché uno dei tuoi ha tradito”. Si lancia in un’analisi teorico-sociale quando parla dell’etica della classe dirigente italiana che è manchevole. Se la prende con la stampa borghese che mentre si vota la prescrizione breve disquisisce della responsabilità dei politici. Pur non risparmiando gli affondi: “Berlusconi con una mossa estremamente disinvolta, che dimostra che siamo governati da gente improbabile, ha cancellato il nucleare, che costituiva il 50% del suo programma, perché temeva che il referendum abrogativo potesse avere un effetto trainante su quello sul legittimo impedimento”. E poi, è vero, “il paese può tenere pure con lui presidente del Consiglio, ma il bunga bunga al Quirinale comporterebbe la disgregazione della convivenza civile”.
Flores non ci sta. E a questo punto ricorda la Bicamerale (“avrei voluto parlare del futuro, non del passato”), come inizio dell’opposizione che non si oppone. Quasi non vuole rispondere D’Alema. Poi fa un sospiro profondo (d’altra parte era palesemente arrivato col ramoscello d’ulivo) e propone: “Voglio parlare di contenuti. Tu hai una rivista molto importante, Micromega. Io ho Italianieuropei”. Finisce così, con la tregua delle riviste. Mentre D’Alema se ne va, qualcuno lo insegue urlandogli: “Puzzi di muffa”.
Corriere della Sera 20.4.11
Il Pd: è l’unica via d’uscita. Per Ferrara c’è «aria di elezioni»
Dal premier ai Democratici Il partito del voto anticipato Le urne Gli scenari I casi dagli anni 90
di Maria Teresa Meli
Le invoca Rosy Bindi: «La cosa migliore per il Paese sarebbe andare al voto» . Le evoca Silvio Berlusconi: «C’è da chiedersi se non gioverebbe andare a votare» . Le elezioni— quelle politiche, non le amministrative di maggio. tornano alla ribalta. E si profilano come un possibile sbocco autunnale. Il presidente del Consiglio lascia intendere ai fedelissimi che si potrebbe andare alle urne tra ottobre e novembre. Sarebbe un’ipotesi da non trascurare, a suo giudizio, nel caso in cui «si vinca a Milano e Napoli» . La vittoria in quelle due città, è il ritornello che Berlusconi ripete in questi giorni ai suoi interlocutori, «va ottenuta a tutti i costi» perché «metterebbe a tacere Fini, i malumori della Lega e le fibrillazioni del Pdl» . Non solo: «rappresenterebbe una risposta» anche nei confronti di Giorgio Napolitano. Di quel Napolitano che vorrebbe andare fino in fondo sulle questioni sollevate in questi giorni, perché delle due l’una: o il premier non ha detto il vero quando ha sostenuto che un magistrato gli ha riferito del patto segreto tra il presidente della Camera e l’Anm, e la cosa non può non avere conseguenze, o quel che ha affermato corrisponde alle realtà e quindi toccherebbe a Fini pagarne il dazio. Dunque, dopo un successo elettorale a Milano e Napoli il centrodestra potrebbe pensare ad andare alle urne per sparigliare tutti i giochi. Speculare il ragionamento che viene fatto nel Partito democratico. Massimo D’Alema si incarica di illustrarlo: «Se ci fosse un risultato clamoroso alle amministrative, specialmente al Nord, questo potrebbe aprire la crisi del governo» . E portare alle elezioni politiche, che restano sullo sfondo anche per il Pd. Come dice esplicitamente il vice segretario Enrico Letta: «Noi vogliamo il voto anticipato» . È «l’unica via d’uscita» — ribadisce il presidente del Copasir. Anche il moderato Pier Ferdinando Casini, d’altra parte, la pensa così: «In una situazione come questa sarebbe doveroso restituire la parola agli elettori» . Pure Il Foglio di Giuliano Ferrara ieri, in prima pagina, adombrava la possibilità di uno scioglimento anticipato della legislatura e titolava in questo modo: «Tira aria di elezioni» . Tant’è vero che torna a rimbalzare nei palazzi della politica la voce secondo cui il capo dello Stato, di fronte a una situazione bloccata e all’impossibilità di mandare avanti l’attività parlamentare in modo proficuo, potrebbe accelerare sullo scioglimento. Voce, questa, che viene smentita al Quirinale ma che, ciò nonostante, continua a circolare: segno della difficoltà dell’attuale frangente politico e dell’impazzimento della situazione. Indiscrezioni, «rumors» , espedienti propagandistici o minacce che siano, le notizie che accreditano la possibilità di un precipitare degli eventi politici sono inevitabilmente e indissolubilmente legate all’avvicinarsi del voto amministrativo di maggio. L’approssimarsi di questa competizione elettorale accende i toni e rende più aspro lo scontro. Berlusconi si sta spendendo in prima persona, ci ha messo come si suol dire la faccia, presentandosi come capolista sia a Milano che a Napoli, convinto com’è che politicizzare quel voto sia per il centrodestra un’arma vincente. Il Pd ha fiutato la trappola e per questo motivo il segretario Pier Luigi Bersani continua a ripetere che quelle elezioni «non saranno un referendum su Berlusconi sì, Berlusconi no, ma rappresenteranno una scelta per le città e per il Paese, perché non se ne può più di parlare dei problemi del premier, è ora di parlare dei problemi della gente» . Però la tentazione di mandare l’avversario al tappeto è forte e il leader del Pd non riesce a sottrarsi completamene alla sfida lanciata dal presidente del Consiglio: «Berlusconi dice che è un test nazionale? Se ci cerca, ci trova. Sono ottimista sulle amministrative, in particolare per Milano» . Già, perché il sogno del Partito democratico è quello di riuscire a espugnare una città roccaforte del centrodestra e nel contempo far cadere il governo (la Lega ha già fatto sapere che se si perde nel capoluogo lombardo crolla tutto). Quindi Bersani tenta di galvanizzare gli elettori per mandarli a votare. Certo, così facendo c’è il rischio di risvegliare anche quelli di centrodestra e di ridurre le sacche d’astensione da quella parte, ma evidentemente secondo Bersani è un rischio che vale la pena di correre.
Corriere della Sera 209.4.11
«Direttore a 87 anni? Sì. E orienterò la politica»
Macaluso, ex pci, guiderà «Il Riformista»: sarà una faticaccia, volevo sfilarmi ma si sono impuntati
di Fabrizio Roncone
«E va bene, d’accordo... la facciamo, questa intervista, la facciamo... però, prima, dobbiamo intenderci, eh?» . Su cosa, direttore? «Dico: non è che il sottoscritto, Emanuele Macaluso, è così imbecille da non capire che la situazione è complessa, e che rimettermi a fare il direttore di un giornale, nel caso specifico de Il Riformista, a 87 anni, sarà una faticaccia notevole...» . È anche un bella sfida. Guidasti «L’Unità» una trentina d’anni fa e... «Senti: sarà anche, come dici tu con un po’ di retorica, una bella sfida. Ma vuoi la verità? Beh, la verità è che per far ripartire questo giornale, un po’ tutti, ad un certo punto, hanno concordato sul mio nome. Io avrei voluto sfilarmi, ma quelli, niente: si sono impuntati» . Serviva... «Dai, è facile: gli serve uno in grado di garantire, per un certo periodo, linea politica ed editoriale. Punto» . Gli Angelucci sono fuori. «Gli Angelucci sono usciti, accollandosi tutti i debiti. Noi prendiamo la testata libera e pulita» . Noi chi? «Noi che siamo nella cooperativa de Le ragioni del socialismo, la rivista che io già dirigo e che è sempre stata titolare del finanziamento pubblico. Per adesso siamo soli in questa avventura. Ma è chiaro che speriamo presto di essere in buona compagnia con altri finanziatori» . Il presidente della cooperativa è Gianni Cervetti, 77 anni, altro ex grande dirigente comunista di area «migliorista» . «E allora?» . C’è curiosità sulla linea politica. «Io voglio fare un giornale libero, senza partiti di riferimento. Anzi: io immagino che possa essere Il Riformista a determinare un po’ della politica italiana» . Mi stai dicendo che non avrai rapporti con il Pd? «Rapporti? Sentimi bene: io non sono iscritto al Pd. E sai perché? Perché io ero contrario alla sua fondazione. Tanto contrario da scriverci su un libro: Al capolinea. Solo che alla fine il Pd ce lo ritroviamo ugualmente, e però lo vedi anche tu cos’è, no? Non ha una base politico culturale, non ha regole...» . Mi sa che vuoi dargli una mano. «Beh, senti cosa ti dico: io non giocherò né allo sfascio del Pd, né inseguirò le sue fortune. Cercherò invece di lavorare per dargli un’amalgama» . Spiegati: a chi ti rivolgerai? «Io voglio un giornale che stia nella tradizione riformista della sinistra italiana, pensando alla sinistra cattolica e poi al grande mondo dei sindacati, delle cooperative, del volontariato...» . Cosa pensi di Bersani? «Penso che eserciti il suo ruolo con dignità e onestà. È la struttura del partito che non tiene. Ti sarai accorto che non sono in grado di fare una battaglia sul testamento biologico solo perché c’è un pezzo di partito che sta lì, minaccioso, con le valigie pronte» . Quanto pesa D’Alema? «D’Alema è una personalità del partito, ma non è lui, se è questo che vuoi farmi dire, il problema. Il guaio del Pd è l’assenza di fondamenta. Per questo non riesce a darsi una leadership » . Immagino non ti piaccia Renzi, il «rottamatore» dei vecchi. «Renzi dovrebbe capire che a casa ti manda il popolo, il voto, gli iscritti ti mandano a casa, non uno che al mattino s’è svegliato un po’ storto...» . Berlusconi. «Eh... Potremmo parlarne per ore, ma voglio dirti una cosa a cui tengo: non mi piacciono i magistrati, come il procuratore aggiunto di Palermo Ingroia, che salgono sul palco insieme ai leader di partito a fare comizi sulla giustizia. I loro comizi, purtroppo, aiutano Berlusconi a sostenere che la magistratura fa politica» . Da Antonio Polito erediti una redazione irriverente, di talento. «Lo so, e questo mi conforta. Ho chiesto a Stefano Cappellini, che ha diretto il giornale nell’ultimo periodo, di restarmi al fianco. Io mi porterò solo un altro vice» . Il primo editoriale, quando? «Forse il Primo Maggio, in omaggio al mio passato da sindacalista» . (Nella segreteria del Pci con Togliatti, Longo e Berlinguer. Deputato e senatore. Amico personale del presidente Giorgio Napolitano).
il Fatto 20.4.11
Golpista sarà B.
Asor Rosa: “Vi spiego il mio colpo di Stato”
di Luca Telese
Asor Rosa dopo la provocazione: “Usano le urne come una clava contro la democrazia”
Ha innescato un putiferio pubblicando su Il Manifesto una proposta-choc: per risolvere l’anomalia di Silvio Berlusconi – sostiene – sarebbe salutare “un intervento dell’Arma dei carabinieri”. Di più: occorre un golpe costituzionale a difesa della democrazia. Subito dopo si è corretto. Non certo per fare marcia indietro, quanto per cesellare un ironico addendum: “Non vorrei in nessun modo escludere da questa importante missione guardie forestali e polizia”. Ieri ha sparato un’altra pallottola: un editoriale al curaro in cui articola con maggior forza la sua analisi, aperto da un tributo sarcastico: “Grazie presidente! Grazie Silvio Berlusconi!”. Motivo? “Mi ha fatto capire che le cose non stavano come scrivevo nell’articolo. Ma molto peggio”. E così (mentre si gode una vacanza pasquale fuori Roma) il professor Alberto Asor Rosa non molla. Da giorni è finito nel mirino del Foglio che – ogni mattina – gli dedica un editoriale o un corsivo di fuoco – e lo definisce “un golpista radical chic”. Il professore inizia l’intervista all’insegna dell’ironia, non risparmia analisi caustiche su Giuliano Ferrara, paragona la sua polemica, “Agli strumenti classici del totalitarismo novecentesco. Quello che punta alla distruzione della persona piuttosto che alla contestazione delle loro idee”.
Professor Asor Rosa, anche oggi il Foglio parla di lei, è divertito o preoccupato?
(Sorriso imperturbabile). Preoccuparmi non posso.
Eccesso di sicurezza?
No: nella località italiana in cui mi trovo non arriva una copia del Foglio. Se in questi giorni non risponderò per le rime, non sarà per noncuranza, ma per ignoranza: non posso leggerlo.
Però ha letto i primi fondi in cui viene definito “golpista”.
Era una reazione che avevo messo in conto.
Ovvero?
Prevedevo delle reazioni, anche violente. Ma non immaginavo che l’armata dei sicari del regime scendesse in campo in maniera così compatta e ossessiva.
Si è dato una spiegazione?
Oh, ma è semplice! C’è una necessità “tecnica” di far fuori chi resiste al berlusconismo.
Lei è accusato, dalla destra, di non rispettare il voto delle urne.
Direi il contrario. Si utilizza il verdetto delle urne come una clava per rovesciare le leggi della democrazia.
Ferrara dice: c’è una pattuglia di intellettuali di sinistra radical chic che disprezza il voto popolare.
Si sbaglia: non so se sono chic, ma di sicuro non disprezzo quel voto. Disprezzo chi lo usa per i propri interessi contro la democrazia.
La black list di Ferrara: Scalfari, Zagrebelsky, la Spinelli e poi lei.
È una bellissima compagnia. Preferibile a quella del suo estensore, non trova?
Come si spiega la durezza di questa polemica?
Si punta a distruggere i centri che fanno resistenza al potere del principe. Primo obiettivo fare a pezzi la magistratura. Secondo bersaglio la scuola pubblica. Terzo, “gli intellettuali”. Mi chiedo: dov’è la stampa moderata?
Un vignettista con un passato extraparlamentare, Vincino, l’ha definita “Alberto Asor Rosa dei venti”, in un gioco di parole che evoca il golpista Amos Spiazzi e la sua rosa dei venti.
Anche molti amici di sinistra si sono risentiti: dagli anni Settanta persiste una certa diffidenza nei confronti delle istituzioni di polizia.
Lei non ce l’ha, invece?
Direi che negli ultimi 20 anni le forze dell’ordine hanno fatto il loro mestiere con un rigore molto maggiore di quello della politica. Il cuore della mia provocazione era tutto qui.
Ferrara dice che lei è intriso della cultura massimalista di Potere Operaio.
Peccato che io non abbia mai fatto parte di Potere Operaio.
Siete stati insieme nel Pci.
Ricordo un giovanissimo Ferrara: un ragazzotto che si aggirava per i corridoi dell’Università di Roma negli anni caldi.
È stato un suo studente?
Come si può facilmente dedurre, no.
Le ruggini di oggi si innestano su contese antiche?
Guardi, sinceramente non mi ricordo nulla di quel Ferrara. Mai che abbia scambiato una parola con lui ricavandone una impressione.
Possibile?
(Sorriso). Se non è possibile, evidentemente devo averlo rimosso. Non ho mai avuto il piacere di frequentarlo. Ha visto i suoi toni?
Lei considera questa polemica un lavoro da sicari, però. Non è un giudizio tenero.
Senta, Ferrara è uno che ha rinnegato il suo passato per intraprendere carriere prestigiose al servizio del potente di turno.
Gli dà del rinnegato?
Non è un insulto, è una constatazione per così dire, biografica. Anche se da questa campagna si può notare che non si è affrancato del tutto.
Cosa vuol dire?
La componente dell’ingiuria personale, in questi giorni fortissima, è un retaggio evidente di quella componente comunistico-staliniana del Ferrara giovane.
Lei era nella sinistra comunista, lui un amendoliano...
E filosovietico. Sono radici diverse: la tecnica della repressione delle opinioni libere e critiche, il tormentone del disprezzo antintellettuale accomuna, nel Novecento, i tre totalitarismi.
Anche lei però personalizza.
No, io faccio un’analisi. Vede, la scuola pubblica, con tutti i suoi difetti, è il tessuto fondamentale della nostra unità democratica. È ovvio che chi vuole demolire questa democrazia inizi da lì. E parte dai professori per passare ai libri di testo.
Se Ferrara sta dalla parte del Potere, lei dove sta?
Vede, io sono un pensionato dello Stato che quindi difende, con una qualche riconoscenza, il soggetto che gli fornisce i mezzi di sostentamento.
Corriere della Sera 20.4.11
Slitta l’esame del biotestamento. Nuovo scontro alla Camera
L’ira di Sacconi
di Lorenzo Fuccaro
Sul biotestamento scontro alla Camera tra maggioranza e opposizioni, con il governo che, per bocca di Maurizio Sacconi (ministro del Welfare), auspica «il più tempestivo esame del disegno di legge nella convinzione che il Parlamento non possa abdicare al suo ruolo in favore del ruolo creativo dei segmenti ideologizzati della magistratura» . Il nuovo braccio di ferro scoppia in seguito alla decisione del presidente della Camera, Gianfranco Fini, di confermare nella conferenza dei capigruppo il calendario della precedente riunione in base al quale il disegno di legge sul fine vita era posto all’ultimo punto dell’ordine del giorno, una decisione alla quale si è giunti in assenza di un accordo tra opposizione e Pdl, Lega nord e Responsabili. La maggioranza, invece, ha insistito nella richiesta di anticipare alla prossima settimana l’esame in Aula del provvedimento. E così le norme che hanno già ottenuto il via del Senato all’indomani dell’emozione provocata dalla morte di Eluana Englaro saranno discusse soltanto il prossimo mese di maggio. Il motivo, secondo quanto è stato fatto trapelare dall’entourage di Fini, dipende dalla decisione del governo che ieri ha trasmesso il Documento di economia e finanza (Def) (ha precedenza assoluta dovendo essere votato entro la fine di aprile), costringendo così il presidente della Camera a riunire subito la conferenza dei capigruppo per fissare i tempi della discussione. In quel contesto Pdl, Lega nord e Responsabili hanno proposto di esaminare nel corso della prossima settimana anche il biotestamento, cosa che non è stata accolta dalle opposizioni e così, mancando l’unanimità, Fini ha confermato il calendario dei lavori precedentemente fissato. «Ormai è cosa fatta— dice il capogruppo del Pd, Dario Franceschini—. Il Pdl e la Lega nord vogliono solo fare campagna elettorale su temi che andrebbero discussi in un clima di confronto pacato. Portarlo in Aula in campagna elettorale fa semplicemente orrore» . Gli fa eco Benedetto della Vedova (Futuro e libertà): «Vogliono fare campagna elettorale sulla pelle dei malati e delle famiglie» . La scelta, però, irrita non poco i gruppi di maggioranza al punto che Marco Reguzzoni (Lega nord) obietta: «Un argomento del genere non può stare fermo anni, ma ovviamente Fini ha dato ragione alle minoranze. E l’Udc, che in un primo momento con Pier Ferdinando Casini aveva chiesto di accelerare, oggi (ieri, ndr) si è schierata con l’opposizione» . Non solo. Reguzzoni coglie dietro l’escamotage tecnico-procedurale un risvolto politico e, proprio per questo, una sorta di contraddizione nel campo dell’Udc. «C’è — argomenta — una volontà politica manifesta di non fare approvare la legge. Insomma, l’Udc dice una cosa fuori e ne fa un’altra nei palazzi» . Questa sottolineatura — come la presa di posizione del ministro Sacconi che denuncia «gli evidenti tentativi di dilazionare sine die l’esame della legge» — fa scattare Luciano Galletti, che in una lettera a Fini annuncia la disponibilità dell’Udc a «lavorare ad oltranza» . E Casini, respingendo le obiezioni di Sacconi e Reguzzoni, chiarisce: «Sul biotestamento non accetto speculazioni da parte di nessuno, tantomeno da chi ha presentato in ritardo il Def, obbligando la Camera ad anteporlo ad altri argomenti in discussione» . E preannuncia, venendo così incontro alla pretesa della maggioranza, che «la prossima settimana chiederò l’inversione dell’ordine del giorno alla Camera e l’esame immediato di quella legge» .
La Stampa 20.4.11
L’intervista a Benedetto XVI verrà trasmessa il Venerdì santo
Il papa in tv, l’anima e lo stato vegetativo
di Andrea Tornielli
Le persone che vivono in stato vegetativo percepiscono l’amore di chi li circonda. E l’anima di coloro che si trovano in questa condizione non si stacca dal loro corpo. Lo dirà Benedetto XVI nell’intervista trasmessa da «A Sua immagine» su Raiuno il pomeriggio del 22 aprile, Venerdì santo, rispondendo alla domanda della madre di Francesco Grillo, un giovane di Busto Arsizio affetto da sclerosi multipla e da due anni in coma. La donna ha chiesto al Papa: «Dove si trova l’anima di mio figlio?».
Per la prima volta un Pontefice partecipa a un programma televisivo e affronta quesiti raccolti tra i fedeli. Nel giorno in cui la Chiesa rivive la passione di Gesù, Ratzinger parlerà della sofferenza, del dramma del dolore innocente, delle difficoltà dei cristiani perseguitati.
L’intervista, programmata da tempo, è stata realizzata da Rosario Carello, il conduttore di «A Sua immagine» ed è stata registrata lo scorso venerdì in Vaticano, nella biblioteca del palazzo apostolico.
Inizialmente era stato annunciato che il Papa avrebbe risposto a tre soli quesiti sul suo nuovo libro dedicato a Gesù. Visto l’interesse suscitato dall’iniziativa e il numero considerevole richieste raccolte dalla redazione – ne sono arrivate oltre duemila – gli è stato proposto allungare i tempi e di allargare l’orizzonte. Lui ha accettato, mostrando ancora una volta di non volersi sottrarre alle domande più spinose e all’occhio della telecamere. L’intervista tv arriva pochi mesi dopo quella realizzata dal giornalista tedesco Peter Seewald e trasformata nel best seller Luce del mondo.
La domanda sull’anima di chi vive in stato vegetativo, registrata dalla madre di Francesco Grillo accanto al letto del figlio assistito all’ospedale della Fondazione Raimondi di Gorla Minore, è stata la più toccante. Maria ha chiesto a Benedetto XVI se l’anima di Francesco abbia già abbandonato il suo corpo o sia ancora accanto a lui, malgrado la sua condizione di incoscienza.
Il Papa teologo ha spiegato che l’anima non abbandona il corpo, anche se la persona è in stato di incoscienza. Ma ha insistito sul fatto che le persone in coma, anche quelle che vivono in questo stato da molti anni, possono percepire l’amore, l’affetto, l’attenzione di chi sta loro intorno. Un affetto con il quale Francesco è continuamente a contatto. A visitarlo, ogni giorno, arriva la sorella del giovane, spesso accompagnata dalle tre figlie di 4, 6 e 8 anni. «Sono davvero attaccatissime allo zio, gli parlano, lo accarezzano, gli chiedono di svegliarsi»
Non meno commovente, sarà la prima domanda a cui Ratzinger risponderà, quella di una bambina giapponese di 7 anni, Elena, che ha il padre italiano. La piccola durante il recente terremoto era in Giappone, ha visto morire molti bambini, è ancora spaventata. E ha scritto al Papa chiedendo perché queste cose accadano. Anche questo un tema dibattuto, al centro di recenti polemiche per le dichiarazioni del vicepresidente del Cnr Roberto De Mattei. Alle catastrofi naturali Benedetto XVI ha fatto cenno domenica durante la messa delle Palme, quando ha ricordato: i nostri limiti sono rimasti: basti pensare alle catastrofi che in questi mesi hanno afflitto e continuano ad affliggere l’umanità».
Tra le domande ci sarà quella di una mamma musulmana che vive in Costa d’Avorio, e quella di sette studenti cristiani di Baghdad. Il Papa affronterà anche il tema della «discesa agli inferi» di Gesù dopo la sua morte.
il Riformista 20.4.11
Perché in Italia l’opposizione è così disperata?
di Ritanna Armeni
qui
http://www.scribd.com/doc/53404072
l’Unità 20.4.11
Conversando con Emilio Lupo segretario di Psichiatria Democratica
Ecco come si può uscire dall’inferno dei manicomi criminali
di Roberta Monteforte
Al «manicomio giudiziario» di Aversa un’altra vittima. Mercoledì scorso si è suicidato un cittadino romeno. Aveva 58 anni. Era ospite della struttura «ospedaliera». Non c’è l’ha fatta. «Gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari vanno chiusi e subito. Sono una vergogna non soltanto per chi è direttamente coinvolto: gli operatori, i “reclusi” e i loro parenti, ma per l’intero Paese. Chiudere queste strutture proprio nell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia sarebbe veramente un bel gesto.
Rappresenterebbe uno vero e di coesione». Non ha dubbi Emilio Lupo, Psichiatra e Segretario Nazionale di Psichiatria Democratica, indignato per la notizia. Lui che ha alle spalle tante battaglie per l’applicazione anche a Napoli della «Legge Basaglia» per chiudere «bene e definitivamente i manicomi garantendo adeguati servizi di Salute Mentale sul territorio», ha idee chiare. «Come allora è necessario rigore, preparazione e coinvolgimento di tutte le realtà interessate spiega attingendo all’esperienza acquisita sul campo da tanti operatori».
La legge del 2008. Che gli “OPG” di Aversa, Napoli-Secondigliano, Barcellona Pozzo di Gotto, Reggio Emilia, Montelupo Fiorentino, Castiglione dello Stiviere vadano chiusi lo stabilisce la legge del 2008, con il loro passaggio al Sistema Sanitario Nazionale e la competenza delle Asl. Sulla cancellazione di questa vergogna pare che l’accordo sia trasversale. Soprattutto dopo la denuncia della commissione parlamentare di indagine sul sistema sanitario presieduta dal senatore Ignazio Marino (Pd) che ha evidenziato cosa siano questi «ospedali» e come sono trattati gli oltre 1.535 «internati». «Un girone infernale che offende la dignità di tutti», così lo ha descritto. Roba da Medioevo documentata da un video-reportage di Riccardo Iacona su Rai3 che ha scandalizzato anche il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano.
Il quando e il come si arriverà a questa chiusura: è questo il punto. «Gli OPG sono l’incompiuta della 180, la legge di abolizione dei manicomi» osserva Lupo. Oggi, in quelle strutture non si cura, né si punta al recupero di chi ha commesso un reato. Che assistenza possono offrire pochi medici per quattro ore a settimana per strutture di 300 «reclusi»? Per non parlare di chi, circa 375 internati tra tutti gli Opg, è in «proroga»: avrebbe cioè dovuto essere dimesso da tempo, ma in mancanza di progetti di reinserimento esterno, di sei mesi in sei mesi, anche per dieci anni, si è visto prorogare «la sua pena» dal magistrato.
«Va rotta questa logica fatta di pigrizie e improvvisazione, di abbandono che porta con sé ingiustizie e disumanità. Occorrono, invece, scelte rigorose e assunzioni di responsabilità per passare dalla denuncia alla reale chiusura degli Opg» afferma il segretario di Psichiatria Democratica che con il collega Cesare Bondioli (responsabile nazionale per Carceri e OPG), avanza proposte di risoluzione concrete. Sono quelle scaturite dal seminario congiunto di Psichiatria Democratica e Magistratura Democratica “Disumanità della pena:quali alternative?” tenutosi lo scorso 26 marzo a Vico Equense (Napoli) e condivise anche dal segretario di Magistratura Democratica, Pier Giorgio Morosini.
Sono quattro i punti. Il primo è procedere alle dismissioni dei circa 300 pazienti ancora in «proroga». Il secondo punto, sono i programmi per il loro reinserimento e le strutture esterne per accoglierli che andrebbero definiti dalle Asl. «Ora che le risorse ci sono, circa 15 milioni di euro, non ci sono più alibi. Vanno definiti percorsi rigorosi e personalizzati di recupero e di reinserimento dei pazienti» spiega Lupo. Insiste molto sul “rigore” e sulla programmazione dei diversi passaggi. Non vi possono essere improvvisazioni. Nessuno va lasciato solo. Occorre un quadro di riferimento e di responsabilità precisi. È anche così che si rassicura l'opinione pubblica.
Terzo obiettivo. «Il Parlamento deve fissare un tempo massimo per la chiusura degli Opg – continua il segretario nazionale di PD -, imponendo penalizzazioni anche economiche agli Enti, sino ad arrivare alla nomina di “commissari ad acta” per gli inadempienti». Poi vanno definiti «programmi personalizzati» per ciascun paziente, che spiegano Lupo e Bondioli «vanno costruiti con tutti i soggetti interessati a cominciare dagli stessi internati» e «definiti in modo condiviso con tutti gli attori coinvolti, a partire dalle Regioni, dai comuni e dalle Asl dove insistono le strutture Opg interessate ed anche quelle di provenienza dei pazienti». Per PD occorre avvalersi del supporto operativo di personale pubblico o del privato sociale «comunque adeguatamente formato». «Il coordinamento e il monitoraggio dell'intero processo va affidato al Servizio Pubblico e deve fare riferimento alla Conferenza Stato Regioni, che dovrà operare in rapporto con le commissioni Sanità di Camera e Senato, oltre che con i tecnici e con la famiglie». « È così – insistono Lupo e Bondioli che l’operazione si fa veramente concreta».
«Il rapporto tra il “dentro e il fuori” spiega Lupo è l’altro punto essenziale. Quello tra gli Opg e le strutture sanitarie e sociali presenti sul territorio, anche quelle di provenienza dei degenti da dimettere, dove andranno reinseriti». Un compito delicato ed essenziale che – nella proposta di PD – andrebbe assolto da specifiche strutture: «le équipe e gli uffici di dismissioni». «Sarà loro compito tenere i contatti con la commissione StatoRegioni, con il sindaco e quindi con la struttura sanitaria territoriale che verifica le condizioni socio-economiche del paziente e della sua famiglia e costruisce un percorso adeguato di reinserimento in base alle esigenze di cura». I progetti di recupero non possono che essere individuali, «perché spiegano vanno definiti in base alle condizioni di ciascun paziente: vi è chi può “rientrare” in famiglia e quelli, invece, per i quali è necessaria la collocazione in piccoli gruppi in “case famiglia”, in comunità, ma sempre collocati nei territori di provenienza». Ad esempio se ad Aversa vi è un paziente di Cagliari è in quest’ultimo territorio che bisogna individuare una comunità o una struttura che dovrà accoglierlo, ed attivare un programma perché ciò avvenga nei tempi e nelle forme giuste. «Sono indispensabili verifiche periodiche della situazione» insistono Lupo e Bondioli. Chi “esce” deve essere seguito anche “fuori” e in modo costante e ospitato in strutture adeguate. «Quello che va evitato è che si riformino “manicomi sul territorio”». Sono proposte precise, messe sul tappeto al servizio di tutti.
La Commissione Marino ha individuato tre «Opg» da chiudere subito. Rispondendo all’interrogazione di Anna Teresa Formisano (Udc) nel corso del question time lo scorso 23 marzo il ministro dalla Salute, Ferruccio Fazio ha fatto capire che per il governo i tempi non saranno brevi. Il rischio è che tutto nella sostanza resti fermo. La Formisano ha risposto che non si può attendere un minuto per chiudere queste «prigioni e con queste persone trattate come cani». Psichiatria Democratica aiuta a individuare un percorso per fare presto e nell’interesse di tutti. Per questo ha chiesto un incontro urgente alla Commissione di inchiesta sulla Sanità pubblica presieduta da Ignazio Marino.
il Fatto 20.4.11
Intervista. Giancarlo Galan
“Perché Sgarbi no”
Il neoministro della Cultura: “É la legge che gli vieta di andare a Venezia”
di Marco Lillo
Vittorio Sgarbi era furioso ieri sera a Rai News 24. Corradino Mineo provava ad arginarlo mentre il critico d’arte, tra una difesa d’ufficio di Silvio Berlusconi sul caso Ruby e il lancio della sua trasmissione, sparava a zero contro il ministro Giancarlo Galan e i suoi uomini: “I dirigenti Antonella Recchia e Salvo Nastasi lo hanno preso in giro e non gli hanno spiegato che io posso essere nominato Soprintendente di Venezia perché c’è una norma che lo prevede”, tuonava Sgarbi.
Il ministro ha accettato di replicare a caldo con questa intervista al Fatto, nella quale risponde all’attacco di Sgarbi ma anche al commento pubblicato sul nostro giornale a firma di Tommaso Montanari. “Il povero Galan è a un bivio”, scriveva ieri Montanari, “o dispiacere al Capo o deludere subito tutti coloro che sono disposti a credere che lui sia meglio del Bondi mannaro”. L’ex ministro aveva ceduto alle pressioni dall’alto nominando il critico alla guida della Sovrintendenza nella quale si era distinto per assenteismo, sancito da una condanna nel 1996. Il doppio veto della Corte dei Conti rimette il pallino in mano a Galan.
Ministro, cosa ha deciso di fare di fronte al bivio posto ieri dal Fatto?
Andiamo dalla parte della legge. Come mi ha fatto notare il direttore generale Antonella Recchia, si può ricorrere alla nomina di un esterno come Sgarbi solo se non esiste una domanda per quel posto presentata da un dirigente interno. Purtroppo per Sgarbi i dirigenti interni sono 4 e il problema quindi non è comparare Sgarbi con loro ma scegliere il migliore. Questo dice la legge e la Corte dei Conti.
Perfetto. Ieri Il Fatto scriveva: ‘Galan manderebbe un messaggio rivoluzionario: ‘il ministro fa il ministro e permette che il direttore generale faccia il direttore generale’. Lei ha scelto la strada della legge ma Bondi aveva fatto una scelta opposta
Infatti la Corte dei Conti gli ha dato torto. Anche io avrei preferito Sgarbi ma non lo posso fare.
Ministro quando Sgarbi fu nominato da Bondi lei non bocciò il critico per ragioni di legge
Sì ricordo che non ero entusiasta della sua nomina ma vede io ho un buon carattere e dimentico facilmente. Ho dimenticato anche quello che Sgarbi ha detto dopo su di me.
Non c’entra niente la sentenza contro Sgarbi per il suo assenteismo quando lavorava a Venezia?
No. Perché io non ho fatto una comparazione. Conosco Sgarbi per i suoi mille pregi e per i suoi difetti ma non ho scelto sulla base né delle virtù né dei difetti perché non potevo farlo. Ho deciso in base alla legge. Non ho valutato Sgarbi.
Le rileggo quello che lei disse di Sgarbi quando fu nominato da Bondi: ‘trovo singolare proporre a quella fondamentale responsabilità Sgarbi che negli ultimi venti anni di tutto si è occupato tranne che di un umile e fattivo lavoro nella pubblica amministrazione dei Beni culturali”.
Me l’ero dimenticata. Lo vede come sono fatto? Adesso spero solo che Sgarbi, che non ha un carattere docile, si incazzi per la mia scelta ma poi continui a fare quello che stava facendo per il ministero e magari faccia qualcosa di nuovo perché lo considero una risorsa unica in Italia.
Sgarbi ha dichiarato ieri: ‘se Galan non mi conferma alla Soprintendenza lascio anche la Biennale’. Cosa ha pensato quando ha letto questa sorta di diktat?
Non mi ricordo più nemmeno questo. Lo faccio apposta a dimenticare, come tutti quelli che hanno un buon carattere e non sono permalosi. Comunque spero ci ripensi, non voglio nemmeno pensare all’ipotesi. Se poi dovesse insistere nel suo proposito dovremmo trovare una soluzione ma si perderebbe una bella dose di originalità.
Lei dice che dimentica ma non sarà che è solo un permaloso che sa aspettare? Non sarà che Sgarbi insomma stia pagando la richiesta, della quale hanno parlato i giornali, rivolta a Berlusconi di non farla ministro?
Mah anzitutto penso che non sia vero e poi, se dovessi serbare rancore per tutti quelli che hanno parlato male di me avrei di fronte una brutta vita.
Lei sta dando una grande delusione a Berlusconi. Sgarbi va tutti i giorni in tv a difendere il premier con veemenza per le accuse del caso Ruby e lei lo scarica così?
Eh va bene, ho capito ma io sono il garante del rispetto delle leggi. Se faccio contento o scontento qualcuno, cosa posso farci? E poi le dico una cosa a cui lei non crederà: Berlusconi non mi ha mai telefonato in 17 anni per influenzare una mia scelta.
Sgarbi contesta la sua scelta e dice che i suoi dirigenti le nascondono una norma che permetterebbe di nominarlo.
Io non commento. Posso solo dirle che ho chiesto un parere alla Direzione Generale per il paesaggio e le belle arti. Mi ha risposto che la nomina a Commissario per Piazza Armerina, che Sgarbi vanta come titolo equiparabile alla dirigenza interna, non basta. Le leggo il parere del direttore generale Recchia: “è priva di ogni riscontro giuridico l’asserita qualifica di Sgarbi come direttore generale della Regione Siciliana in quanto Alto commissario di Piazza Armerina. Infatti tale incarico è a termine. E Sgarbi non è nei ruoli dirigenziali della Regione siciliana’.
Corriere della Sera 20.4.11
Quei fantasmi dell’intolleranza che si alzano dalla mia Ungheria
a nuova Carta magiara risveglia gli incubi del passato nazista e comunista
di Giorgio Pressburger
L’Europa a poco a poco sta diventando di nuovo un ricettacolo di fantasmi. Fantasmi nuovi e vecchi si aggirano per le nostre città, nelle nostre strade, nelle nostre case. E anche nella nostra mente. Chi avrebbe creduto, fino a quindici, vent’anni fa di sentir risuonare vecchie marce che incitano all’odio, parole d’ordine che toccano i toni del forsennato razzismo, del becero disprezzo per gli altri, per chi non siamo noi? Chi noi? I membri della nostra Nazione, della nostra Regione, città, del nostro quartiere, pianerottolo. Non abbiamo forse visto un bambino ucciso perché appartenente a una famiglia troppo rumorosa? C’è una tendenza a esaltare tutte le forme di egoismo. Tutto questo succede nel nostro Paese, sul nostro Continente. Su quel Continente, sul quale duemilacinquecento anni fa è nata la democrazia. E anche se certi slogan che risuonano oggi in Ungheria come in Finlandia, simili a quelli di alcuni nostri Partiti, che incitano al volgare disprezzo (föra di bal) possono suonare soltanto come battute elettorali, pure fanno sorgere dalla terra, dai soffitti delle case, dagli scantinati, vecchi fantasmi macabri, fantasmi di morte. In Ungheria come da noi. Chi, come me, in questi Paesi, ha visto la propria famiglia sterminata dai nazisti tedeschi e anche da quelli casalinghi, a sentire il vocìo di questi fantasmi, non può restare indifferente. Le sfilate di guardie nazionaliste, le mezze frasi antisemite buttate lì mettono paura. C’è un partito che ha il 18%dei voti, che basa i suoi programmi su atteggiamenti di questo tipo. Un mio amico ha preferito trasferirsi a Berlino. Un altro in Israele. Nei Paesi dell’Europa centrale questi fantasmi si infilano dappertutto nelle case, come i famosi «Poltergeist» , delle favole e dei film d’orrore. E ora nella civilissima Ungheria, nel Paese di dieci milioni di abitanti che può annoverare dieci premi Nobel tra scienziati e scrittori, che ha dato i natali all’inventore dei computer, ai più grandi musicisti del secolo passato come Liszt, Bartòk o Ligeti o Kurtàg, a insigni psichiatri e medici, nelle pieghe della nuova Costituzione varata in questi giorni dal Parlamento con i due terzi dei voti, si insinuano le figure di questi fantasmi. La costituzione abolisce il nome di Repubblica Ungherese e conferisce quello di Paese Magiaro. (Magyarorszàg). Questo forse per ammonire certe minoranze tra le quali zingari e ebrei? Quella Costituzione è stata varata e progettata da un solo partito di nome Fidesz. La sinistra si è ritirata dall’aula, al momento della votazione. Ma i due terzi erano della Fidesz. Molti articoli vincolano i voti a venire ai due terzi della maggioranza. Quindi chissà quanto peseranno sulla politica ungherese del futuro. I fondi delle pensioni sono proprietà dello stato. Le tasse (16%) sono uguali per tutti per i ricchi e per i poveri. C’è una legge che inficia pesantemente la libertà dei mezzi di comunicazione. Tutto però entro un limite ambiguo e non sempre identificabile. Durante la conversazione con un vecchio amico avvocato civilista domando come la gente prende tutto questo. «Con indifferenza. Sì, la settimana scorsa ci sono state quattro manifestazioni, ma il resto è: indifferenza» . Come sappiamo l’indifferenza è un morbo terribile. Può condurre a disastri. È possibile che il Paese in cui sono cresciuto, dove ho imparato ad amare la letteratura, la musica, dove tutti i bambini sapevano (e molti sanno ancora) suonare qualche strumento, dove avevo appreso e poi divulgato l’amore per l’Italia, è possibile che queste disgustose figure prendano vita di nuovo? «Il 57%degli ungheresi dichiarano che avrebbero preferito il referendum a questa sorta di appropriazione» , mi dice un amico scrittore. «Ma si vede che dormono. Se ne accorgeranno al risveglio» . Molti chiamano la Costituzione ungherese Costituzione di Pasqua. Sarà firmata dal presidente infatti lunedì. La Resurrezione dunque. Resurrezione della grande Ungheria (mire territoriali?). Ma torniamo all’amore per l’Italia. A dire il vero molti affermano a Budapest che i consiglieri per la comunicazione del premier ungherese siano gli stessi del Primo Ministro italiano. Populismo dunque? Sì, c’è la promessa di un milione di nuovi posti di lavoro. Non abbiamo sentito per caso questa stessa frase qui da noi? Il lavoro secondo la Nuova Costituzione sarà obbligatorio per tutti (come sotto il regime di Stalin). Questo pare soddisfare coloro che affermano che i rom non amano il lavoro. E per questo, se è il caso, vanno puniti. Da parte mia questo mi riporta a sessant’anni fa, quando, terminato il liceo davvero brillantemente, mi vidi negata la possibilità di accedere agli studi universitari. Non ero figlio di operai, nè di contadini poveri. Ma di un poverissimo piccolissimo borghese: autore di cruciverba, panettiere, garzone cartolaio, calciatore. Io andai a lavorare come panettiere. Poi venne il ’ 56 e la rivolta. Cosa contrapporre allora oggi ai pericolosi fantasmi del passato? Il sogno dell’Europa, per esempio. (La nuova costituzione ungherese decreta che la moneta ufficiale è il fiorino. Niente euro, dunque. Due terzi dei voti per abolire questo). Il sogno dell’Europa, senza mire di supremazia per puro populismo, per puro egoismo, pura indomabile, inesauribile avidità di ricchezza. Gli esempi positivi ci sono. (Guardiamo al Nord). E se non ci fossero, bisognerebbe inventarli. Inventare è una delle principali facoltà degli esseri umani.
Corriere della Sera 20.4.11
Onorevole Speroni legga questi libri
di Aldo Cazzullo
Impegnato com’era a scegliere cravattine alla texana e giacche fucsia o giallo paglierino con cui rompere l’anonimato, l’eurodeputato Francesco Speroni, la cui attività è ricordata più che altro per l’assunzione come portaborse al Parlamento europeo (12.750 euro al mese) di Riccardo Bossi, il figlio maggiore dell’amico Umberto, non ha mai trovato il tempo per leggere libri sull’emigrazione italiana. Ne avesse letti, non avrebbe osato dire le parole indecenti dell’altro giorno: «Noi siamo invasi, c’è gente che viene in Italia senza permesso, violando tutte le regole. A questo punto vanno usati tutti i mezzi per respingerli, eventualmente anche le armi» . E se fossero in fuga da persecuzioni, guerre, genocidi? Sempre clandestini sono! «Non ce l’hanno certo scritto in fronte se sono profughi!» . Come a dire: intanto spariamo, poi si vedrà. E se fossero cristiani sudanesi o nigeriani in fuga dai macellai dell’Islam fanatico? Amen. I «nuovi crociati» che marcano il territorio affiggendo il crocifisso alla parete non possono curarsi di questi dettagli. Se avesse letto il reportage di Egisto Corradi che nell’inverno del 1947 attraversò il Piccolo San Bernardo con i clandestini «nostri» , l’ignaro Speroni saprebbe che solo lì col bel tempo «passavano centinaia e centinaia di emigranti per notte: una volta ne passarono mille in poco più di ventiquattr’ore, con nidiate intere di bambini. Tra gli ultimi passati una donna incinta, percossa dalla straordinaria fatica, partorì due settimane fa, mentre scendeva il versante francese» . Se avesse letto Il cammino della speranza di Sandro Rinauro sarebbe stato seppellito da migliaia di citazioni di documenti ufficiali che dimostrano che «gli italiani hanno detenuto a lungo il primato dell’esodo clandestino» . Un esempio? Citiamo fra i tanti il direttore della Manodopera straniera del ministero del Lavoro francese Alfred Rosier, secondo cui alla fine del 1948 (Speroni era già nato) «dei 15.000 italiani presenti nel dipartimento agricolo del Gers, ben il 95%era irregolare o clandestino» . Se avesse letto il bellissimo Addio patria di Ulderico Bernardi o lo struggente New Italy di Floriano Volpato, conoscerebbe la storia di quei circa trecento trevigiani che nell’aprile 1880, imbrogliati da un marchese francese che prometteva di fondare una «Nouvelle France» papalina al di là del Borneo, passarono clandestinamente il confine con la Francia e clandestinamente quello con la Spagna per imbarcarsi sul piroscafo India diretto verso l’estremo oriente per arrivare infine a Sydney, stremati e pazzi di dolore per avere perduto lungo il viaggio tantissimi bambini e tantissimi vecchi, 368 giorni dopo la partenza. Ma certo, conoscere quelle e tante altre storie di emigrazione disperata e illegale italiana, lo imbarazzerebbe poi al momento di sparare sciocchezze sulla nostra «diversità» . Meglio non sapere, giusto? Meglio fingere di non sapere...
l’Unità 20.4.11
L’annuncio durante il sesto congresso del partito comunista
Lascia la carica di primo segretario ed esce dal comitato centrale
Fidel si fa da parte Dopo 50 anni Cuba senza lider maximo
Ieri l’annuncio ufficiale: Fidel Castro Ruz abbandona la carica di primo segretario del partito comunista e quella di membro del Comitato centrale. Un lungo addio cominciato nel 2006 dopo un intervento chirurgico.
di Bruno Gravagnuolo
Inimaginabile, fino a qualche anno fa. E forse anche fino a ieri l’altro. Non solo Fidel Castro Ruz, ha lasciato la carica di segretario del Partito comunista, ma persino quella di membro del Comitato centrale. «Ho vissuto abbastanza ha scritto e mietuto abbastanza onori, senza mai pormi il problema di quando avrei lasciato...». Finalmente i giovani «nonni» della Revolution, con Raul Castro in testa e i due vicepresidenti Machado e Valdés, potranno sentirsi più liberi di gestire la nuova fase di caute liberalizzazioni. Già sancita dal VI Congresso, e che prevede 130mila contadini privati, 171mila licenze di commercio e piccole aziende, con lo spostamento di 1milione e 800mila lavoratori dal settore pubblico a quello privato (su un totale di 5milioni). Dunque, almeno simbolicamente, un mutamento d’epoca, e l’uscita dal castrismo a tutto tondo. Quello che dal 1959 in poi ha plasmato l’isola caraibica.
Resta, di là dell’eredità in via di superamento e di meriti o demeriti, l’«imponenza» non solo fisica della figura di Fidel, cifra di un’epoca e di una parte del ’900 conteso tra i blocchi geopolitici. Ma come ha fatto Fidel Castro Ruz ha incidersi così a lungo nel suo tempo e anche oltre?
C’è un aneddoto, confermato dai biografi, sull’uomo nato il 13 agosto 1926 a Biràn, da un piantatore asturiano e una creola (Angel Castro e Lina Ruz). Racconta di quando Fidel bambino minacciò il padre di incendiargli la piantagione. Se non lo avesse mandato a studiare a Santiago. Di lì comincia l’avventura: buoni studi privati, e poi dal 1941 al 1945 in collegio dai Gesuiti a L’Avana. Che lo allevano all’«onore» e alla «dignità ispanica», in una Cuba ben diversa da quei valori. Poi c’è il leader studentesco antimperalista e nazional-democratico, avvocato e deputato mancato. Per il colpo di stato di Fulgencio Batista. E l’organizzatore del fallito assalto alla Caserma Moncada, del 26 luglio 1953 (festa nazionale di Cuba). Con 80 assalitori uccisi e lui in prigione.
Celebre la sua arringa difensiva: «la storia mi assolverà». Segue l’amnistia, il rapporto con scrittori, foto-
grafi e attori americani, l’amore/ odio per gli Usa, dove va in viaggio di nozze già nel 1948, con la moglie Mirta Diaz Balart, studentessa di filosofia. E dal 2 dicembre 1956 in avanti, la lunga marcia, iniziata con lo sbarco del Granma, poi vittoriosa il 31 dicembre 1959, quando i barbudos, con Cienfuegos e Guevara entrano a L’Avana. Infine il comunismo. Trovato per strada, dopo i contrasti con gli Usa acuiti dalla nazionalizzazione della «United Fruit», e dal rifiu-
to americano di raffinare il petrolio sovietico. Una dittatura quella di Fidel. Di taglio populista e nazionalista, segnata per molti anni da consenso patriottico, contro l’implacabile ostilità americana: dopo la Baia dei Porci tentano di ucciderlo 638 volte.
Avventuroso, «hemingwayano», per molti intellettuali occidentali, ma soprattutto «politico». Persuaso sempre di poter esercitare un ruolo di punta tra i blocchi geopolitici, anche al segno di spingere il mondo sull’orlo dell’abisso, con la crisi dei missili Urss puntati contro la minaccia Usa, a 90 miglia da L’Avana. Lascia partire per la Bolivia il Che e ipotizza una cauta espansione del suo modello socialista, senza strappi. A parte l’avventura in Angola, per rompere l’assedio americano con un ponte in Africa. Fino al 1990-91, che vede Cuba abbandonata dall’Urss ormai in dissoluzione.
E qui Fidel si inventa un profilo anti-global, anti-fame nel mondo, «bolivarista» e dialogante coi cattolici. Armi che lo aiutano a puntellare il fallimento del «periodo especial», ostinatamente vincolato a ricette egualitarie e stataliste. E forse il più grande fallimento, non è stato solo la dura violazione dei diritti umani, acuita dall’ostilità Usa e dagli anticastristi, (temperata da turismo aperto e assistenza per tutti sui bisogni di base). E stata la difficoltà a costruire un vero ricambio generazionale. Problema che è tutto dinanzi ai giovani «nonni» e a Raul, il fratello riformista di cui invece si diceva fosse un duro («Que viene Raul!» pare sibilasse Fidel rivolto agli scontenti). Infine un dato: il consenso a Fidel. Innegabile e lungo, benché ormai molto scalfito. Si spiega così: il suo carattere di leader nazionale. Che ha tenuto in scacco i tradizionali padroni di Cuba. E padroni per legge in Costituzione, fino al 1959: gli Stati Uniti d’America. Forse oggi decisi anche essi a voltare pagina. Dopo che lo ha fatto Castro, col suo tirarsi in disparte.
Repubblica 20.4.11
René Girard
"Non possiamo più dirci apocalittici"
"Quello che accade nel mondo arabo mostra che Islam e Occidente non sono inconciliabili"
Intervista di Leonetta Bentivoglio
"Molte volte nella nostra storia il grande capro espiatorio è diventato il popolo"
Intervista allo studioso celebrato in Francia con una raccolta di scritti
"Bisogna abbandonare il pessimismo: il mondo sta cambiando in meglio"
Il pensiero di René Girard vira in senso ottimistico. In questi nostri tempi "apocalittici", uno dei più affascinanti e trasversali pensatori contemporanei – è antropologo, esperto di psicoanalisi, critico letterario e saggista che cattura nello svelarci i miti come eventi vividi e provocatori delle violenze perpetrate dalla Storia – vede il mondo proiettato in un corso pacificatorio e unificante: i conflitti si attenuano, aumenta il dialogo, l´umanità sembra puntare alla conciliazione. «È sempre più sviluppato il contatto tra le genti», afferma Girard al telefono da Stanford, la città californiana in cui vive da molti anni e nella quale ha sede l´università dove ha insegnato più a lungo. «Persino l´isolazionismo statunitense cede il passo ad aperture nuove nei confronti di luoghi distanti ed economicamente fragili. Gli americani, che prima non si curavano di vicende lontane da loro, si stanno interessando come non mai alle rivolte che sconvolgono gli assetti dei paesi arabi. Basta guardare lo spazio enorme che ha dato la tivù statunitense a quel che è accaduto in Egitto, in Tunisia, in Siria, in Libia e nello Yemen», segnala Girard. A 88 anni la sua voce è incerta e faticata; ma sulla questione araba si esprime in modo vigoroso, quasi martellante.
Eppure nel passato recente, Professor Girard, la sua prospettiva sul futuro pareva molto pessimistica.
«Ma la realtà sa trasformarsi in fretta: oggi i paesi arabi stanno compiendo una metamorfosi che fino a poco tempo fa sarebbe stata inconcepibile. Molte nazioni islamiche vorrebbero somigliare alle democrazie occidentali, e i popoli arabi si scagliano contro regimi corrotti e autoritari in nome di valori condivisi come la giustizia e la libertà: non è un caso che l´Egitto si sia affrancato senza alcun intervento da parte degli islamisti. Ovunque, nel mondo, le persone tendono a riconoscersi come individui e sono più sensibili a ciò che avviene nel resto del pianeta. Perciò non parliamo più di apocalisse, per favore: è un termine tanto di moda quanto inappropriato».
Le mode, certo, non si addicono a un filosofo indifferente agli "ismi" come Girard, che è nato ad Avignone nel 1923 ma ha lavorato soprattutto negli Stati Uniti, accolto fin dagli anni Cinquanta nelle più prestigiose università americane. Con dichiarata estraneità all´intellighenzia francese di sinistra, e totalmente allergico a celebrati capofila come Althusser e Lévi-Strauss, l´anticonformista Girard, durante tutta la sua vita, ha tradotto la propria adesione al cristianesimo in un irrinunciabile motore cognitivo. Atteggiamento che molti intellettuali suoi connazionali non gli hanno perdonato. In questi ultimi tempi, tuttavia, la Francia sembra averlo riscoperto, come se il trascorrere degli anni ne avesse dimostrato lo spessore: «Non avendo mai cercato di essere nel vento», ha scritto L´Express, «René Girard è sfuggito a ogni tempesta».
Un´ottima accoglienza ha meritato il suo Achever Clausewitz, tradotto anche da Adelphi (suo editore italiano di riferimento) col titolo Portando Clausewitz all´estremo: un saggio che analizza i terrorismi e i fondamentalismi odierni partendo dal trattato ottocentesco Sulla guerra, dello stratega prussiano Carl von Clausewitz. E sono appena usciti in francese, con estremo ritardo, due libri che riguardano o coinvolgono Girard, entrambi per Flammarion. Uno è Avons-nous besoin d´un bouc émissaire?, che il teologo austriaco Raymund Schwager (1935-2004) ha dedicato alla concezione del capro espiatorio, perno del sistema filosofico girardiano: suggestiva teoria che al meccanismo sacrificale, dominante in tutte le società, oppone l´unicità del messaggio cristiano, capace di decretare, col sacrificio di Gesù, l´innocenza della vittima. L´altro, Sanglantes origines, raccoglie testi di antropologi americani ed europei (tra cui lo stesso Girard) sulle radici delle civiltà, riconducibili a un nucleo essenziale del pensiero del filosofo di Avignone, ben intrecciato alla sua tesi-principe sul capro espiatorio: quello del "desiderio mimetico", cioè plasmato sul desiderio altrui e quindi suscitatore di rivalità, essendo l´eccitazione mimetica ciò che spinge il gruppo a compiere delitti, che si considerano sanciti dal fato o da una divinità. Da parte sua Girard, in quell´evento-chiave del cristianesimo che è la crocifissione, identifica l´anti-sacrificio capace di smascherare il male, ricondotto alla sua natura terrena e quindi spogliato dalla menzogna pseudo-espiatoria creata per "divinizzarlo". Da qui attinge la sua sostanza di filosofo cristiano.
Che ne dice del consenso finalmente ottenuto dai suoi scritti in Francia?
«Mi sembra che si sia affermata da tempo una considerazione notevole del mio lavoro anche nel mio paese, come confermano i numerosi riconoscimenti ufficiali che vi ho ricevuto».
È dunque ottimista anche da questo punto di vista?
«Come si può non esserlo, oggi? Gli eventi di questi ultimi mesi sono confortanti. Quello che è successo in gennaio al Cairo - insieme alla rivolta tunisina di dicembre, alle proteste in Libia, all´opposizione sollevatasi nello Yemen, ai fatti della Giordania - è una prova concreta della possibilità di unire l´Islam e i valori occidentali. La ribellione parte dal basso, dalla gente vera, e attacca tutti i regimi autocratici».
Vede il medesimo clima positivo in Europa?
«L´Italia è agitata e instabile, ma non la Francia. Il governo di Sarkozy sta garantendo stabilità. So quanto la sinistra francese gli sia ostile, ma è impossibile non rendersi conto dell´ottima impostazione della sua politica economica. E l´ondata di terrorismo islamico, che per un certo periodo ha minacciato il continente, oggi sembra superata».
Come si è collocata, in questa sua prospettiva ottimistica, la crisi libica?
«Gheddafi è la peste: un tiranno vero. Il rifiuto che lo ha investito all´interno del suo paese è un altro frutto dello tsunami politico mediorientale. La presa di coscienza del popolo libico non può che considerarsi salutare».
Chi è il capro espiatorio, in una situazione del genere?
«Spesso è il popolo a diventare la vittima sacrificale. La storia del popolo russo, da questo punto di vista, è emblematica. Per centinaia di anni ha avuto la funzione di capro espiatorio. Oggi, forse, è meno vittima di prima, ma è ancora ingiustamente sofferente. Gli uomini hanno sempre bisogno di capri espiatori. È la catarsi espressa anche dalla poetica di Aristotele: l´eroe muore e lo spettacolo consolida la collettività, che chiede condanne a morte per istituirsi. Quella del capro espiatorio è un´eccitazione mimetica della comunità contro una vittima designata per motivi accidentali o in quanto oggetto di desiderio. Il che, certamente, non s´applica a vittime tutt´altro che innocenti come lo fu Saddam Hussein, o come lo potrebbe diventare adesso Gheddafi. Ma una tragedia che può fungere da esempio di tale meccanismo, nella storia recente, è rappresentata dall´Olocausto».
il Riformista 20.4.11
Marxismo-leninismo a Capri
Partita a scacchi con la storia
Un secolo fa il fondatore dello Stato sovietico soggiornò con il dirigente Aleksandr Bogdanov nell’isola degli esiliati. Dove il grande scrittore, Gorkij, aveva fondato una «scuola della tecnica rivoluzionaria per la preparazione scientifica dei propagandisti del socialismo russo»
di Giancarlo Mancini
qui
http://www.scribd.com/doc/53404072
Repubblica 20.4.11
In un nucleo familiare su tre manca il padre "Accoglienza e servizi, tutto diventa più facile"
Le ragazze-madri scelgono Berlino "Ecco perché è la nostra città"
Spesso le donne si trasferiscono nella capitale dopo essere state lasciate dai mariti
di Andrea Tarquini
Le incontri a far la spesa, cariche di buste gonfie e con la carrozzina, e nessuno al fianco. Le incroci al semaforo, sono al volante col volto teso. Sono le eroine sconosciute della vivace, postmoderna Berlino: le ragazze-madri. Vivono di corsa, si dividono tra lavoro e figli, metà di loro riceve poco o nulla in alimenti e aiuti dal padre. Le più povere le salva il welfare. Sono in tante, sempre più numerose: un terzo delle mamme berlinesi tira avanti senza l´aiuto del marito o del compagno. È una realtà nascosta e dura della vivace città-laboratorio, e le pone nuove sfide. Ma al tempo stesso, è anche un nuovo volto della normalità quotidiana, una parte vivace e coraggiosa della città, che ce la fa e va avanti nella vita stringendo i denti ogni giorno.
«Le mamme single non sono considerate di per sé, in generale, come un gruppo sociale gravato di problemi, spiega Martina Krahl, esponente del Landesverband alleinerziehender Muetter und Vaeter, l´associazione cittadina dei genitori soli. «A Berlino», spiega, «vivono molte donne che hanno deciso di preferire il ruolo di ragazza-madre», hanno scelto di crescere i figli da sole anziché in conflitto permanente con un partner con cui nulla funziona più.
Berlino insomma non è solo la città sognata dai turisti giovani di tutto il mondo: è anche una capitale mondiale delle ragazze-madri. I dati fotografano realtà estreme. A Berlino, vivono in totale circa 430mila nuclei familiari. Di questi oltre un terzo, cioè 150mila, sono composti da genitori soli. Di cui le ragazze madri sono l´89 per cento, la stragrande maggioranza: 134mila. I ragazzi-padri sono appena l´11 per cento restante. Trend in aumento: l´anno scorso, rispetto al 2009, le precise anagrafi della città e dei suoi servizi di welfare hanno contato 15mila mamme sole in più.
Sembra paradossale, ma proprio una metropoli vivace, bella e vivibile come Berlino non è l´ambiente ideale per la garanzia d´una famiglia che duri. Oltre metà dei matrimoni, nell´ex città del Muro, falliscono dopo pochi anni. E almeno metà dei padri che fanno le valigie e vanno via pagano raramente o mai gli alimenti. «In una grande città come Berlino le ragazze-madri affrontano meno pregiudizi ostili che non in provincia», dice lo psicologo Thomas Kornbichler.
Molti piccoli berlinesi apprendono vita e mondo con un genitore solo: 378 mila bambini vivono nella capitale con genitori sposati, 73mila con coppie di fatto, e ben 209mila con uno solo dei genitori, il più delle volte mamma, appunto. Non è sempre facile: è dura farsi assumere quando il datore di lavoro sa che hai uno o più bimbi da accudire a casa, è più difficile riscuotere abbastanza fiducia da prendere un appartamento in affitto. Le ragazze madri stringono i denti, e vanno avanti. Non è nemmeno raro che, nella moda, nei media o in altre realtà di lavoro, s´impongano e facciano carriera. Eroine nascoste, su cui spesso in ogni ambiente e fascia di reddito il mondo circostante chiude gli occhi. La vita dura nella grande città non è più quella della Londra di Dickens o della Berlino di Weimar narrata da Doeblin o da Zille, ma colpisce ancora. Specie l´altra metà del cielo.
Repubblica 20.4.11
Da Chopin ai Beatles così la musica ci emoziona
di Pam Belluk
In un brano cambi di ritmo e variazioni a sorpresa piacciono al cervello
Paul Simon: "Il pubblico riconosce il tocco umano e io ho un sesto senso per queste cose"
Mentre Paul Simon stava provando una delle sue canzoni preferite, "Darling Lorraine", che parla di un amore che inizia rovente ma pian piano si raffredda, si è ritrovato a riflettere su uno schema ritmico di tre note, verso la fine, nel momento in cui Lorraine si ammala e muore. Simon ha detto: «La canzone ha come sottofondo continuo una successione di tre note, che prosegue per l´intero brano. Ma a un certo punto volevo che si interrompesse, perché la storia di colpo diventa molto seria. Interrompere un sound o i ritmi è importante. Se invece si lascia che la cosa continui all´infinito alla fine perde di efficacia».
Un´intuizione come questa può sembrare puramente soggettiva, distante da qualsiasi cosa uno scienziato possa essere in grado di analizzare e quantificare. Invece, alcuni studiosi si propongono di fare proprio questo: cercare di comprendere e quantificare che cosa renda la musica espressiva. I risultati delle ricerche stanno contribuendo a farci comprendere molto meglio il funzionamento del cervello e l´importanza che la musica ha nello sviluppo dell´essere umano.
A comunicare vera emozione potrebbero non essere la melodia né il ritmo, bensì i momenti in cui i musicisti apportano lievi modifiche ai loro schemi. Daniel J. Levitin, direttore del laboratorio per la percezione della musica presso la McGill University di Montreal, ha iniziato a porsi alcune domande sull´espressione musicale analizzando uno ad uno gli elementi dell´espressione musicale in modo scientifico. Ha fatto suonare a un pianista alcuni Notturni di Chopin su un pianoforte dotato di sensori sotto a tutti i tasti, per registrare quanto a lungo tenesse premuta ogni singola nota e quanto forte pigiasse ogni singolo tasto. I dati raccolti nota dopo nota sono interessanti, perché i musicisti di rado suonano la musica proprio come compare sullo spartito, ma la interpretano aggiungendo la loro personalità. La registrazione del pianista è diventata l´esecuzione considerata di base. Poi i ricercatori hanno iniziato a manipolarla in diverse versioni.
Ad alcuni soggetti, poi, sono stati fatti ascoltare i brani originali e variati in ordine casuale, facendo loro assegnare un punteggio in funzione delle emozioni derivate dall´ascolto. Tutti gli ascoltatori hanno trovato più ricca di emozioni la versione originale e molto meno emozionanti le altre. Tutto ciò ha senso per Paul Simon: «Trovo affascinante che la gente si accorga di quale sia la versione originale, e che quella sia il massimo. La gente avverte il tocco umano». I risultati dello studio di Levitin indicano che quanto più numerosi sono gli elementi sorpresa in un brano, tante più emozioni percepiscono gli ascoltatori, ma solo se i momenti particolari hanno una loro logica. Secondo la cantante Rosanne Cash le sperimentazioni hanno mostrato che l´emozione nella musica dipende dalle imperfezioni umane. La Cash racconta di aver imparato dal padre Johnny che «lo stile è una funzione dei tuoi limiti, più che una funzione delle tue capacità. Se come cantante hai dei limiti, forse sarai costretto a trovare una sfumatura in un modo al quale non ricorreresti se potessi cantare con un´estensione di quattro ottave».
Si è appurato che il cervello elabora le sfumature della musica in molti modi. Edward W. Large, musicologo della Florida Atlantic University, ha effettuato risonanze magnetiche al cervello di alcune persone mentre ascoltavano due versioni di uno Studio di Chopin, il primo inciso da un pianista, il secondo limitato alla riproduzione testuale di quello che scrisse Chopin, senza variazioni nel ritmo e nella dinamica. Durante la performance originale, le aree cerebrali connesse all´emozione si sono attivate molto più che nella versione priva di alterazioni.
Gli studi di Levitin e Lange hanno riscontrato che il ritmo delle note è più importante del loro volume. Paul Simon suona con ritmo costante. «Ho un sesto senso per il ritmo, e so quando è necessario dargli intensità e quando abbandonarlo». E Geoff Emerick, tecnico del suono dei Beatles, dice: «Spesso quando registravamo brani ritmati dei Beatles, capitava di commettere un errore. Quando lo si analizzava si scopriva che di fatto "suonava" bene e quindi proseguivamo tenendone conto. Quando tutto è perfettamente ritmato e a tempo, l´orecchio o la mente tendono a ignorarlo, proprio come si ignora il ticchettio della sveglia in camera da letto. Dopo un po´, non ci si fa più caso».
(Traduzione di Anna Bissanti Copyright New York Times-La Repubblica )
La Stampa Tuttoscienze 20.4.11
A un passo dalla materia oscura
Cosmologia. Le prime informazioni sulle particelle Wimp dall’esperimento “Xenon” in corso al Gran Sasso L’ideatrice delle ricerche Elena Aprile: “Il cerchio si sta stringendo, siamo più vicini a una possibile scoperta”
di Gabriele Beccaria
Prendete 160 chili di un gas, lo Xenon, raffreddatelo a 90 gradi sotto zero per liquefarlo, e rovesciatelo in una vasca multistrato. Infilate il tutto in un luogo inaccessibile, sotto i 1400 metri di roccia del Monte Aquila, nei Laboratori del Gran Sasso, e aggiungete l’inevitabile mix ad alta tecnologia di elettronica, sensori e computer. Avrete il kit per tentare di rispondere a una domanda che toglie il sonno a molti fisici: che cos’è la materia oscura, che, sebbene invisibile e inafferrabile, costituisce più di tre quarti della massa dell’Universo?
La risposta che tutti vorrebbero non c’è ancora, ma un nuovo passo è stato compiuto. L’enigma comincia a presentare qualche punto debole e la materia oscura sta trascolorando in qualcosa di un po’ meno oscuro di quando fu teorizzata per la prima volta negli Anni 70.
Il merito è di Elena Aprile, italiana di Napoli e ora cittadina americana, professoressa alla Columbia University di New York, alla guida dell’esperimento «Xenon100» e di un team internazionale (60 scienziati di 8 Paesi) impegnato a raccogliere dati e a decifrarli. «Un primo indizio è arrivato», spiega la scienziata, che dà la caccia a un particolare tipo di «mattoncini», le «Wimp», sigla che sta per «Weakly interacting massive particles», vale a dire particelle massive debolmente interagenti. Distribuite in un alone che avvolge la nostra galassia, sono loro le sospettate numero uno e dovrebbero, quindi, comporre la colla gravitazionale che tiene insieme le galassie. La vasca è stata ideata proprio per tentare di intercettare il loro debole soffio, che, colpendo i nuclei di Xenon, deposita una piccola quantità di energia, sufficiente per essere rivelata e studiata e per fornire, finalmente, un primo identitik della materia oscura.
«Eravamo in condizioni “blinded” - racconta Elena Aprile, riferendosi al fatto che un’analisi prima del momento concordato avrebbe potuto condizionare i risultati -. Non volevamo essere influenzati da dati non corretti e fare errori. E così, quando abbiamo spinto il bottone dei computer per analizzare quei 100 giorni, abbiamo cominciato a indagare quanti eventi si fossero verificati in una specifica regione d’energia». Le previsioni ne facevano supporre un paio, causati dal «rumore di fondo» dell’esperimento, mentre dai display ne sono emersi tre. La spiegazione - ha subito sottolineato la studiosa sul website della rivista «Physical Review Letters» - è una sorta di informazione a rovescio, un’assenza invece di una presenza, ma non per questo meno significativa. Se delle Wimp non c’è ancora l’evidenza che si cercava, adesso il cerchio si stringe e si può affinare ulteriormente la trappola per afferrarle.
«La ricerca, infatti, continua e gli ulteriori dati che stiamo raccogliendo ci porteranno più vicini a un'eventuale scoperta. Già adesso - continua Elena Aprile - i risultati ottenuti pongono vincoli più stringenti sulle interazioni di queste particelle con i nuclei della materia ordinaria. E questo grazie alle prestazioni straordinarie del nostro rivelatore, in cui siamo riusciti a ridurre il fondo radioattivo a livelli senza precedenti».
Visto che tutto si gioca con deboli scontri e flebili flash energetici, quelli che in gergo si definiscono fenomeni di scintillazione e ionizzazione, il prossimo passo - aggiunge Elena Aprile - è rendere ancora più sensibili i fotomoltiplicatori, i rilevatori di luce capaci di accorgersi delle interazioni tra materia oscura e Xenon. La sensazione è di non essere tanto lontani da qualche scoperta decisiva e così cresce l’eccitazione. Il tempo stringe, perché la competizione sale di tono. Mentre al Gran Sasso, il laboratorio dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, si spera di vincere un altro round con un «upgrade» dei test, creando un nuovo mega-contenitore da una tonnellata, dagli Usa al Giappone altri gruppi sono in corsa per trovare le Wimp. E anche l’acceleratore del Cern potrebbe presto dire la sua, mentre la prossima settimana partirà con lo shuttle l’esperimento «Ams», che potrebbe fornire ulteriori indicazioni sulla materia oscura.
«E’ una grande sfida», si entusiasma la scienziata che è stata una delle allieve del Nobel Carlo Rubbia e l’Italia - almeno in questo settore - ha un ruolo di primo piano che solo la miopia di chi tiene stretti i cordoni della borsa potrebbe vanificare: «Io sono qui per arrivare prima!».
La Stampa Tuttoscienze 20.4.11
Così ci attraversano i neutrini
di Gianni Parrini
L’esperimento «Borexino»
Sono gli orfani dell'Universo. Al momento del Big Bang, mentre gli altri componenti della materia si sono legati insieme per l'eternità, loro sono rimasti disaccoppiati e da allora viaggiano in solitario, senza interagire mai (o quasi) con i loro simili. Parliamo dei neutrini, particelle elementari dalla massa infinitesimale (migliaia di volte inferiore a quella dell'elettrone), privi di carica elettrica, ma presenti in grandi quantità nel cosmo: in un centimetro cubo ce ne sono circa 300.
Per quanto anonimo, il loro vagare senza meta non è privo di interesse per la scienza, che ha saputo prestare loro orecchio: i neutrini, infatti, si sono rivelati straordinari messaggeri in grado di comunicare numerose informazioni su molti dei fenomeni astronomici di cui non conosciamo bene i meccanismi. Tra i centri più qualificati nello studio di queste particelle ci sono i laboratori dell' Istituto nazionale di fisica nucleare al Gran Sasso, dove sono stati presentati i risultati di un esperimento rivolto all'«ascolto» dei neutrini di bassissima energia (inferiore a un 1 Mev) che rappresentano il 90% di quelli provenienti dal centro del Sole.
«Queste particelle sono prodotte dalle reazioni nucleari che avvengono nel cuore della stella, così come i fotoni - spiega Gianpaolo Bellini, responsabile scientifico del progetto -. Ma, mentre questi ultimi impiegano 100 mila anni per passare dal centro alla superficie, subendo interazioni che ne alterano il contenuto, i neutrini sbucano fuori in 2-3 secondi e sono in grado di mantenere intatte le informazioni sui processi che li hanno generati». Dunque, questi microscopici pezzetti di materia sono come una sonda in grado di penetrare in profondità e di portare fino a noi notizie sul funzionamento del Sole. Così, quando la stellamadre comincerà a esaurire il combustibile che la fa brillare (un evento previsto tra miliardi di anni), osservando l'emissione dei neutrini, potremmo accorgercene immediatamente.
Una massa quasi nulla, dunque, permette a queste particelle di attraversare pianeti, stelle e qualunque aggregato di materia. Anche voi lettori: in questo momento, mentre leggete, miliardi di neutrini provenienti dal Sole entrano ed escono indisturbati dal vostro corpo. Se da un lato questa caratteristica li rende interessanti, dall'altro complica il rilevamento. Per «acchiapparne» qualcuno, infatti, occorrono grandi apparati sotterranei, come quelli dei laboratori Infn del Gran Sasso, dove i raggi provenienti dal cosmo sono schermati e la radioattività ambientale è stata limitata. «Oggi Borexino è l'unico strumento in grado di registrare i neutrini di bassissima energia e ha abbassato di 10 volte la soglia precedentemente toccata in analoghi progetti in Canada e Giappone. Ciononostante, in un giorno riesce a rilevarne solo una cinquantina».
L'esperimento è attivo dal 2007 e lo rimarrà fino al 2016. «Vista l'evanescenza di queste particelle, occorrono tempi lunghi", prosegue Bellini. Ma sono già stati raggiunti importanti risultati: «Sappiamo che i neutrini di bassa energia cambiano in parte identità attraversando la materia solare, secondo la cosiddetta “oscillazione”, un fenomeno di “nuova fisica” non previsto dal Modello Standard, di cui restano da chiarire ancora diversi aspetti - conclude -. Inoltre, abbiamo appurato che l'attraversamento della Terra, al contrario di quanto avviene per il Sole, non influenza l'identità del neutrino».
Il Mattino 20.4.11
Saramago vive ancora nella casa ora museo
di Paola Del Vecchio
«Aprire la casa è una maniera di ricordare ma soprattutto di far continuare José Saramago». Per Pilar del Rio, la compagna di vita, traduttrice allo spagnolo e dallo scorso 18 giugno vedova di José Saramago, aprire al pubblico «A Casa», la residenza di Tias, a Lanzarote, in cui il premio Nobel portoghese ha vissuto gli ultimi 18 anni, non è solo un tributo alla memoria ma la forma di dare conto di una presenza. Quella che si aggira fra il sofà nella grande biblioteca tappezzata di libri, e la scrivania dove venivano scritte le annotazioni letterarie, le memorie, le riflessioni politiche. «Lo annunciai a Lanzarote, alla fine dello scorso anno - ricorda Pilar, giornalista e presidentessa della Fondazione intitolata alla scrittore - Per me far continuare José Saramago era andare in Portogallo, come fece Ricardo Reis alla morte di Fernando Pessoa, ma era anche lasciare aperta la casa e la biblioteca in cui lui abitò, riempirla di respiri, di vita, di calore umano». Pilar disse che avrebbe aperto «A Casa» nove mesi «dopo la morte di chi per molti non morrà». Ed ha mantenuto la promessa. All’inaugurazione c'erano anche Violante, la figlia di Saramago, e i nipoti Ana e Tiago. E i tanti amici, gli editori, i traduttori venuti da Portogallo, Spagna e Italia, per godere dell'immensità del mare o della maestosità della vista dei vulcani, che si aprivano allo sguardo dell'autore de Il viaggio dell'elefante o di Saggio sulla lucidità. Una casa «fatta di libri», come la definì Saramago stesso, in cui nessun quadro, nessun oggetto è stato spostato da dove lui l'aveva poggiato. In cui, spiega Pilar, «la vita si mantiene nello spazio di Saramago e Saramago sarà non solo nei suoi libri, ma anche negli alberi del giardino, negli olivi che piantò, nelle palme forti, nel tavolo, nella sedia consumata, nelle foto dei nonni...». Il mondo del Nobel portoghese che, così, continua a vivere per tutti coloro che vogliono ancora respirare la sua opera.
Repubblica Firenze 20.4.11
Leonardo e Michelangelo
I disegni perfetti e la sfida infinita dei geni rivali
di Mara Amorevoli
Una mostra nella Casa Buonarroti per la prima volta mette a confronto stili e tecniche dei maestri del Rinascimento
Cavalli, ritratti e architetture La rassegna (aperta oggi fino ad agosto) anticipa l´appuntamento previsto ai Musei Capitolini di Roma
Piccoli fogli ingialliti con disegni a matita, penna e inchiostro color seppia, che raffigurano cavalli, corpi muscolosi, teste maschili e femminili, architetture. Segni perfetti, ora più sfumati e delicati, ora più calcati e irruenti. È un confronto tra giganti quello che, per la prima volta, riunisce i disegni di Leonardo e di Michelangelo. Un "derby" tra geni, in nome di una supposta e romanzata rivalità, ospitato al museo di Casa Buonarroti. Dove Leonardo e il più giovane Michelangelo (nato nel 1475, 23 anni dopo il già famoso "rivale") si fronteggiano con 12 disegni dell´uno - giunti a Firenze dalla Veneranda Biblioteca Ambrosiana di Milano, depositaria di 2300 disegni del Codice Atlantico e altri fogli, ossia del più ricco patrimonio grafico leonardesco - e 10 dell´altro, scelti tra gli oltre 200 custoditi nell´archivio Buonarroti.
Una sfida che si rinnova nel nome de La scuola del mondo, titolo della mostra che prende il nome dalla definizione che Benvenuto Cellini dette ai cartoni preparatori che i due maestri del Rinascimento avevano dipinto per realizzare i monumentali affreschi celebrativi delle vittorie fiorentine nella Sala del Gran Consiglio di Palazzo Vecchio, oggi Salone dei Cinquecento. Due prototipi perduti, diventati talmente famosi da essere copiati e studiati da tutti gli artisti contemporanei, strumenti appunto imprescindibili di quella "scuola del mondo" che i due geni rappresentarono con i loro disegni. E se ancora oggi si cerca la perduta "Battaglia di Anghiari" nelle pareti del Salone di Palazzo Vecchio, commissionata dalla Signoria fiorentina nel 1503 a Leonardo, incaricato di raffigurare la vittoria contro i milanesi nel 1440, al contrario Michelangelo non fece in tempo a realizzare nel 1504 la "Battaglia di Cascina" (che vide i fiorentini sconfiggere i pisani nel 1364) di cui concepì, prima di partire per Roma, solo quel cartone poi perduto.
Due capolavori di cui restano solo le copie, in cui i due maestri si confrontarono con grovigli di cavalli e figure di guerrieri e "ignudi" eroici in battaglia. Le stesse che compaiono nei fogli in mostra, con lo studio di un cavallo per la "Battaglia di Anghiari", di un nudo di schiena riferito a quella di Cascina. Possenti schiene di cavalli, corpi e volti con tratti anatomici perfetti, e poi progetti di fortificazioni, schizzi di fontane che testimoniano l´ingegno supremo nel primato del disegno, in quei tratteggi strumento di ogni artista. Due stili e paradigmi diversi, improntati a tecniche e visioni del mondo diverse, analizzati dai curatori Pietro C. Marani per Leonardo e Pina Ragionieri, direttrice di Casa Buonarroti per Michelangelo. «Per Leonardo il disegno è indagine scientifica, sperimentazione, esercizio intellettualistico. Per Michelangelo il disegno è trasfigurazione, progettazione simbolica» osservano i due studiosi. La rassegna aperta da oggi al 1 agosto (via Ghibellina 70, 10-17, chiuso martedì, 6,50 euro, 8 euro cumulativo con il complesso di Santa Croce, info 055-241752-www. casabuonarroti. it) anticipa quella che si terrà prossimamente a Roma ai Musei Capitolini, e nasce dalla collaborazione con MetaMorfosi, associazione di Pietro Folena, che per 6 anni ha l´esclusiva di organizzare eventi in Italia e nel mondo con il patrimonio di Casa Buonarroti. «Accordo che ci permette di incassare 180 mila euro all´anno, un terzo del nostro bilancio» ha spiegato il presidente della Fondazione museo Eugenio Giani.
Corriere Fiorentino 20.4.11
I due geni
Leonardo e Michelangelo: battaglie, nudi, volti, cavalli Le meraviglie nei disegni
di Valeria Ronzani
«La scuola del mondo» , sintesi mirabile che si deve a quel geniaccio di Benvenuto Cellini, racchiude in una frase una delle stagioni più stupefacenti dell’ingegno umano. La scuola del mondo è «il marchio di fabbrica» che Pietro C. Marani e Pina Ragionieri hanno voluto anteporre al titolo dell’esposizione alla Casa Buonarroti: Leonardo e Michelangelo Disegni a confronto. Dieci disegni di Leonardo e due di Giovanni Antonio Boltraffio, uno dei primissimi allievi di Leonardo, provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano coi suoi 2200 fogli è la più ricca collezione al mondo di autografi di Leonardo), a stretto contatto con dieci disegni del Buonarroti, cui Casa custodisce la maggior raccolta esistente di suoi disegni. Circa 200 fogli sopravvissuti, perché Michelangelo stesso, ce lo narra Vasari, sul finire dell’esistenza fece un gran falò di tutto quello che, ai suoi occhi, non appariva perfetto. Gettando nella costernazione pure il Granduca Cosimo I, che già assaporava di sfogare la sua brama collezionistica delle cui voglie frustrate fece le spese il povero Tommaso Cavalieri, il giovane amico a cui Michelangelo aveva donato un meraviglioso disegno raffigurante Cleopatra, costretto a «mollarlo» a Cosimo. Ciò non toglie che anche sul fronte michelangiolesco la mostra offre l’occasione di ammirare veri capolavori, ad iniziare dal celeberrimo Nudo di schiena, in cui è stato individuato uno studio precoce per una delle figure della Battaglia di Cascina. E qui si torna a quella «Scuola del mondo» di cui ragionava Cellini. Perché una vera scuola del mondo, che impresse la propria lezione agli artisti dei secoli a venire, furono quei due cartoni che Leonardo da Vinci e Michelangelo Buonarroti realizzarono per ottemperare alla commissione della Repubblica Fiorentina. Nel Salone dei Cinquecento, uno in fronte all’altro, a celebrare i fasti di quella piccola grande città che, cacciati i Medici, bruciato Savonarola coi suoi troppi rigori, aveva ricercato nel suo intermezzo di libertà la moderazione di un gonfaloniere come Piero Soderini. Che chiamò il genio affermato, Leonardo, e l’astro più che nascente, Michelangelo, a immortalare nel ricordo de La battaglia di Cascina (Michelangelo) e La battaglia di Anghiari (Leonardo) le glorie repubblicane. Come andò a finire è cosa nota; Michelangelo se ne andò a Roma lasciando le cose a mezzo (realizzò solo il cartone), Leonardo sperimentò, sperimentò, ma l’esperimento non andò a buon fine, e tutto, ma forse non tutto, si sciolse. Ecco che uno dei gialli più avvincenti dei nostri giorni è la caccia ad eventuali testimonianze sopravvissute, sulla parete già individuata, nel Salone dei Cinquecento. Di quei due meravigliosi progetti ci resta memoria attraverso studi preparatori, schizzi, autografi e non, o vere e proprie copie. In mostra, oltre al nudo di schiena, uno Studio di torso sempre per la Battaglia di Cascina, mentre sul fronte Leonardo un foglio del Codice Atlantico affianca un vibrante studio di cavallo rampante (legato alla Battaglia di Anghiari), con tutta l’instabilità e mobilità dell’animale, schizzato coi tratti di una morbida matita, a uno spettacolare disegno a penna e inchiostro di un tratto di mura merlate attraversate da una pioggia di proiettili. Le scelte operate da Pietro Marani vogliono dare un saggio delle diverse tecniche grafiche privilegiate da Leonardo nel corso della sua carriera. Così come i disegni che Pina Ragionieri ha scelto dal corpus michelangiolesco focalizzano alcuni momenti salienti della sua biografia, per chiudersi con un foglio ascrivibile agli ultimi anni dell’artista, uno studio di cavalli a matita nera, con tracce di matita rossa, quasi un ribaltamento della vulgata che vuole Michelangelo interessato solo agli uomini. La mostra è una sorta di preludio all’appuntamento autunnale ai Musei Capitolini di Roma, dove l’associazione Metamorfosi, che ha una partnership forte con Casa Buonarroti, organizzatrice dell’appuntamento fiorentino, metterà in piedi un’esposizione che dovrebbe proporre una settantina di disegni di Leonardo e Michelangelo. Stessi curatori, stessi partner istituzionali. Ma già nelle piccole stanze fiorentine gli stimoli si sprecano. Si vede come Leonardo, negli anni delle battaglie contrapposte, si avvicini al nudo eroico di Michelangelo. Relativizzando il celebre passo del manoscritto 8936 di Madrid, con l’allusione a figure come «sacchi di noci» per i troppi muscoli. Si respirano le stesse radici, ma si sintetizzano le radicali distanze, due visioni del mondo differenti» , nota la Ragionieri. E Marani chiosa: «Per Leonardo il disegno un’indagine scientifica, che si attiene sempre alla realtà, per Michelangelo è trasfigurazione, è già simbolico» .
Corriere Fiorentino 20.4.11
La coppia degli eterni rivali, che duelli nel Rinascimento
di Vincenzo Bonami
Immaginiamo una mostra dove la Monna Lisa è appesa su una parete davanti al David. Se questa mostra fosse possibile (perché no?) potrebbe sintetizzare perfettamente il rapporto fra Leonardo e Michelangelo. Chi era più bravo? Domanda oziosa. Essendo entrambi al di sopra di qualsiasi giudizio. Oggi. Ma quando erano vivi anche loro erano uomini. Anche loro, al di là del loro genio, avevano le debolezze degli altri esseri umani. Anzi di più perché gli artisti più grandi sono più insicuri della loro grandezza si dimostrano. Non solo gli artisti dell’arte ma anche quelli di ogni altra disciplina dove il talento ha la meglio spesso sulla volontà o l’intelligenza. Pep Guardiola e Mourinho, Bartali e Coppi, Federer e Nadal per fare solo dei nomi dello sport. Ma anche in letteratura o musica la rivalità e le gelosie sono all’ordine del giorno. Pensiamo al Salieri e al giovane Mozart. Gli artisti soffrono sempre quando davanti loro trovano un talento uguale se non più grande e peggio ancora se più giovane. È naturale. Non importa la dimensione dell’ego perché in un artista il demone dell’insicurezza si annida nella profondità dell’anima. Più uno è egocentrico, più uno è un grande artista, più uno è un genio, più sa capire quando davanti a se ha un rivale pericoloso e forse migliore. Matisse deve avere sofferto le pene dell’inferno davanti alla furia creativa di Picasso che da ogni scarabocchio poteva tirare fuori un capolavoro. Eppure Matisse è un gigante. Non importa. Jeff Koons è geloso di Charles Ray, lo scultore che ha creato il famoso ragazzo con la rana in cima a Punta della Dogana a Venezia. Eppure Koons è più ricco e famoso dell’altro. Non importa perché un artista sa quando un altro artista crea qualcosa di assoluto e superiore aldilà della fama e dei soldi. Ma torniamo al sorrisetto della Gioconda davanti agli attributi maschile del giovane David. Sorride la donna frigidamente davanti alla sensualità del bambinone. Sta qui la grande differenza fra due geni. Leonardo genio frigido Michelangelo genio sensuale. Leonardo deve aver sofferto le pene dell’inferno, lui cinquantenne, calcolatore, razionale, famoso, trovandosi davanti questo giovanotto, forse non bravo in matematica o ingegneria come lui, meno talentuoso come pittore ma certamente imbattibile sul piano dell’energia spirituale, emotiva e creativa. Leonardo morirà prima ma se fosse vissuto più a lungo davanti ad un capolavoro come la Pietà Rondanini, oggi al Castello Sforzesco di Milano, gli sarebbe venuto un disturbo nervoso. Leonardo era un calcolatore e come tutti i calcolatori quando sbagliava negava l’errore nascondendo l’evidenza. Michelangelo era un istintivo e come tutti gli artisti istintivi capaci di fermarsi prima di raggiungere la perfezione mostrando e accettando la meraviglia dell’imperfezione, che è poi quello che ci rende umani e meravigliosi al tempo stesso. Difficile emozionarsi davanti ad una tavola di Leonardo. Anche davanti all’Ultima Cena a Milano è più la mitologia e la storia dell’affresco che ci appassiona che l’anima del dipinto. Ma davanti alla scultura di Michelangelo, particolarmente quelle dove il genio e la tecnica cedono l’onore delle armi al tormento e al dubbio del nostro destino umano, è impossibile non essere sopraffatti dall’entusiasmo. Non è quindi una questione di chi fosse o chi sia il migliore. La questione è quella di osservare due modi completamente diversi di essere artisti. In Leonardo la tecnica deve essere al servizio delle idée e dei concetti. In Michelangelo tecnica e concetti sono solamente gregari delle idée e della passione. Leonardo come tutti i perfezionisti vuole dimostrare quanto bravo ed intelligente fosse. Per questo trovandosi a dover decidere della sorte del capolavoro del collega più giovane prova a mettergli i bastoni fra le ruote. Michelangelo non ha bisogno di dimostrare nulla. Sa che le sue opere parlano da sole, per questo davanti all’esamino pedante al quale è sottoposto il suo David s’arrabbia. Sa che è una questione di gelosia e non di logica la decisione di dove andrà a finire. Nella disputa fra Leonardo e Michelangelo c’è tutta la natura umana. La paura del vecchio che vede avanzare il nuovo e che irrazionalmente vuole bloccarlo pur sapendo che il futuro è inevitabile. Una parabola eccezionale per l’Italia di oggi dove i Leonardi, si fa per dire, usano qualsiasi mezzo per soffocare i Michelangioli, si fa sempre per dire, che scalpitanti voglio creare e trasformare.
Corriere Fiorentino 20.4.11
«Sciopero ad personam per il Primo Maggio» I sindacati: «Sì, è così»
Ma Cgil, Cisl e Uil oggi lo estenderanno a tutta la Toscana
di Federica Sanna
Il Primo Maggio sarà uno sciopero ad personam» per il sindaco Renzi. Vale dire contro di lui. «I sindacati della Toscana non lo hanno proclamato, anche se in tante città i negozi rimarranno aperti— dice— mentre a Firenze si farà contro il sindaco» . Così dopo la decisione presa da Cgil, Cisl e Uil, Palazzo Vecchio ha deciso di annullare l’incontro di ieri con le grandi catene di negozi, per prevedere la volontarietà nel giorno di festa. In serata Cgil, Cisl e Uil hanno stabilito di estendere lo sciopero a tutta la regione, l’ufficializzazione arriverà oggi. I sindacati fiorentini hanno indetto lo sciopero del Primo Maggio in risposta all’ordinanza del Comune, che permette ai negozi del centro storico di aprire. Una scelta presa nonostante la disponibilità data dal Comune a parlare con le categorie per concedere di dare libertà di decidere se lavorare o meno ai loro dipendenti. Risultato: «Lo sciopero rompe tutto — afferma il sindaco — qualche sindacato preferisce fare una frittata per poter cavalcare politicamente questa protesta e non risolvere davvero il problema» . Un’occasione persa secondo il sindaco: «Avevamo cercato di trovare un punto di equilibrio per quelle commesse che lavorano tutte le domeniche, volevamo invitare i grandi magazzini del centro a non farle lavorare, anche se hanno firmato un accordo che dice che devono farlo» . E ancora: «Avevamo proposto di far lavorare gli interinali per far diventare la festa del lavoro una festa di chi il lavoro non ce l’ha. Ma i sindacati si sono messi di traverso e a malincuore abbiamo rinunciato alla possibilità di accordo» . «Eravamo vicini a trovare una soluzione — aggiunge il vicesindaco Nardella— ma sono stati vanificati i nostri sforzi, questo sciopero ci lascia allibiti» . Per Palazzo Vecchio è impensabile che le migliaia di persone che arrivano a Firenze «trovino una città chiusa perchè nessuno può aprire» . Poi un messaggio ai lavoratori: «Alle commesse stufe di lavorare tutte le domeniche dico che è un problema di accordi sindacali firmati, non è un problema del Comune» . E aggiunge: «È una scelta fatta anche da tanti altri Comuni, non è un obbligo. Ma a Firenze siamo agli scioperi ad personam» . «È assolutamente vero che lo sciopero è rivolto contro di lui — ammette Barbara Orlandi della Cgil — perchè a lui avevamo chiesto di revocare l’ordinanza» . Intanto Confesercenti ha consegnato, ieri, una petizione di 150 firme di negozi che appoggiano la scelta di Palazzo Vecchio.
Corriere Fiorentino 20.4.11
«Commesse al lavoro? Tenga aperti gli asili»
di Claudio Bozza
Roberto Pistonina, segretario della Cisl di Firenze, il sindaco taccia la protesta unitaria dei sindacati per il Primo Maggio come uno sciopero «ad personam» . Che ne pensa? «Se Matteo Renzi ha deciso di esprimersi in questi termini sono problemi suoi. La Festa dei lavoratori, fino a quando c’era Leonardo Domenici, era una giornata intoccabile» . Il sindaco sostiene da sempre che non chiuderà mai la città per motivi ideologici. «Rispondo con una domanda: che motivo aveva di andare toccare una giornata del genere, colpendo una categoria, già fragilissima, come quella delle commesse? Tutti abbiamo molto da fare e certo non perdiamo tempo con scioperi "ad personam". Un sindacato deve difendere i diritti dei lavoratori, questo è il suo mestiere» . Non crede che il sindacato abbia perso rappresentatività e autorevolezza? «Noi siamo qui per regolamentare un rapporto di lavoro, non per accettare supinamente le decisioni del sindaco e ci batteremo con tutte le nostre forze. Ci sono quattro festività intoccabili: Natale, Pasqua, Primo dell’anno e Primo maggio. Renzi giustifica la sua decisione sventolando gli alberghi pieni e turisti che hanno necessità di avere le vetrine aperte? Allora tenga gli asili comunali aperti fino alle 21, per venire incontro a chi lavora fino a tardi» . I negozi di città come Siena e quelle della costa staranno aperte regolarmente. Perché per il Primo Maggio sciopererete solo a Firenze e non in tutta la Toscana? «Perché sono due anni che Renzi fa il sindaco e due anni che se ne esce con questa provocazione. Basta con la demagogia: non può venire a dire che ognuno può lavorare su base volontaria. Non è scelta opzionale. Vuol dire non conoscere il mercato del lavoro di questo Paese, specie se aspira diventare un leader nazionale del Pd. Il sindaco, che è di centrosinistra ma forse se lo è dimenticato, non capisce che le commesse e i commessi che hanno firmato contratti in bianco con le domeniche "obbligatorie"sono persone con l’acqua alla gola» . Ma si può scioperare in un giorno festivo? «Se qualcuno ti obbliga ad andare a lavorare sì. C’è una deroga del sindaco che ha legittimato i datori di lavoro e la proclamazione di questo sciopero è l’unica arma che abbiamo per difendere chi non ha quasi più diritti» . Dove sarà il Primo Maggio? «Sarò a fianco dei lavoratori, dopo il corteo di protesta stiamo organizzando un comizio conclusivo in piazza della Repubblica» . La questione Primo Maggio pare un collante con la Cgil. «Non voglio strumentalizzazioni. A livello nazionale ci sono frizioni evidenti, mentre a Firenze ci sono relazioni politiche che ci consentono di stringere intese unitarie: siamo sufficientemente intelligenti per trovare sintesi sulle questioni principali» .