martedì 4 giugno 2019

il manifesto 4.6.19
Gramsci torna a Mosca
Mostre. Al Museo statale di storia della letteratura Dahl, una rassegna dedicata all'intellettuale comunista. Fra cimeli di famiglia e riflessioni sul suo pensiero politico
di Yurii Colombo


Antonio Gramsci «torna a Mosca», dove visse tra il 1922 e il 1923 nella veste di delegato del Partito comunista italiano al Comitato esecutivo del Comintern, con una esposizione dedicata ai suoi celebri Quaderni dal carcere. La mostra, allestita presso il centralissimo Museo statale di storia della letteratura Dahl, è appena stata inaugurata e resterà aperta al pubblico fino al 7 luglio. Una manifestazione che solo in parte riproduce l’allestimento proposto in più d’una occasione in Italia dall’Istituto Gramsci.
PER QUESTA OCCASIONE infatti sono stati aggiunti documenti, libri, lettere (in italiano e in russo) provenienti dalla collezione dell’Archivio statale russo di storia sociale e politica oltre che foto e oggetti personali dalla raccolta privata del nipote del rivoluzionario sardo ancor oggi residente nella capitale russa e che continua a portare orgogliosamente il nome del nonno.
Tra i cimeli di famiglia si possono ammirare un posacenere che l’indomito fumatore «Nino» trascinò con sé per molti anni e la copia de Il Principe di Niccolò Machiavelli, utilizzata nel periodo della sua prigionia. «Si tratta di un evento di straordinaria importanza sotto il profilo storico e culturale in quanto permette di riaprire un dibattito in Russia sul retaggio politico e la memoria storica, legandolo alla figura di Gramsci», ha spiegato Olga Strada, direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Mosca.
L’interesse per la figura del comunista italiano è sempre rimasta viva in Russia. Lo conferma l’ampio interesse suscitato tra gli studiosi dalla relazione tenuta dal nostro Guido Liguori sulle affinità teoriche tra Gramsci e Rosa Luxemburg in un convegno sui cento anni del Cominten, tenutosi proprio qui a Mosca lo scorso marzo. Del resto, anche in Italia in filo rosso che lega il capo comunista alla Russia è tornato d’attualità. Grazie alla ricerca di Naomi Ghetti, da anni sulle tracce inesplorate della biografia di Gramsci, si è venuta dipanando una trama che lo legherebbe alla corrente del proletkult di Alexander Bogdanov, il controverso ed eretico dirigente bolscevico, venuto alla ribalta recentemente del mercato editoriale italiano con il romanzo a lui dedicato dai Wu Ming e la ripubblicazione dei suoi due romanzi. Proprio del romanzo più famoso di Bogdanov, Stella Rossa, l’autore dei Quaderni avrebbe realizzato una traduzione, come messo in luce da Ghetti, a quattro mani con la sua futura moglie Giulia Schucht.
UN’IPOTESI affascinante, corroborata da un ampio studio di Wu Ming 2 pubblicata sul sito della casa editrice Einaudi, che getta nuova luce sulla traiettoria intellettuale del rivoluzionario italiano soprattutto nel momento in cui si apprestava nel 1923 a mettere in discussione la leadership di Amadeo Bordiga nel partito italiano.
Non è un segreto ormai che molte delle critiche che il comunista napoletano rivolgeva all’Internazionale comunista erano per certi versi simili a quelle coltivate in segreto da Bogdanov in quegli anni.



Corriere 4.6.19
Oggi in edicola la biografia del fondatore del sistema sovietico scritta da Victor Sebestyen
Lenin fu il vero padre del Gulag
L’anima totalitaria del bolscevismo
di Antonio Carioti


Il testo del 1902
La coscienza socialista, scrisse nel «Che fare?», va portata ai lavoratori da un soggetto esterno
Scelte chiare
Sciolse la Costituente, istituì il futuro Kgb, fece requisire i raccolti, scatenò il terrore rosso

Si rese conto che la classe operaia tendeva ad accontentarsi delle riforme
E teorizzò il ruolo guida del suo partito, che poi si tradusse nella dittatura
Karl Marx sosteneva che «l’emancipazione della classe lavoratrice deve essere opera dei lavoratori stessi». Ma il russo Vladimir Uljanov, noto con lo pseudonimo di Lenin, pur proclamandosi seguace fedele del filosofo tedesco, la pensava diversamente. Costretto a lasciare il suo Paese, era disgustato dalle tendenze riformiste crescenti nel movimento operaio internazionale. E si convinse che i lavoratori di propria iniziativa non avrebbero mai maturato un’autentica visione rivoluzionaria: destinati ad abbattere il capitalismo per instaurare un nuovo ordine fondato sull’eguaglianza, secondo la profezia di Marx, non erano tuttavia consapevoli della propria missione storica.
Nell’opuscolo del 1902 Che fare?, l’opera in cui Lenin pose le basi della cultura politica comunista, si legge che «la moderna coscienza socialista può essere portata all’operaio solo dall’esterno». Quindi occorre creare un partito disciplinato di quadri dediti a questo compito, i «rivoluzionari di professione», per guidare i lavoratori nella lotta di classe. Su questa linea Lenin, ricorda Victor Sebestyen nella biografia in edicola da oggi con il «Corriere», non esitò a spezzare l’unità del Partito socialdemocratico russo, al Congresso in esilio del 1903, creando una propria corrente estremista (poi divenuta forza politica autonoma), i bolscevichi, contrapposta a quella moderata dei menscevichi.
Lenin, il cui fratello maggiore Aleksandr era stato impiccato per aver cospirato contro lo zar, era mosso da una passione rivoluzionaria divorante, unita alla fede dogmatica nel trionfo del socialismo attraverso la soppressione della proprietà privata e del mercato. Per raggiungere tale obiettivo era disposto a tutto, anche a tentare la sorte in un Paese come la Russia, in teoria ancora troppo arretrato per collocarsi all’avanguardia sulla via del progresso.
La Prima guerra mondiale gli offrì l’occasione propizia. Da una parte mandò in pezzi l’Internazionale socialista dominata dai gradualisti, poiché i partiti che ne facevano parte scelsero in genere di appoggiare i rispettivi governi nel conflitto. Dall’altra creò una generale assuefazione alla violenza e soprattutto mise alle corde l’Impero russo sotto i colpi della più moderna macchina bellica tedesca. Una situazione critica nella quale Lenin poté inserirsi con il proposito di «trasformare la guerra imperialista in guerra civile»: i proletari in divisa avrebbero dovuto volgere le armi contro i loro sfruttatori.
Il crollo della monarchia all’inizio del 1917, con la Rivoluzione di febbraio, gettò la Russia nel caos. Il nuovo governo provvisorio avrebbe voluto proseguire la guerra, ma il Paese era esausto. E in quel frangente Lenin, tornato in patria con l’aiuto dei tedeschi, giocò d’azzardo con estrema abilità. Reclamò tutto il potere per i soviet, i consigli degli operai, dei contadini e dei soldati, ma in realtà la sua sfiducia nelle masse non venne mai meno: ne assecondò le pulsioni ribellistiche finché gli servirono per impadronirsi del governo con la Rivoluzione d’ottobre, poi non esitò a reprimerle.
Quando i russi elessero un’Assemblea costituente in cui i bolscevichi erano in minoranza, Lenin la sciolse. E istituì subito la Ceka (futuro Kgb), organismo poliziesco incaricato di spargere il terrore fra gli oppositori. Aveva scritto che anche una cuoca avrebbe potuto dirigere lo Stato sotto il socialismo, ma nei fatti governò con il ferro e il fuoco. La «dittatura del proletariato», equivoco concetto formulato da Marx, non poteva che essere, nell’accezione di Lenin, la dittatura dei rivoluzionari di professione, cioè il potere assoluto del suo partito e della sua persona.
Ne scaturì inevitabilmente un’atroce guerra civile, mentre l’espropriazione della borghesia e la messa al bando del mercato si traducevano nel disastro economico: per sfamare le città fu necessario attuare requisizioni forzate di generi alimentari nelle campagne, alle quali seguì, anche per ragioni climatiche, la terribile carestia del 1921-22.
Quando Lenin venne colpito dal primo ictus, nel maggio 1922 (sarebbe morto un anno e mezzo dopo), il regime bolscevico aveva già assunto le fattezze totalitarie che il suo allievo e successore Stalin avrebbe poi accentuato. È fuorviante quindi giustificare i delitti del sistema sovietico adducendo gli ideali di giustizia a quali si richiamava verbalmente. La pretesa di possedere la verità sul corso della storia e l’idea titanica di dirigere l’intera società attraverso una pianificazione dettagliata dell’economia, annientando ogni iniziativa privata, sono vizi strutturali e congeniti del bolscevismo, che comportano una lotta spietata alla libertà umana.
Il Gulag non è stato un caso o una deviazione, bensì la conseguenza logica della politica di Lenin. Tanto è vero che gli stessi effetti si sono prodotti sotto i regimi di matrice comunista a ogni latitudine. La Russia, che ne paga ancora le spese, non ha celebrato per nulla, due anni fa, il centenario della rivoluzione bolscevica. Molti lo hanno fatto invece in Occidente, al riparo di quel capitalismo liberale di cui godono i benefici, pur continuando a esecrarlo.



La Stampa 4.6.14
Il pensiero magico

di Mattia  Feltri

Ieri su internet ha preso a girare un’intervista concessa da Piero Angela a Linkiesta. Era del 2014 e mi ha preso un colpo: pensavo fosse morto e la rilanciassero in memoria. Invece e per fortuna è ancora vivo e si può sperare accetti un giorno o l’altro di fare il presidente della Repubblica o del Consiglio o il capo delle Forze armate, qualsiasi cosa. Nell’intervista spiegava la differenza fra l’Italia di oggi (del 2014) e quella in cui era ragazzo o poco più con gli otto anni impiegati per costruire l’autostrada del Sole, mentre la Metro C di Roma, cominciata nel 2007, non era ancora conclusa e non è ancora conclusa ora, che di anni ne sono trascorsi altri cinque. Ne era causa, aggiungeva, la tendenza del paese al pensiero magico, di chi non si affida a una visione lunga e complessa ma a teorie pseudoscientifiche come alla politica dell’abracadabra, nella bramosia di risposte più facili, immediate, pressoché miracolistiche, e dunque ingannevoli e frustranti. Dall’inizio della crisi economica, le spese degli italiani in maghi e veggenti è aumentata del 500 per cento, e nel 2018 è stata stimata in otto miliardi di euro. Siamo diventati strofinatori di lampade da cui il Genio non esce mai: nel 2008 spendevamo 47 miliardi di euro nel gioco d’azzardo (gratta e vinci, lotto, macchinette), nel 2017 (ultimo dato certo) ne abbiamo spesi centouno. Ecco, ci vorrebbe Piero Angela presidente della Repubblica o del Consiglio o capo delle Forze armate ma lui si ostina a dire no, perché non è il suo mestiere. Purtroppo non è nemmeno il mestiere di tanti che stanno lassù, gli unici che la lotteria l’han vinta davvero.

Corriere 4..6.19
L’uso dei simboli religiosi per unire ceti non omogenei
di Nadia Urbinati


Il successo delle destre sovraniste alle ultime elezioni europee non è stato solo un successo personale dei loro leader nazionali. Né è da ascrivere semplicemente all’uso sapiente dei social. Del resto, Marine Le Pen e Viktor Orbán non sono dei novizi; il loro è un successo di longue durée, fondato su un’idea di società nazionale ed europea non improvvisata. Salvini, ultimo e più giovane, ha appreso l’arte con velocità, seguendo le orme dell’ungherese piuttosto che quelle «repubblicane» della francese: l’uso di simboli religiosi per cementare un blocco sociale per nulla omogeneo. Si tratta di una scelta di notevole significato strategico, soprattutto se si considera che la nostra epoca e il continente europeo sono secolarizzati. Ma l’uso dei simboli religiosi serve a far marciare quella che Rogers Brubaker ha suggerito di chiamare ideologia del «civilizzazionismo». Il primo a metterla in pratica fu vent’anni fa il leader populista dei Paesi Bassi, Pim Fortuyn che con un mix di anti-islamismo e libertarismo coniò il discorso della superiorità della civiltà olandese, tollerante in materia di genere e morale sessuale, per farsi portavoce dell’inquietudine diffusa negli ambienti omosessuali verso i valori musulmani. La civiltà liberale ed europea contro quella islamica.
In Italia e in Ungheria il «nativismo» è forse meno liberale che in Olanda; ma la narrativa civilizzazionista è facilmente adattabile ai contesti: la nostra civilità «giudeo-cristiana» dice Salvini; la nostra patria «bianca e cristiana» dice Orbán. Un’ideologia malleabile e adattabile alle più diverse situazioni socio-economiche e culturali. Nelle regioni italiane del Nord ricco e plurietnico, vale a dare il senso di unicità del «noi» e di protezione dei traguardi raggiunti con le «nostre fatiche e il nostro lavoro». Nelle regioni del Sud (dove Salvini non è ancora riuscito a far dimenticare l’anti-terronismo della prima Lega) con una società disaggregata e dove lavoro e benessere scarseggiano, i simboli religiosi della civiltà cristiana prendono contorni più emotivi, veicolando lo scontento sociale che la presenza degli immigrati africani acutizza. A Rosarno, a Riace, a Lampedusa la Lega ha fatto il pieno di voti. Come anche nelle terre della Bassa Padania, nel largo e ricco hinterland del Nord che ha trovato in Salvini il paladino del regionalismo differenziato.
Il linguaggio del rosario e della croce baciata in omaggio alla vittoria elettorale svolge funzioni diverse: di identità culturale e di aiuto provvidenziale. Ringraziando pubblicamente il Supremo dopo le elezioni europee, Salvini ammette i suoi poteri limitati e manda un messaggio ai suoi sostenitori: come a voler dir loro che non gli si dovrà imputare tutto quello che non riuscirà a fare. Mentre i simboli della civiltà giudeo-cristiana fanno da collante che tiene insieme Nord e Sud, intraprendenza e fortuna, sono anche un’ottima rete di protezione per un leader che si sente carismatico.
La narrativa di Salvini costruisce in questo modo un aggregato a partire dalle molte e diverse rivendicazioni. Sulle orme di Donald Trump trova le corde giuste per unire interessi che difficilmente stanno insieme: quelli dei ceti medio-bassi e lavoratori precari e quelli dei ceti medio-alti; i «dimenticati» e gli «ultimi» insieme ai «fortunati» e ai «primi»; coloro che cercano la mano pubblica e coloro che vorrebbero ridurla. Rotto il contratto sociale che doveva garantire la collaborazione tra le parti mediante tassazione progressiva e programmi di politiche pubbliche, la narrativa civilizzazionista tiene insieme basse tasse e assistenza, neoliberismo e carità. In un indimenticabile album, Francesco Guccini tratteggiava un percorso immaginario «fra la via Emilia e il West», fra la grande bassa e il grande middle americano: luoghi senza un orizzonte, nei quali le aggregazioni restano forti a condizione che ci siano punti di riferimento visibili. È così che l’Emilia-Romagna vede alle elezioni europee la Lega diventare primo partito, con i centri storici ai democratici e le province e la grande bassa a Salvini. In questi luoghi, dove ceti popolari e immigrati vivono gomito a gomito, il rosario diventa un segno di riconoscimento del «noi», un sostituto altrettanto visibile da lontano di quanto lo erano le bandiere rosse con la falce e il martello.

Repubblica 4.6.19
Legittima difesa
Il paradosso anti-Viminale
di Luigi Manconi


Per un malizioso paradosso della storia, la norma sulla legittima difesa, brandita come una spada fiammeggiante dal ministro dell’Interno per affermare una concezione privatistica e proprietaria della sicurezza, gli si è ritorta contro. Una sentenza del 23 maggio scorso del Tribunale di Trapani ha affermato che è legittima la difesa destinata a tutelare il primo e fondamentale dei diritti umani: quello alla vita, quando essa è minacciata da un potere dispotico, dai suoi apparati armati e dai suoi istituti di privazione della libertà. Un passo indietro. L’8 luglio del 2018, 67 tra migranti e profughi vengono soccorsi nel Mar Mediterraneo dalla motonave italiana Vos Thalassa, che si dirige verso la Libia per "restituirli" nelle mani di coloro dai quali sono fuggiti. I naufraghi, tuttavia, impongono un cambiamento di rotta verso le coste italiane, sono raccolti dal pattugliatore Diciotti e avviati al porto di Trapani, dove dovranno aspettare cinque giorni prima che sia loro consentito lo sbarco. Il ghanese Ibrahim Amid, 27 anni, e il sudanese Ibrahim Tijani Busharano, 32 anni, indicati come capi "dell’ammutinamento", vengono arrestati e portati nel carcere di Trapani, accusati di "violenza, minaccia e resistenza aggravata a pubblico ufficiale" e di "favoreggiamento dell’immigrazione clandestina".
Dieci giorni fa, il giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Trapani, Piero Grillo, ha emesso una sentenza nella quale si afferma che "il fatto non costituisce reato" e ha mandato assolti Ibrahim Amid e Ibrahim Tijani Busharano, ordinandone la scarcerazione immediata. La sentenza è di elementare e assoluta ragionevolezza: e segna, oggi più che mai, un passaggio importante nella storia materiale dei diritti umani e del loro faticoso combattimento per la sopravvivenza (un vero e proprio corpo a corpo) in un mondo ostile.
Il procedimento ha seguito un iter complesso. Su richiesta del pm, il giudice per le Indagini preliminari aveva ritenuto sussistenti i gravi indizi di colpevolezza e l’ordinanza di custodia cautelare veniva confermata dal Tribunale del riesame di Palermo. Poi, il 23 maggio, l’udienza per il rito abbreviato, richiesto dagli imputati, ha un esito tutt’affatto diverso. Come si è detto, il gup assolve gli imputati, ritenendo sussistente la legittima difesa. Attendiamo di leggere le motivazioni, come usa dire, ma da quanto si può sapere e dedurre viene ribadito un principio essenziale: di fronte al pericolo rappresentato dalla consegna a un regime liberticida resistere è legittimo. Di più, è un diritto. E dovrebbe essere superfluo ricordare che la non ottemperanza a un ordine ingiusto è parte integrante del processo di formazione del diritto moderno e ne costituisce una delle leggi per così dire "sacre".
Alla luce di queste, e della loro trascrizione nei codici, va considerata la questione della natura legittima o illegittima della difesa nei confronti di un pericolo quale quello rappresentato per i profughi dal ritorno coatto in Libia. Così, dopo i dettagliati rapporti delle Nazioni Unite e degli organismi indipendenti, dopo le decine e decine di reportage e testimonianze, raccolte laddove si consumano le crudeltà più efferate, oggi è un giudice italiano ad affermare, con la forza di una sentenza, che la Libia non è un luogo sicuro.
Fuggirne è, dunque, giusto.
Parallelamente, è stato attivato un altro procedimento presso la Corte europea dei Diritti umani, che già ha dichiarato l’ammissibilità di un ricorso presentato dagli avvocati Marina Mori e Paolo Oddi. Sulla base di una consolidata giurisprudenza della Corte, si è sollevata la questione della pesante interferenza a opera di autorità pubbliche, che potrebbe condizionare la regolarità del "giusto processo" sui fatti del luglio 2018 e la loro valutazione da parte dell’opinione pubblica. Già prima che i naufraghi sbarcassero in Italia, i ministri Salvini e Toninelli sbraitavano contro «i facinorosi» e «i violenti dirottatori», che «dovevano scendere in manette» ed essere «puniti senza sconti».
Un’interpretazione davvero strampalata del principio costituzionale della presunzione di innocenza e una rivendicazione tracotante del garantismo per censo.

il manifesto 4.6.19
La lunga traccia del movimento
Stella nera sulla Cina. La rivolta del maggio ’89 esprime i conflitti del decennio di Deng, caratterizzato dalla reintroduzione dei modelli capitalistici
di Edoarda Masi


Questo articolo, drammaticamente profetico, uscì il 3 giugno 1989, il giorno prima del massacro. La grande sinologa, morta nel 2011 ha collaborato con «il manifesto» dagli anni Settanta al 2009. Nel prossimo autunno la ManifestoLibri prepara l’edizione di tutti i suoi scritti usciti sul quotidiano «il manifesto» a cura
di Tommaso Di Francesco e Simone Pieranni.

Alcuni, pochi fatti, sono esposti sulla scena del gran teatro cinese; ed entrano in collisione con molto di quanto correntemente si dice e scrive della Cina sui mass media: che il sistema socialista, dispotico, economicamente inefficiente e mascherato da propaganda menzognera, aveva condotto il paese sull’orlo del collasso: e che, fortunatamente, all’oscurantismo della presidenza di Mao era succeduto Deng Xiaoping, politico illuminato, che con prudente gradualità indirizzava il paese al superamento dell’infelice esperienza socialista e al reingresso nel mondo civile.
A capo della corrente «riformatrice», un po’ alla volta neutralizzava i «conservatori» legati al vecchio dogmatismo socialista maoista (anche quando si trattava di noti avversari di Mao, come l’economista Chen Yun e di molti altri).
Verso il «libero» mercato
Naturalmente avviarsi al libero mercato capitalistico equivale ad accedere alla democrazia: la Cina dei «riformatori» era ancora un po’ indietro a causa delle resistenze dei «conservatori», ma il fiorire dell’economia, gli scambi con l’estero, il buon governo, la sostanziale soddisfazione del pubblico nelle diverse sfere (dai contadini arricchiti agli intellettuali liberati) promettevano al paese il superamento della povertà e l’evoluzione verso la democrazia.
In questa Cina «fiorente e soddisfatta» seppur povera, un movimento di studenti riesce in un momento a indurre a una lotta pacifica ma ad oltranza milioni di cittadini di ogni condizione che, compatti come un sol uomo protestano contro il governo e chiedono le dimissioni del premier. Si tratterà dell’ultimo «conservatore»? Ma i cittadini chiedono anche il pensionamento definitivo di Deng. con atteggiamento che non sembra di stima e simpatia.
E quest’ultimo si ostina caparbiamente nella repressione, minacciando di far sparare sul popolo, accusando i giovani (e il popolo) di essere «controrivoluzionari», promuove la legge marziale a rischio di destabilizzare l’intero paese. Che cosa teme? E che significa tutto questo?
Una mobilitazione come quella degli ultimi giorni a Pechino e nelle altre città sarebbe stata impossibile senza profondissimi motivi di scontento nell’intera popolazione. Il fatto è che la Cina non solo non è in una fiorente situazione economica, ma non è ben governata, e l’infelicità della gente è andata crescendo oltre il limite della sopportazione anche fra i molti che, stanchi dei lunghi periodi di lotta durante la presidenza di Mao, sarebbero abbastanza disposti ad adattarsi e subire, pur di essere lasciati al personale quieto vivere.
L’unità popolare è oggi contro qualcosa piuttosto che per qualcosa di ben definito: c’è un ostacolo, un peso intollerabile da cui liberarsi, non un progetto politico. Il movimento è come sempre strumentalizzato ai fini delle lotte intestine dei potenti per il potere, e più lo sarà in seguito; ma di per sé si pone come movimento di opinione. Le esplosioni di massa sono proprie di una struttura priva di canali istituzionali di sbocco per l’opinione pubblica; ma con una popolazione urbana, specie giovanile, cosciente e partecipe, a volte protagonista, della trasformazione epocale in corso nel paese da settanta anni.
Alla storia di questi settantanni, alle contraddizioni nella società, alla «lunga rivoluzione», ai mutamenti culturali occorre riferirsi per tentare di comprendere quello che è dato comprendere degli eventi di oggi, di quel che accade fra il popolo, evitando la politologia di professione. In ogni caso, occorre evitare gli schemi che suddividono la storia del paese in periodi chiusi dai limiti invalicabili, fossero pure quelli di «prima» e «dopo» la Liberazione (cioè fra Cina del Kuomintang e Cina socialista) – per non parlare di «prima» e «dopo» la rivoluzione culturale, o addirittura «prima» o «dopo» la sconfitta della «banda dei quattro».
I movimenti popolari che da settantanni si susseguono costituiscono una ricca esperienza trasmessa da una generazione all’altra. Tornano i contenuti della ribellione, arricchiti ogni volta dai successi passati e dalle stesse sconfitte, e se ne ripetono le forme: l’agitazione studentesca, che a partire dal 4 maggio 1919 funge da detonatore per l’esplosione della protesta di massa; la funzione degli operai, a sostegno e legittimazione; la capacità di organizzarsi e i modi di comunicare, dove l’autocontrollo, l’intelligenza politica e la ricchezza di fantasia della gente comune fanno scoprire allo stupito osservatore occidentale che la «sua» democrazia non è la sola esistente e possibile.
I nuovi mandarini
Nei movimenti pacifici o armati, a contenuto economico-sociale o patriottico, culturale o politico, si manifesta il protagonismo del popolo nella faticosa ricerca di una via d’uscita per il paese dallo sfacelo del vecchio ordine e dalla aggressione esterna che lo accompagna, dall’Occidente e dal Giappone. La penetrazione europea e americana è parte dell’aggressione, e, a un tempo, catalizzatore della distruzione del vecchio ordine. Lo sfacelo dell’economia fondata sulla rendita agraria non ha coinciso con l’avvio di uno sviluppo industriale accelerato, principalmente per insufficienza di capitali: dalla guerra dell’oppio agli anni 1910, l’ingente capitale accumulato è stato rubato alla Cina dai colonizzatori europei.
L’ipotesi di un sviluppo che riproduca quello del capitalismo inglese a due secoli, di distanza e nelle radicalmente mutate condizioni internazionali è fuori della realtà assai più di qualsiasi utopia socialista egualitaria. Pure, viene periodicamente riproposta, dopo ogni sconfitta o fallimento delle rivoluzioni nelle città (1927; 1977).
Sono propagandati i valori dell’arricchimento individuale e del consumo, creando aspettative che si è ben lontani dal poter soddisfare, per la grandissima maggioranza; e l’arricchimento e il successo dei pochi, nel contesto della generale povertà, si accompagnano alla corruzione. Già frustrata nelle speranze rivoluzionarie, la gente lo è nuovamente nelle promesse di promozione e di benessere individuale. Sì reinnesta il ciclo della rivolta. Contro gli stranieri, dei quali si invidiano il tenore di vita e i privilegi di libertà, e dai quali ci si ritrova sottomessi e sfruttali.
Contro il mandarinato al potere i funzionali della Repubblica popolare, i gaudi, figli della rivoluzione, a poco a poco sono diventati molto simili ai loro fratelli della nomenklatura staliniana. Per il popolo incolto, oggi, dire ganbu è quasi lo stesso che dire guan, il funzionario al tempo dell’impero. Per di più, dopo la svolta in direzione capitalistica i dirigenti e i ganbu di ogni livello intrecciano legami più o meno puliti col mondo imprenditoriale e finanziario: il popolo mono incolto li riconosce molto simili ai burocrati ed ai politici del Kuomintang degli anni ’30 e ’40. La costanza dei moduli, l’andamento ciclico delle rivolte, il ripetersi della repressione non vanno intesi come immobilità.
Nulla al mondo si è trasformato come la Cina di questi settantanni. La trasformazione fondamentale è dovuta alla rivoluzione dei contadini. Ma non ha avuto esito il tentativo di Mao di fondere contenuti marxisti e populisti, e di arrivare allo sviluppo economico e alla modernità per la via della rivoluzione contadina. Il corpo mandarinale si è riformato non solo a causa dell’influenza dell’Urss, col suo modello istituzionale e la sua diretta interferenza, ma anche per la mancata formulazione di una ipotesi di sviluppo efficace, in alternativa a quella borghese-operaia, con al contro le città.
Quando negli anni sessanta gli studenti insorsero contro la burocrazia chiedendo libertà e autogoverno, nell’appoggiarli Mao non trovò la sua base fra i contadini, ma fra gli operai dei grandi centri industriali, come Wuhan, Shenyang, Shanghai. Una base troppo limitata, nel grande mare di contadini che ancora oggi è la Cina. Ma c’era anche un limite invalicabile nel modo di pensare e nella condotta dello stesso Mao e dei giovani che lo riconoscevano proprio leader: per eredità del vecchio e del nuovo dispotismo parevano scontati l’intervento e la guida di una autorità dall’alto.
I giovani delle città lottavano per liberarsi dai vincoli del potere dispotico, ma dall’alto chiedevano una benedizione.
Mao Tzetung e gli studenti
Quando il leader carismatico non seppe impedire che l’esercito guidasse le milizie contadine a fare strage di giovani studenti e operai essi si sentirono traditi e fu la disperazione: la loro rivolta parve diventare solo l’occasione per uno dei tanti vuoti slogali. Era la fine della rivoluzione culturale e la premessa della vittoria dei mandarini.
I giovani delle città sono oggi più maturi dei loro padri a causa di quella delusione e di quella sconfitta. Hanno imparato che devono contare solo su se stessi. Senza l’eredità della Rivoluzione culturale – quello che essa fu all’inizio, movimento giovanile spontaneo contro la nomenklatura e per la libertà, sostenuto dal carisma di un grande leader – il movimento attuale non avrebbe potuto prodursi. Ma si attua oggi quello che il riferimento al leader carismatico rendeva allora impossibile! Gli esiti politici del movimento saranno solo qualche modesta concessione (ma, a quanto pare nemmeno quella) nell’ipotesi migliore. Nella peggiore la repressione, e potrebbe essere versato sangue di giovani. Ma il movimento conta per quello che esso è, non per quello che otterrà ora, e lascerà la sua traccia nella storia della Cina e nostra.

il manifesto 4.6.19
Quel massacro alla base dell’attuale patto sociale cinese
Stella nera sulla Cina. La svolta di Deng Xiaoping - una accumulazione su base di mercato per avviare poi le basi del socialismo cinese - si era concretizzata dall’inizio degli anni ’80 con la cancellazione delle 60 mila Comuni popolari e l’avvio della distribuzione del lavoro nelle campagne su base produttivistica e non più egualitaria
di Tommaso Di Francesco


Nella notte tra il 3 e il 4 giugno 1989, l’esercito popolare cinese represse con la violenza dei carri armati la protesta di massa che dal 26 aprile e per iniziativa degli studenti che volevano celebrare la morte dell’ex segretario del Partito comunista Hu Yaobang, si era insediata e manifestava ormai da settimane sulla piazza Tian An men.
Fu un bagno di sangue, quello dei giovani studenti che avevano dato il via alla protesta, ma alla fine la maggior parte delle vittime furono gli operai – le fonti ufficiali parlarono di 300 morti, ma altre fonti, sia interne che esterne, più veridicamente hanno raccontato invece di migliaia di vittime. Quel che non poteva davvero sopportare la nuova leadership cinese guidata da Deng Xiaoping – il modernizzatore filo-occidentale che era tornato al potere alla fine degli anni ’70 dopo essere stato cacciato dal movimento della Rivoluzione culturale nata contro l’occupazione da parte del partito di tutta la sfera politica e contro la «via capitalistica di Deng» – era l’estensione della protesta, ormai diffusa in tutto il Paese e preceduta, un mese prima dalla sanguinosa rivolta operaia di Changsha.
Di questa protesta sociale la Tian An Men sarà insieme catalizzatore, simbolo e detonatore. Da quel momento in poi le rivolte fino ai nostri giorni sono state, secondo le stesse fonti ufficiali cinesi – decine e decine di migliaia – come ha sempre ricordato la nostra Angela Pascucci.
Nell’89 l’estensione e la radicalità della mobilitazione sociale metteva in discussione due principi fondamentali della svolta denghista: da una parte le modernizzazioni (industria, agricoltura, difesa, scienza/tecnologia) avviate con l’attesa della innominabile «quinta» modernizzazione – la democratizzazione della politica e della società su cui aveva insistito il movimento del Muro della Democrazia già nel 1979, anche quello represso da Deng; e dall’altra l’unità del Partito comunista cinese che la grande mobilitazione in atto metteva in discussione. Né si poteva mutuare la svolta che Gorbaciov, in visita in Cina proprio a metà maggio, rappresentava in Urss.
Gli occhi dei media internazionali si limitarono a vedere la raffigurazione in cartapesta della statua della libertà, quella americana, eretta sulla Tian An Men da gruppi di studenti e la vernice lanciata su un solo ritratto di Mao. Ma in piazza c’era ben altro. Oltre a migliaia di immagini di Mao e bandiere rosse, c’erano operai, contadini immigrati, donne, c’era l’agorà, la pratica della democrazia dei soggetti colpiti dalle riforme denghiste.
C’era l’intera rappresentazione del malcontento della nuova Cina, devastata da modello distorto che dall’inizio degli anni ’80 Deng aveva avviato insieme alla dirigenza del partito guidato da Zhao Ziyang – poi schierato contro la repressione della protesta.
La svolta di Deng Xiaoping – una accumulazione su base di mercato per avviare poi le basi del socialismo cinese – si era concretizzata dall’inizio degli anni ’80 con la cancellazione delle 60 mila Comuni popolari e l’avvio della distribuzione del lavoro nelle campagne su base produttivistica e non più egualitaria; con il doppio sistema dei prezzi, quelli minimi sotto controllo dello stato e invece di mercato quelli delle materie prime (anticamera di una vasta corruzione di sistema); con, l’introduzione delle «zone economiche speciali» aperte agli investimenti capitalistici esterni; l’inizio delle migrazioni di massa dell’ordine di centinaia di milioni di persone verso le città «speciali» a disposizione dell’ipersfruttamento delle multinazionali, con l’impoverimento delle grande Cina dell’interno, stravolgendo l’equilibrio esistente tra campagne e città; la costruzione di una nuova classe di super-ricchi con l’azzeramento della «pentola di ferro», il welfare minimo ma egualitario per tutti.
Le trasformazioni sociali e le contraddizioni che ne deriveranno riguardano la Cina di oggi, diventata di fatto l’unico paese realmente capitalista sulla faccia del mondo, con i profitti e l’elevato Pil (un miraggio per l’occidente) reinvestiti. L’attuale patto sociale in Cina poggia sulla violenza «nascosta» esercitata in quei giorni dell’inizio di giugno 1989, sulla Tian An Men.
È vero, quel modello cinese di trasformazione del «socialismo reale» – che potremmo chiamare capitalismo di partito – centrato sulla sola crescita economica non è fallito come l’iniziativa in Urss di Michail Gorbaciov – con perestrojka, glasnost e Congresso dei deputati del popolo – rivolta al cambiamento della sola sfera politica; ma l’alto Pil raggiunto, l’iperproduttivismo e ora la pur importante «Via della Seta», non ripagano la nuova leadership «armoniosa» di Xi Jinping dei disastri provocati con la distruzione dell’ambiente in Cina, con la voragine della diseguaglianza dilagante e con la ricerca spasmodica e concorrenziale di materie prime nel mondo.
L’attuale realtà cinese mostra i termini di uno sviluppo che per esistere deve dividere in modo diseguale un miliardo e 400milioni di esseri umani e deve distruggere e rapinare le risorse energetiche. Noi, a partire dal massacro della Tian An Men, possiamo interrogarci: a quale prezzo?

Repubblica 4.6.19
L’anniversario
A Tienanmen con gli studenti che portarono la Cina nel futuro
di Ezio Mauro


Si chiamava in gergo "Glasnost One", l’aereo sovietico che quella domenica sbarcò a Pechino il circo dei corrispondenti stranieri che lavoravano a Mosca, per seguire la visita di Gorbaciov con il disgelo tra l’Urss e la Cina. Con i giornalisti accreditati al Cremlino viaggiavano i portavoce del Segretario Generale e, affondati negli ultimi sedili laggiù in fondo, sei uomini del Kgb. Lo squadrone politico e propagandistico che faceva da pesce pilota ad ogni visita di Gorbaciov era già atterrato da due giorni, con tre ministri e otto professori pronti a farsi intervistare sorridenti in tivù, il Bolshoi che si annunciava nei manifesti in città, il teatro "Pennacchio Rosso" di Novosibirsk che presentava Cuore di cane
di Bulgakov. Ma qualcosa danzava nell’aria come un lampo, o un rumore di fondo. Dalla morte del vecchio segretario del partito Hu Yaobang gli studenti di Pechino erano entrati in agitazione, usavano la sua figura come pretesto, inneggiavano a Gorbaciov e alla perestrojka e ieri sera, addirittura, avevano chiesto in assemblea al sindaco e al segretario cittadino del partito di mostrare i loro stipendi. Così, in attesa che il vertice di Stato cominciasse, qualcuno di noi andò a vedere cosa stava succedendo davvero in piazza Tienanmen.
Non lo sapevamo, ma era la cinquantesima ora di sciopero della fame in una piazza senza acqua e senza ombra. I sette capi del movimento, con gli ideogrammi neri sopra la fascia bianca attorno alla fronte, si passavano il megafono l’un l’altro per chiedere al governo di rispondere alle loro richieste. Ma attorno, mentre li ascoltavano parlare con la voce indebolita dalla febbre e li vedevano barcollare per lo stordimento del sole e della fame, i ragazzi piangevano di rabbia e delusione. «Il governo tace — diceva una studentessa — e noi vediamo i nostri compagni cadere come sacchi vuoti». «La nostra spine dorsale non si piegherà», assicurava un dazebao appeso alle aiuole, sotto le bandiere delle università cinesi che sventolavano eversive davanti al Palazzo del Popolo. Ribellione e commozione diventavano la cifra di un movimento che provava emozione per se stesso guardando le barelle correre alle sei del pomeriggio tra la folla per soccorrere gli svenimenti, nell’autocoscienza collettiva di un compito storico per gli studenti, quasi religioso, con la protesta pronta a trasformarsi in un moderno sacrificio politico davanti all’ostinazione del potere.
È una battaglia tipicamente orientale, che procede senza barricate e senza scontri, semplicemente mostrandosi e consumandosi in pubblico, come qualcosa di inevitabile, insieme modernissimo e antico. Oppressi dal silenzio del potere e storditi dall’attenzione mondiale radunata casualmente qui da un vertice di Stato, i ragazzi incrociano la tecnologia dell’informazione planetaria e la pedagogia calligrafica dei dazebao, così come accavallano la loro richiesta di trasparenza e di apertura con l’arrivo a Pechino dell’uomo della perestrojka e della glasnost. È nel nodo di queste coincidenze misteriose che il movimento supera quel punto segreto capace di trasformare una fiammata di ribellione in un fenomeno politico incontrollabile, che parla a tutto il Paese e consegna agli studenti il ruolo sproporzionato di classe improvvisamente generale, protagonista di una svolta. «Questa volta siete voi che ci state insegnando la lezione — si inchina adesso davanti ai sette ragazzi lo scrittore Yang Hi — e noi vi seguiremo».
Sulla piazza (con tre pullman trasformati in gabinetto) questo sentimento della missione inevitabile e terribile dà forma a una vita autosufficiente e separata, senza distinzioni tra la notte e il giorno. I ragazzi non urlano. Aspettano qualcosa, accoccolati sotto una distesa di ombrelli, seduti sulle giacche di cotone imbottite, mentre si passano l’un l’altro come in un rito i flaconi per la fleboclisi di acqua arricchita di sali minerali. Sembra l’accampamento di un popolo che si sta preparando per una grande migrazione, per una traversata politica dal passato della Cina al suo futuro. "Madre — dice il cartello appeso a un palo — guardami: io sciopero perché la verità è più importante del pane". Striscioni chiedono aiuto ai medici e ai farmacisti. «Venite tutti, abbiamo bisogno di voi, muovetevi», dice al megafono la giovane Chai Ling. «Cosa state aspettando?». Si sparge la voce che Gorbaciov è stato fatto entrare nel Palazzo del Popolo dall’ingresso posteriore, per evitare ogni contatto con gli studenti. E quando la televisione trasmette il gigantismo del rito ufficiale, col segretario del Pcus in piedi in mezzo ai leader cinesi per ascoltare l’Internazionale, sulla piazza l’insegnante di musica alza le mani e guida i ragazzi a un’Internazionale mai sentita, a labbra chiuse. Al quinto giorno dello sciopero della fame i ragazzi non si muovono più, schiacciati dal sole e dal torpore dell’autodistruzione. Ieri, quand’era già buio, il governo ha mandato un ministro, Yen Min Fu, a chiedere agli studenti di badare a se stessi, sospendendo la protesta. Gli ha risposto un grido notturno, dove si concentrava l’ossessione della piazza: "Shin", acqua. I sette, infatti, hanno cominciato lo sciopero della sete. E questa sfida che non passa per la televisione e i giornali ma attraverso le famiglie, i confronti generazionali tra padri e figli, il tam tam nelle scuole, smuove il sentimento collettivo della città, che incomincia a sfilare in piazza Tienanmen in un omaggio alla protesta dei ragazzi che trascina con sé un’autocritica mai vista. A un certo punto sbucano in piazza i giornalisti del Quotidiano del popolo , dietro uno striscione gigantesco con le parole mai stampate sul giornale del partito: "Gli studenti stanno morendo, il governo è cieco". Come per una parola d’ordine, un’ora dopo arrivano i redattori di Cina economica , seguiti da quelli del Giornale della gioventù cinese , finché nel pomeriggio si vede avanzare da lontano lo striscione incredibile
della Nuova Cina , l’agenzia ufficiale del potere: "Noi pubblicheremo tutto, basta con il gioco delle ombre". Ormai vengono tutti, impiegati dei ministeri, pittori, funzionari del governo, vecchi professori intimiditi con le teste rasate che avanzano tenendosi per mano, e nel buio serale sembra che ballino.
Lo sciopero è dilagato. Lunedì erano 2mila, martedì 3160, mercoledì più di 4mila, e i Capi hanno dovuto convincere otto anziani a desistere, perché volevano darsi fuoco. Trecento sono in ospedale, il dottor Ma Sui che fa il volontario qui in piazza allarga le braccia: «Io posso fare poco se i ragazzi vogliono morire». Il gruppo di studenti che rifiuta il cibo dal primo giorno, e adesso anche l’acqua, sta in una specie di recinto sacro dei Primi e dei Prescelti, impenetrabile, protetto da tre cordoni umani. Dentro, i corpi sembrano assopiti, poi si muovono in uno scatto, rotolano per un metro, fino a quando un altro corpo immobile li blocca. Adesso cento, duecento giovani imboccano a sorpresa la Strada della lunga pace, puntano verso il palazzo del Consiglio di Stato, sede del governo, e osano attraversare l’arco d’ingresso. Sette di loro vanno più avanti, finché arrivano di fronte ai soldati coi fucili, sotto gli ideogrammi d’oro "Servire il popolo". Si siedono immobili, come se la protesta e il potere ora si guardassero negli occhi.
Pechino ormai sembra fuori controllo, e la protesta è diventata troppo grande per star dentro i megafoni giocattolo degli studenti, il popolo che i ragazzi hanno evocato afferra la guida, la politica prende il posto dell’emozione. Finisce la rivoluzione dei gelati e delle aranciate, comincia una battaglia che ha come posta il potere e come bersaglio il vecchio Deng Xiao Ping. "Deng — urlano i cartelli, bruciando in un attimo tutta la retorica sentimentale dei ragazzi — chiedi scusa e vai in pensione". "Signor Deng, sei troppo vecchio», "Il tuo cuore è duro e la tua vista è corta", "Mandiamo a casa la tua dittatura feudale". Finché alle quattro del pomeriggio dozzine di persone salgono sul tetto del Museo di Storia della Rivoluzione e alzano la bestemmia di uno stendardo antico: "Vieni, spirito della Cina". I palazzi del potere scalati, la città in piazza. E ora i primi pezzi ribelli del partito in corteo, la Scuola Quadri, la Lega dei Giovani Comunisti, persino il Dipartimento Organizzazione del Comitato centrale, in una sorta di delega sacrificale collettiva agli studenti. Ecco perché dappertutto i ragazzi alzano le due dita a "V" nel segno della vittoria, anche se spuntano i primi segnali preoccupanti, affiorano vecchi slogan della vedova di Mao ("Fra quattro mesi il potere sarà nostro"), torna il famigerato numero 9, che all’epoca della rivoluzione culturale contrassegnava l’intellettuale e il suo scalino sociale, giù al nono livello. I sette ragazzi del Consiglio di guerra si riuniscono passandosi la stessa sigaretta, seduti a terra, chiedono di isolare i provocatori, evitare violenze, non criticare la costituzione. Intorno a loro, crollano in 500, i medici dicono che è un suicidio. Chi si addormenta per terra in piazza, tiene un biglietto in mano: "Non voglio il medico, non voglio medicine, voglio che il governo risponda".
È il momento in cui Mao Zedong ritorna all’improvviso, come un fantasma agitato contro Deng, e la sua immagine ondeggia alta sul corteo immenso che arriva in piazza, portato in processione al centro della trinità rivoluzionaria con Ciu Enlai e il generale Zhuda. Alle 4,25 del mattino, l’ora in cui Mao riceveva i suoi ospiti, il Segretario Generale del partito Zhao Ziyanh esce dal Palazzo del Popolo nel buio di piazza Tienanmen. Gli studenti lo prendono per mano e lo portano all’autobus 5107, dove si sono riparati i 7 del Consiglio di guerra. Zhao stringe le mani, si inchina, chiede un megafono: «Siete tanto giovani, come potete sacrificare la vostra vita in questo modo così triste?». Poi alle 5, prima dell’alba, va all’ospedale, si ferma davanti ai pagliericci dei ragazzi sfiniti dalla fame e dalla sete, posando le due mani sul loro petto. Sembra un’apertura, è il preannuncio del massacro, con la sconfitta di Zhao nel Politbjuro davanti a Deng silenzioso, e la sua cacciata. Da un arsenale arrivano sette razzi che vengono sparati subito dopo il tramonto nella piazza, e per la prima volta la gente vede illuminarsi e rivelarsi nel bagliore di un attimo la Città Proibita, prima che nel buio tornino a fronteggiarsi gli aquiloni dei ragazzi e i dragoni imperiali del potere.
Bisognava capire dalla pioggia, quel giorno, che tutto stava cambiando. Spuntano le mantelline, riempiono la piazza. Ma da stanotte si parla di trecento automezzi militari già pronti alla periferia di Pechino con il ventisettesimo Corpo d’Armata, dopo che il trentottesimo ha rifiutato gli ordini. Voci impazzite raccontano di colonne di camion carichi di soldati, treni militari in corsa verso la capitale. Col taxi si possono facilmente raggiungere gli avamposti, truppe in attesa a due chilometri dalla piazza, circondate dalla folla che invita i soldati a ribellarsi, a risparmiare i ragazzi, mentre qualcuno legge poesie. Gli studenti montano sbarramenti davanti alla piazza, creano cordoni umani, sgonfiano le ruote di 277 autobus messi di traverso. In pigiama e con le coperte sulle spalle, arrivano dagli ospedali i primi Capi della protesta, uno di loro — Yu Er Kai Si — sviene, non vuole andarsene, resta a Tienanmen con l’ossigeno. Per paura che il governo usi l’alibi della loro salute allo stremo, i giovani sospendono lo sciopero della fame e della sete, trasformandolo in un gigantesco sit-in. Scatta la legge marziale, sette aree della città vengono chiuse, manifestazioni e riunioni sono proibite, le antenne delle televisioni straniere si spengono. I soldati sono 150, forse 200mila. «Pensavate che il governo fosse debole e imbelle — dice Li Peng — , ma noi non lo siamo».
In bicicletta, i ragazzi raggiungono gli accampamenti militari, aprono i tendoni dei camion, salgono sui cofani per parlare ai soldati: «Abbiamo la stessa età, magari da bambini abbiamo fatto insieme il gioco dell’elastico, ascoltateci». Seduti sulla balle di fieno, a cavalcioni sulle sedie, i soldati di Deng non rispondono, rimboccano i pantaloni con la fodera rosa, sbottonano la giacca della divisa, chinando il capo senza il cappello. Gli studenti raccontano lo scontro nel Bjuro, la sconfitta di Zhao di cui la gente non sa ancora nulla. In questo assedio sospeso, si parla di una lettera di sette ufficiali inviata al giornale del partito contro il pugno duro, e non pubblicata, di un rifiuto a marciare contro gli studenti firmato da altri 100. Adesso, non si sa perché, i camion dei soldati indietreggiano di quasi un chilometro, la gente applaude. Il paesaggio notturno di Pechino nella legge marziale è impressionante, si può attraversare solo dai cortili e dai vicoli scoprendo all’interno le case illuminate, i bambini sui balconi, i vecchi col bracciale rosso del servizio d’ordine studentesco.
Gorbaciov è tornato a Mosca, scade il visto dei cronisti che lo avevano seguito nel viaggio, per poi riversarsi a Tienanmen. Ci cacciano: rifiutano di prolungare il visto, negano ogni permesso, ci fanno partire subito, non sentono ragioni: «Dovete andarvene ». Tutti sono disperati di non poter seguire la fine che si avvicina, qualcuno piange di rabbia. Andiamo a vedere un’ultima volta i soldati, sono le otto di sera, le madri di famiglia scendono dalle scale di casa con un mestolo e la pentola della minestra, la versano nelle gavette. Cosa accadrà? Tutto resta sospeso nel cielo di Pechino dove vola l’aereo che ci riporta a Mosca. Nessuno parla, in coda gli uomini del Kgb dormono in tre, uno beve, due sorvegliano. Prima di andarcene, eravamo passati a salutare i ragazzi a Tienanmen, a scambiare i numeri di telefono, ad abbracciare la ragazza Chai Ling e Ma Shao Feng, che si faceva chiamare il Re delle Scimmie. L’ultima cosa che ho visto, voltandomi, è il gesto di una vecchia che posava davanti al recinto dei 7 ragazzi lo zucchero e il miele, come se tutto stesse finendo e si potesse ricominciare a vivere.
Poi, i carrarmati, e il massacro.

Corriere 4.6.19
Fabio Fazio lascia Rai1: cosa non ha funzionato del programma?
di Aldo Grasso


Non dev’essere facile per l’ad Fabrizio Salini districarsi in un simile verminaio: gli attacchi sugli stipendi degli «artisti» Rai, Vespa che interviene sui soldi di Lerner, l’ex presidente Rai, l’Annunziata, che frigna sui soldi di Fazio…
A proposito, Fabio Fazio ha concluso la sua avventura di Che tempo che fa su Rai1, pare che traslochi su Rai2. Non ci interessano i retroscena, ma solo la scena del programma, col rischio di fare irritare i protagonisti.
Perché Fazio era così smanioso di approdare sulla rete ammiraglia? E cos’è che non ha funzionato nel programma? Ognuno coltiva le proprie ambizioni, ma Che tempo che fa era composto da due corpi dissimili, raramente integrabili. La prima parte, quella delle interviste complimentose, era il classico programma da Rai3, la famosa nicchia del ceto medio riflessivo (se ancora esiste, se ancora tollera che esistano le vallette).
Fazio invita ospiti di particolare riguardo (con libro o disco da promuovere) e li avvolge in un’attutita, edulcorata conversazione. Le sue interviste sono sempre fatte con le dovute cautele, a volte con esagerata e affettata cortesia. Per Rai1, e qui casca l’asino, è costretto anche a invitare Mara Venier e l’innocenza talebana della «presenza» culturale va a farsi benedire. La parte più deludente è la seconda, la tavolata degli ospiti, lo show della domenica. Una parte, tra l’altro, molto scritta, molto telefonata, molto calcolata (Salemme è per il pubblico del Sud, Volo per gli Young Adults e così via) dove si fa fatica a capire il ruolo di Gigi Marzullo o di Orietta Berti o di Max Pezzali.
O meglio, si capisce quanto Fazio sia sparagnino, quanto poco ami rischiare: preferisce andare sempre sul sicuro. Ha rinnovato il suo parco autori, presi magari dalla Scuola Holden, ma idee pochine. Speriamo che Carlo Freccero gli ricordi che oggi la tv è altra cosa.

https://spogli.blogspot.com/2019/06/il-manifesto-4.html