La Stampa 11.2.19
Le nostre aziende vendono aerei, navi, armi pesanti e leggere all’esercito turkmeno
Nell’Eldorado degli armamenti il primo fornitore è l’Italia
Il
presidente-dittatore Berdymukhamedov è corteggiato da Russia e Cina ma
preferisce il nostro Paese. Un risultato dei governi Prodi, Berlusconi e
Renzi. Nell’ex repubblica sovietica si moltiplicano commesse e accordi
di Francesco Grignetti
Turkmenistan,
terra di steppe, nomadi, cavalli di selvaggia bellezza. E armi. Armi
italiane in particolare. Lontanissima da noi, piantata nel centro
dell’Asia, tra Iran, Turchia, Afghanistan, questa Repubblica ex
sovietica brilla per due cose: l’enorme quantità di gas naturale che
conserva sottoterra e le bizzarrie dei suoi dittatori. Quello che c’era
prima aveva persino cambiato nome ai mesi dell’anno, aveva proibito il
playback perchè tutti dovevano saper cantare, pretendeva che i suoi
ministri imparassero in sei mesi l’inglese sennò li avrebbe cacciati,
voleva portare i pinguini in uno zoo nel deserto, e s’era fatto
costruire una statua in oro, girevole, affinché avesse sempre il sole in
faccia.
Quello attuale, Gurbanguly Berdymukhamedov, un dentista
divenuto inopinatamente leader supremo nel 2006, ha anche lui modi da
satrapo, ma più moderato. Per un compleanno, ha voluto Jennifer Lopez a
cantargli «happy birthday». Oppure si è fatto intervistare in tv mentre
lancia coltelli e spara contro le sagome di un poligono. Ha però
ripristinato il vecchio nome ai mesi. Come il suo predecessore, anche il
presidente Berdymukhamedov è un osservato speciale da parte dell’Onu e
dalle Ong internazionali. Eppure nessuno disdegna di stringere affari
con il Turkmenistan. Quel gas fa gola a tutti. La Cina ha costruito a
tempo di record un gasdotto che la congiunge ai turkmeni attraversando
l’Afghanistan. Anche l’Europa sogna di connettersi a quei giacimenti con
una pipeline e aggirare la dipendenza dalla Russia. È il Gran Gioco
dell’energia.
Diplomazia ed energia
L’Eni è presente in
Turkmenistan dal 2008 dopo avere acquistato una piccola società
britannica, la Burren Energy Plc. Il nostro corteggiamento, però, parte
da lontano. La prima visita di un sottosegretario risale al maggio 2007,
durante il governo Prodi. È in preparazione la prima e unica conferenza
Italia-Asia centrale che non darà grandi risultati immediati. Ma è
l’occasione per rompere il ghiaccio. Subito dopo, nel 2008, subentra il
governo Berlusconi e in Turkmenistan sbarca Alfredo Mantica, il nuovo
sottosegretario agli Esteri, inviato a preparare una visita del
presidente turkmeno a Roma.
Berlusconi lo riceve a palazzo Chigi
nel novembre 2009. E sono i soliti lazzi, con il premier che fa lo
spiritoso verso una ministra ospite, ma anche i soliti business, con la
firma di quattro accordi bilaterali. «L’Italia è per noi una porta
aperta verso l’Europa», si compiace Berdymukhamedov al termine. E
infatti l’Eni mette radici, si apre un’ambasciata, comincia
l’interscambio commerciale. Con contorno di armi. Giusto il tempo di
conoscersi, annusare l’aria, stipulare i contratti, e in Turkmenistan
arrivano elicotteri, aerei da trasporto, cannoni, fucili, pistole,
missili. Nel 2011, per dire, Finmeccanica-Leonardo è autorizzata alla
vendita di 5 elicotteri AW-139 per 64 milioni di euro con relativo corso
di pilotaggio, training alla manutenzione e supporto tecnico.
Viene
poi il governo Renzi, ma la musica non cambia. Anzi. Tra il 2014 e il
2015, il premier fiorentino fa tappa in Turkmenistan tornando
dall’Australia e in seguito il loro presidente torna a Roma, accolto
stavolta sia a palazzo Chigi che al Quirinale. Nel novembre 2014,
l’amministratore delegato Claudio Descalzi può esultare per la firma di
nuove intese. «Un accordo strategico - scrive - che rafforza la presenza
di Eni in Turkmenistan, paese dall’elevato potenziale minerario, e
consolida il rapporto di Eni con le autorità nazionali e la società di
Stato Turkmenneft».
La strategia degli arsenali
Ebbene, uno
dei risultati di questo scambio di amorosi sensi è che gli arsenali
turkmeni nel giro di pochi anni si sono rimpinzati di armi italiane.
Secondo Bellingcat, un team internazionale di giornalismo investigativo,
che dedica alla connection italo-turkmena un articolo sul suo sito, è
significativa la quantità di armi italiane giunte in quel Paese. In
breve: «Tra il 2007 e il 2017, il Turkmenistan ha speso in armamenti
circa 340 milioni di euro, il 76% dei quali (per un totale di 257
milioni di euro) vengono dall’Italia». Come documenta Bellingcat, le
armi italiane sono ostentate ormai ad ogni parata. Nel 2017,
un’esercitazione a fuoco da parte di questi due elicotteri di produzione
italiana con livrea turkmena, lungo il confine con l’Iran, è trasmessa
alla televisione nazionale, ma le inquadrature migliori sono dedicate al
presidente Berdymukhamedov mentre assiste compiaciuto con binocolo agli
occhi.
Lo scoglio della legge
Apparentemente tutto è in
regola. Ogni vendita è stata autorizzata dall’ufficio competente presso
la Farnesina, l’UAMA, Unità per le autorizzazioni dei materiali
d’armamento. Anche le Relazioni al Parlamento non tacciono sul
Turkmenistan. L’ultima Relazione disponibile, quella per le attività del
2017, dà conto di vendite per 46 milioni di euro (su un totale di 8
miliardi di euro di incassi da questo settore nell’anno): i soggetti
citati sono Beretta, Leonardo, Mbda Italia (missilistica), MES Meccanica
(visori notturni).
Normale? In effetti il Turkmenistan non è un
Paese in guerra, né è sottoposto a embargo internazionale. Alla maniera
della Svizzera, ha dichiarato la più stretta neutralità nell’area
caucasica. Non sembrano esserci ostacoli alla vendita. Sennonché la
legge italiana stabilisce che l’UAMA, per autorizzare queste forniture
particolarmente sensibili, deve valutare se gli armamenti non vadano
verso Paesi «i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle
convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai
competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio
d’Europa». E questo potrebbe essere il caso del Turkmenistan, dove le
libertà sono gravemente compromesse. Ma come si fa a incrociare la lista
della spesa con la lista dei Paesi che violano i diritti umani? Il
governo italiano si guarda bene dall’esprimere una valutazione al
riguardo. Si allega alla Relazione esclusivamente la lista dei Paesi in
guerra e sotto embargo delle Nazioni Unite.
C’è stato un unico
caso, nel 2007, quando appunto c’era Romano Prodi al governo, che la
Relazione sulle vendite di armi fu accompagnata da un elenco finalmente
completo, sia dei Paesi sotto embargo, sia di quelli sotto osservazione
per violazione ai diritti umani. «Fu un nostro successo - racconta
Giorgio Beretta, attivista di Rete Disarmo - grazie a un dialogo serrato
con l’allora sottosegretario alla Presidenza, Enrico Letta». In quella
Relazione, (che alla voce Turkmenistan scriveva : «Profonda
preoccupazione della comunità internazionale sulla situazione dei
diritti umani sulla base della Risoluzione dell’Assemblea Generale delle
Nazioni Unite 60/172 del 2005») non per caso si annunciava anche
l’intenzione di agevolare la partecipazione delle Ong a incontri con le
autorità ministeriali per valutare insieme l’andamento e le attività
inerenti le esportazioni di armi. «Poi però venne il governo Berlusconi e
tutto finì», dice ancora Beretta.