lunedì 21 gennaio 2019

Repubblica 21.1.19
Quelle stragi fotocopia nell’indifferenza dell’Europa
Sei anni di morti in mare
Le chiamate di emergenza, lo scaricabarile, il terrore nelle voci dei profughi. Perché dal naufragio dei bambini a oggi le cose sono cambiare solo in peggio

di Fabrizio Gatti

ROMA - Abbiamo già raccontato tutto questo: le chiamate di emergenza da un barcone alla deriva, lo scaricabarile tra autorità, il terrore. L'abbiamo sentito al telefono nella voce disperata del dottor Mohanad Jammo, oggi anestesista in Germania, sei anni fa naufrago nel Mediterraneo con la moglie e i suoi tre figli piccoli, di cui due annegati. L'abbiamo visto nel nostro film-inchiesta "Un unico destino" sulla strage dell'11 ottobre 2013: cinque ore di rimpalli, i soccorsi partiti in assurdo ritardo e due ufficiali italiani ora sotto indagine per l'affondamento di un peschereccio e la morte di 268 siriani, tra cui sessanta bambini che potevano essere salvati.
Siamo daccapo. Ma non da oggi: lo siamo da quando gran parte di noi cittadini europei, sempre più ubriachi nell'abisso del nuovo nazionalismo, pretendiamo di punire uomini, donne e minori inermi mentre cercano di salvarsi dai guasti che i loro e i nostri Stati hanno provocato. Condanniamo loro a morte per annegamento e nemmeno biasimiamo i governi in Europa e in Africa che con le loro politiche li hanno messi nelle condizioni di fuggire.
Ieri altre cento persone, tra cui bambini e forse cadaveri, sono state per 12 ore su uno scafo che imbarcava acqua. E fino a tarda serata Libia, Malta e Italia, nel silenzio complice dell’Unione europea e di milioni di elettori accondiscendenti, hanno deliberatamente deciso di non andare ad aiutarli, salvo muoversi in extremis. Il soccorso è obbligatorio per legge e la legge non dipende dal consenso popolare. Chi riceve la prima chiamata è sempre responsabile del coordinamento fino al passaggio ufficiale delle consegne all’autorità competente: quindi risposte come “chiamate Malta”, “chiamate Roma”, “chiamate Misurata” sono illecite.
L'autorità competente in questo caso è Tripoli che però, come hanno raccontato Marco Mensurati e Fabio Tonacci su queste pagine, nemmeno risponde più al telefono. Tutto questo ha ovviamente un inizio, un punto di non ritorno nella storia recente: l'aver considerato la Libia un luogo sicuro e la sua Guardia costiera un servizio efficiente e umano, addestrato e finanziato con le tasse dei contribuenti europei. Ma ha anche una sua diabolica perseveranza: insistere nel credere che l'immigrazione irregolare si possa fermare sulle spiagge libiche, quasi alla fine del viaggio e non nei luoghi di partenza. La Libia è ancora una volta fuori controllo. Tre notizie di queste ore: giornalista dell'Associated Press morto durante i combattimenti a Tripoli, il bilancio delle vittime aumenta mentre le milizie continuano a sparare nella capitale, sospetti terroristi uccisi in una vasta operazione nel Sud.
Quale alternativa abbiamo? Richiede tempo, ma non è difficile immaginarla. Basterebbe domandare ai nostri ministri di lavorare, studiare e andare a visitare quei Paesi per aprire relazioni amichevoli, alle nostre Università di avviare gemellaggi, ai nostri imprenditori e alle nostre scuole professionali di insegnare mestieri sul posto. Come fecero i salesiani con gli operai e gli agricoltori italiani dopo la Seconda guerra mondiale e come oggi fanno in Africa, sempre i salesiani e poche altre Ong, per creare alternative concrete e sostenibili all'emigrazione. Non tutti i luoghi di partenza sono devastati dalle guerre. Non tutti sono affamati dalle carestie del riscaldamento globale. Spesso scelte corrotte e depauperamento delle risorse della terra, a favore di Europa, Stati Uniti, Canada e Cina fanno molto peggio dei bombardamenti e delle siccità. Ma corruzione e impoverimento non sono nemmeno riconosciuti tra le condizioni che permettono di ottenere qualche forma di protezione umanitaria.
L'Italia ovviamente non può fare tutto da sola. L'ha fatto per anni: proprio dal naufragio dell'11 ottobre 2013, prima con la Marina militare poi con i soccorsi delle Ong. La risposta della maggioranza degli italiani alle elezioni un anno fa non ha però proposto soluzioni diverse. Ha semplicemente allineato il nostro governo al menefreghismo di gran parte dei Paesi europei: Ungheria e Polonia in testa, con il seguito di Francia e Austria.
L’11 ottobre del 2013, mentre il dottor Jammo supplicava i soccorsi al telefono, un comandante della Marina italiana ordinava a Nave Libra di allontanarsi dall’area dell’emergenza: il pattugliatore era a meno di un’ora di navigazione e avrebbe potuto salvarli tutti, genitori e bambini. Ma in sei anni quello che allora era reato, oggi è regola: con la decisione del ministro dell’Interno Matteo Salvini e quello delle Infrastrutture Danilo Toninelli, responsabile dell’attività in mare, di chiudere i porti e impedire alla Guardia costiera di fare ciò che deve fare. Così nemmeno i capitani delle navi civili rispettano più gli obblighi di soccorso per il rischio di rimanere bloccati giorni in attesa delle decisioni di Salvini e Toninelli. Lo vediamo in queste ore: anche l’Europa è una terra di pirati.