giovedì 20 dicembre 2018

Repubblica 20.12.18
Cronaca dalle rovine psicofisiche di Roma
di Vittorio Lingiardi


«Roma respira greve ed enorme… il tempo cade in blocchi, un secolo sull’altro, audibilmente, tragico oltre ogni dire». Non possiamo certo accostare le parole di Cristina Campo, meravigliosa poetessa schiva, all’ennesimo crollo della capitale, questa volta il muro di Villa Mercede a San Lorenzo. Villa che fu convento e chiesa, e poi giardino, biblioteca e teatro, dunque espressione alta della nostra vita psichica, del suo tessuto urbano e mentale. Era proprio Freud, infatti, a paragonare la nostra capitale all’inconscio, paesaggio di archeologia evolutiva, stratificazione e convivenza dei nostri passati. Se ogni città è memoria e identità, inconscio personale e collettivo, per uno psicanalista è un dovere invocare una cura: curare l’ambiente è curare la psiche.
L’attaccamento ai luoghi crea identità e connessione, e anche per questo nel termine "terapeuta" si intrecciano i significati antichi di servitore e custode del tempio, della casa, del luogo. Da vent’anni mi divido tra Milano e Roma, e scendo a Termini per raggiungere la mia università a San Lorenzo. Costeggio mura antiche e m’immergo in quel terzo paesaggio, incerto e ribelle, che cresce sulle strade contro la nostra e la sua volontà. Ho sempre amato Roma per le sue intemperanze ambientali, di gran lunga preferibili ad abbellimenti falsificanti, gentrificazioni anonime e costose. Ma qualcosa è cambiato, la convivenza con il degrado ci ha reso più cinici e tristi. Solo recentemente ha iniziato a produrre qualche anticorpo di indignazione e persino di fattività.
Abbandonati a sé stessi, i marciapiedi si rivoltano e tendono tranelli, i muri perdono pezzi. Provo imbarazzo mentre accompagno il collega non romano nella gimcana di asfalti divelti e pattumiere rovesciate che trovo sulla strada. Più ancora mi vergogno davanti ai miei studenti e ai loro genitori che da tutta Italia vengono a festeggiare le lauree. E così, all’indomani del crollo in via dei Marrucini e a pochi mesi dalla morte d’una sedicenne nella mini-bidonville di via dei Lucani, torno a ribadire il legame tra l’igiene ambientale e quella mentale. Non si tratta di bon ton urbanistico, ma di rilevare che il degrado ambientale produce degrado psichico, che il crac di un quartiere è un modo di tollerare il crack come droga: droga di abbandono, incuria e ictus sociale. Ogni ambiente è un luogo di crescita dell’identità e del pensiero. Ma per chi cammina a San Lorenzo la dimensione etica del paesaggio, la sua memoria, si sgretolano ad ogni passo.

Repubblica 20.12.18
Il sondaggio
L’analisi delle intenzioni di voto
La Lega stacca i Cinquestelle il divario ormai è di sette punti
Insieme la maggioranza raggiunge il 58 per cento. Le opposizioni non crescono Salvini s’impone sempre più come l’imprenditore delle paure, Di Maio in difficoltà
di Ilvo Diamanti


Ormai sono passati oltre 9 mesi dalle elezioni politiche. E quasi 6, dalla formazione del governo Giallo-Verde. Più che una svolta: uno spartiacque.
Una "frattura". Infatti, il 4 marzo scorso la maggioranza degli italiani ha espresso apertamente la volontà di voltare pagina. Contro il passato. E contro il presente.
Così, ha premiato gli attori politici che, più degli altri, hanno interpretato il disagio (anti)politico della maggioranza – non più tanto silenziosa – degli italiani.
Ebbene, nonostante le difficoltà e le tensioni affrontate, il sostegno degli italiani alle forze di governo, secondo il sondaggio condotto da Demos nei giorni scorsi, non è venuto meno. Al contrario.
Infatti, alle elezioni, il M5s e la Lega, insieme, avevano raccolto poco più della maggioranza assoluta dei voti.
In larga misura, intercettati dal M5s. Oggi, le stime di Demos rilevano come la base elettorale dei partiti di governo sia cresciuta ancora.
Raggiunge, infatti, quasi il 58%. Tuttavia, il mutamento più evidente, rispetto alle elezioni, riguarda i rapporti di forza fra i partiti di governo. Rovesciati.
Perché oggi il partito più forte è la Lega. Primo, non solo nell’area di governo, ma nel Paese. Ha, infatti, superato il 32%. Pressoché il doppio rispetto allo scorso marzo. E quasi 30 punti in più, nei confronti del 2013. Quando, a fatica, aveva raggiunto il 4%. Il M5s, invece, è sceso di 7 punti.
Complessivamente, la maggioranza di governo si rafforza ancora. Tuttavia, come si è detto, cambiano sensibilmente le misure dei partiti. E ciò può avere, anzi: ha già avuto, effetti politici significativi. Dentro e fuori il governo. Anzi: più dentro che fuori. Perché fuori è cambiato poco, negli ultimi mesi. A sinistra: il popolo del PD, dopo l’esilio volontario – provvisorio – di Renzi, appare ancora sperduto nel deserto, come ha spiegato Ezio Mauro, ieri.
Tuttavia, il partito sembra aver frenato la sua discesa, iniziata con il voto di marzo, quand’era scivolato sotto al 19%. Oggi è rimasto lì. Al 17,5%. Sempre poco, se si pensa alle Europee del 2014, quando il Pd di Renzi aveva superato il 40%. Ma, almeno, sembra aver evitato il "salto nel vuoto", suggerito dai sondaggi successivi al "voto". A destra, peraltro, FI galleggia, poco sopra il 9%. Spinta ai margini da Salvini. Che, dopo aver utilizzato il "traino" di Berlusconi, lo ha abbandonato. Insomma, si riproporne la "convergenza" fra soggetti politici "divergenti". Da tutto e da tutti. Come alle elezioni. E nella formazione del governo.
Il M5s e la Lega, infatti, hanno intercettato e continuano ad attrarre l’insoddisfazione, meglio, la "divergenza", dei cittadini nei confronti delle istituzioni, nazionali ed europee. Il loro "spaesamento democratico", alimentato dalla crisi economica, si è indirizzato verso bersagli, in parte, diversi. Perché diversa è la geografia elettorale dei due partiti. Il M5s, affermatosi nel Centro Sud, ne interpreta la richiesta di assistenza. La Lega, che si è imposta nel Centro Nord, è sensibile alla domanda dei ceti produttivi.
Lega e M5s, tuttavia, hanno un mercato elettorale "nazionale". Non vincolato, in modo rigido, da confini geografici tradizionali.
Entrambi hanno eroso lo spazio della Sinistra. Che ha perduto il Centro. Largamente "espugnato" dalla Lega. Lega e M5s perseguono e inseguono, dunque, interessi diversi.
Uniti da un comune nemico. I partiti e i leader che hanno governato in passato. Nella Seconda Repubblica. Quando anche la Lega è stata protagonista. Ma era un’altra Lega. Nordista. Federalista.
Mentre questa è una Lega Nazionale e personale. La Lega di Salvini. Probabilmente, proprio questi elementi ne spiegano il successo e la crescita. Perché, se osserviamo i flussi del voto, dopo le elezioni di marzo, vediamo come la Lega abbia assorbito una parte rilevante della base elettorale di FI. Ieri: alleata.
Oggi: periferia della Lega. Ma, soprattutto, di Salvini.
Protagonista del teatro dove va in scena la politica come spettacolo. Salvini: interpreta personaggi e testi all’insegna della paura. Dell’altro. Con indubbio successo. Presso pubblici diversi. I disoccupati, i precari. Ma anche i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. Il popolo delle "periferie" urbane e produttive. Un tempo presidiate dalla sinistra. Che oggi si è rifugiata nei centri storici. Nelle aree borghesi.
Matteo Salvini è "l’imprenditore politico della paura". Meglio: delle "paure".
Si tratta di una parte che, al di là di giudizi di valore, recita meglio di ogni altro. (Solo Antonio Albanese è altrettanto bravo. Ma meno inquietante).
Sicuramente, meglio di Luigi Di Maio. Che, anzi, gli fa da spalla. Da com-primario. E ha permesso a Salvini e alla "sua" Lega, LdS, di apparire e divenire protagonista.
Così, il M5s rischia di ruotare intorno alla LdS. Di recitare una parte minore. Quasi una Lega a 5s. Attore non protagonista. In uno spettacolo dove tutti gli altri soggetti politici fanno il coro.
O, peggio, gli spettatori.
Mentre dall’alto, a Bruxelles, osservano lo "spettacolo di Matteo" con attenzione. E inquietudine.

Repubblica 20.12.18
Domani in edicola con Repubblica
Sul "Venerdì" l’Italia che si arma aspettando la nuova legittima difesa

Si fa presto a dire legittima difesa. Mentre è in arrivo la nuova legge varata dal governo pentaleghista, il Venerdì in edicola domani racconta che succede nei poligoni. Frequentati dalle migliaia di italiani che, con in tasca il permesso " per uso sportivo", danno libero sfogo alla loro voglia di grilletto. Per capire bene che cosa passa per la testa degli amanti di pistole e fucili, siamo andati dove si spara: ma non nei poligoni del Coni, bensì in quelli privati. Partendo da un dato: dal 2016 al 2017 le licenze per uso sportivo sono cresciute da 482.99 a 584.978, centomila in più. Le voci raccolte spiegano bene il clima che si respira: «Sparo perché è bello. Aiuta a concentrarsi. Noi spariamo tutti: anche mia moglie e le due figlie. Diseducativo? Perché? » . Poi ci sono gli "spaventati". Quelli che si armano convinti di essere in pericolo. Anche loro fanno a gara per mettere un’arma nel cassetto.
Un boom di vendite che vede schizzare in alto gli incassi delle aziende del settore: rispetto al 2010, l’aumento delle imprese è del 3 per cento, per un giro economico complessivo di più di sette miliardi (indotto compreso). E così accade che negli Usa, dove comprare le armi è un gioco da ragazzi. Fatto passare attraverso messaggi pubblicitari all’apparenza tranquillizzanti.
Sempre sul Venerdì di domani, un articolo che racconta la vita social di Matteo Salvini: niente ruspe, ma tanti gattini. Ed ancora un’intervista a Ilenia Pastorelli, attrice del nuovo film " Non ci resta che il crimine", ambientato nella Roma della Banda della Magliana.


Repubblica 20.12.18
Su Repubblica L’editoriale

Ieri, su Repubblica, "La sinistra tentata dal balcone" di Ezio Mauro sul futuro del Pd e sul rapporto con il Movimento 5 stelle
fretta. Inoltre il ventennio berlusconiano ci ha inchiodato all’antiberlusconismo. Nella sinistra mondiale poi, c’è una incapacità a gestire gli effetti della globalizzazione. E infine ci sono le docce scozzesi di Renzi: con lui abbiamo vinto molte battaglie e perse anche di più e più serie».
Renzi mantiene un potere di veto nel Pd?
«Ha una presenza forte nei gruppi parlamentari e nella direzione. La sua influenza si misurerà al congresso. La questione più seria che lo riguarda è che non sappiamo quali sono i sui progetti».
Lei pensa che Renzi lascerà il
Pd? Se lo augura?
«L’intelligenza dovrebbe suggerire a Renzi di restare nel Pd, l’imprevedibilità lo porterà dove gli sembrerà per lui più utile. Non mi auguro che vada via e però spero dica: io dal Pd non me ne andrò».
L’incertezza danneggia il Pd?
«Il tema di fondo del Pd non è Renzi ma recuperare l’orgoglio della sua storia, fatta di spirito liberale, di socialismo, di dottrina sociale della Chiesa e di azionismo. Deve ritrovare la capacità e la voglia di riaprire i rapporti di parentela con il mondo sindacale, con la scuola, con la ricerca e l’associazionismo civile».


Corriere 20.12.18
La disuguaglianza cresce davvero?
di Danilo Taino
Statistics Editor

La teoria che corre da alcuni anni nella conversazione politica globale è che l’1% più ricco della popolazione si prende tutto l’aumento della ricchezza mentre l’altro 99% rimane con i redditi bloccati, soprattutto se fa parte della quota più povera della popolazione. Non è così, almeno non negli Stati Uniti, ritenuto in genere uno dei Paesi occidentali a maggiore disuguaglianza. Un articolo del Washington Post ha utilmente segnalato le statistiche sui redditi elaborate dal Congressional Budget Office (Cbo), la maggiore autorità americana in fatto di numeri. I dati del Cbo che riguardano l’andamento dal 1979 al 2015 indicano che in effetti il reddito prima delle tasse e prima dei trasferimenti pubblici (i sussidi) è salito del 233% per l’1% più ricco della popolazione. I redditi del 19% sottostante sono cresciuti del 74% e quelli del restante 80% sono aumentati del 32%. Nello stesso periodo, però, l’1% più ricco ha pagato il 33,3% di tasse sul reddito, il 19% un po’ meno ricco ha versato il 23,8%, il 60% inferiore — cioè i tre quintili intermedi in termini di reddito — sono stati tassati al 14,9% e il quintile inferiore, cioè il 20% più povero, all’1,5%. Se si tolgono le tasse e si calcolano i sussidi pubblici, l’1% più ricco ha visto i redditi salire del 242%, sempre rispetto al 1979, il quintile più povero ha migliorato del 79%, praticamente quanto il quintile più ricco depurato dell’1%, mentre gli intermedi restanti sono saliti del 46%. Su questa base, il Coefficiente di Gini — che misura la disuguaglianza stabilendo zero come reddito uguale per tutti e uno come reddito interamente in mano a un solo individuo, quindi massima disuguaglianza — è 0,60 se calcolato sul reddito percepito, 0,48 dopo i trasferimenti sociali, 0,43 dopo che sono state calcolate anche le tasse. La lettura che spiazza ancora di più la retorica corrente sull’aumento della disuguaglianza è questa: tra il 2000 e il 2015, il reddito post tasse e post sussidi del 20% (quintile) più povero è cresciuto del 32%, quello del secondo quintile più povero del 17%, il reddito del quintile intermedio del 15%, quello del secondo quintile più ricco del 16% e quello del 20% più ricco è cresciuto del 15%. Probabilmente, nessun americano vorrebbe tornare al 1 979 o al 2000, quando non c’erano nemmeno gli smartphone che in queste statistiche non compaiono.

Corriere 20.12.12
L’ex premier
Il ritorno di D’Alema: un listone di sinistra?
Buona idea ma io studio
E insegnerò alla Link
di Tommaso Labate


ROMA «Ma chi li conosce questi? Poverini...». Martedì, quando sui social network rimbalzano gli ultimi attacchi che gli hanno riservato Maria Elena Boschi e Carlo Calenda, Massimo D’Alema è in giro insieme a una delegazione di governo del Kosovo. Il «poverini», accompagnato dall’immancabile «chi li conosce questi?», ovviamente non è per i kosovari. Ma per i renziani che l’hanno preso di mira per la storia del listone unico col Pd alle Europee «che tra l’altro — sussurra l’ex premier — io non ho mai pronunciato, anche perché non faccio né liste né listini. Io studio, punto. Quella è una cosa venuta fuori al seminario di Italianieuropei, e per fortuna che su Radio Radicale ci sono le registrazioni».
È la settimana del grande ritorno di D’Alema, quella in cui la parola stessa — D’Alema — torna prepotentemente nel dibattito politico. «Non c’è nessun ritorno di D’Alema anche perché il ritorno di D’Alema non è nelle intenzioni del sottoscritto, che è D’Alema», sostiene l’ex premier. Calenda gli manda a dire che deve godersi la pensione. «Forse bisognerebbe spiegare a Calenda che io sono in pensione, sì. Ma in democrazia anche i pensionati hanno diritto di dire la loro opinione», ribatte lui.
Lo smalto è quello dei tempi migliori. L’oratoria caustica, quella di sempre, è però accompagnata dal timore di passare «per quello che non sono, per uno che si disinteressa di questo momento doloroso per la sinistra, mentre io sono interessato eccome alla sua rinascita e pure a quella del Pd, che non è il mio partito. Spero ce la facciano». Come? L’idea della lista dei socialisti uniti in un’unica lista alle Europee, è l’argomentazione di D’Alema, «mi è parsa una buona idea. Ripeto, l’ho ascoltata nel seminario di Italianieuropei e l’ho trovata interessante come tante altre cose dette in quella giornata. Una giornata a parlare del futuro della sinistra in cui nessuno ha mai nominato la parola “Renzi”, si figuri lei».
Come i protagonisti di quelle vecchie serie americane che superavano decenni di programmazione senza mai logorarsi, D’Alema pensa già al prossimo capitolo della sua saga. «Mi hanno fatto professore, lo sa? Professore straordinario». E dove? «Alla Link university. Stiamo definendo il nome del corso, che avrà per oggetto la geopolitica e le relazioni internazionali. Comincio a febbraio, la prima lezione sarà sul disordine mondiale».
Guai a fargli notare che l’università di Enzo Scotti è una fucina del grillismo di governo. «Ma lo sa che quella è un’università piena di comunisti?», ribatte lui. Poi si dilegua, precisa che «io non ho fatto nessuna intervista», s’abbandona verso le festività natalizie con l’autocertificata (nel senso che lo dice lui stesso) verità che «non ho malanimo nei confronti di nessuno. Quelli che hanno malanimo nei miei confronti dovrebbero fermarsi e pensare ai danni che hanno prodotto alla sinistra».
L’altro giorno, un amico gli ha chiesto se avesse visto in tv il programma di Renzi o se ne avesse sentito parlare. «Avevo di meglio da fare e no, non ne ho sentito parlare». Un altro gli ha domandato: «Ma in questi giorni in cui Boschi, Calenda e compagnia tornano ad attaccarti, stai sintonizzato come un guerriero al fronte o te ne fo..i?». E D’Alema, prima di dileguarsi: «Ecco, mi trovo molto più d’accordo con la seconda che hai detto».

Repubblica 20.12.18
Il commento
La sinistra che abita nei 5 stelle
Oggi il movimento viene associato a temi sociali come il reddito di cittadinanza, non più al "vaffa" Ed è per questa misura che gli ex elettori Pd, non sentendosi più rappresentati, si sono orientati in massa verso i grillini
di Piero Ignazi


Il M5S rifiuta, da sempre , di definirsi di destra o di sinistra. Ma per quanto cerchino di svincolarsi da queste categorie, i loro elettori, in buona parte, accettano di utilizzare queste categorie. Un recente sondaggio rivela che su 100 elettori che si identificano con il movimento guidato da Di Maio, 50 lo definiscono di sinistra e solo il 16 di destra, mentre il rimanente non lo inserisce né a destra né a sinistra. ( dati Swg, novembre 2018). Lo stesso orientamento maggioritariamente a sinistra vale, seppure in misura minore, anche per gli elettori pentastellati quando deve indicare dove essi si collocano.
Come si può spiegare questa scelta, così in contrasto con una interpretazione diffusa che vede il movimento e i suoi sostenitori allineati a destra? Per cercare di chiarire questa contraddizione è necessario, da un lato, fare un passo indietro e andare alle radici ideologiche del M5S e, dall’altro, distinguere tra elettori e classe dirigente.
Sul primo aspetto, le analisi condotte in questi anni dai più accreditati esperti del M5S (in particolare Piergiorgio Corbetta, Filippo Tronconi e Rinaldo Vignati ) sottolineano che i temi affrontati con continuità e per molti anni nel blog di Beppe Grillo, unica fonte autorevole del messaggio grillino, erano definibili come «post-materialisti», cioè insistevano sull’economia verde, sulla difesa dei beni pubblici ( tema oggetto, nel 2011, di referendum su cui il M5S si impegnò a fondo), sulla critica al consumerismo, sulla legalità, su un rapporto diretto e non-mediato tra cittadini e decisori per favorire la partecipazione e inverare, utopisticamente, la democrazia diretta. A questo si aggiunga un anti-berlusconismo di lunga data a cui si è aggiunto, solo in un secondo tempo, una critica sferzante della classe dirigente del Partito democratico.
Alla fine, è arrivato il vaffa a fare da collante ( improprio) di queste suggestioni da partito verde-alternativo. E questa polemica ha travolto l’impianto originario del M5S finendo per diventare l’elemento identificativo del movimento e il propulsore del suo successo ben al di là delle componenti che potevano essere attratte dalle tematiche iniziali. I successi del 2012/13 si fondano proprio sull’antipolitica, spinta fino ai livelli di aggressività e iconoclastia che ben conosciamo. In questa fase il M5S assorbe voti da destra ( approfittando della crisi della Lega, soprattutto), dall’astensione e, in certa misura, dal Pd.
In tempi più recenti, dopo le amministrative del 2016 e il referendum costituzionale, l’antipolitica in senso lato è passata in secondo piano, mentre è stata portata al calor bianco la competizione con il Pd, identificato come il vero nemico in quanto " partito del potere", introducendo temi sociali come la precarizzazione del lavoro e il reddito di cittadinanza, vera icona del movimento. Oggi, è su questa misura, non più sul vaffa, che viene identificato il M5S. Ed è per questa misura sociale e di sinistra (non per nulla il governo Gentiloni aveva avviato una iniziativa simile, il "reddito di inclusione") che gli elettori del Pd si sono orientati in gran numero verso i grillini. Come indicano gli studi dell’Istituto Cattaneo, il Pd ha ceduto al M5S oltre un quinto del proprio elettorato, fino a punte del 40% in alcuni quartieri di Napoli.
Questo spostamento in massa spiega perché i sostenitori del Movimento si sentano di sinistra. Sono ex- democratici che non hanno trovato risposte alle loro domande nel vecchio partito e ne hanno trovate invece in quello di Grillo. Esiste quindi un serbatoio di elettori di sinistra nel M5S. Come riconquistarli è un (bel) problema per la classe dirigente di sinistra. Rimane, infine, l’altro aspetto, che rende molto arduo il compito dei democratici: quello dello slittamento della classe dirigente grillina verso posizioni sempre più lontane dall’ispirazione originaria, sempre più inclini a posture aggressive e intolleranti, e sempre più proclive ad atteggiamenti anti– sistemici, di cui le balconate e la ignominia dell’impeachment sono la punta dell’iceberg. La leadership pentastellata sta subendo l’influenza, nefasta, della Lega. Viene trascinata in una sorta di competizione per il peggio. Le cattive compagnie, come insegnano i detti popolari, rischiano di portare su una brutta strada. Ma se la classe dirigente del M5S è, salvo casi sporadici, presa in una spirale imitativa del populismo autoritario leghista, la sua base ha origini, ispirazioni e prospettive diverse, che, per ora, mette da parte in attesa di vedere realizzati gli obiettivi sociali promessi. La contraddizione tuttavia esiste. La sinistra deve ignorarla o può mettersi a lavorare per portare a sé il suo vecchio elettorato? O questi ex elettori di sinistra sono ormai irrecuperabili, dimentichi delle loro idealità di un tempo?

Corriere 20.12.18
Il sottosegretario Tofalo
E il M5S riabilita gli F-35
«Non ci rinunceremo»

«Da tanti anni noi abbiamo parlato di questi F-35 spesso in maniera distorta: bisogna realmente conoscere e valutare le informazioni». Angelo Tofalo, per lungo tempo al vertice della falange del M5S contro «gli sprechi dei jet militari», oggi è sottosegretario alla Difesa. E con queste parole ha iniziato la sua retromarcia sugli F-35, spiegando come «resta ovvio che non possiamo rinunciare a una grande capacità tecnologica per la nostra aeronautica, che ci mette avanti rispetto a tanti altri Paesi». Una «riabilitazione» politica, al fianco della ministra della Difesa Elisabetta Trenta e del presidente della Camera Roberto Fico.

il manifesto 20.12.18
Tokyo avrà due portaerei, alla faccia della Costituzione pacifista
Giappone. Pacifico e la Corea del Nord
di Stefano Lippiello


Da quando il Giappone a bordo di una portaerei – la statunitense U.S.S. Missouri – ha firmato la sua resa alla fine del secondo conflitto mondiale, nessuna nave di questo tipo è stata più posseduta dalla marina giapponese.
L’ATTACCO A PEARL HARBOUR, che nel dicembre di 77 anni fa fece entrare il Giappone nella guerra con gli Usa fu sferrato proprio portando via nave gli aerei giapponesi a portata di bombardamento dell’isola. Nell’ambito degli impieghi militari questa unità viene considerata come un’arma d’offesa, atta a «proiettare potere» o a portare l’attacco in territori distanti dal proprio. Proprio questa è stata quindi la questione più controversa delle nuove linee guida di difesa approvate dal governo nipponico: se il Giappone deve avere di nuovo delle portaerei. La risposta del governo è stata positiva. Saranno due ospiteranno una trentina di F35B, aerei a decollo verticale adatti alla lunghezza delle navi giapponesi, e verranno impiegate per fare da ponte nella difesa delle due catena di isole giapponesi, che si stendono tra il Giappone e Taiwan e tra il Giappone e le Filippine-Papua.
QUESTO ASPETTO è stato al centro del dibattito politico tutto interno alla maggioranza su come armarsi di una portaerei senza dichiarare che questa sia appunto una portaerei. Così si capisce il riferimento al «fare da ponte» in caso di difesa delle isole più esposte alla percepita crescente minaccia cinese. Gli aerei non saranno stazionati in modo permanente a bordo delle navi. Ci si muove al limite delle possibilità linguistiche per salvare la forma del rispetto della Costituzione pacifista del 1945 che proibisce il mantenimento di un esercito al giappone.
PROPRIO LA CINA è in cima alla lista dei timori nipponici che hanno portato alla rielaborazione delle linee guida. La spesa cinese per la difesa in costante crescita viene considerata un rischio, oltre ai suoi comportamenti unilaterali nel Mar cinese meridionalie e nella sempre più intensa presenza di unità navali cinesi verso il Pacifico. Le due nuove portaerei sono state finora due unità navali di classe Izumo, che verranno riadattate, in servizio come porta-elicotteri e usate proprio in missioni per l’individuazione di sommergibili attorno al Giappone.
Alla minaccia nordcoreana invece l’amministrazione risponde con due batterie di missili Aegis e nuovi missili per intercettare lanci ostili. Altro spazio e budget viene dedicato alla difesa del cyberspazio, un tema che sarà chiave nelle guerre del futuro e dove il Giappone si sente in forte arretrato, ma anche qui con dubbi circa la costituzionalità. Questo potrebbe essere anche un problema di leadership però, se si considera la notizia di qualche mese fa nella quale il ministro della cybersecurty giapponese, Yoshitaka Sakurada, aveva dichiarato di fronte ad un comitato parlamentare di non aver mai usato un computer.
L’OPPOSIZIONE non ha potuto rispondere alle linee guida in parlamento, in quanto non più in seduta, conclusa a inizio dicembre. I gruppi parlamentari della sinistra preparano però un offensiva. Anche i movimenti per la pace non sono riusciti a far sentire la loro voce in questa decisione. Nessuna traccia si trova nei media principali di proteste. L’onda delle grandi manifestazioni del 2015 con decine di migliaia di manifestanti sotto la Dieta per la pace e contro la «legge di sicurezza», che permette un estensione delle capacità militari nipponiche, sembra essersi, almeno per ora, infranta. Il partito Costituzionale democratico guarda con speranza alle elezioni della prossima estate per il rinnovo della Camera alta come momento per raccogliere l’insoddisfazione verso il governo.
LO STORICO MARXISTA Satoshi Shirai inquadra così la questione: «Nel secondo dopoguerra i gruppi economici e politici che sono al cuore del nuovo Giappone hanno avuto la ferma volontà di sviluppare l’apparto militare, indipendentemente da chi fosse il presidente Usa». In questa logica la politica di Trump di richieste di acquisto agli alleati avrebbe così solo offerto una buona occasione al gruppo dirigente giapponese, colta al volo. Per Shirai il più probabile punto di arrivo di questo sviluppo sarà una sorta di Giappone di prima della guerra, ma in miniatura, privato di reale autonomia e capacità operativa, in quanto gli Usa non sembrano avere ancora la volontà di abbandonare la reale guida militare del Giappone.

Il Fatto 20.12.18
Frequenze, il governo fa un grande regalo a Mediaset&soliti noti
I soldi per rottamare i vecchi televisori. Per lo spettro da assegnare: niente asta al rialzo e obbligo di premiare chi è forte nel settore. Come Rai, Tim e Cairo
Frequenze, il governo fa un grande regalo a Mediaset&soliti noti
di Carlo Tecce


Il governo ha confezionato una norma su misura che protegge Mediaset & C, impedisce l’apertura del mercato televisivo e rimuove quel fastidio tipico che la concorrenza arreca alle imprese italiane. Come ai vecchi tempi, soltanto con una contorsione burocratica più raffinata e una legge infilata in manovra con un emendamento depositato in Senato dai relatori di maggioranza. La questione è complessa e però vitale per le aziende televisive. Il governo ha due pacchetti di frequenze (multiplex), quelli che servono a trasmettere i canali, da cedere in concessione per vent’anni, li ricava col passaggio – da completare entro il 2022 – dall’attuale digitale terrestre a un sistema di seconda generazione. Anziché organizzare un’asta al rialzo e prevedere condizioni paritarie per monopolisti e debuttanti, il ministero per lo Sviluppo guidato da Luigi Di Maio ordina una “procedura onerosa senza rilanci competitivi”, si tratta di una gara in cui vince chi paga di più rispetto a un prezzo di partenza. Non finisce qui. Perché i criteri per assegnare le frequenze non premiano chi formula un’offerta maggiore, ma anche chi opera già nel mercato: “Garantire continuità del servizio”, “valorizzare le esperienze maturate”, “tenere conto dei contenuti diffusi”, si raccomanda il governo.
Al momento, il mercato nazionale è composto da 20 multiplex e risulta abbastanza ristretto: Elettronica Industriale (Mediaset) possiede cinque multiplex, come Persidera (70% Telecom Italia, 30% gruppo Gedi) e la società pubblica Rai. Un multiplex ciascuno per Urbano Cairo (La7), Europa7, Rete Capri, Wind Tre e Dfree di Tarak Ben Ammar, che ospita i canali del Biscione.
Il governo di Giuseppe Conte e soprattutto il ministero di Di Maio sono chiamati a gestire un periodo di transizione fondamentale per le aziende televisive. Con il tradizionale ritardo l’Italia sta per liberare la cosiddetta “banda 700”, le frequenze occupate dalle emittenti tv che dal 2022 saranno affidate agli operatori telefonici per le connessioni Internet 5G. Vodafone, Telecom e gli altri, con una battaglia all’ultimo rilancio, hanno speso oltre 6,5 miliardi di euro, e lo Stato ha incassato di buon grado. Allora il governo gialloverde è costretto a ridefinire lo spettro per le televisioni che si vedranno dimezzare i multiplex – affittati alla modica cifra di 1,5 milioni di euro all’anno – anche se migliorano la qualità di trasmissione con immagini in 4k. Siccome le televisioni locali sono o scomparse o in affanno, il governo non riserverà più un terzo dei multiplex in funzione in Italia, cioè cinque, ma al massimo tre, dunque restano i famosi due. Questi multiplex sono più sviluppati e, per banalizzare, valgono il doppio di quelli di adesso.
Così il governo li fa a pezzetti e, sempre con l’emendamento, li distribuisce in quattro lotti. Quanti sono gli operatori interessati? Esclusi i piccini Europa 7 (già penalizzata in passato), Wind Tre, Rete Capri e Dfree, rimangono Cairo e i tre moschettieri Mediaset, Persidera e Viale Mazzini. Sarà l’Autorità di garanzia (Agcom), precisa sempre il governo, a stilare un regolamento per il bando da avviare nell’autunno del 2019. Per esempio, si ragiona per ipotesi, se Mediaset partecipa al lotto 1 non può importunare Persidera che partecipa al lotto 2. Tra l’altro, il Biscione ha bisogno di spazio perché veicola Sky. In sostanza: lo Stato suggerisce di mettersi d’accordo in maniera composta e fruire della spartizione senza strepitare troppo. Per chiudere, il governo si premura di comunicare a Mediaset e sorelle che il denaro investito, in qualche modo, gli ritorna comodo. Perché sarà versato nel fondo del ministero per lo Sviluppo per la rottamazione dei televisori.
Ai cittadini/elettori non hanno spiegato che dal 2022 molti televisori acquistati prima del luglio 2016 non funzionano e quindi occorre comprare uno schermo nuovo. Il governo non ha paura di lasciare alcuni cittadini/elettori senza Mediaset o Sky Cinema o Rai Gulp, ma di lasciare Mediaset, Sky Cinema e Rai Gulp con meno telespettatori. I Cinque Stelle erano pronti a punire il Biscione, raccontavano qualche settimana fa, con un severo emendamento poi ritirato per l’intromissione dei leghisti. Alla fine, dimenticato il presunto litigio, proprio il ministero di Di Maio serve alle tv il piatto che desiderano.

il manifesto 20.12.18
Tagli all’editoria, viaggio nei giornali che Cinque Stelle e Lega vogliono chiudere
Edittoria (non è un refuso). Il governo Conte all'attacco della libertà di stampa e del pluralismo in Italia. Parlano i redattori e i direttori di Metropolis, Latina e Ciociaria oggi, La Voce di Rovigo, tra le 52 testate colpite dalla rappresaglia
di  Massimo Franchi


Nei mesi scorsi e fino addirittura a qualche giorno fa i quotidiani locali si sentivano sicuri. Dal vicepremier Luigi Di Maio al responsabile editoria della Lega Alessandro Morelli arrivavano impegni incrollabili: «Voi non sarete toccati». E invece, a meno di colpi di scena dell’ultim’ora a cui in pochi credono, anche i giornali locali saranno colpiti dal taglio al fondo per il pluralismo e la cancellazione dal 2022 dei contributi pubblici.
Il giro d’Italia nei tagli parte dal Sud, da quella Campania in cui il M5s ha preso oltre il 40 per cento e continua a lodare esperienze editoriali come Metropolis, quotidiano cartaceo distribuito nelle province di Napoli e Salerno edito dal 1993, prima come settimanale, e dal 2003 come quotidiano in doppia edizione, dalla cooperativa Citypress di Castellamare di Stabia. «Di Maio è stato da noi in campagna elettorale e i parlamentari qualche settimana fa – racconta il direttore Raffaele Schettino – I meet up sul territorio continuano a farci i complimenti ad esempio per come abbiamo denunciato le cisterne inquinanti che dovevano sorgere e che siamo riusciti a bloccare. Ma ci hanno fatto capire che loro non possono cambiare l’emendamento». Diciassette dipendenti, la metà soci «della cooperativa pura», Metropolis «è come voi de Il Manifesto più una famiglia che un’azienda»: «Già a gennaio rimodulerà la distribuzione ma sappiamo già che non basterà, anche se non vorremmo mai toccare chi consideriamo fratelli saremo costretti a farlo», continua Schettino. L’impegno quotidiano contro la camorra e la corruzione non è bastato: «In questi giorni ho incontrato il presidente del tribunale, il maresciallo dei carabinieri: tutti sono increduli perché dicono di perdere un riferimento, l’unico giornale che racconta certe cose. Ma tant’è».
Salendo più a nord si arriva a Latina. La Editoriale Oggi è una cooperativa dal 2015, anno in cui i redattori di Latina Oggi e Ciociaria Oggi sono stati «davanti alla scelta fra scomparire e giocarcela in prima persona», racconta Diego Roma, rappresentante del comitato di redazione: «Dopo varie vicissitudini editoriali e problemi di ogni tipo abbiamo deciso di comprare la testata e aprire una cooperativa». Una trentina tra giornalisti e poligrafici, due sedi (una a Latina e una Frosinone), la Cooperativa giornalisti indipendenti è già in contratto di solidarietà. «Ancora non sappiamo se e come potremo andare avanti, stiamo parlando con il direttore e cercheremo di resistere» continua Diego Roma. «La stampa locale ha resistito meglio alla crisi delle vendite e noi continuiamo a vendere più de Il Messaggero sul territorio. Il contributo del fondo per l’editoria era già stato tagliato e ci garantiva la sopravvivenza e il pagamento degli stipendi. D’ora in poi sarà tutto a rischio», conclude amaro.
Anche nel Nord leghista le cose non vanno meglio. Le testate locali che l’ex direttore di Radio Padania Alessandro Morelli fino alla settimana scorsa prometteva di difendere (ora silente dopo che il suo capo Salvini ha ottenuto in cambio la prosecuzione dei lavori del Terzo Valico) sono tutte a rischio. Fra queste La Voce di Rovigo, primo giornale della provincia. «I conti si fa presto a farli – spiega il direttore Luca Trepaldi – Noi prendiamo circa 890mila euro di finanziamento pubblico all’anno, nel 2019, con il taglio del 20 per cento della differenza con la franchigia con 500 mila euro, perderemo circa 80 mila euro. Poi ogni anno peggio, fino alla cancellazione del 2022: la nostra morte sarà lenta e dolorosa».
Una cooperativa di 12 soci di cui 7 giornalisti e la prospettiva di perdere anche molti altri posti di lavoro. «Abbiamo 35 collaboratori sul territorio ma poi c’è tutto un indotto fra agenzie di stampa locali, i trasportatori che distribuiscono il giornale e lo stampatore che l’anno scorso ha fatto investimenti ingenti puntando su di noi: tutte queste persone ora sono a rischio», denuncia Trepaldi.
Un tratto comune ai giornali locali è il sito internet: «Il futuro», secondo Crimi e il M5s. «Noi lo abbiamo chiamato diversamente: Polesine24 per distinguerlo dal giornale cartaceo», spiega Trepaldi. «Lo abbiamo rafforzato e ci abbiamo investito», sottolinea il direttore di Metropolis Schettino. Entrambi però arrivano alla stessa conclusione: «Nonostante buoni numeri sugli accessi e un po’ di pubblicità è ancora la carta a produrre ricavi per le aziende editoriali».
«La cosa che dà più fastidio è che il Fondo che tagliano a noi rimarrà comunque e che quasi certamente finanzierà blog e siti, magari anche quello delle Stelle», chiude provocatoriamente il direttore Trepaldi

Repubblica 20.12.18

Successione
Cgil, oggi Colla si candida sarà sfida a due con Landini ma il programma è unico
di Paolo Griseri


Dopo il primo passaggio nel direttivo l’investitura formale nell’assemblea di gennaio a Bari Nel dibattito pesa anche la mancata elezione di Camusso alla guida del sindacato mondiale
Vincenzo Colla Nato nel 1962. Inizia nel 1980 con la Fiom. Dal 2010 è stato segretario della Cgil Emilia-Romagna. È considerato esponente della tradizione emiliana e vicino al Pd
Maurizio Landini Nato nel 1961. Inizia a lavorare come saldatore a 15 anni. È stato segretario nazionale della Fiom dal 2010 al 2017. Ha il sostegno dell’attuale segretario Camusso

L’ex segretario della Fiom resta favorito mentre il contendente ha il sostegno dei pensionati. Il giudizio sul governo sarà uno dei punti di scontro
I rumors dicono che questa mattina Vincenzo Colla, intervenendo al direttivo della Cgil, darà la sua disponibilità a candidarsi alla carica di segretario generale. Formalmente la candidatura può essere fatta solo in occasione dell’Assemblea nazionale dell’organizzazione che è prevista a fine gennaio a Bari in coda al congresso. Ma la mossa di Colla, sia pure una specie di pre- candidatura, sembra comunque destinata a rendere meno scontato l’esito del congresso dove, secondo l’indicazione data da Susanna Camusso, segretaria uscente, il successore dovrebbe essere l’ex numero uno della Fiom Maurizio Landini.
Gli ambienti vicini a Camusso fanno sapere che l’elezione di Landini sarebbe praticamente certa. Al contrario i sostenitori della candidatura di Colla affermano che, in base ai loro calcoli, la vittoria dell’ex leader dei metalmeccanici sarebbe tutt’altro che certa e che, anzi, al momento, i delegati contrari a Landini sarebbero la maggioranza.
Una battaglia, quella sulla leadership, che si chiarirà probabilmente solo al congresso. Formalmente e anche politicamente, la Cgil arriva all’appuntamento unita. Nel senso che il documento programmatico presentato da Camusso è stato approvato dal 98 per cento dei circa 2 milioni di iscritti che hanno partecipato alle assemblee congressuali. Un documento che parte dalla difesa dei valori della Costituzione per mettere in guardia dai rischi di un welfare aziendale che diventi il primo passo verso il ripristino delle vecchie gabbie salariali, condizioni e salario diversi a seconda dei territori. Un rischio di disgregazione che le politiche del governo gialloverde sembrano rendere più attuale.
Il giudizio sul governo sarà inevitabilmente uno dei temi della battaglia sulla leadership. Con Colla considerato troppo vicino alla tradizione emiliana di stampo Pd e Landini indicato come più vicino all’area governativa sul versante grillino. Semplificazioni e caricature che avranno comunque il loro peso nella discussione. È un fatto che finora categorie e congressi territoriali hanno sostanzialmente confermato gli orientamenti previsti. Con le eccezioni delle camere del lavoro di Pisa, Venezia e, soprattutto Reggio Emilia, che hanno bocciato il candidato alla segreteria indicato dall’area Camusso. In alcune situazioni il clima si è fatto particolarmente teso. Scontato invece l’esito del congresso dei pensionati che si svolgerà a Torino all’inizio di gennaio. La categoria non ha mai nascosto la sua preferenza per Colla.
Il direttivo di oggi si svolge pochi giorni dopo la partecipazione di una parte dei segretari confedera al congresso del sindacato mondiale che, a Copenaghen avrebbe potuto eleggere Susanna Camusso alla sua guida. La spedizione danese si è invece conclusa in altro modo perché il congresso ha confermato nell’incarico l’australiana Sharan Burrow.
Con la candidatura di Colla alla guida della Cgil si porrà certamente una questione procedurale. Perché il suo nome sarà inevitabilmente in contrapposizione con quello di Landini. Ma i due contendenti appartengono alla stessa area che ha approvato la mozione di maggioranza. Dunque si tratterà non di una divisione sulla linea politica ma sul modo di interpretarla.

Il Fatto 20.12.18
Freccero sovranista Il verbale segreto sulla nuova Raidue
La ricetta del nuovo direttore. Night Tabloid e Nemo cambiano nome, via le fiction Usa dalla prima serata, bandito l’inglese: una rete “italiana”
di Gianluca Roselli


Carlo Freccero ricorda Dorian Gray. Nonostante l’età (è del 1947), il neo direttore di Rai2 sembra non invecchiare mai. Ciuffo ribelle non troppo incanutito, vulcano d’idee e parole, abbigliamento sbadato ma in realtà curatissimo, sempre sintonizzato sulle ultime tendenze della tv e della comunicazione. A differenza del personaggio di Oscar Wilde, i diavoli con cui Freccero ha stretto un patto non sono ultraterreni e rispondono al nome di Luigi Di Maio e Matteo Salvini. È anche grazie al loro benestare – oltre a quello dell’ad Rai Fabrizio Salini, suo maggiore sponsor – che Freccero si ritrova oggi, dopo 22 anni, di nuovo al comando di Rai2. Traendo da ciò nuova linfa vitale che lo fa apparire ringiovanito nell’anima e nel corpo.
E Freccero è piombato su Rai2 come un uragano. Con passo svelto, la mattina percorre le poche decine di metri che dividono l’abitazione dove vive, nel quartiere Prati a Roma, dall’ingresso di Viale Mazzini, da cui uscirà solo a tarda sera. Le sue prime giornate di lavoro sono state scandite dallo studio dei palinsesti, da riunioni continue (tutte verbalizzate) e da decine di email spedite ai suoi capistruttura. Coi quali, si racconta, gli scontri sono continui. Freccero, si sa, respira televisione da più di trent’anni e quando si trova di fronte a qualcuno che non ritiene alla sua altezza (quasi tutti), si irrita. “Errore, errore, errore…!”. “I miei studenti ne sanno di più…!”, gli è stato sentito dire. Non rilascia interviste, nonostante le richieste, ma dissemina innumerevoli tracce nei corridoi aziendali. E qualche briciola, grazie a una manina interna alla Rai, è arrivata anche a noi. Un verbale di una delle sue riunioni in cui emerge l’identikit della Rai2 che verrà.
La rete che Freccero ha in mente sarà un canale generalista e sovranista, fortemente italiano. Per questo dalla prima serata spariranno alcune serie tv americane, come NCIS, che verranno relegate al day time. Banditi anche titoli ed espressioni in inglese. I programmi d’informazione dovranno avere contenuti legati alla realtà del nostro Paese perché, si legge nel documento, “una tv generalista nasce dalla sua memoria storica”. Per questo motivo ha stabilito un filo diretto e continuo con la direttrice di Rai Fiction, Tinny Andreatta. Col direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano, poi, dicono si sia preso al volo. Perché, gli è stato sentire dire, “tra irregolari, io di sinistra e lui di destra, ci s’intende”. Così ci sarà spazio a dirette di cronaca gestite dal Tg perché, scrive Freccero, “l’informazione, quando racconta la storia, vince sulla programmazione”.
Così come andranno in diretta i grandi eventi sportivi. Il rapporto col direttore di Raisport, Auro Bulbarelli, viene definito “fraterno”. Freccero ha però chiesto lo slittamento della Domenica sportiva alle 23 perché altrimenti, si legge nel documento, “si fa un danno al prime time della domenica e alla stessa Ds”.
Ma la rivoluzione non si ferma qui. Ci sono programmi da cambiare e altri da tagliare. Punto di vista, finestra informativa del Tg2, sparirà perché, secondo quanto scritto dal neo direttore in più di una email, “fluttua nel palinsesto del venerdì sera senza motivazione, né giustificazione”. Su Nemo, nessuno escluso, invece, l’intenzione è di trasformarlo in un nuovo programma, I Duellanti, dove – come nel film di Ridley Scott – due esponenti politici di opposta fazione si affronteranno su un tema che sarà presentato con servizi alternativi rispetto al mainstream ricorrente.
Night Tabloid, l’appuntamento condotto da Annalisa Bruchi, sarà probabilmente ribattezzato Povera Italia e affronterà il rapporto tra economia e politica, con spostamento dal lunedì al mercoledì sera (23.20). Cambiamenti in vista anche per i palinsesti mattutini e notturni, perché “è inseguendo una buona programmazione all’alba e nelle ore piccole che si può recuperare uno 0,25% di share giornaliero”, scrive Freccero ai suoi collaboratori. Nuovi programmi d’informazione in prima serata per ora non ce ne saranno. Sull’intrattenimento, invece, il neo direttore si sta battendo per avere una nuova edizione di The Voice a marzo.
È una ricetta complessa quella che Freccero ha in serbo per Rai2, dove i temi cari al governo gialloverde saranno l’ingrediente comune delle diverse pietanze, dall’informazione allo show time. Con tempi necessariamente stretti, perché il suo contratto, in quanto già pensionato, dura un anno e non contempla nemmeno una retribuzione: ha solo un rimborso spese. Ma volete mettere il balsamo giornaliero di essere tornato, ancora una volta, al centro della scena? Non assicura l’eterna giovinezza, ma poco ci manca.

Repubblica 20.12.18
Il caso Ungheria
Il no del popolo alla legge schiavista
di Nadia Urbinati


I populisti autoritari hanno conquistato il consenso con la propaganda di "prima i nostri". Ma non hanno mai specificato chi tra i "nostri" sono i "loro" preferiti. Bisogna vederli al governo per capirlo. Le manifestazioni che da quasi una settimana riempiono le piazze di Budapest dimostrano che i preferiti "nostri" dei governi populisti autoritari non sono il "popolo" ma una parte di esso: una classe imprenditoriale che confida nel bisogno di lavoro che tutti hanno, e che per accumulare in fretta si libera dai lacci dei diritti del lavoro; una maggioranza silenziosa che confida nei favori che il governo deve elargirle per tenersela amica. La stretta sul pluralismo dell’informazione e su altri diritti civili, denunciata ancora di recente dalla Commissione di Venezia, organo consultivo del Consiglio d’Europa, ha aiutato l’attuazione di questa politica. Fino ad ora.
A scuotere l’opinione, c’è voluta una legge che consente agli imprenditori di aumentare fino a 400 il numero annuo di ore di straordinario, con la possibilità di dilazionarne il pagamento fino a tre anni. È stata chiamata per questo "legge schiavista". La norma dovrebbe risolvere il problema della scarsità di manodopera, causata dalla tolleranza zero verso l’immigrazione. L’esito si sta ritorcendo contro il leader Victor Orbán.
La chiusura delle frontiere e le politiche restrittive delle libertà civili hanno reso l’Ungheria un paese non più benestante ma certamente più corrotto e soffocante per molti cittadini, soprattutto giovani e laureati, che hanno preso la via dell’emigrazione. "Prima gli ungheresi" dunque, ma dopo aver selezionato quali tenere e quali favorire: le classi imprenditoriali e manageriali e il ceto medio impiegatizio obbediente.
Il caso ungherese merita attenzione, perché è il paese termometro dello stato di salute dei governi populisti. Orbán si è imposto sulla scena internazionale dichiarando guerra alla democrazia liberale, e sostenendo che ci può essere una democrazia illiberale, più efficiente e in sintonia con gli interessi della nazione, perché con meno dissenso e poca opposizione. Dal 2013 il suo partito gode di una maggioranza di due terzi che gli ha consentito di tosare la Costituzione di alcuni requisiti fondamentali: indipendenza della magistratura, pluralismo dell’informazione, libertà di stampa, di parola e di associazione. Alle preoccupazioni sollevate dalla Ue, Orbán ha risposto che "la gente si preoccupa delle bollette, non della Costituzione".
Ma a quanto pare, gli ungheresi si preoccupano anche della Costituzione, se è vero che gli slogan che hanno portato migliaia in piazza per giorni hanno al centro due libertà: quella dell’informazione e quella della libera contrattazione sindacale. Le tappe della tirannia della maggioranza sono le stesse di sempre: per stare in sella a lungo senza abolire le elezioni, chi governa deve mantenere una base larga di supporters e controllare l’informazione.
L’esito è anch’esso lo stesso di sempre: un’opposizione parlamentare debole che tuttavia riceve forza dalla società e dai movimenti di cittadini. L’Ungheria ci regala una nota di ottimismo: nessuno può rivendicare di avere l’ultima parola, nemmeno un egocrate autoritario con larga maggioranza parlamentare, perché la democrazia sta anche fuori delle istituzioni e si manifesta con il dissenso, un ossigeno della mente che non può essere facilmente ingabbiato. E non tarda a liberarsi e a riaprire i giochi.

Repubblica 20.12.18
Alla frontiera fra i due Paesi
Turchia, il confine dei profughi "Per noi è tempo di ripartire"
La politica internazionale non cambia la vita dei siriani in fuga: 4 milioni cercano un futuro. La Ue ha dato 6 miliardi ad Ankara
di Marco Ansaldo


GAZIANTEP ( FRONTIERA TURCHIA- SIRIA) La voce roboante che, sulla strada, proviene dalla tv di un locale dove gli uomini si riuniscono per giocare alla dama turca ha il consueto tono declamatorio. «Nessuno può dare al nostro Paese lezioni di democrazia, diritti umani e libertà. Diamo assistenza a quasi 4 milioni di rifugiati».
Gli avventori, su questa via secondaria di Gaziantep, guardano verso il video con un misto di apprensione e sufficienza. Molto ci sarebbe da eccepire su quel che Recep Tayyip Erdogan dice, ma c’è un punto che qui alla frontiera con la Siria appare vero: la Turchia si occupa da molti anni e, bisogna ammetterlo, con grande efficienza, dei milioni di profughi che dal 2011, inizio della guerra a Damasco, si sono via via riversati oltre confine.
Un numero altissimo, quasi 4 milioni di persone, che rappresenta un ventesimo circa della popolazione turca. Uno Stato nello Stato, che proprio allo scoppio del conflitto, e per lungo tempo, Ankara ha gestito senza alcun aiuto.
Poi, più avanti, sono arrivate le trattative con l’Unione Europea, sfociate nell’accordo firmato nel 2016 per i 6 miliardi di euro complessivi (3 a cui se ne sono aggiunti nel tempo altri 3) che i Paesi comunitari elargiranno perché la Turchia si occupi dei profughi e di regolare gli arrivi per i flussi da Medio Oriente e Asia.
Gaziantep è un buon punto di osservazione di tutto questo: la sua cintura periferica arriva a una manciata di chilometri da Aleppo.
La più grande fetta di rifugiati si ferma qui. E qui lavora, spesso integrandosi con la popolazione locale.
Sulla strada che porta alla frontiera, c’è il più grande distretto industriale del Sud est turco, 1.500 aziende create da quelli che qui chiamano «ospiti». Tante, sulle 12 mila ufficialmente registrate nel Paese. Alcuni imprenditori siriani in guerra hanno perso tutto. Ma una volta asciugate le lacrime e oltrepassato il confine si sono rimboccati le maniche, e hanno ricominciato da zero.
Uno di loro, Aiman Hadri, amministratore della Zirve As Makina, con il fratello Amer ha rifondato l’industria di imballaggi e macchinari distrutta dai colpi di artiglieria su Aleppo: «L’azienda l’abbiamo riavviata nel 2013. Oggi diamo lavoro a 65 persone, il 20 per cento siriani». Il resto, turchi.
Siriani che danno lavoro ai turchi.
Non tutto, però, è perfetto. In città, nel quartiere di Sahinbey è stato messo su un centro per la salute.
Nella sala riunioni il dottor Omar al Mustafa, siriano, con il suo camice bianco si alza a parlare educatamente e si dice orgoglioso di essere tornato a indossarlo, pur non nascondendo le pecche del sistema: «Visto che non riusciamo a lavorare in ospedali veri e propri, possiamo solo prescrivere farmaci». I centri di formazione sono tanti: giovani maestre, infermiere, sarti, operai specializzati, interpreti, molti imparano un lavoro, ma poi vanno immessi sul mercato.
Alla Camera degli industriali le tabelle mostrano che nell’ultimo anno e mezzo i corsi di formazione sono stati seguiti da 2.000 rifugiati.
Però gli "ospiti" rimasti in strada sono tanti. A fronte di una forza lavoro potenziale di 1,8 milioni di siriani in Turchia, non sono più di 50 mila quelli premiati da un permesso di lavoro. Un gap evidente: economia in nero e sfruttamento sono dietro l’angolo.
In Europa si sono alzate molte voci per esprimere dubbi sul fatto che i soldi di Bruxelles finiscano in direzioni non volute.
A Repubblica l’ambasciatore della Ue ad Ankara, l’austriaco Christian Berger, respinge queste ipotesi: «I soldi europei sono impiegati in modo trasparente e vanno nei progetti di scuola, lavoro, ospedali nel sud del Paese. L’obiettivo finale è che i rifugiati riescano a camminare sulle proprie gambe». Non vogliono venire in Europa, alcuni nemmeno tornare in patria, ma rimanere e lavorare qui.

La Stampa 20.12.18
La nostalgia dell’Urss colpisce due russi su tre
di Giuseppe Agliastro


Quando le cose non vanno bene ci si rifugia nel passato. È ciò che sta avvenendo oggi in Russia, dove, secondo un recente sondaggio del centro Levada, due persone su tre si rammaricano per il crollo dell’impero sovietico. Solo il 25% dei russi dice di non dispiacersi della fine dell’Urss. Si tratta di cifre record, che non si registravano da 14 anni. Se i nostalgici di falce e martello sono ora il 66% della popolazione, un anno fa erano il 58% e nel 2012 appena il 49%.
Che cosa sta cambiando? Gli analisti di Levada ritengono che dietro questa nuova impennata «filo-sovietica» della società si nascondano in realtà le preoccupazioni economiche. Non è un caso che più della metà di coloro che giudicano negativamente la dissoluzione dell’Urss rimpianga «il sistema economico integrato». La memoria a volte gioca brutti scherzi e l’idealizzazione della storia - alimentata proprio dalla propaganda del Cremlino - fa dimenticare le difficoltà del passato, le lunghe file per gli acquisti e gli scaffali dei negozi semivuoti. Il russo medio adesso vuole maggiore benessere e più stabilità. Putin lo sa bene, e a maggio, subito dopo aver trionfato alle presidenziali, tra gli obiettivi dei prossimi sei anni da capo dello Stato ha elencato l’innalzamento del reddito reale dei cittadini e l’ingresso della Russia nella top 5 dell’economia mondiale. L’economia russa però comincia solo ora a riprendersi dalla batosta del 2014 causata dal crollo dei prezzi del greggio e dalle sanzioni per la crisi ucraina. E in generale fa piuttosto fatica a decollare. Il graduale aumento dell’età di pensionamento da 55 a 60 anni per le donne e da 60 a 65 anni per gli uomini ha poi assestato un duro colpo alla, pur sempre alta, popolarità di Putin. La riforma è stata annunciata a giugno. Ebbene, se a maggio il 79% dei russi approvava l’operato di Putin, a novembre lo faceva solo il 66%.
A 27 anni dalla disgregazione dell’Unione Sovietica il partito comunista si prepara quindi a stravincere le prossime elezioni in Russia? Certamente no. I comunisti sono in leggera ascesa ma Putin continua ad avere saldamente in mano il potere. Del resto, nel 2005 fu lo stesso leader del Cremlino a definire la fine dell’Urss «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Qualche anno dopo illustrò meglio il suo pensiero: «Chi non rimpiange l’Unione Sovietica non ha cuore - disse - ma chi vorrebbe risuscitarla non ha cervello». Insomma, indietro non si torna. E buona parte dei «nostalgici» vota probabilmente per Putin.
Non per niente, sempre stando al sondaggio, «l’appartenenza a una grande nazione» è la principale causa di rimpianto per il 36% di coloro che avrebbero preferito che l’Urss fosse rimasta in piedi. Putin sta facendo di tutto per accontentare questa fetta dell’elettorato. Il ritorno della Russia nel novero delle grandi potenze è stato da sempre un suo obiettivo e il leader del Cremlino è in effetti riuscito ad accrescere il peso di Mosca sullo scacchiere internazionale sfruttando gas, diplomazia e armi.
Di questa voglia di Urss è in buona parte responsabile proprio Putin. Tv e libri scolastici diffondono una versione edulcorata della storia russa e di quella sovietica. Si esaltano vittorie militari e successi di ogni tipo e si sorvola sulle pagine più buie del passato. Prendiamo un dittatore sanguinario come Stalin. Nel 2008, il 68% dei russi lo considerava «un tiranno crudele e disumano responsabile della morte di milioni di innocenti». Quest’anno solo il 44% della popolazione la pensa così.

Repubblica 20.12.18
Memorie
La Disneyland dell’Homo Sovieticus

Gian Piero Piretto ricostruisce i settant’anni dell’immaginario dell’Urss attraverso gli oggetti, il quotidiano e la propaganda. Dai bolscevichi a Stalin fino a Putin, corsi e ricorsi nell’anima russa che oggi vuole riprendersi il mondo
di Marco Belpoliti


Tutto comincia il 7 novembre 1917, anche se poi nel calendario la data canonica sarà il 25 ottobre del medesimo anno: la Rivoluzione russa. Inizia con uno slittamento di date il ricco e affascinante volume di Gian Piero Piretto, Quando c’era l’Urss. 70 anni di storia culturale sovietica. Si tratta di una storia visiva di questo paese che ha avuto una così grande influenza nelle vicende del XX secolo, e che è ancora centrale nell’attuale storia del mondo. Il libro ci permette inoltre di capire la Russia contemporanea, Putin e gli oligarchi, la cultura letteraria e quella musicale, il nazionalismo e le aspirazioni di un paese complesso e articolato. Piretto ha scandagliato le forme di vita, il cinema, la letteratura, gli oggetti, i manifesti, la pubblicità, le cartoline, le fotografie, le parate militari, i ritratti di Lenin e di Stalin, ovvero ogni aspetto visivo che possa, partendo dai dettagli, ricostruire il generale, l’assetto complessivo dell’Urss. Si legge come un album d’immagini, e insieme come un commento continuo a opere conosciute e sconosciute, che s’immerge nel flusso della vita della società sovietica.
Per orientarsi in questa attraversata delle storie culturali di Casa Russia ci sono due parole, che ritornano più volte nelle pagine del libro. La prime è il termine russo byt. Si può tradurre con "abitudini, costumi, vita quotidiana" di un popolo o di un gruppo sociale. Per Jurij Lotman, il grande semiologo russo, sarebbe «il consueto scorrere della vita nelle sue forme pratico-reali». Byt sono le cose che ci circondano, le nostre abitudini e il nostro comportamento; anche per Roman Jakobson, il grandissimo linguista, si tratta della medesima cosa, ma in senso negativo: «Lo smorzarsi della vita in rigidi modelli». Due interpretazioni che offrono due versioni opposte del medesimo fenomeno che Piretto analizza. Il libro scandisce i suoi capitoli per trienni, dal 1919 al 1991, e mette a fuoco il passaggio dal byt borghese a quello rivoluzionario. Nei primi anni della conquista del potere ha la meglio l’istanza di novità, di rottura con il passato borghese e nobiliare; tutte le energie rivoluzionarie sono volte alla costruzione di una vita nuova in senso materiale e spirituale.
Poi alla fine degli anni Venti dal momento majakovskiano si passa a quello staliniano. Il byt cambia significato, oltre che formato. Il nucleo centrale del libro è dedicato al dittatore georgiano e alla costruzione del suo consenso attraverso una vera e propria politica delle immagini. Il byt assume perciò un valore differente. Stalin negli anni Trenta del XX secolo lancia al congresso degli stakanovisti la parola d’ordine con cui, sino allo scoppio della guerra, si compendia la sua politica: «Vivere è diventato più bello, compagni, vivere è diventato più allegro».
Le parole dell’uomo dei Gulag e delle purghe fanno rabbrividire, eppure questa frase è il fulcro del progetto staliniano, l’asse intorno a cui, per quasi un decennio, l’Urss cambia pelle dopo il primo periodo rivoluzionario. Attraverso il cinema, il musical, i parchi tematici, le architetture, i manifesti pubblicitari, l’organizzazione della vita culturale, Stalin realizza una vera e propria dimensione onirica. Il suo segreto consiste, non solo e non tanto nel terrore – situazione in cui vivevano molti –, ma nel privilegiare il contenuto emotivo rispetto a quello intellettuale. Il realismo socialista propone una nuova e originale relazione tra il reale e l’utopico. Piretto mostra come attraverso la commedia musicale Stalin spostò il byt dal campo del reale a quello dell’immaginario. Al posto del byt bolscevico, pesante e convenzionale, si affermò un byt fondato sul regno dorato della fantasia.
Stalin allievo di Walt Disney e dalla american way of life? In una certa misura sì. Il sogno sovietico era abitato da begli alberghi, eccelsi parchi della cultura, svettanti architetture moderne, allegri film e musiche avvincenti.
Un sogno che conviveva con gli arresti immotivati e le condanne ai lavori forzati.
Qui entra in scena il secondo tema che funge da corrimano in questo libro: il Kitsch. Le abitudini e i costumi con Stalin e la sua politica dell’immaginario scivolano verso il cattivo gusto, l’eccesso, il meraviglioso pacchiano. La pulsione del dionisiaco staliniano, come la definisce Piretto, procede inevitabilmente verso il Kitsch in modo analogo a quanto avviene nel medesimo periodo nella cultura americana di massa.
Com’è possibile che i rivoluzionari, i militanti comunisti, le avanguardie politiche cadano nella trappola che Milan Kundera ha definito " la seconda lacrima", ovvero la dittatura del cuore? Lo spiega Elias Canetti, citato da Piretto, in Masse e potere: chi assiste a una predica, scrive Canetti, crede in buona fede di essere interessato a questa, mentre in realtà il segreto consiste nella soddisfazione prodotta dalla presenza di tanti altri alla medesima predica. La massa è un anestetico potentissimo per i singoli. Non è forse questo il segreto di ogni movimento politico di massa, sia di destra che di sinistra?
Mentre parla dell’Urss, dinosauro del passato, Piretto ci apre gli occhi sul nostro presente. La carnevalizzazione della vita che Stalin impose all’Urss è del tutto simile a quella dei movimenti populisti attuali; le tecniche sono le medesime, i musical al posto dei social: sostituire il reale con l’immaginario.
Naturalmente non c’è solo questo nel libro dello studioso di cultura russa; ci sono parti molto belle sul periodo brezneviano e sul dissenso dei poeti, pagine che raccontano le vicende di autori come Brodskij o i meno noti Oleg Grigor’ev e Venedikt Erofeev. La transizione da Kruscev a Gorbaciov è ricca di dettagli soprattutto legati alla nascita della controcultura e della cultura giovanile. Piretto è interessato più ai giovani poeti degli anni Sessanta, che si radunano intorno ai monumenti o nei locali off- off, che non ai più noti dissidenti russi. Egli ha il gusto del nuovo e del diverso, del minoritario e delle mode che mutano con rapidità, di cui tratteggia con mano felice i vari profili. Dopo la stagnazione staliniana, la storia che ci racconta corre verso il futuro, che è però già un passato prossimo, istruendoci su un grande paese che continua a pesare sulla nostra storia, e che resta ignoto ai più.
Leggere Quando c’era l’Urss ci aiuta a comprendere l’età che viviamo.

Repubblica 20.12.18
Brexit
Quel labiale che imbarazza Jeremy Corbyn
di Enrico Franceschini


La lettura del labiale ha messo nei guai in tanti: dai politici ai calciatori per finire con i cosiddetti "influencer". In questa ampia categoria, che vanta fra i suoi membri personaggi illustri come Berlusconi, Higuain e i Ferragnez, entra ora anche Jeremy Corbyn, accusato da un video di avere mormorato "stupid woman" all’indirizzo di Theresa May a conclusione del dibattito di ieri alla camera dei Comuni sulla Brexit. Un portavoce smentisce: avrebbe detto "stupid people". Che l’aggettivo "stupido" fosse riferito a "donna", la premier conservatrice, o a "gente", il suo intero partito si presume, una cosa è certa: di stupidaggini, il leader laburista, ne ha commesse anche altre nell’arco della sua pluritrentennale carriera di primula rossa della sinistra britannica.
Alcune appartengono al passato, quando era appunto considerato una sorta di eccentrico alfiere del radicalismo rosso all’interno del Labour: sono tornate d’attualità soltanto perché, della sinistra inglese, ora Corbyn è il capo. Come la sua presenza a una cerimonia per commemorare terroristi palestinesi o il suo apprezzamento per un murale antisemita, con il senno di poi precisati da una serie di distinguo che non hanno tuttavia del tutto rimosso l’impressione di un grave pregiudizio ideologico. Altre sono più recenti: come questa settimana, quando ha minacciato di chiedere ai Comuni la sfiducia nei confronti della premier, una mozione teorica che Downing Street non ha l’obbligo di mettere ai voti, ma non ha avuto il coraggio di porre la sfiducia del governo, come la premier lo ha sfidato a fare scoprendo il suo bluff, perché Corbyn sapeva che avrebbe rischiato grosso di perdere.
La leader dei Tories ha potuto così facilmente infierire, definendolo uno specialista re "della pantomima": in sostanza un buffone, un commediante. E lui ha perso le staffe. "Stupida donna" naturalmente sarebbe un insulto imperdonabile, in un paese che prende seriamente ogni forma di discriminazione sessuale. Ma pure "stupida gente" è un segno di nervosismo da parte del capo laburista. Il quale ha buoni motivi di agitarsi.
L’indecisione sulla Brexit, in parte frutto di opportunismo, nel tentativo di guadagnare consensi sia tra i Leavers (quelli che hanno votato per lasciare la Ue) sia tra i Remainers (quelli che hanno votato per rimanerci dentro), in parte conseguenza della sua intima convinzione che l’Unione europea sia un club di avidi banchieri capitalisti, dunque un ostacolo al piano di realizzare, per dirla con Lenin, il socialismo in un solo paese, gli sta costando cara. Per quanto poco popolare sia May, nei sondaggi l’opinione pubblica dimostra ancora meno fiducia nella possibilità che sia Corbyn a raggiungere un accordo soddisfacente con Bruxelles: anche perché, finora, dice più o meno le stesse cose del primo ministro, promettendo che il Regno Unito riuscirà a ottenere tutti i vantaggi di stare nella Ue, senza però starci.
La verità è che, davanti a un partito conservatore dilaniato dalle lotte intestine e irriconoscibile rispetto al difensore della stabilità e del pragmatismo come è stato da sempre, il Labour dovrebbe volare nei sondaggi, invece ha un solo modesto punticino di vantaggio. Negli ultimi tre anni Corbyn ha messo il dito su problemi reali, la sperequazione, i tagli all’assistenza pubblica, l’eccessivo potere del mercato, ma l’Europa potrebbe rivelarsi la sua buccia di banana. Se non diventerà primo ministro a causa della Brexit, sarà lui a fare la figura dello stupido.

La Stampa 20.12.18
Il populismo alla messicana di Obrador tra promesse e lotta alla globalizzazione
di Juan Luis Cebriàn
 

La frase più ripetuta oggi in Messico, che in rete ha generato centinaia e persino migliaia di meme, l’ha pronunciata il nuovo presidente il giorno del suo insediamento lo scorso primo dicembre: «Me canso ganso». È un’espressione gergale per dire che quanto detto accadrà con assoluta certezza. Lopez Obrador (noto come Amlo) ha ribadito nel suo discorso le promesse fatte in campagna elettorale: fine della corruzione, giro di vite sugli stipendi dei dipendenti pubblici, ripristino dell’ordine, rilancio dell’economia devastata dal saccheggio neoliberista, anche se ha annunciato che non darà la caccia ai ladri e costruzione di un nuovo aeroporto per sostituire quello attualmente in costruzione. I lavori in corso devono essere bloccati in base ai risultati di una consultazione popolare fatta prima che lui assumesse il potere. Andò a votare in quel referendum meno del due per cento degli aventi diritto e solo un milione, su 90, lo fece a favore di quella decisione.
«Me canso ganso» (lett. mi stanco come l’oca, significa «ci potete scommettere», «ve lo garantisco» n. d. t.) il presidente l’ha ripetuto fino alla nausea in ciascuna di queste occasioni. E forse, però, finirà davvero per stancarsi, viste le difficoltà legate all’annullamento dei contratti aeroportuali. I lavori sono stati appaltati diversi anni fa e il loro costo è stato valutato in 6 miliardi di dollari, in gran parte finanziati da un’emissione obbligazionaria collocata soprattutto sui mercati internazionali. Lo stop, che il governo non ha ancora formalmente decretato per evitare una violazione del contratto, costringerebbe a riacquistare il debito dagli obbligazionisti e, secondo questi ultimi, a risarcire i danni. Secondo il calcolo di esperti finanziari indipendenti rispetto ai cento miliardi di pesos (5 miliardi di dollari) stimati dal governo per normalizzare il processo, gli obbligazionisti chiederebbero una somma all’incirca doppia. In mancanza di un accordo i gestori dei fondi sembrano disposti ad andare in tribunale in caso di default, con conseguenti danni per la reputazione del Paese, già indebitato per 75.000 milioni di euro e impegnato a finanziare i miglioramenti sociali che il presidente ha promesso in campagna elettorale.
La questione dell’aeroporto, insieme ad altre misure minori ma significative come la riduzione delle commissioni bancarie, molte del tutto abusive, ha minato la fiducia dei mercati e fatto crescere lo spread, anche se il cambio della valuta per ora non ne ha molto risentito. L’annuncio del blocco dei lavori ha portato, secondo alcune voci, alle dimissioni del ministro delle Finanze, Alfonso Romo, che in linea di principio avrebbe avuto pieni poteri sulla politica economica. Dimissioni respinte dal presidente.
Con il controllo della maggioranza del parlamento, i vecchi partiti di opposizione disorientati, e un’opinione pubblica condizionata da mezzi che dipendono in gran parte dal bilancio pubblico, sembra che la principale opposizione che il nuovo governo deve affrontare sia quella degli investitori internazionali, tra cui spicca la presenza di Blackrock.
Il mega-fondo nordamericano è il primo investitore privato in Messico, il Paese sul quale ha scommesso più di due anni fa, e il primo detentore delle obbligazioni dell’aeroporto. Controlla inoltre la compagnia petrolifera Pemex, gran parte del debito estero del Paese e ha un portafoglio così diversificato da essere perfino proprietario di un carcere privato a Coahuila. Se il conflitto non sarà risolto in modo soddisfacente, la guerra giudiziaria scatenata dai fondi internazionali contro lo stato messicano potrebbe portare a una situazione simile a quella dell’Argentina sotto il governo di Cristina Kirchner, da cui il Paese non si è ancora ripreso.
Durante il suo discorso il presidente ha a malapena accennato alla politica estera, sulla quale è evidente che non ha alcuna posizione. L’unico problema internazionale rilevante per lui è il rapporto con gli Stati Uniti. Testimoni oculari attestano buone relazioni personali con Trump, forse perché entrambi sono maestri di incontinenza verbale. Le differenze ideologiche non impediscono loro di concordare su un punto: entrambi si presentano come i buoni della politica, difensori dei lavoratori contro gli effetti perversi della globalizzazione.
La nuova formulazione del trattato di libero scambio del Nord America, firmato prima dell’inizio della presidenza, ma con la garanzia della nuova squadra di governo, ha, tuttavia, un prezzo da pagare, mai ufficialmente riconosciuto: la promessa che il Messico garantisca di contenere l’ immigrazione irregolare dall’America centrale verso gli Stati Uniti. L’immigrazione e il debito, insieme alla lotta contro la criminalità e al narcotraffico richiedono un’attenzione speciale da parte della nuova squadra di governo. Sono sfide importanti e non facili da vincere.
López Obrador ha enfaticamente annunciato che il suo programma di risanamento e di rinascita non apre la porta a una nuova fase del governo, ma a un nuovo corso. E non smette di criticare il Pri, il Partito Rivoluzionario Istituzionale, nel quale ha iniziato la sua carriera politica. Ma questo nuovo regime presenta aspetti che evocano un ritorno al passato. Sono in molti a dire che Amlo ricorda Echeverría, l’ultimo presidente rappresentativo del classico Pri. Responsabile del massacro di Tlatelolco nel 1968, concluse la sua carriera politica avvolto da un’aureola di uomo di sinistra alla testa del Consiglio mondiale per la pace, finanziato dall’Unione Sovietica e allo stesso tempo divenne un confidente della Cia.
Contrariamente a lui, López Obrador è un uomo onesto. Le sue capacità di leader e trascinatore di folle sono innegabili, ma è anche molto più imprevedibile di qualsiasi suo predecessore. Approdato al potere dopo lunghi anni di lotta per la sua conquista, emana una certa ingenuità morale che gli conferisce un profilo di salvatore della madrepatria molto apprezzato dal messicano medio. Il suo «me canso ganso» ne spiega chiaramente la testardaggine nell’azione e il desiderio di adempiere a ciò che promette. La frase deriva dal fatto che le oche eseguono lunghi voli migratori in stormi e si alternano alla guida del gruppo per aiutare il capo del viaggio e distribuire lo sforzo tra tutti. Il raggiungimento degli obiettivi che Amlo ha proposto richiederà una compagine di governo compatta e disciplinata, caratteristiche che molti dubitano appartengano all’attuale squadra. Forse per questo nel discorso inaugurale ha promesso che a metà mandato avrebbe indetto una consultazione, tra le molte altre annunciate, sulla sua permanenza o meno a capo del Paese, nello stile del referendum «revocatorio» di Chavez in Venezuela. Segnali di instabilità e spunti populisti che non lo aiuteranno affatto nella sua guerra con i mercati, se esploderà.
traduzione di Carla Reschia

La Stampa 20.12.18
Illuminismo ultrà
America (1775-1848) La rivoluzione diventa globale
Johnathan Israel riscrive la storia della nascita degli Usa
di Massimiliano Panarari


La Rivoluzione americana, svoltasi prima di quella francese, tra il 1774 e l’83, ha rappresentato non soltanto la «nascita di una nazione», ma un evento di portata autenticamente globale. E un «innesco» fondamentale nell’ambito della diffusione della modernità democratica.
C’è un ritorno di interesse sul tema, testimoniato da volumi come Rivoluzioni americane (Einaudi, pp. 640, € 34) in cui Alan Taylor, «Thomas Jefferson Professor» di Storia all’Università della Virginia, legge la fondazione degli Stati Uniti in modo innovativo sotto il profilo dell’assetto geopolitico e delle relazioni internazionali dell’epoca. Uno dei maggiori storici di questi nostri anni, Jonathan Israel (professore di Storia Moderna all’Institute for Advanced Study dell’Università di Princeton), nel suo ultimo, monumentale, libro Il grande incendio. Come la Rivoluzione americana conquistò il mondo, 1775-1848 (Einaudi, pp. 880, € 38; trad. di Dario Ferrari e Sarah Malfatti), si propone di mostrare come l’universo politico-culturale atlantico sia stato definito in maniera fondativa dall’insurrezione repubblicana delle Tredici colonie contro l’impero di Sua maestà britannica. Leggendola come una pagina fondamentale, culturalmente influenzata in modo molto significativo dal minoritario ma dirompente «Illuminismo radicale», la categoria più nota elaborata nei suoi lavori da Israel, ovvero il filone intellettuale che dallo spinozismo, passando per il libertinismo e i free thinkers, trovò il suo approdo nella componente non moderata (quella panteista, atea, repubblicana e, spesso, appartenente alla massoneria) della cultura illuministica.
Israel sviluppa lungo tutto il volume l’esistenza di una demarcazione – e di una dialettica intensa – tra un Illuminismo moderato e uno radicale in seno alla Rivoluzione americana, contestando e rivedendo la tesi storiografica ampiamente radicata secondo la quale la sollevazione delle colonie d’Oltreatlantico non mirava all’edificazione di una forma nuova di società. E, invece, argomenta lo studioso analizzando il pensiero e le dottrine filosofiche di vari protagonisti di quella stagione, la tendenza democratica e radicale della Rivoluzione americana si riproponeva precisamente la costruzione di un paradigma innovativo di politica e società, fondato sulla ragione e volto alla massimizzazione della felicità umana – come venne giustappunto percepito con nettezza dall’intellighentzia del Vecchio continente che guardava agli avvenimenti del Nuovo.
La dualità dell’Illuminismo americano ricalca così la doppia anima di quello europeo, e permette di parlare, secondo Israel, di un complessivo Illuminismo transatlantico; e, analogamente, anche le dinamiche e le evoluzioni politiche delle Rivoluzioni americana e francese seguono percorsi simili, unificati dalle idee di Condorcet, Brissot, Mercier e Maby, almeno fino alla fase prerobespierrista e precedente la presa del potere dei montagnardi nel giugno 1793 (alla cui analisi aveva dedicato un altro volume imponente, La Rivoluzione francese, pubblicato nel 2016 sempre per i tipi di Einaudi).
L’impianto di Israel va dunque in direzione contraria a quanto sostenuto da molta storiografia, ma anche da Hannah Arendt e Gertrude Himmelfarb, secondo le quali tra l’Illuminismo francofono e quello angloamericano sussistevano divergenze e diversità strutturali. L’autore de I
l grande incendio formula una tassonomia estensiva dell’Illuminismo radicale a partire dai nuclei fondamentali del repubblicanesimo democratico e del rifiuto dell’autorità religiosa, nel nome della rivolta contro il «sistema misto» che salvava il ruolo della monarchia e il primato del potere nobiliare, e contro quelli che Thomas Paine, il leader rivoluzionario più letto in Europa, etichettava come i «modelli corrotti» di governo, ossia la triade della governance dell’Antico regime (corona, aristocrazia e clero).
L’Illuminismo radicale nella versione di Israel radica tanto il perseguimento della soddisfazione individuale che la strutturazione della sfera pubblica nei valori laici; lo studioso inglese inserisce così in questa categoria tutti gli intellettuali e uomini politici che avevano teorizzato la separazione netta tra Stato e Chiesa, la secolarizzazione del potere pubblico e l’eliminazione della teologia e dei finanziamenti agli istituti religiosi dal campo scolastico ed educativo. Diventano quindi a essa riconducibili non soltanto le figure dei pensatori e attori politici atei e materialisti, ma anche quelli deisti e gli unitariani più radicaleggianti come quelli anticalvinisti.
L’Illuminismo radicale americano risulta così una galassia nella quale rientrano, a vario titolo, Jefferson, Madison, Paine, Franklin (autentica «icona» all’estero), Mason, Rittenhouse, Barlow, Monroe, Young e Allen. La «Rivoluzione atlantica», come mostra per filo e per segno Israel con una ricchezza documentaria impressionante, ha contraddistinto la genesi della democrazia liberalrappresentativa moderna introducendo i diritti umani e la libertà di espressione e di stampa, cercando di arrestare l’oppressione delle minoranze etniche e provando a produrre un codice internazionale in grado di ridurre gli esiti nefasti della guerra. Vale a dire, promuovendo le libertà repubblicane, dentro e fuori i confini della nazione. Con un effetto di «disseminazione» straordinario sulle vicende successive di Francia, Olanda, Irlanda e dell’America latina, fino all’opera di Gaetano Filangieri.

La Stampa 20.12.18
La tragedia degli ebrei scacciati dal Medio Oriente
di Elena  Loewenthal


Fu un esodo massiccio e terribilmente traumatico, ma sino a qualche anno fa se ne è parlato poco o nulla. Da qualche tempo se ne celebra in Israele la memoria alla fine di Novembre, e cioè all’indomani di quella risoluzione Onu che il 29 Novembre del 1947 sancisce la spartizione della regione in due stati palestinesi: uno per gli ebrei e l’altro per gli arabi. Fu allora che cominciò il dramma degli ebrei dei paesi arabi che, vuoi alla spicciolata vuoi in massa, furono costretti a lasciare le proprie cose e non di rado una storia millenaria, in nome del conflitto arabo israeliano. Da quel momento, infatti, gli ebrei, per secoli e millenni variamente integrati nell’universo islamico, divennero i «nemici» per antonomasia.
Ne parla ora Vittorio Robiati Bendaud nel suo La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islam. (Con una nota introduttiva di Antonia Arslan) (Guerini, pp. 239, € 18,50), che ripercorre quasi due millenni di storia e un vastissimo universo geografico. Circa ottocentocinquantamila ebrei subirono questa storia, in un progressivo inasprirsi delle condizioni di vita, nella privazione dei diritti, nella cacciata vera e propria. Che in moltissimi casi pose fine a una lunga storia di integrazione. A volte conflittuale, ma con una lunga linea di continuità che traccia anche i fondamenti del pensiero ebraico «classico», formatosi sotto l’Islam.
A Baghdad negli anni Trenta un cittadino su quattro era ebreo, e gli ebrei iracheni rivendicavano un’ascendenza che risaliva al primo esilio di Babilonia. Erano bene integrati in tutti i tessuti sociali, nelle professioni, nella vita economica e culturale del paese. Avevano per lingua madre un arab
o quasi classico, screziato qua e là di termini ebraici. Si definivano con orgoglio «ebrei arabi». Poi nel 1941, in nome di una vaga adesione del regime ai principi del nazismo, ci fu il farhud, un primo pogrom. Dopo questa prima ondata di violenze che costò la vita a decine di persone, cominciò una serie di vessazioni, di velate minacce, di espulsioni dal tessuto sociale e professionale del paese. Dal 1948 iniziarono le confische dei beni ebraici. Oggi in Iraq, così come in gran parte dei paesi islamici, di comunità non ce ne sono quasi più.
Robiati Bendaud affronta questa storia a tutto tondo passando da Cordoba a Damasco, dall’Algeria all’Egitto, perché in fondo queste sono tante storie quante sono le comunità che dovettero lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare daccapo, in Israele e in tanti altri luoghi del mondo, coltivando una memoria sommessa del dramma vissuto che solo in questi ultimi anni sta venendo alla luce.

La Stampa 20.12.18
I due opposti archetipi di Roma
La città eterna e la grande meretrice
di Fabio Martini


Roma era ancora una giovane capitale quando, nel 1895, Giosuè Carducci la descrisse come una città «squisitamente immorale», abitata da «una borghesia di affittacamere, di coronari», «che vende di tutto, coscienza, santità, erudizione, reliquie false» e «donne vere». Un’invettiva che farà scuola, nell’opinione pubblica e tra tanti uomini di cultura: poche altre capitali al mondo suscitano tra i connazionali sentimenti così malmostosi come Roma. Ma al tempo stessa città mitizzata e sempre in bilico tra sciatteria e vocazione all’eternità. A sentimenti così contrapposti, e alla sua storia più recente, sono dedicati due libri: Roma malamata (Il Mulino, p.290, € 16) autore Vittorio Emiliani, storico e già direttore del Messaggero e Contro Roma (Laterza, p.207, euro 16) riedizione di un corrosivo volume scritto nel 1975 a più mani (la prima era di Alberto Moravia) e ora arricchito di nuovi contributi, tra i quali quelli dello scrittore Nicola Lagioia e dello storico Vittorio Vidotto.
Tempeste emotive
Atteggiamenti così contrastanti verso Roma risentono di un alternarsi di «tempeste emotive» che ne hanno segnato la storia. Quando Roma era ancora rinchiusa nel regno dei Papi, nel 1861 Camillo Benso di Cavour ne immaginò il ruolo futuro in uno dei suoi discorsi più belli: «La scelta della capitale è dettata da grandi ragioni morali», «è il sentimento dei popoli che decide» e comunque «Roma è la sola città che non abbia glorie esclusivamente municipali». Ma come osserva Emiliani, Torino, Milano, Venezia, Firenze, Napoli «erano state tutte capitali e non soltanto signorie locali» e queste forti identità peseranno subito nell’ostacolare il decollo di Roma.
Davanti alla discussione in Parlamento, se attribuire a Roma le necessarie risorse aggiuntive per svolgere il ruolo di capitale, il presidente del Consiglio, il giolittiano Alessandro Fortis, lo dirà senza infingimenti: «Si è manifestato un sentimento di quasi incosciente rivalità regionale», «un fondo d’indefinibile gelosia verso Roma». Un sentimento che si manifesta anche in occasione di un passaggio oramai dimenticato e opportunamente riproposto, anche perché attualissimo: la rinuncia di Roma alle Olimpiadi del 1908. Al barone De Coubertin piaceva l’idea della città eterna, il re Vittorio Emanuele provvide a stanziare la prima somma, ma dopo il fuoco incrociato di Milano, Torino e Firenze, l’Italia fu costretta a rinunciare.
Il fascismo
Nel 1922 Roma incontra Benito Mussolini. Il duce, con una piroetta che conferma la perenne attualità del mussolinismo, passa da uno sprezzante giudizio giovanile sulla capitale («focolare d’infezione della vita nazionale») ad una esaltazione della sua missione storica. Ma proprio la Roma capitale del fascismo diventerà «un marchio a fuoco che peserà nel futuro», osserva Emiliani, perché per reazione a quella retorica, la città sarà a lungo capitale dimessa, «quasi una succursale di palazzo Chigi a direzione democristiana».
Sui destini della capitale è sempre pesato lo sguardo severo di tanti uomini di cultura. Giuseppe Prezzolini, nel 1910, aveva definito Roma «il ritrovo di tutti gli sbafatori e fannulloni», tre anni dopo Giovanni Papini si chiede: «Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è stata sempre, intellettualmente parlando, una mantenuta?». E nel 1975, nella prima edizione di Contro Roma , il romanissimo Alberto Moravia scriverà: «Il popolo romano si direbbe oggi composto in prevalenza di teppisti che decapitano le statue, riempiono le strade, le piazze e i giardini di immondezza». Mario Soldati: «Roma è morte». Eugenio Montale: «A Roma tutto diventa baraccone». Nel 2018 Nicola Lagioia: « Ha cessato di evolversi, ispirandosi a Parigi. Meglio evolversi, ispirandosi a Mumbai».
Eterna o ladrona?
Naturalmente Roma nei suoi 148 anni da capitale ha trovato anche il tempo per migliorarsi. Anche grazie ad impronte memorabili. Come scrive Vittorio Vidotto, la Roma fascista rappresenta anche «una stagione straordinaria per realizzazioni e qualità architettonica», le Olimpiadi del 1960 «furono un successo politico e di immagine». L’Auditorium di Renzo Piano è diventato uno dei poli culturali più frequentati d’Europa. Le statistiche sulla criminalità e sulla vivibilità sono migliori che altrove. E grazie al carattere disincantato dei suoi abitanti (Federico Fellini lo ritrovava nel proverbiale macheccefrèga), Roma ha un carattere cosmopolita. Anche perché i romani de Roma si sono rarefatti e, come scrive Emiliani, lo restano ancora «gli esponenti di certe famiglie nobiliari e, pur falcidiati dalle deportazioni naziste, soprattutto i romani di famiglia israelita, rimasti chiusi per tre secoli nel Ghetto e radicatissimi».
Dunque, eterna o ladrona? Scrisse Pier Paolo Pasolini: «Non si piange su una città coloniale». Condanna senza appello o esortazione ad agire? Dacia Maraini, differenziandosi dai suoi severissimi amici del Contro Roma, obiettò allora ma vale anche per gli intellettuali di oggi: «La colpa è anche nostra che non ce ne occupiamo abbastanza».

Repubblica 20.12.18
Il caso
Non solo cinema anche Rashomon diventa una serie tv
di Emiliano Morreale


In questo momento dell’evoluzione dei media, qualunque notizia viene declinata nel senso di una opposizione tra un cinema in crisi e la potenza narrativa delle nuove forme di serialità e di consumo televisivo. Sala contro Netflix, cinema d’autore o di genere contro serie "di qualità".
Il dibattito rischia di risultare così imbrigliato in opposizioni false, senza ragion d’essere. C’è dunque il rischio che in questi termini venga letta anche la recentissima notizia di un adattamento sotto forma di serie di Rashomon, il celebre film di Akira Kurosawa del 1950. L’annuncio è stato dato dalla Amblin, casa di produzione fondata da Steven Spielberg decenni fa e da tempo attiva anche nel campo delle produzioni televisive ( The Americans).
Come molti ricorderanno, il film di Kurosawa era quasi proverbiale per come raccontava lo stesso fatto di cronaca (un omicidio e uno stupro, nel Giappone del medioevo) attraverso varie testimonianze diverse tra loro, in flashback contraddittori che svelavano ognuno una propria verità. "Pirandelliano", si disse da noi, e l’effetto-Rashomon divenne proverbiale (perfino l’austero filosofo Martin Heidegger, pochi anni dopo, commentava il film in una sua conferenza). La serie tv dovrebbe essere in dieci puntate, e mostrare in ogni stagione lo stesso evento da un diverso punto di vista. Insomma, una diluizione fluviale per un film di meno di un’ora e mezza.
E per poche pagine di racconto.
Perché in realtà, va detto, Rashomon era l’adattamento di un classico della narrativa breve giapponese, Nel bosco di Ryunosuke Akutagawa; e dunque si tratterebbe sì di un remake, ma soprattutto dell’adattamento di un testo di partenza. Insomma, come una eventuale serie dal Gattopardo, che sarebbe non solo un remake di Visconti ma un nuovo adattamento di Tomasi di Lampedusa (e peraltro a lungo è stato accarezzato il progetto di un sequel televisivo del film, un Gattopardo 2 che seguisse gli ultimi capitoli del romanzo, fino al fascismo). O come Mildred Pierce, miniserie di Todd Haynes tratta da un romanzo di James Cain che aveva già ispirato un film con Barbara Stanwyck.
Ma certo per tutti noi Rashomon è Kurosawa, è il film che, con il Leone d’oro nel 1950, e poi l’Oscar per il miglior film straniero, fece conoscere il cinema giapponese nel mondo. E infatti la Amblin ha annunciato che lavorerà in collaborazione con la Fondazione Kurosawa.
Non stupisce che il meccanismo narrativo di Rashomon possa appassionare gli showrunner.
C’è da aggiungere, poi, il prestigio che ancora il brand-cinema d’autore porta per una televisione che ormai si propone non solo e non tanto come spettacolo di massa, ma come prodotto culturale ideale per un pubblico colto transnazionale potenzialmente enorme. Il cinema come bollino di glamour culturale? La serialità, d’altronde, ha ormai una sua autonomia che può fare rapidamente eclissare i modelli filmici. Quanti, oggi, dicendo Fargo si riferiscono al film dei Coen, e quanti alla fortunata serie? Quanti, dicendo Rashomon, domani penseranno a Kurosawa, e quanti alla Amblin?

La Stampa 20.12.18
Il vescovo usava soldi della Chiesa per piscina, sauna e amante
di Marco Di Blas


Lo chiamavano ormai tutti “System Schwarz”, dal nome di monsignor Alois Schwarz, fino a giugno vescovo di Klagenfurt, capoluogo della Carinzia. Il “sistema Schwarz” stava a indicare il modo arbitrario e opaco di amministrare la diocesi. Le critiche riguardavano non tanto la “missione pastorale” del presule, quanto la gestione in senso stretto del cosiddetto “Mensalgut”, il patrimonio della Chiesa carinziana, fatto di immobili, scuole, ostelli, beni forestali per un valore di centinaia di milioni. Che i conti non fossero in regola lo si sospettava da tempo. Irregolarità di vario genere erano state segnalate più volte alla nunziatura apostolica a Vienna, ma anche direttamente a Roma. Nessuna reazione. Schwarz, anzi, aveva ottenuto in luglio l’incarico ben più prestigioso di vescovo della Bassa Austria, il Land più grande e più ricco. Era inevitabile che la bomba scoppiasse subito dopo la sua partenza. È stato costituito un gruppo di lavoro che ha passato al setaccio tutti i conti della diocesi, giungendo a risultati sconcertanti: una lievitazione di spese ingiustificate per svariati milioni. Tra queste, la costruzione di una piscina con sauna annessa, costate oltre un milione.
Il rapporto con la collaboratrice
Ma l’aspetto più delicato emerso dall’indagine ha riguardato la relazione intima che si era instaurata tra il presule e una sua collaboratrice, Andrea Enzinger, da lui nominata direttrice di un centro di formazione con un compenso annuo di 91.000 euro. Il monsignore aveva praticamente perso la testa per lei, lasciandole fare ciò che voleva. Era lei a tenere le redini della diocesi, tanto da essere soprannominata “Frau Bischof”, “signora vescovo”. Nel rapporto di sei pagine redatto a conclusione dell’indagine non si dice esplicitamente che Enzinger fosse l’amante del vescovo, ma il messaggio è inequivocabile: a causa della sua condotta il presule si sarebbe trovato sempre più limitato nella guida del suo ufficio «in relazione all’obbligo del celibato previsto per i sacerdoti». «Schwarz – si legge ancora – a causa della sua relazione, era condizionato dall’arbitrio e dagli umori di questa sua confidente». Il rapporto è stato inviato a Roma che ha reagito ordinando il silenzio. Ma i monsignori del capitolo dopo una settimana di riflessione si sono ribellati e hanno convocato i giornalisti (con solo un paio d’ore d’anticipo, per evitare che la notizia potesse girare e la conferenza venisse bloccata), perché le dimensioni del caso – hanno dichiarato – fanno sì che non sia più soltanto una questione interna alla Chiesa. Ieri intanto è già stata annunciata un’azione risarcitoria nei confronti dell’ex vescovo.

Repubblica 20.12.18
A un mese dal via
Matera, la sfida dei 2mila eventi i Sassi rinascono come capitale
Dal 19 gennaio sarà il centro della cultura europea. Ma il suo volto è già cambiato: alberghi e b&b sono triplicati, i ristoranti sono passati da 300 a 400.
Corsa a comprare i pass per le iniziative
di Paolo Russo


MATERA Gli abbonamenti viaggiano a un ritmo di 300 al giorno. Nel quartier generale della Fondazione Matera 2019 aspettavano con ansia il lancio del "passaporto" per la Capitale europea della cultura. L’enorme partecipazione, a volte critica altre entusiasta, che ha accompagnato questi quattro anni si sta traducendo in numeri. Ci vogliono 19 euro (12 per i cittadini lucani) per essere protagonisti, per 365 giorni, dell’evento culturale dell’anno che trasformerà Matera in una delle mete più ambite del turismo internazionale. Alle pareti dell’ex convento di Santa Lucia, che ospita i 60 dipendenti al lavoro per Matera 2019, compaiono ogni giorno nuove fotografie: sono quelle delle bande musicali che confluiranno da ogni parte d’Europa alla cerimonia d’apertura del 19 gennaio.
Open Future è lo slogan scelto dalla Fondazione Matera 2019.
Il futuro tra i Sassi è cominciato quattro anni fa. Il 17 ottobre 2014, giorno della designazione. L’attrattività turistica della città è esplosa.
Su booking.com sono raddoppiate le strutture ricettive che ora sono oltre 700 con tassi di prenotazioni tra più alti d’Europa. Anche i dati di Unioncamere confermano una crescita del 300% delle strutture ricettive mentre i ristoranti sono passati da 297 a 395. «Ma dopo il 2019 cosa resterà di tutto questo?», si domanda Aldo Montemurro osservando il cantiere della stazione di Boeri. Vent’anni fa il suo fu il primo b&b della città. Il tema è molto dibattuto soprattutto dopo che il New York Times ha dato risalto alle dichiarazioni del sindaco De Ruggieri: «Non vogliamo turisti». Il direttore artistico della Fondazione Matera 2019, Paolo Verri dribbla la polemica: «Siamo contro l’overtourism che rischia di snaturare la città. Ma accoglieremo tutti i cittadini temporanei che vorranno fare il passaporto per Matera 2019». «Sì, la capitale ha creato turismo, ma è necessario gestire il fenomeno, senza lasciarsi togliere l’anima. Gli intellettuali, gli artisti e i narratori del luogo rivestono un ruolo fondamentale affinché si possa mantenere la propria identità» ammonisce la scrittrice materana Mariolina Venezia, Premio Campiello nel 2007.
Non è ancora tutto pronto. La città pullula di cantieri e la polemica politica è aspra. Ma Verri vive sereno i 31 giorni che lo dividono dall’inaugurazione del programma di Matera 2019, composto da 2000 eventi per 48 settimane di appuntamenti quotidiani; 80 progetti originali, la metà dei quali realizzati con il coinvolgimento di 3 mila lucani; migliaia gli artisti. Se gli si chiede di indicare i tre momenti fondamentali, comincia dalla cerimonia inaugurale, che porterà in città 54 bande, espressione delle capitali europee della cultura e dei paesi della Basilicata.
Duemila musicisti entreranno marciando e suonando nella città dei Sassi per 19 ore, dalle 10 a notte fonda, «per una giornata indimenticabile, dalle 19 alle 20 in diretta su Raiuno, con dichiarazione ufficiale di apertura del presidente della Repubblica Sergio Mattarella».
Il tema del futuro è dominante. Per capire la città in queste ore non basta attraversarla in compagnia di una guida. Ci vorrebbe piuttosto un rabdomante. Sarà un successo o un clamoroso flop? Si è più orgogliosi di un programma culturale realizzato nei tempi investendo 48 milioni, invece dei 52 preventivati, o spaventati per i lavori in corso che assediano la città? I materani sono divisi tra paradiso e inferno. Allora, dal 17 maggio al 2 giugno a essere chiamato in causa sarà direttamente il sommo poeta, Dante Alighieri. Marco Martinelli ed Ermanna Montanari del Teatro delle Albe realizzeranno tra i Sassi una versione partecipata del suo Purgatorio con 800 cittadini e 1.200 partecipanti complessivi, impegnati a recitare come a costruire scenografie. La Cantica sarà messa in scena per le piazze, fra le strade, con i registi a far da guida di un grande corteo che, simbolicamente, partirà dalla chiesa del Purgatorio e che racchiude il senso di Matera 2019 secondo Verri: la partecipazione. Come nella Cavalleria Rusticana realizzata da Giorgio Barberio Corsetti e il San Carlo di Napoli. Mentre dal 18 al 20 luglio (giorno in cui in tutto il mondo si festeggeranno i 50 anni dal primo passo dell’uomo sulla Luna), Matera chiama Houston nella Cava del Sole si celebrerà l’allunaggio con un progetto in anteprima mondiale firmato da Brian Eno. È il terzo evento segnalato da Verri.
L’ambizione di Matera è alle stelle e la prova generale sarà il Capodanno di Rai Uno.
(ha collaborato Antonella Gaeta)

Repubblica 20.12.18
Le infrastrutture
Ma la città è ancora un cantiere in ritardo i lavori per strade e treni
Cento minuti in bus dall’aeroporto più vicino, la nuova stazione pronta a metà
di P. Rus.


MATERA A un mese dal taglio del nastro di Matera 2019 manca il palcoscenico del grande show che coinvolgerà duemila musicisti da tutto il mondo. Gli operai sono ancora al lavoro per allestire nell’ex Cava del Sole il principale teatro della città della Cultura. Anzi l’unico. L’ex teatro Duni è rimasto un rudere abbandonato, mentre tutto attorno, tra i Sassi si lavora ai dettagli. Matera è ancora un cantiere. Anzi, tanti cantieri. Sarà un successo o una figuraccia? I materani sono divisi. Ciò che non è difficile intuire sono i timori del governo. La ministra Barbara Lezzi ha abituato Comune e Regione ai sopralluoghi a sorpresa. «Siamo in ritardo» spronava fino a novembre.
L’ultima dichiarazione, di tre giorni fa, è già un mettere le mani avanti. «Personalmente ho fatto il possibile per velocizzare la realizzazione delle opere. Posso assicurare che Matera non verrà dimenticata dopo il 2019, ma proseguiremo a lavorare affinché abbia i collegamenti che merita».
Appunto, dopo il 2019. Perché le principali infrastrutture messe in cantiere per la Capitale europea della cultura saranno pronte quando tutto sarà al termine.
Nonostante gli investimenti messi in campo dalle Regioni Basilicata e Puglia, dall’Anas e dalle Ferrovie Appulo Lucane, Matera arriva all’appuntamento con la storia come uno dei capoluoghi di provincia meno facilmente raggiungibili d’Italia. L’aeroporto più vicino è il Karol Wojtyla di Bari ma solo due aziende private hanno bus a in partenza dallo scalo, per un totale di sei corse al giorno, con un tempo di percorrenza che sfiora i cento minuti. L’agenzia nazionale Invitalia ha il compito di appaltare le risorse per aumentare i trasporti, assicurando una corsa in bus circa ogni mezz’ora. Ma la procedura non è stata ancora completata. La principale strada d’accesso resta la Bari-Matera.
L’unica alternativa per chi arriva in aereo o viaggia a bordo di pullman privati da Roma o Milano. Sulla statale 96 i lavori dell’Anas sono in corso per realizzare due corsie per senso di marcia lungo i 60 chilometri che separano i due capoluoghi. Entro il 19 gennaio non sarà terminato il cantiere che dovrebbe portare l’attuale ora di percorrenza a 40 minuti. I mezzi pesanti restano e rallentano ulteriormente il percorso a ostacoli verso Matera.
E se Cristo si è fermato ad Eboli, Ferrovie dello Stato l’ha fatto a Ferrandina. Matera non è servita dalla principale infrastruttura ferroviaria italiana. Esiste un solo Frecciarossa al giorno che ferma a 40 chilometri da Matera.
L’alternativa è un bus sostitutivo da Salerno per chi viaggia con Trenitalia o Italo. Ma la strada che dal Tirreno si arrampica fino alla Capitale della cultura è anche peggio della Bari-Matera. Restano le Ferrovie Appulo Lucane. Sono numerosi i lavori in corso per il raddoppio selettivo dei binari, in compartecipazione tra Regione Puglia, Basilicata e Fal per ridurre il tempo di viaggio e assicurare, anche per gli automobilisti che lasceranno l’auto nel parcheggio di scambio di Serra Rifusa (questo ormai completo), l’arrivo nella nuovissima stazione di Matera Centrale firmata da Stefano Boeri: un’opera avveniristica da 7 milioni di euro. Ma che tra un mese sarà pronta solo a metà. Di chi è la responsabilità di questi ritardi?
Non della Fondazione Matera2019 che ha lavorato e investito quasi esclusivamente sul cartellone culturale pronto da mesi. Per le infrastruttura è mancata invece una cabina di regia. Numerose e non sempre coordinate le stazioni appaltanti e gli enti locali coinvolti sui diversi fronti. Tra l’aggiudicazione e l’inaugurazione dell’evento si sono succeduti due sindaci e altrettanti governi di colori diversi. Solo la giunta regionale è la stessa. Quello che ha fatto è stato chiedere una deroga non sugli appalti ma per restare in carica sei mesi in più.
(ha collaborato Gianvito Rutigliano)



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