martedì 23 ottobre 2018

il manifesto 23.10.18
Roma oggi è medaglia d’oro al valore militare
di Davide Conti


Roma è medaglia d’oro al valor militare per la Guerra di Liberazione. Il decreto della Presidenza della Repubblica del 16 luglio 2018 ha conferito alla città la massima onorificenza, concludendo un lungo iter avviato dall’Anpi di Roma e dall’Anpi nazionale.
È un riconoscimento storico. A 74 anni dalla sua Liberazione la capitale vede riconosciuta e definitivamente legittimata la sua vicenda storica recente più importante: la Resistenza militare dei partigiani combattenti e quella civile del suo popolo sostenuta durante i drammatici 271 giorni di occupazione nazifascista dall’8 settembre 1943 al 4 giugno 1944.
Abbandonata dalla monarchia e dai generali fascisti in fuga dopo l’armistizio, Roma diede inizio alla Resistenza militare e civile che, conosciuta per la battaglia di Porta San Paolo, si estese in tante zone della città, caratterizzando poi tutti i nove mesi di lotta contro gli occupanti nazisti e i collaborazionisti fascisti.
È un riconoscimento che nelle motivazioni ufficiali richiama concetti, parole, fatti che legano il vissuto del popolo romano alla sua storia ed al senso pubblico e collettivo del suo significato.
Le «temerarie azioni di guerriglia partigiana»; i «rastrellamenti degli ebrei e del Quadraro»; le stragi delle Fosse Ardeatine, di Pietralata e de La Storta come guerra ai civili; le fucilazioni di Forte Bravetta; i luoghi di tortura di via Tasso e delle pensioni «Jaccarino» e «Oltremare»; la deportazione di oltre 2500 carabinieri, non fanno di Roma «solo» una città martire ma le restituiscono un carattere combattente e ribelle.
Le scrollano di dosso la polvere grigia delle vulgate «moderate» che l’hanno sempre rappresentata dormiente e attendista, e spazzano via le narrazioni «antipartigiane» di cui si sono nutriti il reducismo post-fascista e quella parte di società che nel portato valoriale della Resistenza ha sempre visto un pericoloso elemento di rottura della continuità su cui si erano storicamente fondati gli equilibri politici, culturali e di classe del nostro paese dall’unità nazionale in poi.
La Resistenza di Roma può finalmente mostrarsi nella sua dimensione polisemica, capace di declinare la misura asimmetrica del conflitto come fu la guerriglia urbana e la misura popolare della lotta come sua radice d’origine e ambito indispensabile di sopravvivenza. Una Resistenza che rovesciò il senso della storia che il fascismo aveva imposto con la forza ai ceti proletari della città che, espulsi dai quartieri popolari del centro storico per fare largo alla via dell’Impero ed all’urbanistica del regime, si riversarono in quelle borgate che diventeranno campo di battaglia, luogo di solidarietà e protezione dei partigiani combattenti, manifestando in modo fragoroso l’ingresso delle masse popolari nella grande storia della Roma contemporanea.
Una medaglia che rievoca nomi e volti delle figlie e dei figli migliori della nostra città: dalle quattro donne decorate dei Gruppi d’Azione Patriottica Carla Capponi, Marisa Musu, Lucia Ottobrini e Maria Teresa Regard al partigiano-bambino Ugo Forno ucciso in combattimento dai tedeschi in ritirata a soli 12 anni.
Ma la storia della Resistenza a Roma è composta da migliaia di episodi di lotta in ogni quartiere, in ogni strada, in ognuna delle otto zone operative in cui il Comitato di Liberazione Nazionale aveva diviso la città per organizzarvi la Resistenza armata contro i nazifascisti «per rendere impossibile la vita all’occupante».
Chi scrive queste righe ha curato la ricerca presentata al Ministero della Difesa che ha poi conferito la medaglia d’oro alla città e nelle centinaia di migliaia di pagine di documenti consultati ha trovato combattimenti, attacchi, sbandamenti, cadute, torture, tradimenti, solidarietà, fame. Ma soprattutto il coraggio, la paura vigile, la volontà ferma dei partigiani nel rivendicare la dignità propria e della propria città di fronte ad un nemico cento volte più forte, più armato, più spietato e coadiuvato dai «ragazzi di Salò» che aiutavano a torturare e uccidere, accompagnando i nazisti per le strade a caccia di antifascisti, ebrei, renitenti alla leva.
La medaglia d’oro è per tutti quelli che hanno rivendicato sempre con orgoglio la giustezza, il valore e la necessità della scelta. La scelta di combattere, «di stare a via Rasella perché ci volevo stare», come scrive il comandante del Gap «Pisacane» Rosario Bentivegna- di difendere il valore della Resistenza come momento vitale, indispensabile e necessario di un lungo processo di emancipazione sociale delle classi subalterne e di una compiuta libertà democratica per tutto il popolo italiano.
La storia lo aveva mostrato, da ieri è scritto in modo indelebile: Roma è antifascista.

Repubblica 23.10.18
Il convegno al Senato
Così Vittorio Foa ci insegna a costruire una democrazia
di Simonetta Fiori


ROMA Ci sono tanti modi per rendere omaggio a un protagonista del Novecento. E quello scelto da Andrea Ricciardi e Federica Montevecchi nel convegno ospitato ieri al Senato sarebbe piaciuto a Vittorio Foa, allergico a incenso e monumenti. Poco spazio per la retorica e una domanda di fondo: a dieci anni dalla morte, in che modo Foa continua a parlare ai ragazzi (e non solo ai ragazzi)? E cosa riesce a dirci in un passaggio storico di segno regressivo? I rumori di fondo di un’Italia smarrita entrano prepotentemente nella Sala Capitolare in cui si svolge l’incontro dedicato a un padre costituente, a un antifascista che pagò con la galera la sua opposizione al regime (e che in tempi più recenti così replicò a un Mirko Tremaglia sostenitore dell’equiparazione tra resistenti e ragazzi di Salò: «Vedi, quando vinse il fascismo io finii in galera; quando vinse l’antifascismo tu diventasti Senatore della Repubblica»).
Nel ricordare la figura di Foa è impossibile fare finta di niente.
Impossibile ignorare la deriva sovranista e gli attacchi all’edificio costituzionale. L’intervento di Anna Rossomando, la vicepresidente del Pd che si è spesa perché il convegno su Foa si tenesse al Senato, è ricco di riferimenti all’attualità, alle «minacce alla democrazia liberale», al «dileggio dei saperi liquidati come espressione dell’establishment». E il cupo scenario contemporaneo affiora anche dalla riflessione di Eugenio Lo Sardo, sovrintendente dell’Archivio Centrale dello Stato dove in un primo momento si sarebbe dovuto tenere il convegno, che ora ringrazia il Senato per avere accolto la giornata di studi: «È importare dare un segnale, esprimere la volontà di appartenenza a una comunità che ha scelto la democrazia. E vuole essere di esempio al mondo proprio per la sua costruzione democratica». E non è casuale che nel pomeriggio anche la presidente del Senato Casellati abbia voluto rendere omaggio a un artefice della Carta.
La memoria non è passato ma presente. E deve essere coltivata verso personalità politiche «capaci di coniugare coscienza e conoscenza», come dice Montevecchi, «capaci soprattutto di mostrarsi nel comportamento esemplare che non ha bisogno di essere dichiarato: quale siderale distanza da un evo segnato dall’abuso della parola in assenza di comportamenti significativi».
L’attualità di Vittorio Foa è nel sapere fare domande, interrogativi ancora vitali a distanza di decenni. Domande che riguardano la sua stessa parte politica, ossia la tradizione intellettuale della gauche. «Già negli anni Novanta», dice Ricciardi, «Vittorio si accorge che gli strumenti interpretativi elaborati nel Novecento non sono più sufficienti per costruire il futuro della sinistra». E anche la memoria non serve a niente se non sollecita i problemi di chi ti ascolta. Sulla memoria è interessante la testimonianza della figlia Anna, studiosa di storia, che ha ricordato le riflessioni del padre sul tema della Shoah in età molto avanzata. «Non gli sembrava giusto concentrare il ricordo nello spazio di una giornata. Le vicende del Sudafrica, con Desmond Tutu e la commissione Verità e Riconciliazione, lo spingono a sottolineare come questa memoria abbia un grave handicap, il mancato riconoscimento della colpa: la colpa dell’indifferenza, dell’aver taciuto, dell’aver collaborato con gli assassini. Penso che quanto accade oggi in Italia gli avrebbe sollecitato altri dubbi sul nostro modo di ricordare, altre domande sull’incapacità della memoria di sradicare l’odio e il razzismo». E a questo proposito appare di sorprendente attualità la lettera scritta alla figlia Bettina impegnata in un lavoro di ricerca in Africa. «L’Italia adesso è agitata dal problema del razzismo. La nostra cultura secolare è di emigrazione, ora siamo tutti impreparati all’immigrazione e la si vede come un’ondata smisurata. Lo scatenamento razzista ha caratteri violenti, spesso omicidi. Certo ci sono i razzisti doc come ci sono gli antirazzisti doc, in mezzo ai quali siamo tutti razzisti con il dovere di vincere il rifiuto del "diverso" che rompe i nostri equilibri psicologici e vitali.
Ci sono obblighi sociali (di accoglienza e di assistenza). E ci sono anche obblighi culturali ed educativi». Era il 3 aprile del 1990, quasi trent’anni fa. E da allora sembra che poco sia cambiato, se non in peggio.

il manifesto 23.10.18
«Non voglio stare vicino a una negra»
Razzismo quotidiano. Un nuovo episodio di discriminazione. Insulti contro una ragazza sul Frecciarossa
di Shendi Veli


Attraverso un post su Facebook Paola Crestani, presidente dell’associazione Ciai (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia), ha denunciato l’ennesimo episodio di razzismo in Italia. Stavolta ad essere coinvolta è proprio sua figlia adottiva. La ragazza si chiama Shanti, ha 23 anni ed è italiana di origini indiane.
È salita domenica sera su un Frecciarossa che da Milano era diretto a Trieste. Proprio sul treno si è consumato il fatto, che si somma alla lunga lista di episodi violenti di matrice razzista degli ultimi mesi. Andando a sedersi al suo posto la giovane è stata apostrofata da una donna di mezza età. «Ma lei è in questo posto?» ha chiesto la signora e alla risposta affermativa di Shanti ha preteso di vedere il biglietto. Una volta appurata la validità del titolo di viaggio della ragazza ha affermato «Non voglio stare vicino a una negra» alzandosi e andando via.
La ragazza ha subito mandato un messaggio alla madre commentando con «Assurdo» quanto le era appena capitato. Ha anche raccontato che un passeggero che ha assistito alla scena ha preso le sue parti dicendo alla donna razzista di vergognarsi. «Dubito che lei lo abbia fatto ma se ne è andata. Come dovrebbero fare tutti i razzisti: Andarsene! Perché, che ne siano consapevoli o no, il mondo di oggi e del futuro è questo: un insieme di persone di tutti i colori, di diverse lingue, di culture differenti». sono le parole accorate che scrive sui social, Paola Crestani, madre della ragazza insultata e da anni impegnata nel campo delle adozioni internazionali. Il suo post, che ha ricevuto in poche ore migliaia di condivisioni e commenti solidali, si conclude affermando: «Quindi, razzisti, che vi piaccia o no, avete già perso!»

il manifesto 23.10.18
La fake democracy di Grillo
di Massimo Villone


Con le critiche al presidente della repubblica Grillo ruba la scena al movimento di governo. Lo fa da attore consumato, ma la domanda rimane. Perché? Non aveva parole per infiammare diversamente la platea? Certamente sì.
Non convince l’ipotesi che sia una piccola vendetta per ostacoli presuntivamente frapposti da Mattarella al governo gialloverde. Per questo sarebbe stato sufficiente criticare – come è sempre ammesso – le scelte, senza attaccare l’istituzione. E Grillo solo apparentemente parla a caso. Though this be madness, yet there is method in it (Amleto, II, 2).
Grillo non considera che tutto parte dal ruolo costituzionalmente assegnato al presidente di rappresentante dell’unità nazionale, cui si lega strettamente la non partecipazione all’indirizzo politico di governo. Per questo il presidente non è scelto per via di una elezione diretta, che lo renderebbe automaticamente espressione di maggioranza e portatore di un indirizzo. Per questo è invece eletto in parlamento da maggioranze qualificate, mai sotto quella assoluta dei componenti. Per questo non c’è candidatura, né esposizione di un programma. Il presidente si configura come organo neutrale e di garanzia.
La controprova si ha guardando ai poteri definiti da Grillo come non conformi al modo di pensare M5S. Chi sarebbe allora il presidente del Csm? Il ministro della giustizia? Grillo non sa che la questione fu ampiamente dibattuta in assemblea costituente. Il ministro-presidente fu scartato perché avrebbe portato il Csm nell’orbita della maggioranza di governo. La presidenza a un alto magistrato avrebbe avuto il segno di un isolamento corporativo. La presidenza del capo dello stato – uno dei pilastri della nuova repubblica democratica – fu volta a rafforzare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura nei confronti delle maggioranze e dei governi. Naturalmente incidenti di percorso rimangono possibili. Va ricordato il durissimo scontro tra il Csm e Cossiga, che giunse nel 1991 a far presenziare due ufficiali dei carabinieri a una seduta, dopo l’intimazione che su alcuni argomenti non si dovesse discutere. Ma il caso è rimasto del tutto unico, e rientra nel quadro del Cossiga “picconatore”.
Analoghi argomenti possono svolgersi per il consiglio supremo di difesa. Chi potrebbe presiederlo? Il ministro della difesa? Un generale eletto da altri generali? Qui la presidenza del capo dello stato esprime la estraneità delle forze armate alla dialettica maggioranza-opposizione, e il loro essere al servizio della nazione. Una garanzia della natura democratica.
Ma si tratta, in fondo, di poteri presidenziali minori rispetto ad altri: ad esempio, formazione dei governi, scioglimento delle camere, promulgazione di leggi ed emanazione di decreti, nomina di cinque giudici costituzionali. Viene il dubbio che non singoli poteri siano l’obiettivo dell’attacco di Grillo, ma la figura in sé. Gli organi di garanzia stridono con la instant democracy della rete vagheggiata da Casaleggio. Che ruolo potrebbe mai avere un capo dello stato? Se scompare il parlamento, insieme deve scomparire il presidente della repubblica come garante. In quella concezione, ogni potere è chiamato alla mera esecuzione di una volontà popolare certificata non in un vaglio elettorale periodico, ma in una rilevazione continua e istantanea. Che poi questo conduca a una fake democracy destinata a risolversi in una permanente e soffocante dittatura della maggioranza a quanto pare non interessa.
M5S ha preso le distanze. Ci auguriamo che sia il segno non strumentale di una effettiva crescita culturale e politica, anche se il peso di Grillo e Casaleggio fa dubitare che il processo sia già concluso, e sia indolore per il movimento. Certo, non basta dire che questi temi non sono nel contratto di governo. Se l’esecutivo in carica durerà per la legislatura, accadrà certamente che questioni magari rilevantissime non trovino riscontro nel contratto, e vengano comunque in agenda. È già successo a Genova.
Per quanto ci riguarda, siamo scesi in campo per difendere la Costituzione contro gli apprendisti stregoni del renzismo, e non esiteremmo a farlo di nuovo contro quelli in giallo, in verde, o in gialloverde. Gufi una volta, gufi per sempre.

il manifesto 23.10.18
Può saltare lo sbarramento alle europee
Legge elettorale. L'attesa sentenza della Corte costituzionale: può riaprire i giochi a sinistra e scatenare le tentazioni del governo gialloverde. Che davanti alla Consulta ha preso per buoni gli argomenti sollevati dall'esecutivo precedente
di Andrea Fabozzi


Oggi per la quarta volta in otto anni arriva davanti alla Corte costituzionale la soglia di sbarramento che esclude dalla rappresentanza nel parlamento europeo le liste italiane che non raggiungono il 4% dei voti validi. Una soglia introdotta nel 2009 (accordo Veltroni-Berlusconi a tre mesi dal voto) e subito messa in discussione, perché considerata un inutile sacrificio della rappresentatività – inutile perché non c’è un vincolo fiduciario tra il parlamento europeo e la commissione europea. Non vale, cioè, per le istituzioni europee quel richiamo alla «governabilità» che in Italia è considerato un obiettivo da tutelare anche dalla Corte costituzionale, che infatti ha giudicato legittimo il «sacrificio» della rappresentatività nel sistema di voto nazionale. Né lo sbarramento può servire per limitare la frammentazione a Strasburgo e Bruxelles, perché a far questo ci pensa il regolamento delle assemblee: i gruppi sono solo otto per 751 europarlamentari.
Nel 2010 la Corte costituzionale giudicò inammissibile un ricorso che però riguardava non lo sbarramento direttamente ma il diritto delle liste rimaste sotto la soglia a partecipare all’assegnazione dei seggi con i resti. Nel 2015 la Corte ha respinto invece un ricorso del tribunale ordinario di Venezia (e l’anno successivo, con ordinanza, quelle dei tribunali di Cagliari e Trieste) senza però entrare nel merito, Disse allora che solo chi ha un interesse diretto – perché candidato non eletto a causa dello sbarramento – può far valere i suoi diritti, in prima istanza davanti al Tar. E così oggi, a quasi quattro anni di distanza dai fatti, arriva alla Consulta, attraverso un’ordinanza del Consiglio di stato, il ricorso della lista Fratelli d’Italia, che nel 2014 fu esclusa dal parlamento europeo per appena 90mila voti. Gli interessati al ripescaggio sarebbero Giorgia Meloni, Gianni Alemanno e Sandro Pappalardo (ai danni di due eurodeputati Pd e un 5 Stelle). Ma a questo punto, quando ormai la euro legislatura sta per concludersi, nel caso prima la Consulta e poi il Consiglio di stato (nel merito) dovessero dar loro ragione, potrebbero solo chiedere un risarcimento.
L’aspetto più interessante è quello di principio. «Chiederò l’annullamento della soglia o quanto meno il rinvio alla Corte di giustizia Ue», dice l’avvocato Besostri, che oggi interverrà in udienza oltre agli avvocati di Fd’I. «La soglia è incompatibile con il trattato di Lisbona» che ha stabilito che il parlamento rappresenta «i cittadini della Ue» e non più «i popoli degli stati». I ricorrenti (nel 2014 ci avevano provato anche i Verdi, ma si sono fermati dopo una prima sconfitta al Tar) citano due sentenze della Corte costituzionale tedesca che tra il 2011 e il 2014 ha prima cancellato la soglia di sbarramento al 5% e poi anche quella al 3%. In replica, l’avvocatura dello stato ha confermato per conto del governo 5 Stelle-Lega gli stessi argomenti in difesa dello sbarramento già presentati nell’originario atto di costituzione, firmato nel luglio 2017 da Maria Elena Boschi per conto del governo Gentiloni. Solo aggiungendo un tocco di «sovranismo», citando a suo favore e contro le due sentenze dei giudici costituzionali tedeschi, la decisione della corte costituzionale di Praga che nel 2015 ha salvato la locale soglia del 5%.
A luglio di quest’anno, il parlamento europeo ha invece approvato una raccomandazione agli stati per cercare di uniformare le leggi elettorali. Suggerisce una soglia di sbarramento dal 2% al 5% per i paesi o le circoscrizioni che eleggono almeno 35 deputati (da applicare nel 2024). In Italia l’anno prossimo gli eletti saranno 76, tre in più del 2014 per effetto della Brexit. La cancellazione della soglia potrebbe consentire l’approdo nell’eurocamera di una rappresentanza della sinistra, ma d’altro canto potrebbe risolversi in un incentivo alle divisioni. La conferma della soglia invece riaprirebbe la tentazione di Lega e 5 Stelle di alzarla in extremis al 5%, così da provare a tenere fuori, ancora una volta, proprio Fratelli d’Italia. Ma le soglie in un periodo di astensionismo elevato non fanno che mortificare ulteriormente la rappresentanza. Nel 2009 votarono alle europee 65 elettori su 100 e non parteciparono al riparto dei seggi oltre 4 milioni di voti. Nel 2014 i votanti scesero a 57 su 100 e lo sbarramento cancellò due milioni di voti

il manifesto 23.10.18
«Era meglio tenerci Martina». E fra i renziani spunta la fronda anti Minniti
Democrack/Congresso Pd. Sì solo da da quelli della «realpolitik», per togliere voti a Zingaretti. Ma 'mister Daspo urbano' parte male sul tema alleanze con l'associazionismo cattolico e la sinistra
di Daniela Preziosi


Alla Leopolda l’accoglienza è stata fredda. Sabato a Firenze l’ex ministro dell’interno Marco Minniti, candidato in pectore al congresso Pd, è stato in prima fila a lungo, solitario e poco incline alla chiacchiera. In una pausa dei lavori ha avuto un colloquio con l’ex segretario che gli ha assicurato il suo appoggio, ma promettendo di non infliggergli lo stigma del candidato renziano. Dal palco, poi, Renzi l’ha messa così: «Non abbiamo parlato del congresso, abbiamo partecipato per due volte e per due volte abbiamo vinto con il 70 per cento e per due volte ci hanno fatto bersaglio di fuoco amico. Noi daremo a chi vincerà il congresso del Pd la collaborazione che noi non abbiamo ricevuto».
Nel congresso Renzi si ritaglierà un ruolo non di prima fila, puntando invece sui comitati civici che guardano fuori dal Pd. La sua cautela non è dovuta solo al timore di doversi accollare l’eventuale sconfitta dell’ex ministro. Il fatto è che fra i renziani, specie nell’area Lotti, di ora in ora cresce la fronda anti-Minniti. Non sono pochi quelli che a Firenze gli hanno ripetuto che «era meglio tenersi Martina», uno che avrebbe garantito la pacifica coabitazione nel partito. Le dichiarazioni ufficiali vanno in tutt’altro senso. Ma più degli endorsement per ora contano i silenzi. Una volta rimbalzato il suo nome sui giornali, Minniti si aspettava più incoraggiamenti. A un certo punto è girata anche la voce che l’ex ministro Delrio preferisse appoggiare Richetti, piuttosto che l’ex collega del quale non ha condiviso la politica sui migranti. Voce subito smentita, ma emblematica del disagio fra quelle file.
Certo, fra i renziani c’è chi lo considera un ottimo candidato, come Lorenzo Guerini. Chi come Emanuele Fiano ne loda «l’idea della politica molto seria». Chi invece per realpolitik spiega che «non è il candidato ideale ma dopo Renzi abbiamo bisogno di radicalità e lui la rappresenta. Chi vede Minniti sa dove trova il Pd», mentre Zingaretti «è inafferrabile, è veltronismo senza Veltroni, non è neanche la svolta corbyniana. E non è cresciuto neppure in queste settimane che era l’unico candidato». In più Minniti, ex dalemiano, «rimescola le carte trasversalmente», ovvero intercetta il voto ex pci. La ’giovane turca’ Katiuscia Marini, per esempio, potrebbe appoggiarlo, e sarebbe un colpo basso a Zingaretti da quel che resta dell’Umbria rossa.
Eppure Minniti parte con alcune penalità. Con oigni probabilità presenterà la sua candidatura il 6 novembre, al lancio del suo libro Sicurezza è libertà (Rizzoli), con Monsignor Becciu, Gianni Letta e Walter Veltroni. Ma fatalmente la carta che i renziani reputano vincente in prospettiva potrebbe essere un handicap.
A sinistra, dentro e fuori dal Pd, non gli viene perdonato di aver iniziato il ridimensionamento della presenza delle Ong nel Mediterraneo, oggi portata alle estreme conseguenze dal successore Salvini. Né gli sono perdonati i decreti ’sicurezza’ e ’migranti’ che nell’aprile del 2017 introdussero il «daspo urbano» e velocizzarono le espulsioni degli irregolari, poco apprezzate dall’associazionismo cattolico. Non è un buon viatico per le future alleanze, quelle su cui invece Zingaretti prova a costruire la narrazione del suo nuovo Pd «rigenerato», aperto al centro e a sinistra. «La parola alleanza è una bella parola e non un insulto», ha ribadito Zingaretti ieri da Terni, annunciando la costituzione del 260esimo comitato Piazza Grande. «Bisogna smetterla di pensare che tutti coloro che non sono del Pd siano nemici del Pd».

Repubblica 23.10.18
 Intervista
Occhetto
"Oggi la sinistra è ridotta in cenere o lo capisce o non rinascerà"
di Concetto Vecchio

ROMA «La sinistra è un’Araba Fenice che può rinascere dalle proprie ceneri, solo se è consapevole di avere raggiunto lo stadio di cenere». Achille Occhetto, 82 anni, l’ultimo segretario del Pci, ha appena scritto La lunga eclissi. Passato e presente del dramma della sinistra, edito da Sellerio.
Occhetto, la sinistra morirà?
«No, infatti io parlo di eclissi non di crollo. Nell’89, quando dissi che bisognava andare oltre le ideologie del Novecento venni irriso con l’accusa di oltrismo: oggi le mie previsioni sono più attuali che mai. Il punto è che non si potrà uscire da questa crisi senza prima avere capito come ci si è entrati».
I motivi quali sono?
«Non ha funzionato la subalternità al liberismo e alle politiche di austerità. Ci si è allontanati dalla propria vocazione sociale e lo spazio lasciato libero è stato riempito dai sovranisti».
Lei sostiene che i populisti
fanno denunce giuste, ma poi offrono risposte sbagliate.
«Quando Marie Le Pen dice che non c’è sovranità nazionale ed economica ha ragione, ma ha torto quando dice che l’unica soluzione è riportare la sovranità dentro angusti confini nazionali».
Questa Europa non le piace?
«Se lo scontro continuerà ad essere tra un europeismo soltanto difensivo e i sovranisti la partita alle elezioni di maggio andrà persa. I progressisti devono battersi per cambiarla radicalmente l’Europa: deve essere uno scontro tra due cambiamenti».
Come affronterebbe la sfida per le Europee? Con una lista unica?
«Non si può pensare di battere i populisti rimanendo rinchiusi dentro i confini del Pd, ma promuovendo un’alleanza ampia, che arrivi fino a Pizzarotti, ma per fare questo serve un partito di tipo diverso».
Tra Minniti e Zingaretti chi sceglie?
«Non glielo dico, anche perché al momento non so cosa pensa l’uno e cosa pensa l’altro. Ma il Pd è partito con il piede sbagliato.
Occorreva procedere prima con una costituente delle idee e solo dopo parlare di candidature».
Dov’è l’errore?
«Nel pensare di rimettere insieme i cocci. Parlano di autoscioglimento, ma sarebbe più urgente discutere di autodefinizione: il vecchio mondo è finito».
Nel libro lei racconta che a 17 anni il partito la mandava nelle case a ringhiera dove vivevano i proletari. Perché la sinistra ha smarrito quest’anima popolare?
«Preferisco parlare di anima sociale. Ad ogni modo non ha nemmeno colto le contraddizioni e i disagi che attraversano le altre classi sociali, non soltanto quelle più disagiate. È mancata una lettura complessiva».
Ma il voto del 4 marzo non ci dice che i poveri si sono ribellati?
«Oggi i due partiti al governo hanno il 60% dei consensi, stando ai sondaggi, leggere questo dato solo come una ribellione dei poveri è riduttivo, è successo qualcosa di più complesso».
Però Di Maio li cita sempre i poveri, il Pd meno.
«Ma lui li cavalca, perché ha colto un dato politico, ho qualche dubbio che la sua empatia verso quel mondo sia sincera».
Come spiega il successo di Salvini?
«Con una comunicazione semplificata che individua ogni volta un avversario e punta sulle paure. Questa capacità è stata propria di tutte le dittature, dal peronismo al fascismo, dal nazismo allo stalinismo, che all’inizio avevano il popolo dalla loro parte».

Il Fatto 23.10.18
Le “manette agli evasori” ora possono attendere
Sparito l’aumento delle pene che doveva entrare nel decreto sul condono. I 5Stelle: “Intoppi giuridici, arriverà in aula”. Intanto nessuno ne parla più
Le “manette agli evasori” ora possono attendere
di Luca De Carolis e Carlo Di Foggia


Se le sono date sul condono penale, in un festival di “manine” e accuse incrociate. E alla fine è stata la pace, fiscale e politica. Però nel gioco del dare e avere tra M5S e Lega sono sparite le “manette per gli evasori fiscali”. Ovvero la misura draconiana annunciata sul Fatto il 24 settembre scorso dal vicepremier Luigi Di Maio, che la voleva nel decreto fiscale (“Ci sarà il carcere per chi evade”). Ma nel decreto post tregua non ce n’è traccia. E soprattutto, non si sa se e come ricomparirà.
Perché è vero, dal M5S qualche giorno fa, ancora prima dello scontro sul condono, avevano già fatto trapelare che la norma poteva uscire dal provvedimento per presunta incompatibilità per materia: “Una norma penale non può essere inserita in un decreto legge che tratta di temi economici”. Tesi più o meno sostenuta anche dalla Lega, che aveva borbottato per giorni fuori microfono (“il dl fiscale non può essere un provvedimento omnibus”). Ma era e resta una spiegazione fragile. Perché esiste una giurisprudenza minoritaria che afferma l’incompatibilità. Ma nei fatti non è stata mai applicata.
E allora a spingere la misura fuori del testo sono state ragioni politiche, ossia l’ostilità del Carroccio. E tra i sorrisi del dopo accordo nessuno vi ha fatto più cenno, anche nella conferenza stampa di sabato a Palazzo Chigi. Però Di Maio ha promesso. E il suo era anche un promemoria per l’alleato, visto che il carcere per i furbetti del Fisco è previsto nel contratto di governo, all’articolo 11: “Inasprimento dell’esistente quadro sanzionatorio, amministrativo e penale per assicurare il carcere vero per i grandi evasori”. E pure Salvini aveva garantito in campagna elettorale: “Galera per chi evade”.
Tradotto: 5Stelle e Lega si sono impegnati a varare pene più dure. Ma ora, dopo la battaglia sul condono? Dai leghisti, muro completo alle domande del Fatto. Ed è un silenzio che conferma quanto il tema sia urticante per il Carroccio. Ergo, si prospetta un’altra partita di nervi con il M5S, che invece la norma la vuole. O almeno così assicurano fonti del Movimento: “Entrerà nel dl fiscale in sede di conversione in Parlamento, tramite un emendamento. O come emendamento al disegno di legge anticorruzione”. Quindi su modalità e tempi per recuperarla i 5Stelle si tengono vaghi, perché sanno quanto sarà difficile inasprire le pene per gli evasori. Anche perché non è chiaro come avverrà, se alzando solo le pene o riducendo le soglie di non punibilità (alzate dal governo Renzi) che però riguardano soprattutto le piccole e medie imprese (e la sensibilità della Lega sul tema è forte). In modo un po’ contraddittorio, ora ritengono possibile reinserire nel dl una norma che avevano sostenuto di aver tolto per ragioni tecniche. Ma al di là dei sofismi, il M5S sa che dovrà tornare alla carica. Pena una figuraccia.

il manifesto 23.10.18
Cucchi, indagato un ufficiale per il depistaggio nell’Arma
Giustizia. Accusato di falso, il tenente colonnello Luciano Soligo, allora comandante della compagnia Talenti Montesacro. Il pm indaga sulla riunione al vertice dove, secondo Repubblica, si decise come insabbiare il pestaggio
di Eleonora Martini


Nel giorno del nono anniversario della morte di Stefano Cucchi, ieri, dalla procura di Roma è arrivata la notizia del primo ufficiale dei carabinieri indagato per il depistaggio delle violenze subite nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 dal 31enne romano mentre veniva arrestato per spaccio. È il tenente colonnello Luciano Soligo, allora comandante della compagnia Talenti Montesacro dalla quale dipendeva la stazione di Tor Sapienza dove Cucchi è stato portato per il fotosegnalamento, già dolorante e pieno di evidenti segni sul viso e sul corpo, senza che le sue condizioni di salute comparissero poi sui verbali. In questo senso arrivò infatti un «ordine gerarchico», secondo quanto testimoniato durante il processo bis dal carabiniere scelto Francesco Di Sano che il 17 aprile scorso ha ammesso di aver dovuto ritoccare il rapporto stilato quella sera.
IL MAGGIORE SOLIGO si aggiunge alla lista dei militari accusati di falso ideologico per effetto del nuovo filone di inchiesta integrativa al processo bis avviata nel giugno scorso: oltre a Di Sano, risultano indagati il luogotenente Massimiliano Colombo Labriola, allora comandante della Stazione Tor Sapienza, e tre dei cinque imputati, il maresciallo Roberto Mandolini, allora a capo dello stazione Appia, Vincenzo Nicolardi e Francesco Tedesco, il carabiniere che ha accusato del pestaggio i suoi due colleghi e co-imputati Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Questo secondo filone di inchiesta ha trovato riscontri proprio nella denuncia depositata nel giugno scorso da Tedesco nella quale, tra le altre cose, il carabiniere riferiva la scomparsa dell’annotazione di servizio con la quale il 22 ottobre 2009, appena appresa la morte di Cucchi, aveva deciso di denunciare quanto avvenuto la notte dell’arresto.
A tirare in ballo il primo ufficiale dell’Arma coinvolto in questa storia, il tenente colonnello Soligo, sarebbe stato il luogotenente Colombo Labriola ascoltato il 18 ottobre scorso per oltre sette ore dai magistrati a Piazzale Clodio e il cui interrogatorio è stato secretato dalla procura.
Ma il pm romano Giovanni Musarò sta cercando di risalire ulteriormente la scala gerarchica dell’Arma per appurare fin dove è arrivata la connivenza con il depistaggio, e quale limite abbiano trovato all’interno del Corpo dei carabinieri le «mele marce» che tentarono di insabbiare le torture subite da Stefano Cucchi. La procura però ha smentito che tra gli indagati ci siano tutti coloro che, secondo un articolo apparso ieri su Repubblica, coprirono le operazioni di insabbiamento con una riunione svoltasi il 30 ottobre 2009 «negli uffici del generale di brigata e allora comandante provinciale di Roma Vittorio Tomasone (oggi generale di corpo d’armata e comandante interregionale dei Carabinieri “Ogaden” di Napoli con competenza su Campania, Puglia, Basilicata, Abruzzo e Molise)». Riunione di cui, secondo Repubblica, non esiste verbale. E che si rese necessaria per costruire «una narrazione in grado di imputare i segni di quella violenza alla magrezza costituzionale del “tossico”, alla sua epilessia».
OLTRE A TOMASONI – scrive Carlo Bonini – quel giorno c’erano i già citati marescialli Mandolini e Colombo Labriola, «l’allora comandante del Gruppo Roma, il colonnello Alessandro Casarsa (oggi comandante del reggimento corazzieri del Quirinale) e i due ufficiali che a lui gerarchicamente erano sotto-ordinati quali comandanti di compagnia: il maggiore Luciano Soligo e il maggiore Paolo Unali (allora comandante della Compagnia Casilina)». Tomasone, Cararsa e Unali, che non risulterebbero tra gli indagati, verranno sentiti invece come testimoni in una delle prossime udienze – probabilmente a gennaio – del processo che si tiene davanti alla Prima Corte d’Assise.
Una notizia che è stata accolta con «rabbia, dolore ed amarezza» da Ilaria Cucchi che nei giorni scorsi ha riferito di avere paura per l’impennata di insulti e minacce (mai perseguitati e puniti) che si registra negli ultimi giorni sui social, «soprattutto da parte di simpatizzanti della Lega». «Falsi ordinati per far dire ai medici legali dei magistrati che mio fratello era morto di suo, che era solo caduto ed in fin dei conti non si era fatto niente. Era morto solo ed esclusivamente per colpa sua e nostra», scrive la sorella della vittima su Fb aggiungendo che avrebbe voluto l’Arma dei Carabinieri al loro fianco. «Ma ho negli occhi lo sguardo del suo Comandante a lungo fisso su quelli di Fabio (l’avvocato Anselmo, durante l’incontro con la ministra Trenta, ndr). Come quando ci si sfida a chi abbassa prima lo sguardo. Non è ancora finita questa storia dove una normale famiglia Italiana viene stritolata da uomini delle istituzioni ma reagisce e resiste per nove anni senza mai perdere fiducia in esse».
ALLA LUCE DI QUESTE ultime notizie, e man mano che si annullano le possibilità di negare il coinvolgimento dell’Arma nella morte di Stefano Cucchi, anche il ministro degli Interni Matteo Salvini si è schierato contro gli hater: «I leghisti non minacciano e non sono violenti – ha affermato sorvolando sulle offese scritte sul Fb dalla vicesindaca leghista di Venezia, Luciana Colle – Nessuna tolleranza per chi insulta e augura la morte. Invito Ilaria Cucchi e i suoi familiari non solo a denunciare, ma a venirmi a trovare al Ministero».

Il Fatto 23.10.18
Cucchi, ufficiale indagato: “Mai visti i verbali falsi”
L’inchiesta sulle coperture, il colonnello al Fatto: “I rapporti chiesti dal generale”
Cucchi, ufficiale indagato: “Mai visti i verbali falsi”
di Antonio Massari e Valeria Pacelli


L’inchiesta su alcune annotazioni false redatte nella stazione di Tor Sapienza – dove Cucchi passò la notte del 15 ottobre 2009 prima del processo in direttissima – fa un balzo. Verso l’alto. Perché nel registro degli indagati per la prima volta viene iscritto un ufficiale superiore dei carabinieri. Si tratta del tenente colonnello Luciano Soligo, che nove anni fa comandava la compagnia Montesacro-Talenti, da cui dipende Tor Sapienza. Il che fa pensare una cosa: ossia che la Procura sta cercando di risalire lungo la scala gerarchica che tentò di insabbiare alcuni atti sul pestaggio del geometra romano.
Soligo al Fatto – che lo ha contattato nei giorni scorsi – aveva dichiarato di non aver mai visto né letto alcuna annotazione redatta dai suoi militari sul caso Cucchi. Piuttosto – aveva spiegato – fu l’allora comandante provinciale, il generale Vittorio Tomasone, a chiederle. Tomasone per l’ennesima volta ribadisce: “Non ho mai dato disposizione di scrivere cose diverse dal vero”. E la Procura ci mette un sigillo: ieri l’Ansa ha precisato che il comandante non è indagato e verrà sentito solo come testimone nell’ambito del processo bis sulla morte di Cucchi (in corso in Corte d’assise d’appello e in cui sono imputato cinque carabinieri, tre per il pestaggio).
Allo stesso modo, precisa l’Ansa, sono completamente estranei all’indagine anche gli altri ufficiali, il colonnello Alessandro Casarsa, già comandante del Gruppo Roma e il maggiore Paolo Unali, ex comandante della Compagnia Casilina.
Ma procediamo con ordine. Il fascicolo che ora vede indagato Soligo è stato aperto dopo la testimonianza resa in aula da Francesco Di Sano.
L’appuntato, che nel 2009 prese in consegna Cucchi a Tor Sapienza, davanti a due annotazioni redatte dalla sua stazione il 26 ottobre 2009 e che attestavano lo stato di salute di Cucchi, afferma che sono state modificate. Nella prima annotazione c’è scritto che Cucchi riferiva di “non poter camminare, veniva comunque aiutato dal personale della Pmz (Pattuglie mobili di zona, ndr) Casilina a salire le scale”. Circostanza che scompare completamente nella seconda annotazione.
In aula, ad aprile scorso, quindi Di Sano ammette le manomissioni e tira in ballo la scala gerarchica, a partire dall’allora suo comandante, Massimiliano Colombo.
Così quest’ultimo, con Di Sano stesso, viene indagato per falso. Nello stesso procedimento finisce anche Soligo, che nel frattempo ha lasciato la stazione nella periferia romana ed ora è distaccato allo Stato maggiore della difesa, senza un incarico operativo.
Come ha ricostruito Il Fatto nei giorni scorsi, anche Soligo era presente a una riunione organizzata a novembre del 2009, quando il Comando gruppo carabinieri Roma convoca i militari coinvolti nella vicenda Cucchi. In questa riunione c’erano anche Alessandro Casarsa (oggi comanda i Corazzieri che proteggono il Quirinale) e i comandanti delle compagnie Casilina e Montesacro, i colonnelli Paolo Unari e Luciano Soligo.
Ieri Il Fatto ha provato a contattarlo senza riuscirci. Giorni fa però il tenente colonnello aveva chiarito di non aver mai letto alcuna annotazione sul caso Cucchi. “I militari che arrestarono Cucchi non dipendevano da me – ha spiegato –. Tor Sapienza che invece dipendeva da me aveva la disponibilità delle camere di sicurezza e Cucchi fu portato lì. Io quella vicenda non l’ho seguita molto”. Delle relazioni di servizio “non ne so nulla” e in ogni modo, precisa “furono richieste dal Comando provinciale, quindi non passarono da me”. Da Tomasone, quindi?. Soligo conferma e poi aggiunge: “Se il Comando provinciale chiede delle relazioni, di norma va direttamente a chi l’ha chiesta. Io non le ho mai viste”.
Ieri Tomasone ha ribadito di non aver avuto alcun ruolo nei presunti falsi.

il manifesto 23.10.18
Robert Faurisson, l’«inventore» della menzogna negazionista
Il personaggio. Scomparso a 89 anni a Vichy l’uomo che ha definito la strategia globale e il vocabolario dei nuovi antisemiti. Nel 1978 tentò di accreditare le sue tesi su «Le Monde». Poi, arrivò il sostegno dell’estrema destra internazionale e della Repubblica Islamica di Ahmadinejad
di Guido Caldiron


Per una di quelle bizzarre casualità della storia nelle quali è lui stesso più volte inciampato nella sua lunga attività di propagandista della menzogna, se ne è andato proprio a Vichy, la cittadina il cui nome si è trasformato nel simbolo stesso del fascismo alla francese. Eppure sarebbe riduttivo considerare Robert Faurisson, scomparso domenica ad 89 anni, come una semplice figura dell’estrema destra, per quanto sia stato interprete della strategia più aggressiva e pervicace che da questi ambienti sia venuta negli ultimi decenni.
QUELLO CHE PER MOLTI VERSI può essere considerato come «l’inventore» del negazionismo riguardo l’Olocausto – non il primo ad esprimere tali posizioni, ma tra i primi a comprendere e sfruttare la pericolosa porosità del mondo dell’informazione e dei media a tali inquietanti suggestioni -, ha infatti cercato fino alla fine di affermare quella che oggi potrebbe essere forse definita coma la più terribile e oltraggiosa tra le «fake news».
Docente nei licei dell’Auvergne prima e poi all’Università di Lione II, operando sempre nel campo della critica letteraria, a metà degli anni Settanta Faurisson inizia ad indirizzare al quotidiano Le Monde una serie di missive che ruotano tutte intorno al medesimo tema, che costituirà l’autentica ossessione della sua vita. La negazione dello sterminio ebraico aveva caratterizzato neofascismo e neonazismo fin dall’immediato dopoguerra, proprio in Francia era stato uno scrittore fascista come Maurice Bardèche a cercare di riscrivere tra i primi la storia dell’Olocausto, seguito da un ex deportato passato tra le fila dei suoi carnefici come Paul Rassinier e da figure di primo piano del nascente Front National, come François Duprat, cui si deve lo slogan «prima i francesi», morto nel 1978.
MA CON LA PUBBLICAZIONE in quello stesso anno da parte di Le Monde di uno dei testi di Faurisson, intitolato «Le problème des chambres a gaz», cui seguirà un confronto sulle pagine del celebre quotidiano, l’opzione negazionista farà, seppure momentaneamente, la sua apparizione nel dibattito intellettuale, tentando di trovare spazio e legittimazione all’interno di una sedicente «battaglia delle idee». Dopo Faurisson, una lunga serie di storici dilettanti, privi di alcuna reale competenza in materia, come di documenti, materiali o testimonianze a sostegno delle loro posizioni, tenteranno di accreditare una tesi ripugnante in base alla quale la verità della Shoah corrisponderebbe invece alla «menzogna del XX secolo».
Prima che lo storico Henry Rousso attribuisca nel 1987 a questa autentica offensiva propagandistica il termine oggi consueto di «negazionismo» e che, in anni ancor più recenti, Valérie Igounet ricostruisca in Portrait d’un négationniste (Denoel), l’itinerario politico e culturale di Faurisson, nostalgico del collaborazionismo e che agli studenti dell’ateneo lionese chiedeva di riflettere sull’autenticità o meno del Diario di Anna Franck, in molti, anche a sinistra, riterranno di dover levare la propria voce a difesa della libertà di espressione di Faurisson, più volte condannato per le sue violente provocazioni nel segno della «negazione dei crimini contro l’umanità» e alla fine escluso dall’insegnamento.
MA PROPRIO mentre Faurisson e gli altri capofila del circuito europeo dei negatori della Shoah, dopo una prima apertura di credito intellettuale nei loro confronti, cominceranno a presentarsi come «vittime del sistema» e a denunciare la «repressione» nei loro confronti, l’intera strategia di cui sono portatori diverrà globale. Dopo aver incassato in un primo tempo il sostegno dell’estrema destra europea, già nel 1976 con la nascita dell’Istitute for historical review in California, finanziato dall’ideologo antisemita Willis Carto, Faurisson troverà una nuova platea internazionale, mentre i suoi scritti potranno circolare oltre i limiti delle legislazioni anti-razziste del Vecchio continente, prima di approdare alla rete. Non solo.
PER IL TRAMITE DI RADIO ISLAM, inizialmente basata a Stoccolma, i negazionisti, ancora una volta Faurisson in testa, incasseranno quindi il sostegno delle autorità iraniane che, in particolare durante l’amministrazione di Ahmadinejad, fino al 2013, organizzeranno più volte «convegni» di questo circuito a Teheran. Ed anche in Francia, il nuovo antisemitismo che specula sulle tragedie del Medioriente vedrà delle inedite convergenze intorno alla figura di Faurisson, come indica la presenza di quest’ultimo sul palco di Dieudonné una decina di anni fa.
Dalle pagine di Le Monde allo Zénith di Parigi non c’è dubbio che Robert Faurisson abbia interpretato fino in fondo la sua parte di «assassino della memoria», come scrisse Pierre Vidal-Naquet già molto tempo fa a proposito dell’offensiva del negazionismo

La Stampa 23.10.18
Faurisson, dove osano i negazionisti
La Soluzione Finale? “Un pacifico trasferimento di ebrei”. Le camere a gas? “Mai esistite”
di Elena Loewenthal


Se ricordare la storia della Shoah è diventato un imperativo morale lo si deve anche a Robert Faurisson, lo storico francese negazionista nato nel 1929 e morto ieri a Vichy. Per lui le camere a gas non erano mai esistite perché tecnicamente non potevano funzionare, sulla base di presunti studi dedicati alla forma delle porte, alle dimensioni dei pertugi da cui passava lo Zyklon B. Per lui Hitler non aveva mai neanche pensato di perseguitare chicchessia a causa della sua razza o della sua religione, per lui il diario di Anne Frank - sul quale si accanì con una attenzione degna di un manuale di psicanalisi più che di storiografia - era un falso. Per lui la conferenza di Wansee del 1942, in cui venne costruita la strategia operativa della Soluzione Finale, fu dedicata all’organizzazione di un pacifico trasferimento delle masse ebraiche verso Est.
Nato a Shepperton, Inghilterra, da padre francese e madre scozzese, Faurisson si era laureato alla Sorbona e aveva fatto l’insegnante di Lettere nei licei - venendo peraltro ripetutamente segnalato alle autorità scolastiche per le sue invettive razziste - prima di avviarsi nel 1969 alla carriera accademica. Dal 1973 al 1980 insegnò letteratura contemporanea presso la Seconda Università di Lione. Il 29 dicembre 1978 pubblica su Le Monde un testo intitolato «Il problema delle camere a gas», in cui si dichiara convinto che non siano mai esistite. Nelle settimane successive escono sul giornale francese molte obiezioni e testimonianze, a firma fra gli altri di Pierre Vidal-Naquet e di Léon Poliakov. A seguito di questo affaire, Faurisson viene sospeso dall’università e dal 1980 sino al suo pensionamento è trasferito su sua richiesta al Centre National de Télé-Enseignement (Cnte).
Se l’episodio del 1978 sta al centro della sua vicenda, la carriera «intellettuale» di Faurisson è costellata di tali esternazioni. La sua cifra culturale fu sempre la provocazione, la negazione della Shoah fu l’ossessione della sua vita. E di negazione si trattava, non di revisionismo critico. Faurisson scagliava le sue tesi, formulava le sue domande retoriche, osservava il panorama di repliche e il polverone che ne veniva fuori costituiva per lui l’evidenza del fatto che non esistesse prova alcuna per dimostrare che la Shoah fosse avvenuta.
Il primo «affaire Faurisson» innescò infatti una catena di «scandali» che il 1980 e il 1990 lo coinvolsero insieme con altri personaggi della galassia negazionista, di cui il più celebre adepto è il britannico David Irving: dalla difesa pubblica di militanti neonazisti al lancio di tesi sostenute da oscuri personaggi come Jean-Claude Pressac, al sostegno del negazionismo di Stato iraniano.
Forse era inevitabile che l’evento più assurdo della storia umana - lo sterminio di sei milioni di persone che, non va dimenticato, sarebbe stato l’anticamera per la costruzione di una «umanità» selezionata in cui solo gli ariani avrebbero avuto licenza di esistere - diventasse così presto l’oggetto di una stortura pseudo-storiografica. Come è stato possibile che, a poco più di trent’anni dai campi di sterminio, si negasse quella storia e ci si costruisse intorno un vero e proprio movimento d’opinione? Non erano bastate le testimonianze, le baracche di Auschwitz, il silenzio di milioni di persone sparite nel fumo dei forni crematori, a conferire alla Shoah la «dignità» della certezza.
Sarà proprio la sua natura di catastrofe inaudita ad aver dato in qualche storto modo manforte alla scuola negazionista di cui Faurisson è stato il capostipite e rimane ancor oggi il maître-à-penser. Una mente umana sana non può accettare quella storia. Eppure è stata, e non fu una mostruosa devianza: si deve accettare quello che è stato come parte innegabile del nostro passato. I negazionisti non lo accettano. Da Faurisson in poi, e con i suoi scritti non di rado deliranti come punto di riferimento, cercano di dimostrare che non è mai avvenuta, perché non era possibile che avvenisse. E dalla negazione alla nostalgia per quel tempo in cui la Shoah non sarebbe mai avvenuta, il passo è pericolosamente breve.

1 La prima delle sei installazioni che compongono il percorso multimediale della mostra, da oggi al 27 gennaio nel palazzo del Quirinale. 2. Il Presidente Sergio Mattarella (accompagnato dall’esperto di installazioni multimediali Paco Lanciano) tra i vagoni piombati ricostruiti in mostra. 3. La pagella che annunciava l’espulsione dalle scuole di tutti gli insegnanti e gli studenti ebrei per decisione del governo

Repubblica 23.10.18
Faurisson una vita dedicata alla menzogna
di Wlodek Goldkorn


Robert Faurisson, morto domenica a casa sua a Vichy, all’età di 89 anni, è stato l’uomo che ha dedicato la sua vita a demolire il più importante dei tabù su cui poggia la civiltà occidentale dopo la seconda guerra mondiale. Quel tabù, recente, ma così forte da aver cambiato il nostro modo di vedere l’intera storia dell’umanità, ha un nome, che a sua volta porta il nome di un luogo maledetto e che non avrebbe dovuto esistere né essere immaginato, ma che è esistito e fu edificato da esseri umani.
Umani che, a loro volta, per citare Hannah Arendt, pensavano di avere il diritto di eliminare dalla faccia della terra un’intera categoria di altri esseri umani e perfino la loro memoria. Stiamo parlando di Auschwitz. E di un tabù che esiste grazie alla forza della memoria di alcuni uomini e donne capaci di raccontare l’inenarrabile, ciascuno a modo suo; e tra questi un grande scrittore come Primo Levi e un’importante testimone come Liliana Segre.
La memoria può essere declinata in tanti modi quanti sono i testimoni, gli interpreti, gli esegeti. Essendo materia politica perché ci parla del futuro, la memoria è per definizione oggetto di contesa e di divisioni. Ma un conto è discutere sulla forma che si vuole dare al racconto della Shoah e perfino alle cause della catastrofe epistemologica, etica ed estetica della civiltà europea, altra storia è negare che la Shoah ci sia stata. Ecco, Faurisson era diventato celebre (per modo di dire) quando nel 1978 pubblicò un pamphlet in cui negava che sei milioni di ebrei fossero morti nelle camere a gas. Da allora, in Occidente, sono state fatte leggi per punire il negazionismo e lui stesso fu condannato dai tribunali, ma ancora prima dalla comunità degli storici: a partire da un gigante come Pierre Vidal-Naquet.
Finché ci sarà la memoria, ci saranno le polemiche intorno alla storiografia della Shoah. E anche il modo in cui vengono costruiti i musei per ricordare quel che è successo è stato e sarà oggetto di discussioni, spesso molto aspre. E ci fu perfino chi diceva che i campi di sterminio nazisti erano una specie di reazione al bolscevismo. Ma Faurisson è andato oltre. Ci spieghiamo: oggi, tranne qualche eccentrico, nessuno osa dichiararsi razzista, augurare l’estinzione di altri popoli; merito di una specie di super-io ormai interiorizzato, legato appunto al tabù di Auschwitz. Abolire quel tabù come voleva Faurisson avrebbe significato riaprire le porte dell’abisso.

La Stampa 23.10.18
Una full immersion nel dramma delle leggi razziali
di Ugo Magri


«Brava gente» fino a un certo punto. Qui in Italia si sono commesse infamie che la mostra al Quirinale su «1938: l’umanità negata» fa rivivere con intensità emotiva. Racconta le leggi razziali nei panni di chi le subì, gli ebrei, e di chi girò gli occhi dall’altra parte (la massa indottrinata dal fascismo). Fa letteralmente immergere dentro quel dramma, attraverso una sequenza di installazioni che in mezz’ora trasportano il visitatore dalle piazze esaltate di Mussolini ai cancelli del campo di sterminio per eccellenza, Auschwitz. Chi fosse interessato alle testimonianze d’epoca ne troverà alcune agghiaccianti: ad esempio, il primo numero della rivista che propagandava l’odio contro gli ebrei, La difesa della razza. Ne è rimasto un unico esemplare, un po’ sgualcito, esposto insieme con il fonogramma della Questura in cui si confermava, con burocratica freddezza, la partenza dalla stazione Tiburtina dei «28 carri di ebrei» rastrellati a Roma il 16 ottobre 1943. Su un migliaio, ne ritornarono vivi meno di 20.
La mostra apre oggi i battenti e li chiuderà il 27 gennaio. L’ha voluta Sergio Mattarella nel palazzo che è simbolo dell’unità nazionale: per prenotare basta collegarsi al sito www.quirinale.it dove sono indicati giorni e orari. I curatori sono Giovanni Grasso, portavoce del Presidente, e Paco Lanciano, grande esperto di percorsi multimediali. La forza di questa iniziativa sta proprio nella capacità di coinvolgere anche chi, in età scolastica, apprende meglio attraverso luci, suoni e percezioni quasi fisiche come quella che si prova nella sala del vagone piombato: lì ci si immedesima in quanti venivano portati nei lager. La voce narrante, dell’attore Francesco Pannofino, tradisce a tratti commozione e sdegno. Ma sono soprattutto un paio di filmati a rendere straordinariamente efficace la mostra: narrano in parallelo due famiglie romane nella loro quotidianità. Una delle due, di origine ebraica, viene di colpo inghiottita dalle persecuzioni. L’altra, non ebrea, continua la sua vita tranquilla. Per dirla con Primo Levi: «Conoscere è necessario perché ciò che è accaduto può ritornare».

Corriere 23.10.18
L’orrore in nome della razza
Dalle leggi del ’38 fino ai treni per Auschwitz
Una mostra al Quirinale. «Atto di riparazione»
di Paolo Conti


Il segno è fortissimo, emotivamente e simbolicamente. Nel cuore del Quirinale, residenza del capo dello Stato, la ricostruzione di uno dei vagoni merci che portarono migliaia di ebrei italiani nei campi di concentramento dopo i rastrellamenti nazifascisti: ne morirono quasi 8.000. Ecco le pareti di legno. In alto e in basso le feritoie, ai piedi del visitatore una rotaia che si aggancia al filmato con l’ingresso ad Auschwitz sulla parete di fondo, accompagnato dalle parole di Primo Levi: «Vagoni merci, chiusi dall’esterno. E dentro uomini, donne, bambini compressi senza pietà, come merce, in viaggio verso il nulla». Entrare nel vagone virtuale significa rivivere il terrore che attanagliò quegli ebrei italiani nel loro viaggio di morte.
La mostra 1938: l’umanità negata/dalle leggi razziali italiane ad Auschwitz, che rimarrà aperta al Quirinale fino al Giorno della Memoria — il 27 gennaio 2019 —, è un atto di riparazione, come lo definisce Giovanni Grasso, consigliere per la stampa e comunicazione della presidenza della Repubblica, curatore dell’esposizione con Paco Lanciano, mago della virtualità applicata alla divulgazione culturale.
Ottant’anni fa Vittorio Emanuele III, da capo di Stato, firmò per la promulgazione l’onta indelebile delle leggi razziali nella sua residenza estiva di San Rossore. Dopo la nomina a senatrice a vita di Liliana Segre, nel 2018 un altro capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha fortemente voluto al Quirinale, la casa sua e degli italiani, una riflessione sulle atroci conseguenze delle leggi razziali fasciste, pensata e realizzata dalla presidenza. L’obiettivo è raggiungere soprattutto le nuove generazioni. Di qui la scelta di unire il rigore storico dei documenti alla capacità emozionale della virtualità.
Paco Lanciano (la ricostruzione delle Domus romane a Palazzo Valentini e nelle aree dei Fori a Roma è sua e di Piero Angela) ha ideato con Grasso un itinerario narrativo con la storia di due famiglie immaginarie, dal 1918 alla promulgazione della Costituzione nel 1947. Una è cattolica e l’altra è ebrea, i due capifamiglia si chiamano Francesco e Bruno. Una sopravviverà alla Seconda guerra mondiale, l’altra scomparirà. Prima la Grande Guerra, poi l’arrivo del fascismo, l’asse con Hitler, le leggi razziali. La vita dei due nuclei cambia radicalmente, quella ebrea è privata di ogni diritto, dalla scuola al lavoro. Un filmato riporta il visitatore a quegli anni. La seconda sala fa «vivere» i documenti, con la voce di Francesco Pannofino. Quindi la ricostruzione di una classe elementare, con i volti di alcuni bambini segnati da una «x» rossa, cacciati perché ebrei. L’angoscia del vagone. Infine l’approdo alla Costituzione che fonda i principi di libertà, democrazia, giustizia e uguaglianza.
Una mostra volutamente non facile perché vuole lasciare un segno indelebile: il Quirinale spera di trovare una sede stabile dopo un giro per l’Italia. La collaborazione del Quirinale con Luce-Cinecittà, l’Istituto dell’Enciclopedia italiana, Rai Cultura, il ministero dell’Istruzione e la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano fanno di questo appuntamento al Quirinale un momento di immensa forza e di eccezionale qualità storica e documentaristica.

La Stampa 23.10.18
Cina, ingegneria e propaganda
Il mega ponte unisce le colonie
di  Francesco Radicioni


Per qualcuno la striscia di asfalto che da oggi collega Hong Kong, Macao e Zhuhai rappresenta una meraviglia dell’ingegneria, per altri solo lo sfoggio della volontà di Pechino di allargare il suo potere sulle due ex-colonie europee. Nove anni dopo l’inizio dei lavori, sarà inaugurato oggi, alla presenza del presidente cinese XI Jinping, il mega-progetto infrastrutturale lungo 55 chilometri - il ponte sul mare più lungo al mondo - che promette di tagliare i tempi di collegamento tra la Cina e le regioni amministrative speciali di Hong Kong e Macao. La struttura è stata progettata per resistere a un terremoto dell’ottavo grado di magnitudo, a un super-tifone con venti fino a 340 chilometri l’ora e all’impatto accidentale di una grande nave portacontainer. Per consentire il normale transito del trasporto marittimo nel Delta del Fiume delle Perle, nel progetto è stato previsto anche un tratto in un tunnel sottomarino lungo 6,7 chilometri e collegato al ponte da due isole artificiali.
Incendi e ritardi
Costato oltre venti miliardi di dollari, i lavori di realizzazione del ponte tra Hong Kong, Zhuhai e Macao sono stati funestati da incidenti, ritardi, sforamenti del budget e inchieste per corruzione. Molti hanno anche espresso dubbi sull’utilità del progetto visto che tra le regioni amministrative speciali e la Repubblica Popolare già esistono diversi collegamenti via terra, nave e aereo. Poche settimane dopo l’inaugurazione della linea ad alta velocità tra Hong Kong e la Cina continentale, nell’ex-colonia britannica c’è preoccupazione che la nuova infrastruttura possa essere un nuovo tentativo delle autorità cinesi di portare Hong Kong ancora più vicina alla Cina.
Le autorità della regione amministrativa speciale assicurano che il ponte servirà a «consolidare la posizione di Hong Kong come un hub per l’aviazione e la logistica regionale», riducendo i tempi di trasporto tra Hong Kong e Zhuhai - nella parte occidentale del Delta del Fiume delle Perle - dalle attuali quattro ore ad appena 30 minuti. Nonostante la retorica sul tempo che la realizzazione del ponte consentirà di risparmiare, le auto private non potranno andare tra Hong Kong, Macao e Zhuhai senza speciali permessi.
Le colonie integrate
Per Pechino il vero grattacapo sarà come integrare le due ex-colonie europee - amministrate con la formula «un Paese, due sistemi» - con la Cina continentale: realtà che conservano tre diversi sistemi legali, politici, valutari e doganali. «La collaborazione tra Guangdong, Macao e Hong Kong sarà rafforzata in termini di commercio, finanza, logistica e turismo», ha assicurato venerdì Frank Chan, segretario ai trasporti dell’ex-colonia britannica.
In questo contesto, il ponte sul Delta del Fiume rappresenta una pietra miliare anche della Greater Bay Area. Il progetto punta creare una grande area economica integrata e di sviluppo tecnologico tra Hong Kong, Macao e altre nove città della provincia del Guangdong. Una delle regioni più ricche e dinamiche della Repubblica Popolare dove vivono 68 milioni di persone, un importante hub della logistica e che da sola rappresenta 1/8 del Pil totale cinese. L’idea è quella di trasformare quella che è stata «la fabbrica del mondo» in un avamposto della trasformazione del modello economico cinese - puntando su servizi, innovazione, ricerca e sviluppo - che possa competere con San Francisco, New York e Tokyo.

Repubblica 23.10.18
Dall’Honduras varcano il confine con il Guatemala La voce si è sparsa: ora arrivano anche dal Salvador e dallo stesso Guatemala. Fuggono dal "Triangolo della morte" dove comandano armi e gang
Partiti in 300, sono già 10mila
A piedi, in bici, sui carretti la lunga marcia dei disperati sfida il muro di Trump
di Daniele Mastrogiacomo


RIO DE JANEIRO Erano partiti in 300. Adesso, sei giorni dopo, sono 10mila. Avanzano a piedi, seguiti da auto, camion, furgoni, moto, biciclette, carretti, taxi collettivi. Ognuno con il suo fagotto, una borsa, uno zaino. Poche cose, raccattate in fretta, alle prime luci dell’alba, lasciando case e baracche, tavolacci al mercato, tuguri di campagna. Uomini, soprattutto. Giovani e gente più matura. Gli sguardi segnati dalla paura, il fisico asciutto con i muscoli tesi per lo sforzo. Ma ci sono anche donne, e bambini, spesso piccolissimi, portati in braccio, tirati per mano.
Famiglie intere che si perdono e si ritrovano in questo serpentone umano lungo chilometri.
Sono vestiti in modo semplice ma dignitoso. Niente stracci, forse i capi migliori. Quelli adatti ad affrontare una marcia che è anche un inferno: freddo pungente di notte, sole implacabile di giorno. Poco cibo, acqua razionata. E poi il sonno, la stanchezza, l’ansia di non arrivare alla meta, di fare tanta strada per nulla. "Non ce ne andiamo", scrivono sui cartelli, "ci cacciano". Una fuga dalla disperazione.
Niente lavoro, tanta violenza.
Sono partiti da San Pedro Sulas, un paesino dell’Honduras con il più alto tasso di omicidi al mondo.
Puntano sul confine sud degli Usa. Ci hanno provato già nel marzo scorso. Sono stati fermati e si sono dispersi.
Ma adesso è diverso, non hanno nulla da perdere.
Partono con il groppo in gola; non è facile lasciare casa, genitori anziani, spesso mogli e sorelle. Un taglio netto.
Attraversano tutto l’Honduras, varcano il confine con il Guatemala. La voce si è sparsa in tutta la Regione.
Arrivano anche dal Salvador e altri ancora dallo stesso Guatemala. Con l’Honduras formano il famoso "Triangolo della morte", dove comandano le armi e le gang che le imbracciano.
Donald Trump annusa subito il pericolo che rappresenta questa carovana degli immigrati. Nessuno li ferma. Il presidente Usa si scatena su twitter. Chiede un intervento immediato del Guatemala.
Rimprovera Honduras e Salvador. «Vanno fermati.
Subito! Altrimenti», minaccia, «non avrete più un soldo.
Niente più finanziamenti!».
Il Guatemala lascia passare il fiume umano che adesso è formato da 5.000 persone.
Diventeranno 7.000 e poi 10.000 quando raggiungono Tecún Umán, l’ultimo avamposto del Paese.
Dall’altra parte, in Messico, c’è Ciudad Hidalgo. Sono divise da un fiume, il Rio Suchiade.
Sopra, scorre il ponte Rodolfo Robles. A metà la polizia ha formato una barriera. La folla avanza. Volano bottiglie e qualche pietra. Gli agenti rispondono con i lacrimogeni e i gas urticanti.
C’è uno sbandamento, molti cadono a terra. Le madri urlano, alzano i pugni, si mettono in ginocchio, pregano. La tensione di placa.
Il ponte diventa il simbolo di questa sfida: gli ultimi contro i primi. Donald Trump è furibondo: «Manderò l’esercito alle nostre frontiere», posta su twitter.
Non minaccia più, agisce.
Rivolto a Honduras, Salvador e Guatemala, da sempre "cortile di casa" dei gringos, annuncia: «Sospenderò ogni aiuto nei vostri confronti. Da subito!».
Ma la carovana è già entrata in Messico, è accolta con cibo e acqua dagli abitanti di Tapachula, nel Chiapas. La gente solidarizza con questi 7.233 immigrati registrati ufficialmente dall’Acnur, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Gli altri 3.000 hanno attraversato il rio Suchiate a bordo di gommoni e zattere.
Trump perde la pazienza anche con il Messico. È esasperato. «Rispettate le leggi!», tuona. «Ogni volta che vedo delle persone che entrano illegalmente negli Usa mi ricordo che la colpa è dei Democratici. Ci impediscono di revocare le nostre leggi patetiche sull’immigrazione».
Dai balconi del Chiapas lanciano cibo e altra acqua e ancora applausi. La folla che sfila in basso risponde con un boato: "Messico! Messico!".

Speciale elezioni di mid-term Usa
È online su Repubblica.it lo speciale sulle elezioni di mid-term che si terranno negli Stati Uniti il 6 novembre prossimo: i candidati, le sfide, i nodi politici della campagna elettorale raccontati dai giornalisti di Repubblica attraverso le storie dagli Stati chiave, i commenti, le dirette social, i video e mappe interattive.
Scappano dalla fame e dalle violenze di alcuni Paesi dell’America centrale
E tra il gelo e il caldo attraversano l’inferno

Repubblica 23.10.18
Allarme violenza
Il fight club del sabato in piazza convocato dai ragazzi sui social
Piacenza, 63 identificati nell’ultimo weekend: si ritrovano in centro e si sfidano a pugni dopo avere organizzato online luogo e orario. Appello del questore a genitori e insegnanti
di Maurizio Pilotti


Piacenza «Prima regola del Fight club: non parlate mai del Fight club». Ecco, a Piacenza ormai è evidente che sappiano benissimo che cosa è un Fight club: ormai da tre week end consecutivi, infatti, gruppi di ragazzini si danno appuntamento nel centro storico per prendersi furiosamente a cazzotti: ben sessantatré ragazzi sono stati identificati solo sabato scorso, sei sono stati portati in caserma.
È che la prima regola enunciata nel romanzo di Chuck Palahniuk qui sembra proprio non aver attecchito. Anzi, a Piacenza del Fight club se ne parla, eccome. E viene addirittura pubblicizzato online: il tam tam dei raduni è infatti diffuso con diversi giorni di anticipo sui social network, così da rendere ancora più carico l’evento. Si affrontano un centinaio di ragazzi, molti i minorenni. Ma non c’entra la politica, né la fede calcistica, né qualsiasi altro credo. Si confrontano, si sfidano, si picchiano per il solo gusto di farlo.
A volte — come nel caso dell’ultima megarissa dello scorso fine settimana — pare ci fosse all’origine qualche like di troppo sul profilo Instagram di un’amica. Più che altro un pretesto per poter menare le mani. Quello che conta è che al raduno la tensione salga, tra insulti e minacce, fino a che cominciano gli spintoni. Poi iniziano a partire i primi cazzotti, e ci si trova nella versione tutta padana e adolescenziale del Fight Club. Ma non per questo meno pericolosa.
Certo, molti si limitano soltanto a guardare i coetanei e fanno il tifo. Lo fanno con crudeltà tutta infantile, in un clima di violenza impressionante, inaspettato per un branco di imberbi. Nei filmati che girano sulla Rete — perché molti addirittura ne filmano i combattimenti, che poi rimbalzano sui social — si sentono in sottofondo voci stridule, da ragazzino di 12 anni, gridare « Ammazzalo! » , « Spaccagli il c.. o! » , mentre due giovanissimi, circondati dal pubblico di coetanei ( che non fa niente per fermarli e li aizza) si prendono a pugni larghi come quelli delle risse tra camionisti di una volta. Molti si limitano a tifare, ma nella bolgia ci sono anche quelli che i pugni li danno. E quelli che li prendono, naturalmente. In un video diffuso online dal sito del quotidiano Libertà, due poco più che bambini si confrontano come sul ring, con la guardia alta. Il più grande dei due fa partire un destro che colpisce l’avversario, esile, che traballa, centrato in pieno volto: la testa gli fa un violento scatto indietro, come quella dei pugili quando incassano un colpo. Ma poi recupera l’equilibrio, e il combattimento continua. Fino a quando?
Polizia e carabinieri però non si sono fatti trovare impreparati, scongiurando con controlli a tappeto che la situazione potesse degenerare o portare a conseguenze più serie. Il questore Pietro Ostuni lancia un appello ai giovani e alle loro famiglie perché le risse del sabato si interrompano subito. « Non andateci. Ragazzi, dovete sapere che dopo i 14 anni si è imputabili penalmente e che anche soltanto da spettatori si può essere coinvolti. Rivolgo lo stesso invito anche ai genitori, a prestare la massima attenzione a quello che i figli fanno o dicono, soprattutto per evitare che possano farsi male. Finora abbiamo evitato il peggio con tutte le forze dell’ordine impegnate sul territorio: ma il mio invito è a non andare a quei raduni, anche solo per guardare».
Il questore Ostuni ricorda infatti ai tanti giovanissimi spettatori che filmano e poi rilanciano le risse sui social, finendo così per fare da fattore moltiplicatore degli scontri, che non è facile sfuggire alla legge, anche quando ci si crede protetti da un account anonimo: «La Rete non è una lavagna, dove quel che si è fatto può poi essere cancellato per sempre. Ogni scritta, anche se proviene da un anonimo, lascia un segno sulla Rete, a cui è possibile risalire. Certo, servono magari più tempo e accertamenti tecnici specifici, ma nessuno è immune » . « Di tutto quello che ci si scambia su internet — conclude il questore — , dai messaggi ai video, rimane sempre una traccia e nessuno può ritenersi al sicuro dai nostri controlli. Ragazzi, la vera forza è quella del pensiero e del confronto. Usare la forza fisica vuol dire soltanto essere dei deboli».

La lotta ripresa dal telefonino
Due fotogrammi del video, diffuso in rete, della rissa in piazza a Piacenza. Due ragazzi si sfidano a pugni mentre intorno i coetanei osservano e li incitano. Gli incontri sono organizzati sui social network

Repubblica 23.10.18
di Toni Morrison l’arte di capire il razzismo
di Roberto Saviano


Arriva in Italia il volume che raccoglie le lezioni tenute ad Harvard dalla premio Nobel afroamericana: un viaggio nella storia per raccontare ai ragazzi da dove viene l’eterno istinto a escludere gli altri. La riflessione di Roberto Saviano
Abbiamo sentito talmente tanto pronunciare la parola razzismo da aver smesso di comprendere il suo sinistro significato. Ci sembra la parola diventata un disturbo, come una tosse, un catarro che viene a chi è stato troppo esposto al freddo del passato. Una definizione antiquata, da cui difendersi per tornare a essere liberi di dar giudizi o fare analisi.
Toni Morrison in queste pagine rare, diverse da tutto ciò che ha scritto prima, mostra l’urgenza, dimostra l’imperativa necessità di occuparsi di razzismo. Racconta scrivendo, anzi battendo il martello delle parole sul metallo dei concetti, come il razzismo sia l’inclinazione comune, lo spontaneo cercare di sentirsi qualcosa di più che soli individui, e per realizzare questa elevazione di sé, si seleziona chi escludere.
Esisto solo se escludo qualcuno, esistiamo solo se scacciamo nel basso dei commenti e delle gerarchie umane chi ci appare diverso. E può essere chiunque: il meridionale, il nero, il bianco isolato, il matto, il povero, il disabile, tutti possono essere minoranza in questo mondo, non esistono contesti protetti.
Questo libro dovrebbe essere tra le mani di professoresse e professori per raccontare ai loro studenti come fu inventata una patologia, sì, proprio una malattia, per descrivere il desiderio di fuggire dalla schiavitù degli africani deportati in Nordamerica. Ma come, possibile che sfuggire alla miseria e ai ceppi sia una malattia? In quegli anni inventarono anche questo e gli diedero un nome, "drapetomania", descritta come «il disturbo che spinge gli schiavi a fuggire». La cura? Farli lavorare, sferzarli, isolarli, considerarli non bestiame ma nemmeno uomini: qualcosa di intermedio. Questo limbo è lo spazio dove releghiamo l’altro, qualsiasi altro e, per capire come venga creato e come riesca a diventare anche un posto fisico, reale, tangibile, queste pagine sono indispensabili. E non è passato, dice Toni Morrison, il razzismo è qui, ora, subito e se non conosci cosa è accaduto, non riconosci gli echi di ciò che accade. Toni Morrison parla dei flussi migratori in America e dice come la più grande comunità migrante negli USa sia quella tedesca, molto più folta di quella inglese e di quella afroamericana, ma la comunità tedesca si è mimetizzata, quasi nascosta, ha modificato i propri cognomi cassando la propria origine particolare. Nessuno di loro viene definito tedesco-americano, come accade per altre comunità di immigrati. Fino a qui magari tutto sembra rientrare in una normale volontà di integrazione e di evitare che le differenze siano evidenti, se non fosse che uno dei meccanismi usati dalla migrazione tedesca è stata il costruire un’identità contro qualcuno. Non esisti se non in contrapposizione a qualcuno, non sei incluso se non escludi.
L’identità in contrapposizione con l’altro è persino nella scrittura.
Toni Morrison cita Faulkner ed Hemingway e spiega come, anche loro, non riescano a relazionarsi a uomini e donne neri se non indicando la diversità del colore della pelle. Il bianco è «il locale», «l’americano», «il guercio». Il nero è il nero. Il nero o viene chiamato col suo nome o definito dal suo colore. Raccontare l’utilizzo del colore in letteratura serve a Toni Morrison per raccontare come questa prassi, in realtà, derivi dalle leggi stesse che hanno codificato l’identificare l’essere umano dal colore della sua pelle. Il codice penale americano del 1847 diceva: qualsiasi persona bianca si ritrovi con schiavi o negri liberi, allo scopo di insegnare loro a leggere o scrivere, verrà reclusa in prigione per un periodo non superiore a 6 mesi. Sino al 1944 nella città di Birmingham era vietato «a negri e bianchi di giocare assieme in luogo pubblico a carte, dama, scacchi». Quindi l’identità del bianco è data dall’esclusione del nero. Senza il nero, tra i bianchi tornerebbero le divisioni in ricco, povero, bello, orrido, privilegiato o sfruttato, simpatico, ignorante, di talento. In contrapposizione al nero, invece, diventa solo bianco, vincente, parte attiva del mondo.
Lo stesso concetto di nero è quasi inesistente in Africa dove, con eccezione dei sudafricani, non si definiscono neri ma ghaneani, guineani, sudanesi, maliani, nigeriani. La variazione delle tonalità del colore nero non costituisce un dettaglio significativo, non costituisce "differenza", e rende sostanzialmente la pelle scura identica alle varie tonalità di pelle bianca che può essere olivastra, più chiara, più scura. La polarizzazione sul nero non c’entra col colore in sé, ma c’entra con la necessità di escludere; c’entra con chi non è inserito, c’entra con gli esclusi che possono o meno essere inseriti nella comunità degli inclusi. E l’inclusione di alcuni esclusi genera altra inclusione e, soprattutto, altra esclusione.
È interessante seguire, nel racconto di Toni Morrison, episodi di persecuzione per capire come non si debba e non si possa essere indecisi su come trattare i casi di razzismo che oggi si presentano.
Cambiano i tempi, cambiano i luoghi, cambiano anche le modalità ma non il fine, e quel fine dobbiamo smascherare. Nel 1944 Booker Spicely viene ucciso a Durham nel North Carolina da un conducente di autobus perché si era rifiutato, per stanchezza, di andare in fondo, al posto dei neri.
Nel 1946 Maceo Snipes viene prelevato a casa sua e ucciso a colpi d’arma da fuoco in Georgia perché aveva votato alle primarie democratiche. Gli verrà appeso al collo un cartello con su scritto: il primo negro a votare ora non voterà mai più.
Toni Morrison racconta di come, nel Ventesimo secolo, i neri non più schiavi iniziano a decidere tra loro quale gradazione di nero sia più nera di altre.
Il «nero mezzanotte», così viene definito il colore della gradazione più scura, è garanzia del vero nero e dà la certezza che un nero così non potrà mai essere accettato nella società dei bianchi. In Paradiso Toni Morrison racconta di questa perversione come garanzia di identità e alleanza: non potrà mai un «nero mezzanotte» pensare di piacere ai bianchi perché non ha la pelle cacao, cioè mischiata col bianco. Lo scopo di tutto questo, dice Toni Morrison, è semplice: far morire l’idea di un’umanità comune. Ed è esattamente quello che sta avvenendo in queste ore, in questi giorni, settimane e mesi.
Toni Morisson rifugge il nazionalismo black, così come rifugge dalla logica contraria del povero e dello sfruttato come il giusto della società.
La sua grandezza è nel riportare tutto alla dimensione umana.
Il razzismo non è qualcosa che puoi allontanare, non è un vecchio orpello del passato che nessuno vuol sentire più pronunciare e che nessuno pronuncia temendo d’essere accusato di troppa correttezza. Il razzismo sta crescendo nel disastro della mia Italia, della mia Europa. Si cerca di sentirsi diversi, fortunati, ricchi o sulla strada della ricchezza solo vessando il profugo, incolpando chi lo sta salvando dal mare.
Razzismo non è proclamare la superiorità della razza ariana, non è credere all’esistenza delle razze in contrapposizione alla scienza che ha dato prova dell’esistenza di un’unica razza, quella umana.
Razzismo è impedire la creazione di una umanità comune.
– © 2018, Roberto Saviano Tratto da "L’origine degli altri" di Toni Morrison edito da Mondadori libri S.p.A per Frassinelli.



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