mercoledì 19 settembre 2018

Corriere 19.9.18
Quei 62 bambini dietro le sbarre «Poche strutture»
di Alessandra Arachi e Rinaldo Frignani


Sono sessantadue in Italia i bimbi costretti a vivere dietro le sbarre per stare vicino alle loro mamme detenute. Due di questi sono i fratellini coinvolti nella tragedia che si è consumata ieri a Rebibbia, il carcere alla periferia di Roma che vantava un primato con i 16 bambini ospiti nel nido.
Suona come un ossimoro parlare di bimbi e di sbarre delle carceri. Eppure attualmente ci sono almeno una trentina di piccolissimi — da zero a tre anni — che frequentano le carceri, quelle vere e dure, non come gli Icam, gli Istituti di custodia attenuata — dove non ci sono sbarre, l’atmosfera è soft e gli agenti di custodia non indossano la divisa.
È proprio negli Icam che vive l’altra metà dei bimbi censiti dal ministero della Giustizia, quindi un’altra trentina, e la legge prevede che in questi istituti possono rimanere con le loro mamme anche fino a sei anni.
«Gi Icam sono a Torino e a Milano, a Venezia Giudecca e a Lauro, in Campania, uno vicino a Cagliari», dice Mauro Palma, garante nazionale delle persone private della libertà e fa il punto sulla legge in vigore. Spiega, infatti: «Il problema dei bambini da zero a tre anni rimane troppo spesso senza soluzione. La legge attuale — la cosiddetta legge Finocchiaro — è una buona legge ma rimane molto inapplicata. La questione principale sono le case-famiglia protette che fanno vivere i bambini con le mamme in un ambiente familiare. Ma ce ne sono soltanto due in tutta Italia». Una, a Roma, si chiama la «Casa di Leda», ospita otto mamme e otto piccoli ed è un esempio di come potrebbe funzionare davvero la legge.
«Il punto però è che nessuno alla fine stanzia fondi per le case-famiglia», denuncia Susanna Marietti, che è la coordinatrice nazionale di Antigone e conosce da vicino la questione.
Aggiunge Marietti: «Se un dramma del genere è avvenuto in una struttura gestita in maniera magistrale come Rebibbia allora bisogna davvero preoccuparsi».
Il garante Mauro Palma non riesce a trovare una responsabilità per la tragedia in chi gestisce il carcere della Capitale. «È un istituto ben diretto — dice —, quello che è successo non mi fa pensare ad alcun tipo di responsabilità specifiche. E nella situazione paradossale dei nidi dentro le carceri, quello di Rebibbia è certamente un buon esempio».
I bimbi presenti nelle carceri sono figli di mamme per metà italiane e per metà straniere, più o meno: le prime sono 27, le seconde 25. Dopo quello che è successo un coro si leva in difesa dei più piccoli: «Sono troppi i bambini che continuano a vivere dietro le sbarre», denuncia Giovanni Paolo Ramonda, che è il presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII. Anche secondo lui la soluzione sono le case-famiglia: «Gli Icam sono certamente una soluzione intermedia, ma non rispondono al bisogno fondamentale di un bambino di crescere in un ambiente familiare, con le stesse opportunità degli altri suoi coetanei. Per questo servono le case-famiglia, tutti gli psicologi concordano che i primi tre anni di vita del bambino sono fondamentali per la sua crescita equilibrata». Sono strutture non vigilate, da dove è possibile fuggire. «Ma le madri non lo fanno mai».