domenica 12 agosto 2018

il manifesto 12.8.18
Per un diritto internazionale dell’ospitalità
La proposta . L’ecatombe quotidiana nel Mediterraneo impone una rifondazione delle norme pari alla portata dei grandi proclami del dopo guerra. Non sono una classe né una razza, la condizione degli erranti rappresenta la mancanza di diritti che bisogna colmare perché ci sia finalmente uguaglianza nell’umanità
di Étienne Balibar


Nel Mediterraneo la situazione è sempre più tesa. Un’ecatombe quotidiana, in parte dissimulata. Stati che, per parte loro, istituiscono o tollerano pratiche di eliminazione che la storia giudicherà senza dubbio come criminali. Contemporaneamente, hanno luogo iniziative che incarnano lo sforzo di solidarietà della «società civile»: città-rifugio, «passeurs d’umanità», navi di salvataggio troppo sovente costrette alla guerriglia contro l’ostilità dei poteri pubblici. Questa situazione esiste anche in altre parti del mondo. Ma per noi, cittadini europei, riveste un significato e ha un’urgenza speciale. Richiede una rifondazione del diritto internazionale, orientato verso il riconoscimento dell’ospitalità come «diritto fondamentale» che imponga agli stati degli obblighi, la cui portata sia almeno eguale a quella dei grandi proclami del dopo guerra (1945,1948,1951). Bisogna quindi discuterne.
In primo luogo, di chi stiamo parlando? Di «rifugiati», di «migranti» o di un’altra categoria che le inglobi entrambe? È noto che queste distinzioni sono al centro delle pratiche amministrative e della loro contestazione. Ma, soprattutto, dal modo in cui nominiamo gli esseri umani che dobbiamo proteggere o bloccare, dipende anche il tipo di diritti che riconosciamo loro e il modo in cui qualifichiamo il fatto di privarli di essi. Il termine che propongo è quello di erranti. Mi spingo a parlare di erranza migratoria o di migranza piuttosto che di «migrazione». Il diritto internazionale dell’ospitalità deve rivolgersi agli erranti della nostra società mondializzata, riflettere i caratteri dell’erranza migratoria in quanto tale, con particolare riguardo per le violenze che si concentrano nei percorsi.
VARI ARGOMENTI vanno in questa direzione. In primo luogo, l’ossessione per il respingimento dell’immigrazione detta clandestina e l’identificazione dei «falsi rifugiati» ha finito per causare un «capovolgimento del diritto d’asilo» (Jérôme Valluy). Le autorità utilizzano la categoria di «rifugiato» non per organizzare l’accoglienza di persone che fuggono la crudeltà della loro esistenza, ma per delegittimare chiunque non corrisponda a certi criteri formali o non sa come rispondere in modo appropriato a un interrogatorio. Questo però non sarebbe possibile se i criteri ufficiali non fossero straordinariamente restrittivi, in modo da separare l’ottenimento dello statuto di rifugiato dal diritto di circolazione, ponendo al tempo stesso la sovranità degli stati al di fuori di ogni possibilità di essere veramente contestata. Non c’è posto per condizioni come la guerra civile o la guerra economica, la dittatura o la restrizione della democrazia, la catastrofe ambientale, tutte situazioni che oggi sono alla radice delle erranze. In più, negando queste realtà, oltre a fare violenza a coloro che le vivono, gli stati trasformano a loro volta masse di migranti in rifugiati senza rifugio, cacciati da un campo all’altro. Sono questi usi (e cattivi usi) che vengono fatti di questa distinzione che ci obbligano oggi a ripensare il problema, per dare una soluzione che ha anche degli aspetti giuridici.
SU QUESTO TEMA vengono invocate diverse giustificazioni. Una concezione umanista affermerà che la libertà di circolazione è uno dei diritti dell’uomo, altrettanto fondamentale della libertà di espressione o dell’habeas corpus. Esigerà che gli stati pongano meno ostacoli possibili. Una concezione liberale esprimerà la stessa esigenza in termini di «lasciar passare», che vale sia per gli esseri umani che per le merci, i capitali o le informazioni. Nelle varianti egualitarie, insisterà sull’ingiustizia che c’è nel riservare il diritto a cambiare residenza ai ricchi e ai potenti, escludendo i poveri e gli sfruttati. Tutti questi ragionamenti non mancano di forza né di fondamento, ma non mi sembra che affrontino la specificità della migranza contemporanea, perché neutralizzano lo choc tra le situazioni di miseria e gli interventi statali che le affrontano.
Molto più pertinente mi sembra l’applicazione rigorosa delle nozioni contenute nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, a proposito della circolazione, della residenza e dell’asilo: da un lato, a causa della logica che consiste a correlare dei diritti di segno contrario (come il diritto ad emigrare e il diritto al ritorno), dall’altro a causa della preoccupazione di non creare individui privi di diritti o delle non-persone. Il grande limite qui è che fanno dell’appartenenza nazionale e della sovranità territoriale l’orizzonte assoluto dei dispositivi di protezione delle persone, mentre, nella situazione attuale, l’evidente necessità è di limitare l’arbitrio degli stati, opponendo dei contro-poteri legittimi, internazionalmente riconosciuti. Per questo suggerisco di andare al di là di questi testi, dando corpo a un diritto dell’ospitalità, il cui principio è che gli erranti (e coloro che portano loro soccorso) possono rivendicare obblighi dello stato «sovrano» stesso, di modo che la loro dignità e sicurezza non siano, come oggi, sistematicamente schiacciate.
È ALTRETTANTO NECESSARIO riferirsi qui a una delle formule-chiave del 1948: «ogni individuo ha diritto, in ogni luogo, al riconoscimento della sua personalità giuridica» (articolo 6 della Dichiarazione universale). In ogni luogo vuole dire anche negli uffici dell’immigrazione, durante un controllo alla frontiera, in un campo di rifugiati e, se possibile, anche sul fondo di un gommone che deriva in alto mare… È qui che bisogna chiedere all’autorità di rispettare i propri obblighi, ma è anche qui che si deve resistere, a causa della tendenza specifica a sacrificare i diritti umani a delle esigenze «securitarie». Il principio dei principi è che i migranti in situazione di erranza godano di diritti concreti che possono opporsi alle leggi e regolamenti statali, cosa che implica anche che possano difendersi o essere rappresentati davanti a una giurisdizione ad hoc o di diritto comune.
Da questo principio deriverebbero conseguenze di vari ordini :
a) la proibizione del respingimento: non soltanto gli erranti non possono essere violentemente respinti da una frontiera o da una costa, ma devono poter esprimere i loro bisogni in condizioni dove venga rispettata la loro dignità, l’integrità corporale, l’autonomia individuale, e venga tenuto conto delle sofferenze subite. L’«onere della prova» non deve essere a carico degli erranti, ma degli stati che esitano ad accoglierli.
b) gli stati e la polizia che opera alle frontiere o all’interno di un territorio non devono brutalizzare gli erranti: nozione purtroppo molto vasta, che va dalle violenze esercitate contro individui senza documenti fino alla creazione di quello che l’attuale premier britannica Theresa May aveva chiamato «hostile environment», un ambiente ostile per gli stranieri, passando per la chiusura nei campi e la separazione delle famiglie.
c) gli stati non devono stilare liste dei paesi d’origine i cui cittadini abbiano a priori la proibizione di entrare, basate su criteri razziali, culturali, religiosi o geopolitici (nonostante la necessità per gli stati di premunirsi contro azioni terroristiche a cui l’erranza puo’ servire da copertura).
d) le operazioni militari non devono cercare di distruggere le organizzazioni o le reti di passeurs mettendo a rischio la vita degli erranti, che sono le vittime e non i committenti. Naturalmente le decisioni che impediscono le operazioni di soccorso o tentano di farle fallire, devono essere considerate come complicità criminale (crimini contro l’umanità).
e) gli stati, per lavarsene le mani, non devono esternalizzare la «gestione» dei flussi di migranti e di rifugiati. In particolare, non devono negoziare con paesi terzi definiti per la circostanza «sicuri», degli accordi di baratto (ritenzione forzata contro sovvenzioni), che, in modo inconfessabile, li abbassano allo stesso livello dei «passeurs» mafiosi di cui denunciano l’attività.
Queste disposizioni pongono soprattutto dei limiti e dei divieti, più che prescrivere dei comportamenti. Questo è conforme alla natura del discorso giuridico quando si tratta di rettificare una violenza o un abuso. Non si tratta di mettere fine per decreto all’erranza dei migranti e dei richiedenti asilo, e neppure di cancellare le cause che hanno causato l’esodo. Ma si tratta di impedire che, con la scusa di gerarchizzare le cause, la politica degli stati trasformi l’esodo in un processo di eliminazione. I migranti in erranza e coloro che vengono loro in aiuto devono avere il diritto dalla loro parte, nei loro sforzi per resistere. È poco – ma forse è molto.
Non c’è un diritto all’ospitalità, poiché è una disposizione collettiva che dipende dalla libertà, una «responsabilità condivisa» (M.Delmas-Marty). Ma bisogna sviluppare il diritto dell’ospitalità, attività civica in pieno sviluppo, a causa dell’urgenza della situazione. Andando al di là della proposta kantiana di un «diritto cosmopolita» limitato al diritto di visita, ne generalizzerebbe la norma fondamentale: gli stranieri non devono essere trattati come nemici. Purtroppo è precisamente questo l’effetto delle politiche di un numero crescente di stati contro la migranza globale.
GLI ERRANTI non sono una classe. Non sono una razza. Non sono «la moltitudine». Direi che sono una parte mobile dell’umanità, sospesa tra la violenza dello sradicamento e quella della repressione. È solo una parte della popolazione mondiale (una piccola parte del resto), ma altamente rappresentativa, perché la sua condizione concentra gli effetti di tutte le ineguaglianze del mondo attuale e perché è portatrice di quello che Jacques Rancière ha chiamato la «parte dei senza parte», cioè la mancanza di diritti che bisogna colmare perché ci sia finalmente eguaglianza nell’umanità. Si tratta di sapere se l’umanità espelle da sé questa parte di se stessa o se ne integra le esigenze nell’ordine politico, nel suo sistema di valori. È una scelta di civiltà. È la nostra scelta

il manifesto 12.8.18
La trama e l’ordito, un’estate a Capri
Il filosofo Walter Benjamin e la regista d’avanguardia Asja Lacis si incontrarono nel 1924 sull'isola: la seduzione cominciò con una manciata di mandorle
di Claudio Vercelli


Era un tempo inedito, quello che il filosofo Walter Benjamin e la regista Asja Lacis condivisero. Il tempo dell’avvento rivoluzionario e della sperimentazione, che rompe i registri del passato e porta verso un qualche orizzonte a venire, ancora indefinito. Ma all’estroflessione dell’impegno intellettuale, inteso come una dimensione che coincide integralmente con la propria esistenza, corrisponde, molto spesso, la difficoltà di fare i conti con lo stato delle proprie emozioni.
C’è come una dissonanza creativa, una cesura tra esterno e interno, come tale destinata a rimanere per sempre non colmata. L’intimismo, infatti, è tanto silenziosamente coltivato nel proprio ego quanto censurato sul piano delle relazioni interpersonali. Generando una sorta di bipolarità tra il ricercare come potere essere e il dovere essere a tutti i costi. L’impegno militante non avrebbe sciolto questa contraddizione dell’animo, semmai amplificandola in nuove morali.
ASJA LACIS ERA NATA in Lettonia nel 1891. Aveva vissuto nella sua prima maturità il lungo processo rivoluzionario che aveva investo la Russia, aderendovi ed impegnandosi soprattutto attraverso il teatro d’avanguardia, di cui è stata un’esponente durante tutta la sua esistenza, fino alla morte avvenuta nel 1979. Walter Benjamin è invece così universalmente noto, come pensatore e studioso, da non potere essere racchiuso nella descrizione offerta da poche parole.
L’incontro e il sodalizio tra i due si avvia nell’estate del 1924, a Capri. Sembra la scenografia di un film vacanziero. Anche di un soggiorno di riposo in qualche modo si tratta, in accordo con le abitudini che si erano andate consolidando tra una parte dell’intellettualità impegnata. Il trittico Russia, Germania e Italia era, d’altro canto, qualcosa di più di una dimensione geografica, indicando uno spazio dello spirito, quello del mutamento perenne.
Asja Lacis
Lacis era giunta sull’isola con il compagno, il drammaturgo Bernhard Reich e la figlia Daga, per curare di quest’ultima i postumi di una brutta polmonite. Benjamin aveva invece lasciato la Germania alla ricerca di un po’ di serenità e, come da sua abitudine, d’ispirazioni. Il matrimonio traballante con Dora Keller e le difficoltà economiche famigliari lo opprimevano. Inoltre, stava lavorando a quella complessa architettura del sapere che sarà la tesi dottorale su il «dramma barocco tedesco», con la quale confidava di ottenere la libera docenza universitaria. Gli varrà, a conti fatti, la fama di autore criptico, enciclopedico e abrasivo. Ma questo è già parte di un altro discorso.
Il filosofo a Capri cerca occasioni di «lavoro notturno». La regista, collaboratrice di Brecht e fondatrice del teatro per ragazzi emarginati, spasima giornate di sole. Lui è impacciato, lei è determinata. Walter l’ha notata da un po’ di tempo. Dirà poi che scatena in lui un impulso di «emancipazione vitale». Deve trovare l’occasione per avvicinarla.
L’incontro avviene al mercato, quando l’aiuta ad acquistare delle mandorle. Con un contegno vittoriano si presenta ad Asja, chiedendole di poterle fare compagnia. Lei a distanza di anni avrebbe ricordato che i suoi occhiali «mandavano bagliori come due piccoli proiettori, folti capelli scuri, naso sottile, mani maldestre – il pacchetto gli cadde di mano. Mi accompagnò a casa, si congedò e chiese di venirmi a trovare». Ne segue da subito una frequentazione dove lo scambio seduttivo è tutto giocato sul registro della reciproca fascinazione intellettuale. Ai due estremi ci sono i poli della ricerca continua e del senso dell’inadeguatezza.
GLI SPAZI in cui si consuma questa passione, tanto condivisa quanto trattenuta, sono strategici. Benjamin, all’epoca trentenne, aveva già del tutto consolidato la sua indole di flâneur che, attraversando le strade e i luoghi della sua epoca, cerca negli acciottolati e nei muri la trama e l’ordito del tempo perduto e di quello a venire. A Capri era arrivato già a maggio, per poi condurre un’esistenza in sintonia con la sua indole, piena di suggestioni non meno che disordinata: «spesso a mezzogiorno non mangiava nulla o al massimo una tavoletta di cioccolata. Un giorno arrivò tutto allegro dicendo: ’Finalmente ho trovato un alloggio stupendo, venga a vederlo’. Con mia meraviglia l’alloggio somigliava a una caverna in una giungla di grappoli d’uva e di rose selvatiche».
LACIS È AVVINTA ma non del tutto posseduta dal filosofo. Al pari di altre donne che lo conobbero, è mite attratta dalla sua veracità intellettuale ma gli contesta le passioni che giudica anacronistiche e l’apparente assenza di pragmatismo. Nell’uno e nell’altro caso cerca di portarlo sul piano dell’estetica materialista, pensando che un «bagno di realtà» possa essergli più che utile. Anche per mettere un po’ di ordine nella sua vita ondivaga.
BENJAMIN NE È ATTRATTO, ma mai le cederà completamente. Non almeno su questo piano inclinato. E lei, che a distanza di tempo riconobbe come il suo interlocutore «avesse sagacemente intuito i problemi formali moderni», sarà però anche giudice impietosa quando, sempre sul dramma barocco, affermerà che «a Capri mi raccontava che il suo studio aveva grande importanza per la sua carriera. Oggi, rileggendo il libro, mi accorgo di quanto Walter fosse ingenuo. Benché lo scritto appaia assai accademico, infiorato di citazioni erudite anche in francese e latino, e prenda in esame un materiale enorme, è tuttavia del tutto evidente che è stato scritto non da un erudito, bensì da un poeta innamorato della lingua che si serve di iperboli per comporre uno splendido aforisma».
Mai definizione di un’opera meglio si è attagliata al carattere del suo autore. La lenta e solare frequentazione caprese si nutre di gite fuoriporta. Il filosofo dà fondo al suo talento idealistico, costruendo per una donna che sente tanto vicina in quanto a modo suo irraggiungibile, un altare lirico. Allo scettico amico Gershom Sholem, che lo vorrebbe a Gerusalemme, confida quindi il trasporto che sta vivendo come una «metamorfosi nel simile» poiché «un amore realmente vissuto mi rende simile alla donna amata».
La regista, invece, gli rimprovera che «la strada di un individuo progressista che ragioni normalmente conduce a Mosca, non alla Palestina». In queste baruffe chiozzotte, che dietro le cortesie raccontano placidamente delle asperità del tempo, Asja e Walter trovano un terreno d’elezione nello sguardo. In quelle circostanze, passando per Napoli, condividono la metafora della città porosa, scrivendone insieme per la Frankfurter Zeitung: «struttura e azione trapassano l’una nell’altra in cortili, arcate, scale», dilatando gli spazi, le funzioni e le identità, quindi sovrapponendole, divaricandole e riannodandole. «Gli edifici sono utilizzati come palcoscenici popolari».
L’ESPERIENZA dell’urbanità meridionale sembra un calco delle delusioni rivoluzionarie che stanno incubando: «in simili siti si distingue a stento dove si continua ancora a costruire e dove è già sopravvenuta la rovina, perché nulla viene completato e portato a termine». Quasi un involontario epitaffio per i tempi a venire. Alla breve estate caprese seguirono altri momenti, con nuovi incontri. Benjamin nel 1928 le renderà un pieno tributo con il suo Programma per un teatro proletario dei bambini, una riflessione che si confronta con il teatro pedagogico, di cui Brecht è stato per molti aspetti il sommo pontefice, ma anche con la teoria dell’arte di impianto marxista. Nel mentre, tuttavia, a Berlino prima e a Riga poi continuava la riflessione comune sulle forme della modernità traslate nella dimensione metropolitana.
«Amavamo appassionatamente la città», ricorda Lacis, poiché la topografia, i colori, gli odori, gli umori urbani diventano esperienza vissuta, Lebenswerk, allegoria del trasporto per la vita. Lo sguardo dei due è infatti per nulla oleografico, soffermandosi semmai sull’antropologia dei luoghi come risonanza fantasmagorica della propria identità interiore. La rivoluzione è dentro di essi e rischia di essere sconfitta. Lo sanno in cuore e in mente loro, registrando il declino della democrazia liberale. E lui che dice: «Lei poteva uscire dal portone, girare l’angolo e stare sul tram: ma dei due dovevo essere io, a ogni costo, il primo a vedere l’altro. Perché se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni».
Asja avrebbe saputo del suicidio di Walter solo diversi anni dopo. Poiché, come ebbe a scriverne Brecht: «era la tattica dell’esaurimento quella che ti piaceva, quando sedevi davanti alla scacchiera, all’ombra del pero. Il nemico che ti cacciò dai tuoi libri, non si lascia sfiancare da gente come noi».

Il Fatto 12.8.18
Governano così come parlano
di Furio Colombo


“Ero in grado di rovinare la cena delle persone che mi invitavano, appena cominciavo a parlare di Trump in America. Adesso, che sono stato in Italia, sono in grado di rovinare anche il pranzo e la prima colazione ai miei commensali”. Ho citato a braccio Thomas Friedman, uno dei più noti commentatori del New York Times, da un articolo pubblicato il 9 agosto, che definisce il il governo italiano “il più pro Putin, il più ostile all’immigrazione, il più anti europeo che abbia mai conosciuto”.
Questa seconda citazione è letterale come la frase che segue: “Uno dei primi visitatori stranieri venuti a salutare il nuovo governo italiano, che non crede nell’Europa, è scettico sulla Nato ed è composto di populisti schierati contro l’immigrazione, è stato Steve Bannon, già cervello strategico di Trump, che ha detto: ‘Se funziona in Italia, funzionerà dovunque. Romperà la schiena al globalismo’. Mai sentita – conclude Friedman – una frase più folle”.
Noi che viviamo in Italia, le sentiamo ogni giorno. E ci rendiamo conto che il linguaggio, purché sia cattivo, offensivo e umiliante, è sempre il principale strumento di governo. Citerò frasi che ascolto mentre scrivo. Salvini: “Ho già cambiato i moduli delle carte di identità. Non ci sarà più un genitore 1 e un genitore 2. Ci sarà la dicitura padre e madre. Chiamatemi troglodita, ma io credo nella famiglia naturale”. Salvini sa benissimo che il suo scopo, benché sia ministro di tutti, è di fingersi ultracattolico per colpire e umiliare le famiglie arcobaleno e i loro bambini. Lo strumento della cattiveria (ce lo insegnano le donne polacche che recitano il rosario alla frontiera per chiedere a Dio che fulmini l’immigrato) funziona. Mostra che chi comanda ha il potere e lo esercita, dando spintoni ai più deboli (più deboli di un governo e del suo ministro di polizia) in tutte le circostanze possibili. Basti pensare alla frase, crudelissima, nella sua irrilevanza, detta da Grillo (Grillo il Garante) quando è stata colpita la campionessa nera Daisy, una sera, mentre era sola, a Moncalieri: “Quante storie per un uovo in faccia”.
E poi tutti a ridere perché uno dei ragazzi teppisti, protagonista e interprete della nuova atmosfera, aveva un padre Pd. Della capotreno che ha insultato alcuni rom a bordo del suo treno, tramite altoparlante (dunque voce ufficiale del convoglio, noi non sappiamo niente). Forse anche lei ha un padre Pd. E, allo stesso modo, un giorno tanti italiani ammetteranno di essere figli di un leghista di Pontida o di un grillino del primo coro del vaffa. Il fatto è che noi stiamo sperimentando adesso una situazione che non si era mai prodotta, dopo la frantumazione di regimi basati sull’aggressione. Ma non possiamo e non dobbiamo dirlo, perché la denuncia del razzismo è lo strumento con cui il globalismo mette a tacere i popoli. È vero che, come testimonia Bannon, grande specialista di governi sovranisti, “il governo italiano Lega-Cinque Stelle è il modello più efficace della lotta al globalismo”, ma è anche vero che, in questo governo, c’è gente che non sa conservare un segreto e se da qualcuno in alto ha sentito dire che il razzismo al momento si deve negare (anche dopo che alla “goliardata” del gridare “sporco negro” e sparare con una pistola che spaventa, sono arrivati anche ragazzini tredicenni che stanno respirando l’aria giusta) nessuno gli toglie la soddisfazione di dire la sua persuasione ideologica e politica, se no perché sei ministro?
E allora un certo Fontana, ministro della Famiglia, afferma che si deve abolire la legge Mancino (mai applicata) che chiede di interrompere elogi e celebrazioni di regimi assassini, perché sono assassini. Il pronto sostegno di Salvini è stato tipico del buon militante: alle idee non si mettono le manette. Anche la rapina è un’idea, ma la società, viste le conseguenze, ha scelto di considerarla, invece, un reato. Nella storia, fascismi e razzismi hanno fatto molti più morti delle rapine. Come vedete si va dall’alto al basso, dal principio solenne (denunciare il razzismo vuol dire sventolare la bandiera del globalismo) alla trovata di dare la caccia ai venditori ambulanti in spiaggia o di multare chi compra da loro. Ma, come prima di uno spettacolo di magia, oggetti finora estranei alla vita italiana vengono deposti sul nuovo tavolo. Gli ingenui ministri Fontana devono stare zitti. Al momento giusto, a un cenno autorevole, nazionale o internazionale, penseranno i subcomandanti a dare le istruzioni per agire.

il manifesto 12.8.18
Emergenza suicidi in carcere, l’ispezione annunciata e quella necessaria
di Patrizio Gonnella


Dopo la denuncia del Garante nazionale delle persone private della libertà il ministro della Giustizia e il capo dell’amministrazione penitenziaria hanno annunciato un’ispezione che faccia luce sui 35 suicidi avvenuti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane.
I suicidi in carcere non vanno genericamente strumentalizzati. Sarebbe ingiusto nei confronti di chi fa una scelta così tragica e di chi lavora in prigione. Una persona in carcere è nelle mani dei suoi custodi legali. Non perde però la sua libertà interiore. Molto spesso accade che dopo un suicidio parta la caccia ingiusta al responsabile, spesso identificato nel poliziotto di sezione. Nelle carceri la prevenzione dei suicidi è spesso intesa in senso meccanico. Una volta identificata la persona a rischio le si toglie, non l’intenzione, ma ogni oggetto con cui possa ammazzarsi: lenzuola, asciugamani, cinture. Capita che si lasci quella persona semi-nuda o semi-vestita in cella. Il controllo visivo viene reso asfissiante. Tutto questo accade perché le inchieste giudiziarie sui suicidi sono sempre state dirette a identificare i responsabili del mancato controllo piuttosto che le cause più profonde dello stesso, così alimentando un circolo vizioso che rende la vita del detenuto ancora più difficile.
I suicidi in carcere vanno indagati sempre a livello amministrativo, oltre che giudiziario. Un’indagine non formale che ad esempio accerti se il detenuto ritenuto a rischio di suicidio sia stato ascoltato, sia stato trattato non come un numero, ma come una persona, con un nome, un cognome, una biografia.
In carcere operano direttori, poliziotti penitenziari, educatori, assistenti sociali, medici, psicologi, cappellani e tante altre figure, alcune delle quali a titolo volontario. Molti di loro fanno un lavoro straordinario di prevenzione quotidiana. Lo fanno nonostante turni massacranti. Un direttore spesso non è nelle condizioni di conoscere i detenuti che deve custodire in quanto è costretto a dirigere a volte anche due-tre istituti. Da oltre vent’anni non si assumono nuovi funzionari. Così il sistema , invecchiato e in burn-out, muore insieme ai detenuti che si tolgono la vita.
Sarebbe importante che l’inchiesta ministeriale evidenzi se vi sono state concause, oltre alla disperazione individuale: se la persona suicidatasi era stata ascoltata da esperti psicologi o educatori; quale fosse l’origine del suo disagio; se aveva già tentato di farsi del male; se aveva subito rapporti disciplinari; se era stata punita, messa in isolamento o in qualche reparto particolare; se aveva denunciato episodi di sopraffazione o violenza nei suoi confronti o di altri compagni; se ci sono stati più suicidi in quello stesso carcere (come avvenuto a Napoli Poggioreale o a Viterbo). È meno importante verificare se il controllo visivo dell’agente di sezione, che troppo spesso diventa il capro espiatorio di turno, sia avvenuto con regolarità svizzera.
Spesso si è discusso su come prevenire i suicidi. E’ banale dirlo ma la migliore forma di prevenzione passa da una vita penitenziaria non violenta, che non sprofondi nell’ozio forzato e che non produca una cesura con il mondo esterno. Due cose si dovrebbero fare subito: 1) per tutti quei detenuti che la magistratura non sottopone a forme particolari di controllo prevedere una ben più ampia liberalizzazione delle telefonate con i propri cari. In Italia i detenuti possono telefonare una volta a settimana per soli dieci minuti. In tantissimi altri paesi non ci sono questi vincoli così rigidi. Una telefonata a un figlio o a un genitore o a un amico, in un momento di disperazione, potrebbe salvare una vita. 2) Chiudere tutti i reparti e repartini di isolamento. Sia quelli formalmente destinati a tale scopo che quelli sostanzialmente utilizzati per trattare persone considerate difficili. L’isolamento è un luogo oscuro dove possono accadere i fatti più truci, dove i pensieri di morte possono diventare ossessivi.

il manifesto 11.8.18
Salvini «cancella» le famiglie gay
Il ministro. «Nelle carte d’identità dei minori reinserire le diciture ’mamma’ e ’papà’»
di Leo Lancari


La difesa della famiglia tradizionale, «quella fatta da una mamma e da un papà», che contrappone alle famiglie omogenitoriali. E poi, visto che c’era, anche un attacco all’islam italiano al quale aggiunge un presunto allarme su terroristi che potrebbero arrivare sui barconi dei migranti, ma dei quali – fatta eccezione per un caso – fortunatamente finora non si è avuta traccia.
Mancano pochi giorni a Ferragosto e Matteo Salvini non perde l’occasione per rilanciare alcuni dei temi forti della sua infinita campagna elettorale. Mischiando argomenti che nulla c’entrano uno con l’altro, ma poco importa pur di accumulare consensi.
Il ministro leghista dell’Interno questa volta approfitta di un’intervista rilasciata alla testata cattolica «La nuova bussola quotidiana» per tornare a parlare di famiglia. Il pretesto è offerto dalla modulistica necessaria per la carta d’identità elettronica. «La settimana scorsa mi hanno segnalato che sul sito del ministero dell’Interno, sui moduli per la carta d’identità elettronica c’erano ’Genitore 1’ e ’Genitore 2’ – ha detto -. Ho fatto subito modificare il sito ripristinando la dizione ’madre’ e ’padre’. E’ una piccola cosa, un piccolo segnale, però è certo che farò tutto quello che è possibile al ministro dell’Interno e che comunque è previsto dalla Costituzione. Utero in affitto e orrori simili assolutamente no», conclude.
In realtà le cose stanno in maniera un po’ diversa da come le descrive il ministro. La dizione usata sui moduli non è ’Genitore 1’ e ’Genitore 2’ – termini utilizzati in passato da alcune amministrazioni per non discriminare le famiglie omosessuali con due padri o due madri -, bensì moto più semplicemente ’1° Genitore’ e ’2° Genitore’, dicitura simile ma profondamente diversa nel significato.
Comunque sia sul sito del ministero la modifica viene fatta prontamente, senza però scrivere ’madre’ e ’padre’, come chiesto da Salvini, bensì semplicemente ’Genitore’. La stessa definizione che del resto è già presente nell’ultima pagina delle carte di identità cartacee, là dove è indicato se il documento del minore è valido oppure no per l’espatrio.
Salvini potrebbe fermarsi qui, ma consapevole di parlare a un elettorato cattolico, va oltre. E annuncia provvedimenti per impedire la registrazione in Italia dei bambini nati all’estero grazie alla Gestazione per altri (Gpa) e dei matrimoni gay celebrati in Paesi in cui sono legali. «Ci stiamo lavorando», annuncia. «Ho chiesto un parere all’Avvocatura di Stato, ho dato indicazioni ai prefetti di ricorrere. L’obiettivo che mi propongo da qui a fine governo è di introdurre è introdurre il concetto di quoziente familiare, in modo da premiare la natalità e la scommessa sul futuro».
«La famiglia, la nostra priorità. Grazie Matteo Salvini», scrive su Facebook Lorenzo Fontana. Ma a parte quello del ministro della Famiglia e di qualche altra scontata voce del centrodestra, i commenti alle parole del titolare del Viminale sono per lo più critici e preoccupati. Così la leader della Cisl-scuola, Maddalena Gissi, parla di «schizofrenia» e chiede di no toccare al modulistica mentre il collega della Flc-Cgil Francesco Sinopolisi dice convinto che «la Miur abbiamo cose più serie di cui occuparsi ed eviteranno di commettere una stupidaggine come questa». Il deputato di LeU Roberto Speranza chiede invece al ministro dell’Interno di «occuparsi della sicurezza delle nostre città anziché tentare di riportare al Medioevo questo paese».
E’ dai diretti interessati, però, che arrivano le reazioni più preoccupate. «Salvini continua a fare propaganda sulla pelle dei nostri figli», commenta Marilena Grassadonia, presidente delle famiglie Arcobaleno. «Nei documenti si risponde a una realtà giuridica fotografata da sentenze a cui le varie Questure si stanno uniformando». Analoghe le parole del portavoce di Gay Center Fabrizio Marrazzo, per il quale la scelta di sostituire la diciture «Genitori» con «padre« e «madre», «va nella direzione di discriminare i bambini delle famiglie lesbiche e gay, togliendo loro il diritto di avere i documenti che gli spettano per legge».
Infine l’Islam italiano. Sempre con «La nuova bussola quotidiana» Salvini si dice convinto che «la difesa dei nostri valori e della nostra identità passa attraverso il controllo della presenza islamica e delle organizzazioni islamiche in Italia». «Essendo papà – ha proseguito – ho conosciuto situazioni scolastiche d mamme a cui viene impedito di imparare l’italiano, viene impedito di lavorare: di bambine a cui a cui è impedito di fare ginnastica coi maschietti o di andare a feste di compleanno con i maschietti. Un certo tipo di islam purtroppo si autoghettizza ed è incompatibile con la nostra società» è la conclusione del ministro che si è detto favorevole alla creazione di una consulta italiana per l’islam.

La Stampa 12.8.18
L’ultima strategia di Salvini:
Dio, patria e famiglia per parlare al mondo teocon
Simone Pillon, tra gli inventori del Family Day oggi senatore leghista: “Matteo sa cosa vogliono i cattolici, la famiglia e non l’individualismo Pd”
di Amedeo La Mattina


Dio, Patria e Famiglia rende bene nelle urne e nei sondaggi a Matteo Salvini, che aveva chiuso la sua campagna elettorale a Milano alzando un rosario. Una vera e propria strategia di penetrazione nel mondo cattolico tradizionalista che, in epoca Ratzinger, trovava ascolto tra i politici “teocon” del centrodestra. I giornali e i siti simpatizzanti della destra mettono spesso e volentieri il capo della Lega in contrapposizione a Papa Francesco e a quella cultura dell’accoglienza professata dalle gerarchie ecclesiastiche e dall’intellighenzia. «Cultura dell’accoglienza che è in crisi - ammette con amarezza, Andrea Riccardi fondatore della comunità di Sant’Egidio - di fronte alla paura e alla rabbia della gente, soprattutto di coloro che vivono nel disagio». In quelle periferie dove vive il popolo delle parrocchie i cui risentimenti sono ascoltati e compresi dai parroci che lì fanno messa. C’è pure chi, come fa il giornale Libero ironicamente blasfemo, vorrebbe perfino farlo Papa, Salvini, mettendo a confronto la popolarità di Bergoglio, che nei sondaggi sarebbe calato di oltre dieci punti da quando è salito al soglio di Pietro, e quella del ministro dell’Interno grazie all’azione contro i migranti e alla difesa della famiglia tradizionale.
Salvini ha trovato una chiave di lettura della società italiana, degli umori profondi delle spaventate e impoverite opinioni pubbliche occidentali e la brandisce come lo spadone di Albero da Giussano. Ha sviluppato questa strategia populista, che i suoi oppositori di sinistra definiscono «razzista, fascista, troglodita», negli anni passati a Bruxelles da eurodeputato accanto a Lorenzo Fontana, la testa d’ariete per sfondare nell’elettorato cattolico conservatore. Il ministro ha il difficile compito di difendere ad oltranza la famiglia composta da un uomo e una donna. «Le famiglie gay non esistono», disse Fontana appena insediatosi. Si scatenò la polemica, lui non arretrò, nonostante gli alleati 5 Stelle non la pensino allo stesso modo. Ora Salvini ha scoperto che nei moduli per le carte d’identità elettroniche sono previsti genitore 1 e genitore 2: un riconoscimento delle coppie Lgbt e i loro figli. «Sono coloro - afferma il vicepremier - che si possono permettere di andare all’estero e comprarsi l’utero di povere disgraziate e portarsi in Italia il figlio scelto in un catalogo». Dice che farà di tutto («userò tutto il potere possibile») per difende la famiglia tradizionale e aiutare le nascite con politiche fiscali mirate. Vedremo cosa porterà nella legge di Bilancio, ma intanto il segnale ai cattolici è arrivato.
A fargli scoprire lo «scandaloso» Genitore 1-Genitore 2 e modificare i moduli è stato Simone Pillon, uno degli inventori del Family Day, che Salvini ha voluto in lista. Ora è un senatore della Lega, capogruppo in Commissione Giustizia. Pillon sostiene che è in atto uno scontro tra due antropologie: quella «individualista che il Pd ha incarnato e un’antropologia comunitaria che si basa sulla famiglia». Salvini «ha capito cosa vogliono i cattolici», aggiunge Pillon e spiega che le parole di Papa Francesco sull’immigrazione sono state strumentalizzate dai media. Gli stessi attacchi di Famiglia Cristiana e di Civiltà cattolica contro Salvini sono «assurdi», soprattutto quel «vade retro Salvini» come se fosse Satana. Ma come spiega Pillon un attacca del genere da un settimanale cattolico? «Ah, perché Famiglia Cristiana è un giornale cattolico?».

Repubblica 12.8.18
La crisi del centrodestra
Salvini: " Berlusconi ormai vota col Pd"
Dopo la rottura in Abruzzo il vicepremier allarga le distanze con Forza Italia e in Puglia lancia la sfida anche ai 5S Comizio a Lesina, dove cinque giorni fa morirono 12 migranti. Qui dice: "La capotreno anti-zingari va premiata"
di Paolo Russo


lesina ( foggia)
Dopo l’Abruzzo, la Puglia. Matteo Salvini conferma lo strappo della Lega e rilancia sulla sua voglia di correre da sola alle prossime Regionali. « Il centrodestra è finito? Noi non abbiamo cambiato idea - attacca il vicepremier - è qualcun altro che vota sempre più spesso con col Pd. Starà agli altri scegliere tra la Lega del futuro e Renzi del passato».
Il ministro dell’Interno parla da Lesina, in Puglia. Seimila abitanti, estremo Sud dell’Italia. Nel sabato che precede il Ferragosto si è presentato in bermuda e maglietta blu, perché «quelli in giacca e cravatta ci hanno fottuto » . Nella piazza ci sono mille persone e le luminarie pronte per san Rocco. A pochi chilometri da qui, cinque giorni fa, 12 migranti sono morti mentre tornavano dal lavoro nei campi ammassati in un vecchio furgone.
Il leader della Lega, dopo la tragedia è stato qui per ordinare il pugno duro contro il caporalato, prima di partire per le Tremiti per una breve vacanza con la compagna, Elisa Isoardi. Ci ritorna quattro giorni dopo per tagliare il nastro della prima sezione della Lega mai inaugurata da queste parti e prende la parola, rilanciando le promesse sulla Fornero e l’elogio alla capotreno anti-rom.
In Puglia la propaganda del ministro trova terreno fertile. « E Salvini - gongola il coordinatore regionale della Lega, Andrea Caroppo - guarda con grande interesse alla Puglia » . Qui il partito del Nord è passato dallo 0,06 per cento delle Politiche 2013 al 6,6 di pochi mesi fa. Ma dalla formazione del governo, il pressing del vicepremier sulla Puglia è costante. La piazza gremita di Lesina è un chiaro indicatore per i leghisti pugliesi. E la svolta arrivata dall’Abruzzo, potrebbe trovare un seguito in casa di Michele Emiliano.
« In Puglia si voterà nel 2020 - ragiona il deputato barese Rossano Sasso - ma nel 2019 c’è il test elettorale di Bari città. Per scegliere un candidato unico è in piedi un tavolo con Forza Italia. Speriamo che funzioni».Nel dubbio la Lega ha già pronto il suo candidato, Fabio Romito. « Ma l’alleanza non si sfascerà - ne è convinto il commissario provinciale di Forza Italia, Francesco Paolo Sisto - altrimenti facciamo un regalo ad Antonio Decaro » . Contro il sindaco e presidente dell’Anci, sarà dura: i sondaggi lo premiano, malgrado il Pd.
La vera sfida, per i leghisti pugliesi potrebbe essere quella a Michele Emiliano per la Regione. Gli alleati grillini in Puglia rischiano di perdere terreno a causa delle promesse impossibili su Ilva e Tap. La propaganda salviniana è già al lavoro. L’ultima prova è l’invio a Bari di 75 agenti chiesti dal prefetto per l’emergenza criminalità. È il gioco delle 3 carte: sono gli stessi inviati a Bitonto dopo l’omicidio di una passante. Saranno semplicemente spostati.
Ieri la piazza di Lesina gremita ha sostenuto il disegno del vicepremier. «La capotreno che ha intimato a rom e zingari di scendere andrebbe premiata, perché difende il diritto a viaggiare sicuri » , ha tra gli applausi ( mentre l’uomo che l’ha denunciata, Raffaele Ariano, ha ricevuto minacce via social). « Studiamo come e se reintrodurre per alcuni mesi il servizio militare e il servizio civile per i nostri ragazzi e le nostre ragazze così almeno imparano un po’ di educazione » , trionfo. « Ìl governo smonterà pezzo per pezzo la legge Fornero: non si può andare in pensione a 68 anni » , ovazione. L’ultimo messaggio « a Renzi, Emiliano, e a chi non ha capito che la musica è cambiata. Chi l’avrebbe detto pochi anni fa che ad agosto. centinaia di persone sarebbero venute ad applaudirmi in Puglia?».

La Stampa 11.8.18
Cina
Il tallone d’Achille del dragone
di Maurizio Molinari


Protagonista della competizione globale sui supercomputer, capace di tenere testa all’America di Donald Trump nella sfida sui dazi e impegnata a sviluppare un network di infrastrutture avveniristiche a cavallo dell’Eurasia, la Cina di Xi Jinping soffre la competizione di un 27enne disoccupato di Hong Kong. Si tratta di Andy Chan Ho-tin, classe 1990, studente di ingegneria ed economia al Politecnico dell’ex colonia britannica, che due anni fa ha fondato l’«Hong Kong National Party» proponendosi di realizzare «l’indipendenza dalla Repubblica popolare cinese». Sulla carta tale progetto politico è un clamoroso fallimento: poche decine di iscritti, nessun eletto negli organi cittadini, appena sedicimila likes sulla pagina Facebook - rispetto a sette milioni di residenti a Hong Kong - ed ancor meno possibilità di farsi conoscere, essendo circondato da una muraglia di diffidenza. Ma John Lee, segretario alla Sicurezza di Hong Kong ed espressione diretta dell’autorità politica di Pechino, ha dichiarato «fuorilegge» il suddetto partito applicando per la prima volta dal 1997 - quando Hong Kong passò dalla Gran Bretagna alla Cina - la legge con cui Sua Maestà aveva messo al bando il partito comunista cinese e il Kuomintang nazionalista di Taiwan. Negli ultimi 21 anni tale normativa è stata applicata solo per smantellare gang del crimine organizzato.
Ma ora il governo cittadino vi ricorre contro il combattivo disoccupato, considerando un’aggravante ai suoi danni il fatto di aver partecipato nel 2014 al «Movimento degli ombrelli», la protesta in favore di un’espansione del diritto a libere elezioni garantito dallo status dell’ex colonia. Davanti al pugno di ferro di Pechino lo sparuto drappello di seguaci del «National Party» non ha potuto far altro che reagire con un post su Facebook affermando: «Ci opponiamo ai colonizzatori cinesi ed ai loro collaborazionisti di Hong Kong». Ma il governo locale rilancia e minaccia perfino di sfrattare il Club dei corrispondenti stranieri se non ritirerà l’invito esteso a Andy Chan Ho-tin per una conferenza pubblica sul tema dell’indipendentismo da Pechino.
La maggioranza dei residenti teme che lo scontro finisca per indebolire - se non travolgere - il modello «Una nazione, due sistemi» che, da quando venne ammainata la Union Jack, garantisce a Hong Kong uno statuto particolare in Cina, inclusa una più ampia libertà di espressione. Ma Claudia Mo, eletta nella municipalità locale e nota militante pro-democrazia, ritiene che «in realtà la decisione di mettere al bando il National Party dimostra proprio che il modello “Una nazione, due sistemi” non c’è più». Ed a dimostrarlo sarebbero i ripetuti episodi di sequestri ed arresti di librai che vendevano anche volumi critici verso il comunismo cinese.
Le misure decretate ai danni del partito indipendentista di Andy Chan Ho-tin sono severe: chiunque partecipa ad un evento pubblico o dona denaro rischia multe fino all’equivalente di 6400 dollari Usa e due anni di prigione perché «ad Hong Kong abbiamo la libertà di associazione ma non è illimitata» e non può spingersi fino a ledere «sicurezza nazionale e ordine pubblico». E’ una tesi motivata dal timore che la richiesta di far nascere la «libera e indipendente Repubblica di Hong Kong» possa incrinare l’unità territoriale e politica della Cina Popolare, esponendola al rischio di un domino secessionista, dal Tibet allo Xinjiang, considerato il peggior nemico. Per quanto possa sembrare strano ad osservatori e diplomatici occidentali, protagonisti di crescenti legami con la Cina di Xi, in realtà il timore di una frammentazione della nazione fondata da Mao si affaccia anche a Hong Kong. Per accorgersene basta sfogliare il sondaggio realizzato dalla locale «Chinese University» secondo cui «il 17 per cento dei residenti sostiene l’indipendenza» sebbene appena il 4 per cento la ritenga possibile. Ovvero, non è un progetto ma un sogno. La cui pericolosità sta nel mettere a nudo il tallone d’Achille della Cina di Xi: ha un sistema politico ancora talmente rigido da temere ogni minimo accenno di crisi politica, anche se il protagonista è solo un giovane disoccupato. Nuovo interprete delle battaglie per i diritti umani nelle terre del Dragone.

La Stampa 12.8.18
La Cina e l’eterno sogno di riunirsi a Taiwan
“Entro il 2030 pronto il tunnel sottomarino”

di Francesco Radicioni

È fin dalla fondazione della Repubblica Popolare che Pechino studia il modo per coronare il sogno della riunificazione con Taiwan. Dopo anni di dibattiti, ora i ricercatori cinesi avrebbero messo a punto un piano per collegare la Cina continentale e l’isola di Formosa attraverso un tunnel ferroviario sottomarino. È stato il South China Morning Post a rivelare i dettagli del progetto, in cui si prevede che entro il 2030 treni ad alta velocità sfrecceranno lungo 135 chilometri di gallerie. Nei palazzi del potere di Pechino è almeno dalla metà degli Anni ’90 che si discute dell’idea di costruire un sistema di infrastrutture con cui migliorare l’integrazione con Taiwan, anche se un esplicito riferimento al collegamento stradale e ferroviario è stato inserito solo nell’ultimo piano quinquennale. «Uno dei progetti d’ingegneria civile più grandi e ambiziosi del XXI secolo», dice u no dei ricercatori che sta lavorando al piano. Secondo il giornale di Hong Kong, gli ingegneri starebbero compiendo studi per la realizzazione di un tunnel che colleghi Pingtan, nella provincia del Fujian, a Hsinchu, polo dell’innovazione non lontano dalla capitale taiwanese. Se realizzata, l’infrastruttura avrà una lunghezza pari a tre volte e mezzo il Channel Tunnel tra Francia e Gran Bretagna. Secondo gli esperti, l’obiettivo del 2030 è ottimistico e numerosi sono gli ostacoli tecnici: il fondale nello stretto di Formosa è molto resistente e la zona a forte rischio sismico. Oltre alle sfide tecniche, esistono evidenti problemi politici.
Chen Ming-tong, responsabile del governo di Taipei per i rapporti con la Cina continentale, ha già liquidato il progetto come «propaganda» e ha negato che l’opera sia oggetto di discussioni bilaterali. Salvo prove di forza, per completare il tunnel nello stretto, le autorità delle Repubblica Popolare dovranno attendere che a Taipei si insedi un’amministrazione meno ostile verso la Cina.
Tra ambizione e realtà
Non è un caso che mentre si avvicina la campagna elettorale per il voto all’inizio del 2020 e cala la popolarità di Tsai Ing-wen, la presidente su posizioni indipendentiste, Pechino torni a usare con Taiwan l’approccio del bastone e della carota. Il tunnel sottomarino potrebbe portare all’isola benefici economici, sembra però anche materializzare l’incubo di un’invasione da parte della Cina. Una più stretta integrazione economica tra Formosa e la Repubblica Popolare è stata la strategia su cui per anni ha lavorato la leadership cinese, sostenuta da settori del mondo industriale taiwanese. Negli otto anni delle ultime amministrazioni del Kuomintang, sono diventate solide le relazioni economiche con la Cina, fino ad arrivare nel 2015 allo storico incontro di Singapore tra Xi Jinping e il presidente taiwanese, Ma Ying-jeou. I rapporti tra le due sponde dello stretto sono regolati da un contorsionismo linguistico: sia Pechino che Taipei riconoscono di essere parte «un’unica Cina», mentre Formosa non ha mai formalmente dichiarato l’indipendenza. Sebbene Taiwan sia una delle democrazie più vibranti in Asia, oggi sono solo 18 i Paesi che riconoscono il governo di Taipei.
Dissidi anche linguistici
Negli ultimi anni, spinti dal corteggiamento economico di Pechino, gli storici alleati di Taiwan hanno troncato le relazioni diplomatiche con Formosa, per riconoscere il governo della Repubblica Popolare. Mentre Pechino si oppone a qualunque spazio per Taiwan nelle istituzioni internazionali, recentemente la Cina è persino arrivata a imporre a tutte compagnie aeree di classificare gli aeroporti taiwanesi come parte del territorio cinese. «Un non-senso orwelliano», l’ha definito la Casa Bianca. A Pechino alimentano nervosismo gli stretti rapporti in materia di sicurezza che continuano a legare Taipei e Washington, mentre diversi esponenti dell’amministrazione Trump hanno più volte espresso la volontà di rafforzare le relazioni con l’isola. Tanto che, nel corso di una recente intervista, Yan Xuetong, direttore del dipartimento di relazioni internazionali dell’Università Tsinghua di Pechino, ammetteva che nei prossimi anni la questione di Taiwan sarà «il più grande pericolo» nelle relazioni tra Cina e Stati Uniti.

il manifesto 12.8.18
Charlottesville un anno dopo
American psycho. La destra estrema si dà appuntamento oggi a Washington, davanti alla Casa bianca, nel giorno dell’anniversario della marcia neonazista che sfociò in violenti scontri e con l'uccisione di Heather Heyer venuta a manifestare contro l'odio razzista. Una tragedia che ha portato i vecchi fantasmi nell’era Trump
di Luca Celada


LOS ANGELES BlacKkKlansman, l’ultimo film di Spike Lee appena uscito nelle sale Usa racconta di un operazione anti Ku Klux Klan della polizia negli anni 70 e finisce sulle immagini sgranate dei fatti accaduti l’anno scorso a Charlottesville. Lee ha intenzionalmente programmato l’uscita del film nel primo anniversario della rivolta neonazista della scorsa estate – due giorni prima della manifestazione “commemorativa” indetta per oggi a Washington dallo stesso coordinamento della destra estremista.
La marcia davanti alla Casa Bianca di questo fine settimana ufficialmente è indetta per la “difesa dei diritti civili bianchi”, riprova di come i movimenti estremisti in America siano da sempre legati alla tradizione segregazionista e di “nazionalismo bianco” che ha trovato una sponda naturale nel trumpismo grazie in particolare a ideologi suprematisti come Steve Bannon, Sebastian Gorka e Stehpen Miller e a un regime che fa della purificazione eugenetica una politica dichiarata. I fatti sanguinosi di Charlottesville rimangono una delle manifestazioni più tangibili dell’effetto perniciosamente corrosivo del trumpismo sulla società americana.
In questa torrida seconda estate trumpista l’ombra lunga di Charlottesville e dei fantasmi che ha scatenato torna quindi a gravare su un America sempre più sfinita e dilaniata da questa astiosa e caotica amministrazione.
NELLA CITTADINA della Virginia un anno fa andava in scena la più sfrontata e consistente manifestazione razzista della storia recente, un “coming out” delle frange estreme Alt right che abbandonato l’anonimato dei gruppi internet ai quali sono solitamente relegate, uscirono violentemente allo scoperto. Un summit di Ku Klux Klan, neo nazisti e “neo confederati” contrari alla rimozione delle statue degli eroi militari sudisti che degenerò presto in una fiaccolata con slogan nazional socialisti contro la sostituzione etnica. È solo il prologo.
Il giorno successivo circa 500 suprematisti vennero affrontati da una folla grande circa il doppio di anti razzisti. Le colluttazioni fra i due schieramenti degenerano in una battaglia campale per il centro della città. Ripresa da numerosi cellulari, un auto di grossa cilindrata falciò un gruppo di manifestanti anti fascisti. Il selciato rimase coperto di feriti – fra questi il corpo esanime di Heather Heyer, 32 anni venuta a manifestare contro l’odio che aveva invaso la sua città.
Il suo cadavere rimanda all’America un immagine che ricorda le vittime fra i freedom riders, studenti scesi a dar manforte ai neri impegnati nella lotta per diritti civili 50 anni prima.
Meno di un ora dopo la morte di Heyer, Trump parlò alla nazione, senza pronunciare il nome della vittima e condannando invece la violenza di «entrambe le parti», un equiparazione che vale un endorsement. A Charlottesville intanto prese la parola David Duke, leader del Ku Klux Klan (quello che Spike Lee ritrae nel suo film). «Siamo decisi a riprenderci il nostro paese», spiegò, «Esaudiremo le promesse di Donald Trump. È quello in cui abbiamo sempre creduto, è ciò per cui abbiamo votato per lui». Le dirette tv fugano ogni residuo dubbio sulle frequentazioni pericolose e le connivenze dell’amministrazione populista con l’estrema destra razzista.
CONTRO TRUMP sono insorti intellettuali accademici, militanti, esponenti civili e politici di entrambi i partiti. Nell’anno trascorso Gorka e Bannon hanno lasciato la Casa Bianca (quest’ultimo per concentrarsi sulla costruzione di un internazionale sovranista in Europa). Miller continua a dare il suo contributo alle politiche trumpiste – architettando per ultima quella della separazione delle famiglie e l’imprigionamento di bambini sul confine. Per destra estrema e Alt-right Charlottesville è stato un trionfo di visibilità anche se è tornata in seguito ad essere l’arcipelago amorfo di fazioni spesso in lotta fra di loro.
DOPO CHARLOTTESVILLE Richard Spencer teorico della “razza bianca pan-europea” noto per il comizio tenuto a Washington ed il saluto «Heil Trump» (nonché per il pugno ricevuto in diretta, diventato meme sui circuiti anti fascisti) si è dedicato soprattutto a comizi universitari puntualmente presidiati da militanti di Antifa fino a lamentarsi che «è diventato troppo difficile parlare». Altri hanno preso ad ostentare posizioni cosmeticamente “moderate”, prendendo almeno ufficialmente le distanze dal suprematismo più sfacciato e tentando il reclutamento di neri e ispanici di area complottista attorno a posizioni soprattutto nazionaliste e anti immigranti. Fra questi Gavin McInnes – fascio-hipster canadese fondatore dei Proud Boys e Joey Gibson fondatore del gruppo Patriot Prayer che si è candidato al senato per lo stato di Washington ottenendo il 3% dei volti nelle primarie della scorsa settimana.
Non è chiaro se qualcuno di questi veterani di Charlottesville abbia aderito alla manifestazione di oggi a Washington (anche se non mancherà proprio l’immarcescibile grand wizard del Kkk David Duke). Ed è garantita anche una massiccia contro manifestazione di Antifa e una coalizione di 32 gruppi antifascisti, compreso Black Lives Matter. In questo mutevole arcipelago dell’odio rimane fermo un punto: l’ammirazione e la solidarietà con Trump, fonte primaria della rinnovata energia neofascista. E si spiegano così anche le numerose candidature politiche di esponenti suprematisti alle prossime elezioni – almeno cinque – tutte ovviamente sotto l’egida repubblicana.

il manifesto 11.8.18
I dazi di Trump e lo sballo dell’economia turca
Turchia. Con un tweet il presidente Usa annuncia un aumento del 50% delle tariffe doganali sull'acciaio e del 20% sull'alluminio importati dalla Turchia. La lira turca crolla. Le mani di Erdogan sull'economia. Le tensioni con gli Usa e i rischi per la Ue
di Anna Maria Merlo


Sanzioni, contro-sanzioni, minacce, riferimenti a un “complotto”, parole grosse e esibizione di muscoli: lo scontro tra Usa e Turchia e tra i due leader autoritari Trump e Erdogan, che dura da mesi, si è aggravato ieri e ha fatto precipitare la lira turca, che ha perso in poche ore il 17%, un crollo che ormai sfiora il 40% rispetto al dollaro dall’inizio dell’anno. La Bce ha espresso viva “preoccupazione” per le conseguenze sul sistema bancario europeo. In particolare, i maggiori rischi sono per una banca spagnola, la Bbva, l’italiana Unicredit, la francese Bnp (seguita da Crédit Agricole e da SocGen), per la mancata copertura dei rimborsi. Le borse europee hanno chiuso in rosso. La crisi è stata scatenata ieri da un tweet di Trump, che ha annunciato un raddoppio dei dazi sull’import di acciaio e alluminio dalla Turchia, portati rispettivamente al 50% e al 20%. “La lira turca scivola rapidamente al ribasso contro il nostro fortissimo dollaro!” si è indignato Trump, che ne conclude che “le relazioni con la Turchia non sono buone ora”.
L’elemento più recente è il caso del pastore statunitense Andrew Brunson, che rischia 35 anni di carcere con l’accusa di “terrorismo” e “spionaggio” a favore del Pkk curdo e di Fethullah Gülen, la bestia nera di Erdogan, che risiede negli Usa e che il presidente turco considera responsabile del fallito colpo di stato del 2016. In precedenza c’erano state delle sanzioni Usa contro due ministri turchi, degli Interni e della Giustizia. I negoziati tra il segretario di stato Mark Pompeo e il turco Mevlüt Cavoluglu, per arrivare a uno scambio tra Gülen, che Erdogan vorrebbe condannare in Turchia, e Brunson, sono falliti. Dietro questa storia, ci sono ragioni politiche e economiche: in ballo c’è la tensione sulla Halkbank turca, accusata dagli Usa di aver effettuato transazioni con l’Iran, malgrado le sanzioni statunitensi. Inoltre c’è una crisi Nato: la Turchia è il secondo esercito Nato dopo quello Usa, ma Erdogan, che ieri si è rivolto alla Russia per chiedere aiuto, ha in mente di acquisire dei sistemi di difesa anti-aerea S-400 russi. Martedi’, il Congresso Usa ha bloccato la consegna di un centinaio di F-35 alla Turchia, perché in questo frangente gli americani temono che Ankara riveli a Mosca dei segreti di fabbricazione e di funzionamento. La tensione Usa-Turchia è forte in Siria, dove i turchi sono irritati dal sostegno che gli americani hanno dati ai curdi dell’Ypg.
Erdogan, in due discorsi tenuti ieri, ha puntato il dito contro un supposto “complotto” e contro “la lobby dei tassi di interesse”: per la Turchia, difatti, la strada è stretta ormai, per cercare di tamponare la crisi ha di fronte lo spettro di bloccare i capitali (ieri Erdogan ha chiesto alla popolazione di cambiare la valuta estera in lire turche per la “patria”) o accettare la tutela dell’FMI. La crisi è causata dall’addizione di un deficit delle partite correnti, di un eccessivo debito privato, di alto livello di investimenti esteri nelle banche turche (intorno al 40%) e di un’inflazione fuori controllo, al 16%, mentre Erdogan non vuole saperne di un aumento dei tassi di interesse. L’allarme degli investitori internazionali è al massimo dalle elezioni di giugno. La lira turca è in agonia da mesi. L’autoritarismo di Erdogan è pagato non solo dalla popolazione che subisce repressione e assenza di libertà, ma anche dall’economia: la Banca centrale ha perso l’autonomia, mentre il sultano ha nominato alle Finanze suo genero, Berat Albayrak, un caso clamoroso di nepotismo e di privatizzazione dello stato, che ieri doveva presentare il suo “nuovo modello economico”, che visibilmente non ha convinto.

il manifesto 11.8.18
Nel gioco dei Tre Imperi Erdogan chiama Putin
La strategia di Ankara. Oggi il triangolo Russia-Turchia-Iran – decisivo per la questione siriana ma non solo – è costituito da Paesi nel mirino delle sanzioni americane. Se poi aggiungiamo i dazi alla Cina si capisce bene che è in atto una sorta di scontro tra gli Stati uniti e l’Eurasia
di Alberto Negri


La crisi della Turchia la pagheranno, oltre ai turchi, anche gli europei. Non solo dal punto di vista economico e finanziario, perché l’Europa resta il maggiore partner commerciale di Ankara e le banche europee sono comunque le maggiori creditrici delle imprese turche. I costi saranno anche umani e politici. Il nocciolo della questione è che la Turchia oscilla spericolatamente tra Est e Ovest come nei momenti più turbolenti della sua storia.
Il presidente con pieni poteri Erdogan, custode di tre milioni profughi siriani, non solo vuole gli F-35 americani ma sfidando le sanzioni Usa a Mosca ha ordinato i missili S-400 di Putin e commissionato alla Russia la più grande centrale atomica mai progettata sulle sponde del Mediterraneo oltre a puntare al Turkish Stream, il gasdotto che con il nome di Southstream i russi volevano realizzare con Eni e Saipem, una pipeline fatta saltare da Bruxelles e da Washington dopo la crisi Ucraina e l’annessione della Crimea nel 2014.
E così c’è sempre una prima volta per essere sanzionati dall’America, come nel caso della Turchia, membro storico della Nato dagli anni Cinquanta che paga anche sui mercati la sua ribellione agli Usa.
In realtà tra Washington e Ankara dal luglio 2016, quando fallì il colpo di stato contro Erdogan, è in corso una sorta di guerra degli ostaggi. Gli Usa ospitano l’imam Fethullah Gülen. I turchi hanno ricevuto ripetuti dinieghi alla sua estradizione e ritengono che gli Usa abbiano tentato anche da loro un regime change.
Ankara da due anni ha messo in carcere e poi ai domiciliari il pastore evangelico Andrew Brunson accusato di terrorismo e complicità con Gülen. Sono quindi stati sanzionati dagli Usa i ministri turchi dell’Interno e della Giustizia, sospese dal Senato le forniture dei caccia F-35 e ristretti i crediti delle istituzioni internazionali. Risultato: la lira turca, come del resto il rial iraniano, è ai minimi storici sul dollaro. Oggi il triangolo Russia-Turchia-Iran – decisivo per la questione siriana ma non solo – è costituito da Paesi nel mirino delle sanzioni americane. Se poi aggiungiamo i dazi alla Cina si capisce bene che è in atto una sorta di scontro tra gli Stati uniti e l’Eurasia.
Fino all’ascesa dell’Akp nel 2002 la Turchia è stata dominata dai laici e dai golpe dei militari poi è toccato ai tradizionalisti e ai religiosi. L’intuizione di Erdogan è stata quella di dare rappresentanza politica a questa Turchia diventata protagonista dell’economia con le Tigri anatoliche, le piccole e medie imprese esportatrici, il motore del boom economico ma anche quelle più indebitate. Debiti in dollari ed euro che con la drastica perdita di valore della lira turca costano sempre di più. Persino Erdogan ha dovuto piegarsi ad aumentare i tassi per far comprare i suoi bond sui mercati, pur continuando a tuonare contro le agenzie di rating e la “lobby dei tassi interesse”.
Eppure questo Paese sarebbe decisamente dell’orbita occidentale. In Turchia oggi ci sono 24 caserme Nato e i missili Usa puntati sia contro Mosca che contro Teheran, oltre alla base di Incirlik che i turchi concedono agli americani assai di malavoglia.
In realtà la Turchia è stata ipocritamente tenuta nella sala d’aspetto dell’Unione ben sapendo che né Berlino né Parigi avrebbero mai accettato il suo ingresso in Europa. Dal tentato golpe in avanti la Turchia ha dimostrato un evidente allontanamento dal mondo occidentale, soprattutto nel caso della guerra in Siria, costruendo invece proficue relazioni con la Russia e l’Iran. La Russia ha bisogno di un importante alleato come la Turchia per poter avere facile accesso al Mediterraneo, sia in termini commerciali che militari. E’ interessante sottolineare che Mosca e Teheran sono entrambe sotto sanzioni occidentali, questo significa che la Turchia diventa anche uno sbocco per i loro affari.
E’ l’antico gioco dei Tre Imperi, russo ottomano e persiano: hanno combattuto tra loro per secoli ma possono darsi una mano quando serve. L’avvicinamento alla Russia e all’Iran potrebbe in futuro allontanare Ankara dalla Nato, per entrare a tutti gli effetti in una opposta coalizione regionale, pur restando tatticamente agganciata all’Alleanza e all’Europa.
Lo dimostra la guerra siriana. In un primo momento la Turchia si opponeva alla permanenza di Assad al potere, spingendo per la sua destituzione, poi ha cambiato posizione trovandosi a fianco di Russia ed Iran pur di eliminare un embrione di stato curdo. Ma se Assad comincia l’offensiva contro Idlib, dove sono insediati decine di migliaia di jihadisti, il fronte siriano si incendierà ancora e arriveranno altri rifugiati che avranno una sola via di fuga: il Nord e la Turchia. E allora la Turchia tra Oriente e Occidente sceglierà un’unica strada: quella della sicurezza e della sopravvivenza.

Corriere 12.8.18
Rischio antisemitismo
Jeremy Corbyn oltre il limite
di Paolo Lepri


Nel 2014 Corbyn portò fiori sulle tombe dei terroristi palestinesi che uccisero gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco '72.
È il momento di cambiare rotta, di assumersi la responsabilità degli errori. Le immagini del leader laburista Jeremy Corbyn che rende omaggio a uomini dalle mani sporche di sangue innocente — il sangue delle vittime del massacro anti-israeliano di Monaco, nel 1972 — provocano uno scandalo nelle coscienze e rappresentano un punto di non ritorno.
Si azzerano, come passando uno straccio sulla lavagna del sentimento, anni di discussioni sul virus che si annida nel Labour. Bisogna inchinarsi ai tanti che hanno combattuto la loro battaglia in un partito che, ricordiamolo, ha adottato la definizione di antisemitismo dell’Alleanza internazionale per il ricordo dell’Olocausto tralasciandone alcuni capitoli, come l’accusa agli ebrei di essere più leali a Israele che al loro Paese.
La linea di Corbyn non dimostra soltanto l’incapacità di tenersi in equilibrio tra le critiche legittime a Benjamin Netanyahu e la difesa del diritto di esistere di Israele oppure tra la rivendicazione del patrimonio positivo della comunità ebraica e la dissociazione implicita dai valori che quella comunità cementa. Quanto sta avvenendo è il segno di una cultura che va cambiata. Il Labour è l’unica grande forza progressista europea in cui resiste un internazionalismo dogmatico che non vuole avere nemici nella galassia minore dell’antagonismo, che legge la realtà come se negli ultimi decenni niente fosse accaduto.
No, tutto è invece è cambiato, ma non si vuole capire che la lotta di un popolo senza Stato è stata dirottata su una strada senza uscita dagli attentati suicidi e dal fondamentalismo di Hamas. Corbyn non si rende conto che l’escalation antioccidentale del terrorismo islamico ha reso indispensabile compiere scelte di campo per isolare la minaccia e proteggerne i bersagli. Non è facile dimenticare il paragone assurdo da lui tracciato qualche tempo fa: «I nostri amici ebrei non sono responsabili delle azioni di Israele come i nostri amici musulmani per
l’autoproclamato Stato Islamico».
Un uomo che aspira a entrare nel numero 10 di Downing Street guarda il mondo con un cannocchiale rovesciato.

il manifesto 11.8.18
La diaspora romena scende in piazza contro la corruzione, il governo trema
«Voto anticipato». La protesta per cacciare i socialdemocratici si infiamma e il Partito Democratico Liberale (Pdl) cavalca l’onda dell’indignazione per riprendersi il paese
di Giuseppe Sedia


BUCAREST «Basta corruzione», migliaia di rumeni residenti all’estero si sono riversati per le strade di Bucarest, nonostante la calura agostana, per la grande protesta di ieri. «È una situazione inaccettabile, i nostri politici stanno facendo di tutto per non finire dietro le sbarre», spiega Teodora una manifestante che è rientrata nel proprio paese due anni fa nella la speranza di un cambiamento. Sono loro la “diaspora”, gli stessi cittadini che avevano costretto il Partito Social Democratico (Psd) all’inizio del 2017 a fare marcia indietro su un provvedimento che avrebbe limitato il raggio di azione della Direzione Nazionale Anti-Corruzione (Dna). Due anni prima i voti dei rumeni residenti all’estero erano stati decisivi nell’assegnare la presidenza del paese a Klaus Iohannis del Partito nazionale Liberale (Pnl) dopo aver sconfitto al ballottaggio Victor Ponta del Psd.
Erano almeno venticinquemila le persone presenti alle sette di sera in piazza Victoria, a pochi metri dall’omonimo palazzo sede del governo della prima ministra Viorica Dancila, espressione della maggioranza del Psd. Sul palazzo hanno proiettato la scritta: «Down Government». In tarda serata diverse centinaia di manifestanti sono scesi in piazza anche a Sibiu, Cluj-Napoca, Iasi, Timisoara e nelle altre città del paese. La polizia ha lanciato lacrimogeni e usato cannoni ad acqua contro la folla, nella capitale il bilancio della manifestazione è di alcune decine di feriti, ma tutti non gravi.
Dancila è ancora in vacanza ma tutti gli inquilini di Palazzo Victoria hanno buoni motivi per tremare: la diaspora insieme a molti concittadini che non hanno lasciato la Romania in cerca di un futuro migliore, chiede infatti elezioni anticipate.
Il nocciolo dell’elettorato del Psd è costituito dagli anziani di tutto il paese. È per questo che il governo ha annunciato un aumento sostanzioso delle pensioni entro il 2020. Un modo per ingraziarsi i genitori della diaspora che hanno visto i propri figli costretti a emigrare.
Sono due gli episodi che hanno esasperato i cittadini e fatto precipitare ancora di più la fiducia nella maggioranza. Il primo, il licenziamento di Laura Kovesi ex-capo della Dna e simbolo della lotta alla corruzione, la cui rimozione è stata annunciata il mese scorso da Iohannis. Una decisione clamorosa arrivata dopo un lungo scontro istituzionale con il Psd e confermata poi da una sentenza della Corte Costituzionale. Mentre un mese prima il numero uno del Psd Liviu Dragnea veniva condannato in via non definitiva a tre anni e mezzo di carcere con l’accusa di abuso d’ufficio per due false assunzioni nel distretto di Teleorman, nel sud del paese, feudo elettorale di Dragnea, da cui proviene anche Dancila. Nello stesso periodo la camera bassa del parlamento approvava in tempi record una legge per depenalizzare l’abuso d’ufficio che non è comunque servita a salvare Dragnea.
Dietro le proteste ci sono i cittadini comuni ma anche il Partito Democratico Liberale (Pdl) che punta a cavalcare l’onda dell’indignazione e a riprendersi il paese.
Ma al di là di ogni tentativo di strumentalizzare la piazza, molti dei manifestanti non si sentono rappresentati da nessuna forza politica. Alcuni invocano il ritorno di un governo tecnico come quello di Dacian Ciolos formato nel novembre 2015 in seguito alle dimissioni di Ponta dopo il devastante incendio scoppiato nel nightclub Colectiv a Bucarest. «Non possiamo fidarci di nessuno e la tecnocrazia resta l’unica soluzione, almeno fino a quando l’attuale classe dirigente non sarà stata spazzata via», spiega un attivista dell’associazione Coruptia ucide.

il manifesto 12.8.18
Il presidente romeno sta con la «diaspora». La protesta va avanti
Governo sotto pressione. Polizia travolta dalle polemiche per gli scontri di venerdì notte con il bilancio di oltre 400 feriti. Ma la piazza torna a riempirsi contro la corruzione
di Giuseppe Sedia


BUCAREST Bucarest si è risvegliata confusa dopo una giornata di proteste per dire basta alla corruzione. Il presidente romeno Klaus Iohannis è stato uno dei primi a reagire: «Condanno con fermezza l’intervento brutale della polizia e l’uso sproporzionato della forza nei confronti della maggioranza dei manifestanti in piazza». «Il ministero dell’Interno è chiamato a spiegare urgentemente il modo in cui è stata gestita la situazione», ha poi aggiunto l’ex-sindaco di Sibiu, nonché esponente del Partito Nazionale Liberale (Pnl). Nell’ultimo periodo Iohannis è stato costretto a una difficile coabitazione con il governo del Partito Social Democratico (Psd) della prima ministra Viorica Dancila.
LA JANDARMERIA, la polizia militare romena, è sotto accusa per le violenze di venerdì sera nella capitale che restituiscono un bilancio di oltre 400 feriti. Non si sono invece registrati episodi di tensione nelle altre città: Cluj-Napoca, Galati, Iasi e Timisoara, quest’ultima epicentro di quella rivoluzione del 1989 che portò alla caduta del regime di Nicolae Ceausescu. Secondo gli organizzatori venerdì sono scese in piazza quasi centomila persone in tutto il paese, soprattutto romeni della diaspora. Ma la protesta non si ferma, anche ieri sera una folla numerosa è tornata a radunarsi davanti al palazzo del governo.
A far precipitare ancora di più la situazione di venerdì, l’inatteso sgombero di piazza Victoria cominciato alle undici di sera, a pochi passi dall’omonimo palazzo sede del gabinetto di Dancila. Le forze dell’ordine hanno evacuato la piazza a colpi di cannone ad acqua. L’uso di gas lacrimogeni non ha fatto altro che aumentare il caos tra le decine di migliaia di romeni residenti all’estero accorsi a Bucarest per la manifestazione.
Sono stati loro i protagonisti indiscussi della mobilitazione. «È stata una protesta piena di emozioni forti ma pacifica. L’evacuazione forzata della piazza non era assolutamente necessaria e ha fatto crescere la rabbia dei manifestanti. Speriamo soltanto che la situazione non degeneri nei prossimi giorni», racconta Andreea, una esponente della diaspora romena che ha lasciato il suo paese 7 anni fa.
I CANALI vicini al governo del Psd come Antena 3 e Romania tv hanno preferito mostrare le immagini di una poliziotta in assetto antisommossa circondata e pestata da alcuni teppisti. Le altre reti invece hanno scelto di dare rilievo alle manganellate distribuite alla rinfusa dalla jandarmeria.
Nel pomeriggio di ieri la ministra dell’Interno Carmen Dan ha negato ogni coinvolgimento del suo dicastero nella decisione di sgomberare piazza Victoria, scaricando così la responsabilità sul prefetto. «Quello che è successo l’altra notte resta grave ma non possiamo accusare la jandarmeria che ha applicato la legge», ha spiegato all’Agerpres, la principale agenzia di stampa romena. Dan si è anche affrettata a chiarire che il numero uno del Psd e presidente della camera bassa, Liviu Dragnea, non ha avuto alcuna influenza nella gestione della situazione. Ma secondo molti analisti, Dragnea resta l’eminenza grigia della maggioranza e il burattinaio che muove i fili del paese, nonostante la condanna per reato di frode elettorale che lo rende ormai inadatto a ricoprire altre cariche politiche.
Mai come ora i cittadini romeni sono consapevoli che sarà difficile fare piazza pulita della corruzione. Un sentimento accresciuto dalla recente rimozione di Laura Kovesi dalla Direzione Nazionale Anti-Corruzione (Dna), una decisione confermata il mese scorso dallo stesso Iohannis in seguito ad una sentenza della Corte Costituzionale.
DIFFICILE prevedere se le proteste possano portare ad elezioni anticipate, obiettivo dichiarato dei manifestanti. Ma la società civile ha ancora dei buoni motivi per sperare: le spettacolari proteste invernali del 2017 avevano costretto il Psd a rinunciare a un provvedimento che mirava a depenalizzare alcuni reati di corruzione, a tutto vantaggio dei politici locali. Nonostante il forte impegno della Dna durante il mandato di Kovesi, la trasparenza politica resta ancora un miraggio a Bucarest: secondo i dati raccolti da Rand Europa su incarico del Parlamento europeo la Romania è infatti il paese più corrotto in Europa.

Il Fatto 12.8.18
I romeni tornano a casa: tutti in piazza contro il governo
Rabbia generale. Nella manifestazione repressa dalla polizia (450 feriti) tanti emigrati in Europa. E il presidente sta con la protesta
di Michela A.G. Iaccarino


Barricate e fiamme. Il fuoco brucia pneumatici, il gas dei lacrimogeni la pelle. Poi l’acqua. Quella degli idranti della polizia contro gli almeno 50 mila manifestanti della notte di Bucarest. Sono almeno 450 i feriti del venerdì della rabbia nella capitale rumena. A piazza Vittoria uomini, donne e bambini sono tornati. Vogliono ancora la stessa cosa per i corrotti trincerati nel palazzo bianco del Governo che gli sta di fronte: le sbarre. Echi di marce arrivano anche da Cluj, Timisoara, Sibiu: tutti per strada. Adesso il presidente del paese Klaus Iohannis, partito nazionale liberale, eletto due anni fa anche grazie ai voti dei residenti all’estero, vuole due cose: condanne e spiegazioni per “il brutale intervento della polizia, fortemente sproporzionato rispetto alla manifestazione”.
Estate è quando il mondo va in vacanza e quando i migranti tornano a casa. Sono da 3 a 5 i milioni di rumeni che lavorano all’estero, alimentando le casse delle loro famiglie e quelle del paese con 4,3 miliardi di euro l’anno, il 2,5% del Pil della nazione tra le più povere dell’Unione. È una diaspora che ha un’origine sola: una fame declinata con mille altre definizioni e sfumature, ma tutte ti spingono a migrare. Le vite dei migranti sono ormai altrove, ma la loro patria è rimasta la stessa. Quasi in 10 mila sono tornati nel paese dove sono nati, per raggiungere i compatrioti in piazza. Li hanno aggregati i social.
Per la depenalizzazione tentata nel 2017 dal governo del socialdemocratico Grindeanu, si riversarono in piazza 200mila persone. Sotto zero rimanevano fermi, come le aste delle loro bandiere tricolore, due inverni fa. “Mi chiamo David, faccio il tatuatore a Copenaghen, noi rumeni abbiamo sempre usato le gambe o per stare in ginocchio o per scappare altrove, sono venuto quando ho sentito levarsi il grido di protesta dei miei fratelli”, aveva detto il ragazzo. “Siamo messi così male qui, che emigrano anche i vecchi adesso”. Il governo contro cui protestano oggi i rumeni è quello di Viorica Dancila, ma la corruzione e le tangenti sono le stesse dell’epoca, come le cifre dei loro salari rimasti bassissimi.
Questa lotta non ha ancora un leader, ma ha una faccia: quella di una donna che è stata cacciata lo scorso luglio, Laura Kovesi. Tre lettere: Dna, Directia Nationala Anticoruptie. Il direttorato anticorruzione di cui era a capo diffondeva terrore tra una classe politica tra le più corrotte d’Europa. Per le sue indagini avevano cominciato a tremare gli scranni: dopo un duello perso contro il ministro della Giustizia, Tudorel Toader, il presidente Iohannis a luglio ha approvato il suo licenziamento. Una mossa dettata dalla pressione esercitata dal partito Psd al potere e dal vecchio leader già condannato per corruzione, Liviu Draganea.
Kovesi è stata allontanata dal suo ufficio e dal suo archivio: contiene quasi tremila casi di corruzione aperti e rinvii a giudizio per tangenti milionarie. I nomi sono quelli di ministri, senatori, parlamentari, magistrati della nazione dove è stata approvata la depenalizzazione per reati di corruzione lo scorso febbraio. La donna in toga che combatte gli uomini del potere non è stata ancora sostituita e con l’onda di proteste più grandi dalla fine del regime di Ceaucescu, sarà difficile mettere al suo posto un fantoccio. A Piazza Vittoria le manifestazioni si susseguiranno. Nel palazzo del governo non c’è nemmeno la premier Dancila, che è in vacanza. I ricchi vanno in ferie, i poveri tornano in patria. E vanno in piazza a protestare.

il manifesto 11.8.18
Quando il fascismo militarizzò il lavoro nelle campagne
Saggi. «Sindacalismo in camicia nera» di Francesco Altamura, pubblicato dalle edizioni dal Sud
di Michele Nani


Le trasformazioni ottocentesche delle campagne, inclusa l’avanzata di forme capitalistiche di produzione e di rapporti salariali, fecero dell’Italia rurale un laboratorio di conflitti, organizzazione e trasformazione culturale. L’epicentro dell’ascesa del bracciantato a soggetto sociale e politico fu la pianura padana, una storia ben restituita dallo studio ormai classico di Guido Crainz (Padania, Donzelli 1992) e dai contributi successivi di Marco Fincardi (Campagne emiliane in transizione, Clueb 2008). Se sono note, anche se tuttora meritevoli di approfondimenti e reinterpretazioni, le vicende dell’ascesa del movimento bracciantile, la sconfitta epocale dei primi anni Venti del Novecento riconsegnò i lavoratori della terra alla subordinazione. L’affermazione del fascismo, che molto dovette allo squadrismo agrario, riconsegnò i braccianti al dominio dei proprietari terrieri e degli imprenditori agricoli, condizione che si è tradotta in un relativo silenzio storiografico. Tuttavia, il regresso sociale e politico non avrebbe potuto essere un mero «ritorno» alla condizioni precedenti: la consistenza, la forza e la relativa estraneità del bracciantato al regime, pur represso nelle azioni e privato dell’autonomia, continuavano a impensierire le autorità fasciste, che proposero una tanto esplicita quanto velleitaria «sbracciantizzazione» e, più realisticamente, cercarono di inquadrare nel sindacato di Stato i salariati agricoli, mantenendo e parzialmente svuotando alcune delle loro storiche conquiste (il contratto collettivo, il collocamento, l’imponibile di manodopera) e introducendo qualche novità (sul piano previdenziale e assistenziale).
TALORA SI DIMENTICA che questo percorso storico non fu limitato ai braccianti padani. Un altro spazio italiano fu caratterizzato in età contemporanea dall’importanza del bracciantato: la Puglia, che non a caso espresse un dirigente di straordinaria levatura, come Giuseppe Di Vittorio (nato a Cerignola, nel foggiano, nel 1892). Se i contorni dell’ascesa del movimento e della sua sconfitta sono stati ricostruiti, minore è stata l’attenzione verso l’esperienza bracciantile nella Puglia fascistizzata. Contribuisce ora a colmare questa lacuna Sindacalismo in camicia nera, libro nel quale Francesco Altamura rielabora la sua tesi di dottorato sull’«organizzazione fascista dei lavoratori dell’agricoltura in Puglia e Lucania (1928-1943)» (Edizioni dal Sud, pp.320, euro 18).
Tre almeno sono i meriti di questo lavoro: procedere a un profondo scavo archivistico per ovviare all’assenza di fonti dirette (cioè degli archivi dei sindacati fascisti); integrare gli studi esistenti sul corporativismo del regime con una prospettiva non limitata all’elaborazione politico-giuridica e alle istituzioni centrali, che permette di verificare la reale portata e incidenza sul territorio delle direttive romane; proporre alcune importanti rilievi che eccedono la dimensione istituzionale, per interrogare l’esperienza bracciantile, un indirizzo di storia sociale e culturale dei gruppi subalterni che sarebbe bene tornare a frequentare, approfondendo o rivedendo le acquisizioni storiografiche di altre stagioni di ricerca.
L’AUTONOMIA di cui godeva l’agraria non venne minimamente intaccata dal corporativismo: i signori della terra infrangevano continuamente i patti sottoscritti, lasciarono sulla carta il collocamento pubblico e centralizzato (e la gestione delle migrazioni), approfittarono della frammentazione sindacale (lo «sbloccamento» nel 1928 della confederazione unica rossoniana) e versarono solo a tratti i contributi assicurativi dovuti.
Gli esiti questo ritrovato potere padronale furono inevitabili: i salari, compartimentati per «zone», furono decurtati e incerti; il reclutamento si faceva spesso in piazza ed era del tutto discrezionale, anche se i lavoratori furono costretti a iscriversi al sindacato per accedere al collocamento. Risultò privata di basi finanziarie l’assistenza sociale, che avrebbe dovuto rappresentare una pur piccola integrazione a questo peggioramento della situazione. D’altro canto, il sindacato soffriva della continua ridefinizione del proprio ruolo, della mancanza di risorse e di quadri, dell’avvicendamento dei dirigenti, per la dilagante corruzione, ma anche per la persistenza di residui classisti.
SONO QUESTE DINAMICHE a spiegare la presenza di iniziative comuniste e di vere e proprie rivolte, nel quadro di una generale diffidenza bracciantile verso i sindacati, prodotta dalla memoria della situazione precedente, dal trauma dello squadrismo e dall’esperienza concreta degli anni Venti e Trenta, che portò a percepire spesso i sindacalisti di regime come elementi parassitari. Il loro ruolo in realtà mutò a più riprese, contribuendo al disorientamento degli stessi quadri e dei lavoratori. Negli anni di guerra il sindacato divenne del tutto superfluo, poiché la fame di braccia spinse a concessioni salariali al di fuori della mediazione di un apparato che infine la precettazione e militarizzazione del lavoro screditarono definitivamente. Nella regione divisa, furono saranno le vie del recupero dell’autonomia sindacale, a seconda che l’autorità fosse esercitata dai «badogliani» del Regno del Sud (che in primo tempo conservarono il sindacalismo di Stato) o direttamente dal governo militare alleato (che invece lo abolì da subito).
Il libro di Altamura unisce rigore e passione e conferma il salutare ritorno delle più giovani generazioni di studiosi all’interesse per la storia del lavoro e dei lavoratori: senza la quale la memoria si esaurisce nella dimensione privata o locale e, soprattutto, non è possibile interpretare continuità e discontinuità del presente per provare a cambiarne le dinamiche.

il manifesto 11.8.18
E poi arrivarono i popoli del mare
Una storia globale. Seconda tappa del viaggio nella globalizzazione, dalla Mesopotamia a Goldman Sachs. Tra il XV e il XII secolo a.C. Micenei e Ittiti, Ciprioti e Minoici, Cananei e Egiziani diedero vita ad una cultura raffinata e ad un sistema economico e sociale interconnesso. La crisi viene fatta risalire al 1177. La minaccia venne da Sicilia o Sardegna, forse dagli etruschi. E coincise con calamità naturali, terremoti e carestie. Caos e cambiamento: dall’età del bronzo si passerà progressivamente a quella del ferro
Raffigurazione della battaglia di Ramses III contro i Popoli del mare sulle pareti del tempio di Medinet Habu, in Egitto
di Vincenzo Comito


Il sistema di scambi descritto nel primo articolo di questa serie si svolge, tra alti e bassi, tra il Ventesimo e il Sedicesimo secolo prima della nostra era. Ma quasi subito dopo si afferma un nuovo scenario, che tocca un’area più vasta di quella precedente e vede un mondo più integrato e più sofisticato all’opera.
Tradizionalmente, tra gli storici, si usa l’espressione di «prima globalizzazione» con riferimento a quel grande processo che, promosso dalle grandi potenze europee, si è svolto nell’Ottocento e che è andato in crisi con la Prima guerra mondiale. Ma alcuni studiosi del mondo antico sottolineano a ragione che in realtà già diverse migliaia di anni fa si sono svolti dei processi che si possono considerare come rientranti in un quadro di mondializzazione spinta, anche se le loro caratteristiche erano, almeno in parte, differenti.
Nello svolgimento di questo testo si è fatto riferimento ad un volume di Eric H. Cline, uno studioso statunitense, 1177 a. C., Il collasso della civiltà (Bollati Boringhieri, 2014) e si è anche tenuto conto di una serie di scritti sul tema apparsi su Le Monde e in particolare di un articolo di Stéphane Foucart, «La fin d’un monde», uscito nel 2014, nonché di un volume di B. Lafont ed altri, La Mesopotamie (Belin, 2017).
UNA REALTÀ COSMOPOLITA
Per più di tre secoli, tra il Quindicesimo e il Dodicesimo secolo prima della nostra era, una raffinata civiltà fiorisce su di una vasta area geografica. Essa tocca, tra gli altri popoli, i Micenei e i Minoici, gli Ittiti – antichi abitanti grosso modo della Turchia odierna -, gli Assiri e i kassiti/babilonesi, i Ciprioti, i Mitanni e i Cananei, per quanto riguarda il Vicino Oriente ed infine gli Egiziani.
Si era messo in piedi un mondo complesso, cosmopolita e globalizzato, come si è poi visto solo raramente sino ai nostri giorni. Il sistema era organizzato intorno ai grandi Palazzi e ai Templi, che gestivano sia la vita politica che quella economica e religiosa dei loro territori. L’iniziativa economica privata vi aveva un’importanza non chiara sino in fondo, ma comunque abbastanza debole, subordinata alla sfera pubblica.
Per dare un’idea del tipo di scambi che si svolgeva nel periodo basterà elencare i prodotti componenti il carico di una nave, molto citata nei testi, che, partita dalla Grecia, affondò vicino alla costa sud-occidentale della Turchia, intorno al 1300 prima della nostra era. Il carico comprendeva più di 350 lingotti di rame provenienti forse da Cipro. Ma vi era anche stivato una specie di campionario internazionale delle produzioni dell’epoca. Si può elencare una tonnellata di stagno, probabilmente afgano, una di resina, un carico di avorio dalla Nubia, duecento lingotti di vetro grezzo dalla Mesopotamia, 140 giare cananee, che, oltre alla resina, contenevano resti di frutta varia, ceramiche da Cipro e da Canaan, scarabei dall’Egitto, spade e daghe dall’Italia e dalla Grecia ed anche uno scettro proveniente dai Balcani; inoltre erano presenti gioielli e calici d’oro, forse dall’Afghanistan, contenitori di cosmetici in avorio, vasellame di rame, bronzo, ancore di pietra, ecc. Si pensa che probabilmente tali prodotti non fossero legati a dei business commerciali, ma allo scambio di doni tra i potenti dell’epoca.
Leone, animale sacro di Ishtar, tra i resti del tempio di Ain Dara, in Siria
ARRIVA LA CRISI
L’economia della Grecia è a pezzi; ribellioni interne scuotono la Libia, la Siria, l’Egitto; la Turchia e Israele hanno paura di essere coinvolte nei disordini, mentre la Giordania è costretta a dare asilo ad una fiumana di rifugiati. Siamo ai nostri giorni? No, ma più o meno nel 1177 prima della nostra era, nel pieno svolgimento della crisi.
Sino ad un periodo piuttosto recente la caduta del sistema veniva attribuita all’invasione dei cosiddetti «popoli del mare». Non si sa bene chi essi fossero e da dove venissero. Comunque in uno degli scenari più plausibili si è pensato alla Sicilia, alla Sardegna e agli etruschi, all’Egeo, a Cipro e ad altre località del Mediterraneo Orientale. Siamo in ogni caso sicuri che non si trattava di nigeriani, senegalesi, afghani o marocchini…
Quasi nessun paese fu in grado di opporsi a tali invasioni e le grandi potenze del tempo caddero una dopo l’altra. Anche la fine di Troia vi è forse collegata. Solo l’Egitto riuscì a sconfiggerle, combattendo due guerre sanguinose, ma lo sforzo fu tale che da allora la civiltà di quel paese cominciò a decadere.
TERREMOTI E CARESTIE
Negli ultimi tempi, in relazione a crescenti evidenze storiche, gli studiosi tendono a pensare che all’origine del crollo non ci fossero soltanto i popoli del mare. Si valuta ormai che ci sia stata semmai una concatenazione di eventi. Si è parlato anche di rivolte sociali, di catastrofi naturali, quali una serie di terremoti e un cambiamento climatico, con la conseguenza di importanti carestie, nonché di mutamenti nelle tecnologie belliche.
Nessuno di tali eventi da solo avrebbe forse potuto avere quegli effetti devastanti che abbiamo ricordato; ma essi si sono combinati tra di loro, producendo uno scenario nel quale le ripercussioni di ogni evento catastrofico furono largamente amplificate, visto l’alto livello di integrazione che si registrava nel sistema, nonché la concentrazione nei soli Palazzi di tutti gli elementi di organizzazione della politica, dell’economia, della religione.
UN CROLLO SISTEMICO
La caduta della complessa civiltà sopra descritta, che si può ascrivere in maniera più che altro simbolica al 1177 prima della nostra era, rappresenta anche un cambiamento epocale del modello tecnologico e di quello economico, con grandi conseguenze a lungo termine. Si passa così da una sorta di economia statalizzata autoritaria ad un sistema economico decentralizzato fatto di più piccole Città-Stato e di imprenditori individuali che lavoravano in proprio. Tale nuovo assetto emerge peraltro soltanto molto lentamente nel corso dei secoli successivi. Dall’età del bronzo si passerà gradualmente a quella del ferro. Dal caos emergerà così un nuovo ordine.
Le modalità di funzionamento del sistema dell’età del bronzo sembrerebbero ricalcare in qualche modo le ipotesi di Karl Polanyi sull’esistenza nel mondo antico di un’organizzazione sociale dalla quale erano assenti le modalità capitalistiche; le attività economiche erano immerse ed integrate nella società e lo scambio di oggetti era basato sul sistema del dono. Ma l’emergere di una nuova società dell’età del ferro, con l’arrivo di imprenditori privati largamente autonomi dal potere centrale, sembrerebbe poi invece indebolire in qualche modo tale ipotesi.
Il crollo del sistema integrato sopra descritto ci ricorda per molti versi, come sottolinea anche Cline, la nostra attuale società globalizzata, che comincia a sentire gli effetti del cambiamento climatico e della troppo stretta integrazione economica e finanziaria, come ha mostrato, almeno in parte, la crisi economica che ha colpito il mondo occidentale a partire dal 2007-2008. Anche durante lo svolgimento di tale crisi, si è sfiorato, in effetti, un crollo sistemico, a partire dalle forti interconnessioni delle grandi banche internazionali.
(2a puntata di 4 – segue)

Il Fatto 11.8.18
Contraccezione, in Italia è ancora un lusso: gratis solo in 4 Regioni nonostante la legge. “Lo Stato rinuncia a risparmi”
Contraccezione, in Italia è ancora un lusso: gratis solo in 4 Regioni nonostante la legge. “Lo Stato rinuncia a risparmi”
La Puglia di Vendola avviò la distribuzione gratuita nel 2008. Ora ci provano Emilia, Piemonte e Lombardia. Ma nel resto del Paese dipende dai singoli enti. "Così si aumentano disparità sociali e le spese delle famiglie". E soprattutto delle donne
di Silvia Bia

qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/08/11/contraccezione-in-italia-e-ancora-un-lusso-gratis-solo-in-4-regioni-nonostante-la-legge-lo-stato-rinuncia-a-risparmi/4537590/

Il Fatto 12.8.18
Tutti ai piedi di Van Gogh: più che un pittore, un brand
Marketing - Abbigliamento, mostre, film: è Vincent mania
di Camilla Tagliabue

Il diavolo veste Van Gogh: mancava solo di indossarlo sulla giacchetta o di metterlo ai piedi stampato sulle pantofole, ma a questo ci ha già pensato Vans, marchio di moda tra i Millennials e pure tra i quarantenni e oltre. Perché, diciamocelo, un capo Vincent veste benissimo.
L’iniziativa “Vans per Van Gogh Museum” suggella il matrimonio – il mercimonio, secondo i puristi – tra l’azienda americana e il museo di Amsterdam: dal 3 agosto chiunque può entrare in possesso di camicie, cappelli, zaini, felpe, scarpe, magliette, giacche griffate dal pittore, o meglio con le immagini riprodotte dei suoi quadri più celebri – Girasoli, Autoritratto, Teschio, Ramo di mandorlo in fiore… –, ma anche con stralci di lettere al fratello Theo.
Il Vincent prêt-à-porter non è solo una becera operazione commerciale; l’obiettivo del museo, infatti, è portare l’arte per strada, ma anche negli armadi e in lavatrice, monetizzando al contempo: parte degli incassi delle vendite – online o nei negozi tradizionali – rimpinguerà il portafogli museale, contribuendo così alla tutela del patrimonio e della collezione d’arte. Nonostante sia uno dei più frequentati d’Europa (nel 2017 i visitatori hanno superato quota 2,2 milioni: un record), il Van Gogh si sostiene con lo sbigliettamento solo per l’87%; il resto viene da introiti, sponsorizzazioni e iniziative private, come quella di Vans, appunto, che pare stia funzionando benissimo. Infatti, nonostante i prezzi poco convenienti – da 80 euro per un paio di scarpe di tela a 150 per un bomber in poliestere –, i prodotti sono andati esauriti nel giro di pochi giorni: basta fare un giro sul sito dell’azienda per accorgersi che non ci sono più articoli disponibili; tocca andarseli a comprare direttamente al bookshop di Amsterdam.
Altro recente, e lodevole, progetto del museo è l’allestimento della galleria virtuale con tutte le opere custodite, corredate di schede storiche, informazioni e curiosità e, soprattutto, scaricabili gratuitamente in alta risoluzione e in tre diversi formati: small, medium e large. Non ditelo a Vans, ma le immagini si possono eventualmente stampare su qualsiasi tessuto e indumento.
La Van Gogh fever non ha contagiato solo gli scarpari: a Vicenza la mostra Tra il grano e il cielo, allestita nella Basilica Palladiana da ottobre 2017 ad aprile scorso, ha attratto 460 mila visitatori, e quest’anno si gioca il podio con Monet delle esposizioni più gettonate d’Italia. Per non parlare della “mostra blockbuster”, itinerante in mezza penisola e oltre – “internazionale e multimediale”, eh! – Van Gogh Alive – The Experience, una esperienza “immersiva” con proiezioni dei quadri del pittore olandese e (tragici) tranche de vie, da Parigi ad Auvers-sur-Oise, passando per il manicomio di Saint-Rémy.
Per non essere da meno, a La Spezia si sono inventati nei giorni scorsi una personale vangoghiana dentro a un centro commerciale: esposti in questa Van Gogh Shadow non ci sono ovviamente gli originali, ma riproduzioni e opere-tributo, non sempre fedelissime.
Anche sul maxischermo le pellicole sul Nostro si sprecano: ad aprile è uscito in sala – per due sole sere – il documentario Van Gogh, tra il grano e il cielo, realizzato da Nexo Digital e 3D con la regia di Giovanni Piscaglia e la sceneggiatura di Matteo Moneta. Special guest, come cicerone d’eccezione, era Valeria Bruni Tedeschi. E del 2016 (ma in Italia nel 2017, dove ha incassato 1,3 milioni di euro, pur essendo stato in sala per appena quattro giorni) è il delizioso film d’animazione Loving Vincent, diretto da Dorota Kobiela e Hugh Welchman, che ha ottenuto una nomination ai Premi Oscar, una candidatura ai Golden Globe e una ai Bafta, salvo poi vincere l’European Film Award e il David di Donatello.
L’omaggio del teatro al titano della pittura non poteva, infine, mancare: con L’odore assordante del bianco Stefano Massini vinse nel 2005 il Premio Tondelli, ma lo spettacolo è tornato in replica da un annetto circa, nell’allestimento di Alessandro Maggi e con l’interpretazione di Alessandro Preziosi. E di un teatrante, Antonin Artaud – pazzo da legare come il pittore –, è forse la recensione più vera e più bella dell’arte di Vincent: “Solo pittore, Van Gogh, sì, e niente di più, niente filosofia, né magia, né mistica, né dramma, né letteratura o poesia. I suoi girasoli d’oro e bronzo sono dipinti come girasoli e nient’altro, ma adesso per capire un girasole in natura bisogna prima rivedere Van Gogh”.

Corriere La Lettura 12.8.18
Anassimandro batte Asterix
L’invenzione della Natura, Come per i Galli dei fumetti, il timore che l cielo possa sempre cadere
Ma così non sarà, aveva scoperto il filosofo di Mileto nel VI secolo a.C.
Anassimamdro si era cinvinto che l’universo fosse in espansione, forse in consegueza di una esplosione inizialr (il Big Bang?); e che gli uomini ferivassero dai pesci (Darwin?)
di Mauro Bonazzi


Nascere — venire all’essere, diventare qualcosa — è una colpa che verrà pagata con la morte. Questo, secondo Friedrich Nietzsche, giovane filologo a Basilea ancora sensibile alle sirene di Schopenhauer, insegnava il primo testo filosofico giunto fino a noi, un breve frammento di Anassimandro di Mileto: «Principio di tutte le cose non è né l’acqua né nessun altro dei cosiddetti elementi, ma una certa altra natura infinita, da cui tutto diviene (...): da ciò da cui è la generazione delle cose che sono, lì è anche la distruzione secondo il dovuto: esse scontano infatti la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Poche parole, al cui fascino è difficile sottrarsi. Per Martin Heidegger, influenzato a sua volta da Nietzsche, costituivano la prova del fatto che la filosofia è nata grande, capace di affrontare fin da subito i problemi più importanti. Perché c’è qualcosa invece di nulla? Questa è la questione fondamentale. Perché esistono gli alberi, il mare, noi, io? Anassimandro non aveva posto solo la domanda; aveva anche offerto una prima risposta.
C’è un principio primo, eterno, infinito, indistinto (chiamiamolo Dio; Anassimandro lo chiamava apeiron, il «senza limiti») in cui tutto riposa; la realtà, così come la vediamo intorno a noi (e di cui facciamo parte) si è formata staccandosi proprio da quel principio: un impulso incoercibile, una spinta potente, irrazionale e primordiale, spinge tutto a essere qualcosa. È la volontà di vivere, di cui parlava Schopenhauer. E non solo lui: lo schema di pensiero è molto più diffuso. La storia ebraica e poi cristiana degli angeli che si ribellano a Dio, o di Adamo ed Eva, non è molto diversa, e tanti altri paralleli, fin dalla lontana India, potrebbero essere aggiunti. Analoghe erano le conclusioni, del resto: questa colpa, la colpa di voler essere, prima o poi sarebbe stata punita. La nascita e la morte, l’essere e il non essere: ogni affermazione (di sé) è una negazione (dell’altro), ma giustizia prima o poi verrà fatta. Ecco la legge, tragica, che svela il segreto dell’esistenza. Una tesi affascinante, indubbiamente. Che però non c’entra nulla con Anassimandro.
Vissuto nel VI secolo a.C., di lui si è perso quasi tutto. Se ancora leggiamo qualche sua frase, è grazie al neoplatonico Simplicio (un personaggio di cui sarebbe bello raccontare le imprese: era uno dei sette filosofi fuggiti in Persia per fondare la città ideale di Platone, dopo che Giustiniano aveva chiuso la loro Accademia ad Atene nel 529 d.C.), che lo aveva citato, più di mille anni dopo. Il suo scritto, un imponente commento alla Fisica di Aristotele, fu poi pubblicato da Aldo Manuzio nel 1526 (e anche di queste imprese editoriali, e di quello che hanno significato per l’Europa, sarebbe bello ricordarsi), permettendo ai vari Nietzsche e Schopenhauer di appassionarsi ad Anassimandro. L’edizione di Manuzio, però, si fondava su un manoscritto lacunoso. Mancava una paroletta nell’ultima frase: «Essi scontano reciprocamente la pena e il fio dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo». Per quanto minuscola, l’aggiunta cambia tutto. Il conflitto non è più con il principio (Dio): riguarda l’universo, o meglio gli elementi che lo costituiscono. Anassimandro raccontava una storia completamente diversa.
Il mondo che si dispiega davanti a noi si organizza per opposizioni: il caldo e il freddo, la luce e il buio, l’acqua e il fuoco… il conflitto è tra questi opposti, gli elementi materiali costituenti, che sono come in guerra tra di loro. Il conflitto e il caos: il rischio è che l’universo intero collassi se uno degli elementi dovesse prevalere sugli altri. Era una paura ben presente nel mondo del mito, dove a ogni potenza naturale è associata una divinità, a cui occorre rivolgersi con preghiere e sacrifici perché conservi l’universo in questo suo equilibrio così precario. Terremoti, eclissi, mareggiate e siccità sono lì a ricordarci la precarietà del tutto: come per Asterix e Obelix, il timore è che il cielo possa sempre cadere, e tutto andare in frantumi. Così non sarà, spiega Anassimandro, forte della sua scoperta.
Scoprire significa vedere qualcosa che c’è, ma nessuno vedeva. È vero che la realtà si trasforma continuamente e che ogni trasformazione altro non è che l’affermarsi di una qualità e la temporanea soppressione del suo opposto. Ma la prevaricazione verrà riequilibrata nel corso del tempo, secondo una legge che regola eternamente queste opposizioni. È l’incessante alternanza del giorno e della notte, delle stagioni calde e fredde, e dei cicli astronomici che scandiscono la vita dell’universo. Questo ha visto Anassimandro, l’ordine che regola le trasformazioni.
Dimenticato il pensatore tragico, senza più bisogno di introdurre divinità arcane, quello che ora emerge è il cantore dei ritmi iscritti nel mondo dei contadini e dei mercanti. Un pensatore che confida esclusivamente nella sua capacità di osservare e ragionare. Non è più il tempo dei poeti che ripetono ispirati la parola della Musa: l’autorità di Anassimandro dipende unicamente dalla capacità di collegare correttamente i fenomeni, offrendo spiegazioni plausibili. Il risultato è la scoperta della «natura», la presa d’atto che questo immenso universo che ci circonda è qualcosa di unico, omogeneo, in cui tutto si tiene, secondo leggi e costanti. All’instabilità permanente del mito si sostituisce l’idea di uno spazio stabile e regolare — uno spazio «naturale» per cui non servono interventi arbitrari, esterni, «soprannaturali».
Non è un’intuizione da poco. La filosofia nasce così, insegnando a guardare, a riconoscere la trama che innerva lo spettacolo (questo significa theoria in greco) dell’universo, la regolarità che ricompone in un ordine dinamico ciò che all’occhio inesperto appare caotico e instabile.
Se lo avesse incontrato, Anassimandro non avrebbe compreso il senso della domanda di Heidegger. Per i Greci, l’universo esiste da sempre per sempre, eternamente. Inutile dunque chiedersi perché c’è l’essere e non il niente. Molto più proficuo, e interessante, è individuare le leggi che regolano la vita dell’universo e raccontarne la storia. Si sarebbe insomma sentito più vicino a un filosofo della scienza come Karl Popper, che infatti proprio in lui e negli altri presocratici aveva trovato i precursori degli scienziati contemporanei, uniti dallo stesso desiderio di comprendere, descrivere e spiegare. È una buona presentazione di quello che faceva Anassimandro: osservando le maree e le orbite dei pianeti si era convinto che l’universo è in espansione, con gli elementi caldi che si allontanano progressivamente da quelli freddi, forse in conseguenza di un’esplosione iniziale. Anassimandro teorico del Big Bang? O primo darwinista, visto che sosteneva anche che gli uomini derivano dai pesci? Di certo la passione di indagare e conoscere è la stessa. Aveva anche concepito la prima mappa dell’universo, con la Terra (a forma di cilindro, non piatta) al centro, circondata da una serie di anelli concentrici, delle stelle, del sole, della luna, secondo proporzioni geometriche ben definite. Un universo non solo uniforme ma anche elegante, insomma (e una prima versione del modello che il lettore italiano ritroverà nella Divina Commedia).
Tutto chiaro, dunque?
Prima di entusiasmarsi per i presocratici Popper si era formato discutendo con i membri del Circolo di Vienna, che si erano proposti l’obiettivo di fare chiarezza da tutte le astruserie della metafisica (Heidegger, tanto per cambiare, era il bersaglio privilegiato). Enunciati e domande che non rappresentano stati di fatti di ordine fisico, oggettivamente verificabili, non possono essere detti né veri né falsi, sono privi di senso: non trasmettono alcuna conoscenza e per questo bisogna starne lontani. Ludwig Wittgenstein, il nume tutelare del circolo, lo aveva spiegato con la consueta chiarezza. «Non come il mondo è, è il Mistico, ma che esso è»: come il mondo è, ecco qualcosa che possiamo descrivere e spiegare; che (perché) il mondo è (esiste), invece no; è qualcosa di cui non ha perciò senso parlare (è il Mistico, nel suo vocabolario): «Se una domanda può porsi, può avere anche una risposta»; «su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Davvero?
Anassimandro aveva offerto una prima descrizione «scientifica» dell’universo. Aveva per primo intuito che l’universo è un tutto organico, regolato da leggi e costanti. Alcune domande, però, rimanevano aperte. Perché ci sono queste leggi, chi garantisce per il loro funzionamento? Forse il misterioso apeiron, quel principio indeterminato, oscuro e infinito, da cui tutto proviene e a cui tutto torna? Ma questo non significa reintrodurre con parole diverse problematiche teologiche? Non è soltanto un problema storiografico (ricostruire le tesi di Anassimandro in proposito); è un’altra versione del solito problema: ma perché ci sono le cose — gli alberi e i pianeti, io e tu? Da dove arrivano e dove vanno?
Domande oziose, per cui probabilmente non si troverà mai una risposta ultima. Ma di cui è difficile fare a meno: «L’impulso al Mistico — scriveva lo stesso Wittgenstein il 15 maggio 1915 — viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza. Noi sentiamo che una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, il nostro problema non è ancora neppure stato toccato». È un’affermazione fin troppo severa: senza l’aiuto di chi ci guida nella comprensione di quello che accade intorno a noi, non potremmo veramente godere dello spettacolo dell’universo e iniziare a interrogarci su noi stessi.
Così Platone e Aristotele sostenevano che la filosofia vive della meraviglia, nella consapevolezza che le cose non sono mai come credevamo. Alla fine del suo percorso anche Wittgenstein era arrivato a conclusioni analoghe: «Mi meraviglio per l’esistenza del mondo». Imparare a meravigliarsi, consapevoli che tanto maggiori saranno le scoperte tanto più numerosi saranno i problemi che dovremo affrontare: probabilmente non c’è esperienza più bella per noi esseri umani, sempre in cerca di significati, ma anche sempre esposti al rischio di ricadere nelle superstizioni di Asterix. Per questo servono le scoperte degli scienziati, ma anche le domande dei filosofi. Meglio ricordarsene, visto che il viaggio promette di essere ancora lungo.

Corriere La Lettura 12.8.18
Sui monti che placano il dolore
Nel centro di salute mentale di Villacidro, nella Sardegna meridionale: Portare i malati quassù. A camminare. Anche da soli
Un gruppo di malati psichitrici senza medici né operatori
“La montagna cura perché è come la vita, salita, discesa
di Paolo Giordano


Chiamateli «guarenti». Sì, «perché paziente è chi continua a patire, mentre noi abbiamo intrapreso un cammino di guarigione», così dice Marco, dopo avermi accolto all’aeroporto di Cagliari. Mi trovo qui perché ho accettato una sfida: partire per un trekking di due giorni insieme a un gruppo di malati psichiatrici, loro e io, senza la presenza rassicurante di medici o operatori sanitari. «Loro e io e nessun medico?», ho chiesto una seconda volta al telefono ad Alessandro Coni, lo psichiatra che mi ha proposto l’esperimento.
«Esatto».
L’hanno fatto altre volte?
«No. Ma sono anni che camminano in montagna».
Ho riflettuto per una settimana, poi gli ho scritto un messaggio: ci sto.
A Cagliari vengono a prendermi in due: Marco, che ha la patente e in effetti è quasi un operatore sanitario perché, pur convivendo con la malattia, ha appena completato il corso di abilitazione, e Roberto, che dal primo istante in cui metto piede in Sardegna inizia a preoccuparsi ossessivamente del mio viaggio di ritorno. Mi accorgo di essere un po’ in tensione, non proprio impaurito, ma guardingo sì, di cercare in loro tracce di stranezza. Eppure, se non fosse per il modo in cui Roberto muove in continuazione le mani, a scatti, in cui intreccia le dita e le porta al naso, non ci sarebbe assolutamente nulla di anomalo in questi due miei coetanei. Mi offrono un caffè e Roberto insiste per portarmi la valigia. Quando è il momento di superare la porta girevole dell’aeroporto, però, s’immobilizza. Guardando la metà che si avvicina e l’altra che si allontana, dice: «E adesso come faccio?». Lo spingo cautamente nella direzione giusta.
In auto, nelle due ore che impieghiamo a raggiungere il campo, Marco mi parla della «montagnaterapia», del progetto inaugurato dodici anni fa nel centro di salute mentale di Villacidro: portare i malati in montagna, a camminare. Un’idea semplice che ha richiesto un sangue freddo fuori dal comune, perché chi se la prende la responsabilità di un gruppo di uomini e donne con allucinazioni costanti, storditi dalle voci e dai farmaci, spesso spaventati di uscire anche solo dalla propria stanza; chi se la prende la responsabilità di farli camminare su sentieri esposti e di farli dormire in tenda o all’addiaccio in mezzo alla natura? L’hanno fatto loro, il dottor Coni e i suoi collaboratori, Ignazio e Antonello, la prima volta con nove malati poi, vedendo che funzionava, che la montagnaterapia evitava dei ricoveri penosi (e costosi), con gruppi sempre più grandi. Negli anni scorsi hanno affrontato trekking impegnativi, qui nel Medio Campidano, in Ogliastra, sulle Apuane, e una volta sono andati in Nepal, sopra i cinquemila. Gruppi simili sono nati in tutta la Sardegna e altri sono sparsi per il Continente. Ma i fondi destinati alla riabilitazione sono scarsi, da sempre, e il progetto è in costante agonia. Ecco perché sono qui, ecco perché la sfida: è necessario che Andalas de Amistade, l’organizzazione di cui Marco è presidente, si faccia conoscere e sostenere.
«La montagna cura perché è metafora della nostra vita», mi dice, «salita, discesa, il percorso che si fa più accidentato, e che a volte scompare del tutto. Io ho avuto l’esordio della patologia a diciassette anni e senza il trekking mi sarei bruciato. Bruciati sono quelli che finiscono in casa in calze e ciabatte». Ascoltandolo, mi torna in mente un libro di Thomas Bernhard che ho letto da poco, per pura casualità, un libro sulla connessione intricata fra il camminare, il pensare e l’ammattire. Riprendendolo, più avanti, troverò queste righe sottolineate: «È un attimo quello in cui la pazzia subentra, è un attimo solo, in cui chi è colpito d’un tratto è pazzo». Quando siamo già sullo sterrato che ci sta portando dagli altri, Marco mi stende con un pensiero che potrebbe trovarsi in quello stesso libro: «L’anima viene violentata da certe patologie», dice, «ma la nostra sofferenza ha un senso: noi siamo onestissimi, perché sappiamo guardare in faccia la verità».
Ci siamo addentrati nella foresta del Montimannu e il telefono ha smesso di prendere da un pezzo. Al campo le tende sono già montate non lontano da un torrente, in una zona di bosco pianeggiante. Marco e Roberto mi presentano agli altri, poi mettiamo l’acqua negli zaini e c’incamminiamo, indistinguibili da un gruppo qualsiasi di escursionisti, se non fosse per le magliette rosse tutte uguali e il rito dell’ultima sigaretta consumata con voracità un attimo prima della partenza (Andalas, me ne accorgerò presto, è il gruppo di scalatori-tabagisti più incallito della storia, ma la regola è che camminando non si può fumare).
Un canto della Brigata Sassari è stato modificato ed è diventato il loro inno, lo cantano, anzi lo urlano, per i primi cinquanta metri: «Eeeeeho! Sconfiggiamo ogni malattia, camminando primavera inverno estate. Eeeeeho! Giriamo tutta la Sardegna senza temere la gente maligna». Le parole sono in sardo, ma Renato mi aiuta a tradurle. È l’ultimo arrivato, ha trentaquattro anni e una storia di malattia mentale che risale a entrambi i genitori. Dopo il diploma da geometra, si è chiuso in camera sua per cinque anni: «Non sapevo nemmeno più come fosse fatto il cortile di casa. Solo camera-bagno-camera, e il computer: chat, videogiochi». Da un anno fa trekking e a settembre vuole tentare il test d’ingresso a medicina.
È l’una, il sole a picco, ma andiamo avanti. Cespugli di mirto e di lentisco, corbezzoli, piccole farfalle giallo limone che svolazzano inquiete sulle pietraie. Mentre Renato arranca al fondo della fila, Aldo, il più anziano, procede in testa. Ha un fisico da atleta, dice che è per via di tutti i lavori che ha fatto nella vita: il panettiere, l’autista, le pulizie nelle case delle signore ricche di Copenaghen. «Volevano tutte me, ma ero troppo meticoloso, ci mettevo più tempo degli altri e alla fine il padrone mi ha licenziato». A diciassette anni, mi dice, si è aperto le vene. Accompagna quell’informazione con un gesto così preciso da darmi i brividi. Da dietro, Daniele lo sfotte accennando la canzone di Little Tony: «Un cuore matto...».
Dev’essere la mia presenza, ma quando arriviamo in cima Marco fa notare che abbiamo percorso in venti minuti la strada che di solito richiede tre quarti d’ora. «Devi considerare che qui prendiamo tutti medicinali», mi spiega, «quello che alla gente sana costa fatica, a noi costa cento volte quella fatica». D’un tratto diventano pigri, è la stanchezza oppure quella constatazione, vorrebbero tornare subito alle tende, ma il sentiero prosegue, c’è l’indicazione di una cascata, così sono io a insistere. Mi assecondano, alcuni controvoglia. Appena ci rimettiamo in marcia mi chiedo se ho fatto bene, se il mio non sia stato un azzardo.
Scendiamo verso Piscina Irgas, mentre Daniele non smette di lamentarsi per come sarà il sentiero al ritorno, ripido, assolato, insopportabile. Ma la visione della cascata vale lo sforzo. Marco e Aldo apparecchiano un masso piatto per il pranzo, Federico si spoglia e si sdraia sul greto del torrente, nell’acqua gelida. Mentre mangiamo, ci sorpassa un gruppo di francesi, giovani, tra loro ci sono due ragazze molto belle, ma nessuno osa guardarle né commentare. Daniele si avvicina e mi dice: «Da bambino venivo qui con mio padre». Una libellula cattura il suo sguardo: «A volte la paura è passeggera, puoi riderci. Ma altre volte la paura è indescrivibile».
La paura: viene sempre fuori, in ogni discorso, spesso legata all’esordio della malattia, a diciassette, a venti, a ventinove anni. «È un attimo quello in cui la malattia subentra...». Poi l’isolamento per mesi o anni, il ricovero, il Tso o i Tso, la medicalizzazione infinita, l’esclusione sempre più grave dal mondo e dalle persone. Ogni storia di follia è innanzitutto una storia di emarginazione. «Quando ti chiudi in casa diventi una spina nel cuore dei tuoi famigliari, degli amici», così Giovanni. «Il malato psichiatrico fa paura, ma in realtà il malato psichiatrico ha paura», così Marco. «Prima non uscivo di casa, mi prendevano in giro, mi picchiavano», così Massimiliano. «Eh, vabbè, è finita. Ora semus fortes», così Daniele, dandogli una pacca. Ora siamo forti, ora che abbiamo il trekking.
Rifocillati, torniamo indietro. Il primo tratto di salita è duro sul serio. Alle mie spalle Roberto, che è asmatico, emette un rantolo preoccupante. Gli propongo di fermarci, di bere un po’ d’acqua, invece lui mi chiede: «Tienimi la mano». Così, mano nella mano, con una naturalezza e un candore che sarebbero impossibili nel mondo dei sani, torniamo in cima, poi lui lascia la presa e iniziamo a scendere, leggeri.
Prima di raggiungere il campo avvistiamo un’ansa del torrente dove l’acqua è più profonda. Ci spogliamo, entriamo. Mi accorgo, senza vera sorpresa, di aver dimenticato ormai da ore di essere in campeggio con un gruppo di malati psichiatrici, che con ogni probabilità stanno negoziando anche in questo preciso istante con le voci che gli affollano il cervello; ho dimenticato di essere qui, a giocare fra gli schizzi, con uomini che fino a cinquant’anni fa sarebbero stati chiusi in un manicomio e dimenticati, ognuno di loro, nessuno escluso. «Questa è la nostra scoperta. Il malato non è solamente un malato ma un uomo con tutte le sue necessità», scriveva Basaglia. Immerso in questa pozza, mi sembra quasi che, così come nell’acqua limacciosa si specchiano gli alberi intorno, nelle profondità della malattia mentale si specchi la civiltà dei sani, nel suo modo di trattarla il suo grado di progresso. Fra cinquant’anni, è probabile, la realtà attuale della psichiatria ci denuncerà come barbari, proprio come il ricordo dei manicomi e degli Opg denuncia l’incuria dei noi stessi di pochi decenni fa.
Arriviamo al campo ancora umidi, un odore di alghe sulla pelle che mi terrò addosso fino a domani. Prima di cena si fa il cerchio terapeutico. È un momento chiave, che va ripetuto al mattino e alla sera. Giovanni mi spiega le regole: «Non si aggredisce. Non s’interrompe. Non si fuma. Non si va in bagno. Quello che viene detto nel cerchio non è oggetto di discussione fuori».
Federico prende la parola per primo, per tutto il giorno non ho quasi sentito la sua voce. Dice che assorbe la luce bianca, ma quando il cielo è grigio si sente male. Dice: «Le ragazze sono belle, ma poi ridono come oche, ti uccidono». Dice che oggi sono in dieci, lo pressano. Dice: «Qualcuno deve leggere il libro della tua storia». Immagini incoerenti, come se la moltitudine che lo abita si fosse messa all’improvviso a parlare tutta insieme, come se Federico potesse esprimersi solo all’interno del cerchio terapeutico, e solo in poesia, perché la prosa è insufficiente. Dopo di lui proseguono gli altri, s’inseguono in associazioni di cui a volte perdo il filo. Più li ascolto, più mi accorgo che la loro patologia non è affatto un altrove, è semmai un essere più in là, troppo vicino a una soglia di dolore. La follia, raccontata da loro, è solo una forma acutissima di sofferenza.
Più tardi aiuto Marco a cucinare, mentre gli altri apparecchiano e Renato si allontana per cercare delle bacche di ginepro da aggiungere all’agnello. La cena prevede anche pasta al ragù, formaggi, due vassoi di dolci sardi. Chiedo a Marco da dove arrivi tutta quella roba. «È Roberto a procurarla. Ha i numeri di telefono di mezza Sardegna, chiama tutti in continuazione, perciò ti consiglio di non lasciargli il tuo, è capace di farti anche dieci telefonate in un giorno. La settimana scorsa mia madre mi dice di scendere, Roberto ha lasciato qualcosa per me. Era un maiale intero, gliel’aveva regalato un pastore».
Mentre la carne cuoce, mi siedo accanto a Daniele. Gli altri lo rimproverano spesso di non fare abbastanza, Aldo lo sgrida anche adesso, perché non lo aiuta a spalmare la ricotta sul pane invece di fumare? Daniele non si offende, ma poi non fa nulla. «Non sono portato per nessun lavoro», mi dice, «i miei avevano un bar, ma non ero buono nemmeno per quello. Invece di lavorare me ne andavo al Why Not, a Marrubiu. Una sera ho incontrato questa ragazza. Siamo usciti, volevo portarla in macchina, ma è arrivata una sua amica a dirle che dovevano andarsene. Quando sono tornato dentro l’ho vista sulla pista che baciava un altro. Mi sono chiuso in macchina e mi sono messo a piangere». «Ho avuto solo un grande amore», così Daniele, «ho iniziato a farle stalking e sua madre ha minacciato di denunciarmi». «A ventun anni ho cominciato ad allucinare», così ancora Daniele, «parlavo con le automobili, soprattutto con una. Ora prendo 75 milligrammi di Haldol intramuscolo, una volta al mese, ma nelle prime settimane, quand’ero sedato, perdevo la bava, lo vedevano tutti». Poi ride di sé e di tutto quel travaglio, che è passato da quando fa trekking, è passato eppure incombe.
Si sono radunati altri, c’è anche Massimiliano. Daniele lo sfotte perché non ha voluto fare il bagno nel torrente: «Hai le tue cose?», gli dice. La battuta piace, ridiamo e io mi sento ormai così a mio agio che dico: «Questa la metto nell’articolo». Allora succede qualcosa. In un attimo il terrore assale Massimiliano. Inizia a chiedere insistentemente a Daniele perché l’abbia detto, perché l’abbia trattato come una femmina, ora lo leggeranno tutti sul giornale, lo prenderanno in giro. Poche parole sbagliate l’hanno gettato nell’abisso che probabilmente ha costeggiato per tutto il giorno. Interviene Marco, interviene Renato, lo rassicurano e poi lo inquisiscono sul fatto che abbia preso o no la terapia. Ma non c’è modo di tranquillizzarlo, Massimiliano è lontanissimo, tutto preso dentro una tenebra, tiene i palmi rigidi, rivolti all’insù come se fosse crocifisso, l’angoscia che gli è montata è terrorizzante anche solo da guardare. Strappo davanti ai suoi occhi il foglio del taccuino su cui ho preso maldestramente un appunto, gli giuro che non scriverò nulla del bagno e della battuta, ma neanche quello serve. Qualcosa si è innescato. Eccola, la psiche come un campo minato, un passo fuori dal sentiero e salti in aria. Alla fine Massimiliano si allontana verso le tende, vuole andare a dormire. «Me ne occupo io», dice Renato seguendolo. Noi restiamo intorno al tavolo apparecchiato, senza parole. Mi sento avvilito e responsabile. Da un albero arriva il verso di un assiolo. La serata sembra rovinata del tutto.
La mattina seguente Massimiliano mi racconterà delle voci dei vicini che sente da anni, che gli suggeriscono costantemente di ammazzarsi, oppure che lo ammazzeranno loro, e io penserò a quale pericolo l’ho esposto con la mia superficialità. Ma durante quell’attesa non lo so ancora. Passano una decina di minuti prima che tornino, lui e Renato. Massimiliano mi tocca una spalla, come se fossi io a dover essere consolato. «Puoi scriverlo nell’articolo», mi dice. Gli altri lo applaudono. La cena dopo è una festa, la carne d’agnello morbidissima. Restiamo alzati fino a tardi, qualcuno munito di pila frontale fa la spola con il torrente per lavare i piatti e chi deve prendere la terapia si concede di ritardarla, perché con i medicinali scende la «callella», il sonno dolce.
La mattina è occupata dalle operazioni di smontaggio delle tende. Carichiamo gli zaini, controlliamo di non aver lasciato in giro immondizia o mozziconi, poi prendiamo la mulattiera, verso valle. Ho la sensazione di essere stato accudito nelle ultime ventiquattro ore, accudito da una fragilità, da una dolcezza e da un’assenza limpida di giudizio che semplicemente non esistono nel mondo dei sani. Mentre camminiamo chiedo a Federico perché si sia tatuato un leopardo sull’interno del braccio. «Ne vorrei uno in casa».
Non è troppo aggressivo?
«Se gli dai il latte da cucciolo e lo tratti bene, non diventa aggressivo».
La sua risposta mi sembra tutto quello che occorre dire sulla malattia mentale.
Ci fermiamo per l’ultimo cerchio in un bosco di eucalipti. C’è un po’ di commozione e trascorrono alcuni minuti prima che qualcuno prenda la parola. Per un po’ evocano altri membri del gruppo che si sono allontanati. Una ragazza si è lasciata andare parecchio e un altro si è chiuso in casa, non risponde nemmeno ai messaggi. Ma loro perseverano nel cercarli, il gruppo li aspetta. Poi parlano della «montagnaterapia», di come li ha cambiati. Gli eucalipti mandano un odore forte, che satura l’aria, le foglie secche cadono a terra spiraleggiando. C’è un altro lungo silenzio. Poi Renato aggiunge: «Si passa dal considerarsi completamente malati, al sentirsi solo in parte malati, al sentirsi di nuovo delle persone. Persone che stanno guarendo». Perciò, se potete, chiamateli così.

Corriere La Lettura 12.8.18
La tesi di Iliffe
Fede e numeri: il metodo di Newton laico devoto
di Stefano Gattei


Che Isaac Newton (1642-1727) fosse profondamente religioso è noto. Che avesse studiato alchimia, teologia e le profezie bibliche, e che avesse approfondito la cronologia antica, non lo è altrettanto, anche se gli studiosi lo considerano ormai un dato acquisito («la Lettura» #69 ne scrisse il 10 marzo 2013). Per anni, tuttavia, gli ammiratori dei Principia mathematica o dei lavori sul calcolo infinitesimale hanno faticato a riconciliare ambiti di ricerca così apparentemente lontani, tanto che non pochi studiosi hanno avanzato l’ipotesi che gli interessi religiosi e pseudoscientifici del grande scienziato (molti dei quali affidati a manoscritti pubblicati dopo la morte) risalissero agli ultimi anni della sua vita, costituendo quindi un sorta di prodotto «senile» del genio. Nel suo ultimo studio sullo scienziato inglese (Priest of Nature: The Religious Worlds of Isaac Newton, Oxford University Press, 2017) Rob Iliffe mostra l’infondatezza di tale lettura. Professore a Oxford, e direttore del Newton Project, Iliffe prende ferma posizione contro quanti hanno inteso sostenere che gran parte delle ricerche newtoniane siano il residuo imbarazzante di superstizioni. Parallelamente al racconto della vita dello scienziato, Iliffe ricostruisce come Newton abbia gestito il difficile rapporto tra la propria immagine pubblica e le sue credenze religiose, e ne esplora gli scritti meno noti, soffermandosi sulle idee in tema di creazione del mondo e di Apocalisse, e analizzando la sua tesi che le dottrine centrali del cristianesimo (in particolare sulla Trinità) non fossero che mostruosa idolatria, perversioni sataniche della vera religione. Agli occhi di Iliffe, non solo le convinzioni religiose di Newton permeano le sue prime ricerche scientifiche, ma le tecniche da lui impiegate per smascherare la corruzione della dottrina cristiana delle origini sono simili a quelle utilizzate per confutare le tesi degli avversari in ambito scientifico. Per Iliffe, Newton è stato un laico devoto che ha messo al centro della propria riflessione la libertà e l’indipendenza del pensiero.

Corriere La Lettura 12.8.18
Tradizioni Sul calendario romano nei secoli si sovrapposero le celebrazioni cristiane
Feriae Augusti Ecco il primo «ponte festivo»
di Marco Rizzi


I Romani, considerando quelli antichi, non erano grandi lavoratori, almeno non nella misura che intendiamo oggi. Pur avendo sviluppato una sofisticata civiltà urbana con tutte le dinamiche proprie di una città, anzi di una metropoli, la scansione del tempo nella Roma capitale imperiale restava legata alle lontane origini contadine e al ciclo caratteristico della cura dei campi. Così, le giornate di festa che seguivano la vendemmia determinavano pure la sospensione delle attività forensi, e il solstizio d’inverno a dicembre, quando la seminagione era conclusa e si trattava ormai solo di aspettare il raccolto, forniva l’occasione per celebrare i Saturnalia in onore di Saturno, dio dell’abbondanza, con banchetti che duravano più giorni e lo scambio reciproco di doni. Al termine dei lavori agricoli estivi, invece, si tenevano i Consualia, per ringraziare il dio Conso, il dio «nascosto», per l’avvenuta mietitura del grano. Secondo Livio, era stato lo stesso Romolo a istituire la festa, per invitare le popolazioni vicine a intervenire e potere così rapirne le donne, in quello che è passato alla storia con il nome di «ratto delle Sabine».
Come che sia, tra luglio e agosto le feste a Roma si andarono moltiplicando, finché nel 18 a.C. l’imperatore Augusto, al culmine del potere, nello stesso anno in cui promulgò le leggi che reprimevano il lusso, l’adulterio e la corruzione, pensò bene di concedere un ulteriore giorno di festa il primo di agosto (Kalendae Augusti), che prese così il nome di Feriae Augusti. In questo modo, si creò il primo ponte festivo della storia, che unificava e prolungava le celebrazioni preesistenti, garantendo un consistente periodo di riposo (gli Augustali), in cui era tradizione che i patroni, i ricchi proprietari terrieri inurbati, elargissero mance ai propri clientes e ai lavoratori che rendevano loro omaggio. Oltre agli immancabili sacrifici e banchetti, le celebrazioni prevedevano corse di cavalli, muli e altri animali da tiro.
Con la progressiva cristianizzazione dell’Impero a partire dal IV secolo, l’antico calendario delle festività romane, ormai diffuso in tutti i territori conquistati, venne poco alla volta interamente riorientato in direzione della nuova religione: il primo giorno della settimana divenne il Dies Dominicus, il giorno del Signore, la domenica, giorno di festa e perno della nuova scansione del tempo. La principale festività cristiana, la Pasqua, fu fatta coincidere, non senza lunghe discussioni, con la domenica successiva al plenilunio di primavera; si trattava comunque di un’eredità proveniente dal calendario e dalla tradizione ebraica, sostanzialmente estranea al mondo romano. Ben presto, invece, si pose il problema di sostituire le titolazioni delle festività antiche, cui la popolazione non intendeva rinunciare, vuoi per abitudine, vuoi perché pur sempre corrispondenti alla scansione delle attività economiche, ancora determinata dalla suddivisione dei tempi della vita agricola.
Nacquero così, nel corso dei decenni immediatamente successivi, una serie di celebrazioni che vennero a sovrapporsi a quelle preesistenti; il caso più evidente è quello del Natale, che sostituì i Saturnalia, conservando però l’usanza dello scambio dei doni e in Occidente — quasi a compensazione — mutuando il periodo di preparazione (l’Avvento) da quello che precede la Pasqua (la Quaresima). Lo sviluppo della devozione per la Madre di Cristo, la Vergine Maria, attestato già nel II secolo, favorì la nascita di festività che la vedevano protagonista, per lo più accanto al Figlio, di episodi narrati nei vangeli, come l’Annunciazione o la presentazione di Gesù al Tempio. Il fiorire del culto mariano, confermato dal concilio di Efeso del 431, venne alimentato e diffuso da numerosi scritti non entrati nel canone del Nuovo Testamento, ma di grande impatto sulla religiosità e la teologia tardoantica (i cosiddetti Apocrifi); si aggiunsero così ulteriori spunti per procedere alla completa cristianizzazione del calendario.
Tra questi testi, particolare rilievo ebbe la cosiddetta Dormizione di Maria, il racconto cioè della sua diretta assunzione in cielo senza conoscere la morte; anche se questo specifico aspetto è oggetto di sottili discussioni teologiche (grosso modo, i teologi orientali propendono per questa soluzione, mentre quelli occidentali ritengono che la Vergine abbia conosciuto la morte), l’elemento peculiare è che Maria è salita al cielo unita al proprio corpo, unica con il Figlio, mentre tutti gli altri uomini dovranno attendere la resurrezione finale, inclusi i santi che certamente già ora godono del Paradiso, ma solo con l’anima.
Le prime tracce di una festa liturgica in onore della Vergine Assunta risalgono alla Gerusalemme del VI secolo; da lì, nel giro di pochi decenni, si diffuse in tutto l’Oriente, per essere infine accolta a Roma sotto Papa Sergio I (687-701), nato a Palermo, ma di ascendenze siriache. Questi introdusse l’uso di una processione che saliva dalla Curia di Roma antica, trasformata in chiesa, sino alla basilica costruita sull’Esquilino in onore della Vergine, l’attuale Santa Maria Maggiore, da tenersi il 15 agosto.
Alla nuova festa, come di consueto, si saldarono le antiche usanze, a partire dal nome più o meno storpiato, e per tutto il Medioevo i maggiorenti romani elargivano mance al popolo, in misure stabilite da una prassi consolidata, sino a che venne proibita da Giulio II, che aveva da pagare le ingenti spese delle sue impresi architettoniche e pittoriche. La pratica, però, rimase viva, e ancora all’inizio del Novecento se ne trovano tracce nella cultura popolare dei Paesi cattolici dell’Europa Meridionale; in qualche misura, anche il palio che si corre a Siena nel giorno successivo all’Assunta potrebbe rimontare alle corse degli antichi Consualia.
In Italia, in particolare, l’organizzazione del dopolavoro fascista promosse l’escursionismo nei giorni a ridosso del Ferragosto, che divenne così la vacanza per eccellenza. La proclamazione del dogma dell’Assunzione di Maria da parte di Pio XII nel 1950 la trasformò in una delle principali ricorrenze del calendario cattolico; la festa della Dormizione di Maria è celebrata anche da alcune chiese appartenenti alla comunione anglicana.

Corriere La Lettura 12.8.18
L’arte degenerata
Due generazioni di pittori spesso dvastati dallo stress post traumatico della Prima guerra mondiale, messa sotto accusa dal delirio purificatore nazista
di Matteo Persivale


Il 1° febbraio 1933, appena preso il potere, Adolf Hitler proclamò la fine della repubblica di Weimar che descrisse come un periodo di declino e anarchia e comunismo che aveva infettato lo spirito tedesco. A lui sarebbero bastati quattro anni, garantì, per rinnovare lo spirito della Patria. Strumento centrale, in questa iniziale Konsolidierungsphase, fase di consolidamento del nazismo, sarebbe stata l’arte. Pochi mesi dopo, il 3 settembre, in un comizio a Norimberga descrisse l’arte come un’arma: di attacco contro i valori corrotti di Weimar ma anche come «lo strumento piu fiero per difendere il popolo tedesco». Era l’oscura incoronazione di un metodo. Un totale coordinamento degli organi dello Stato, il Gleichschaltung che avrebbe rapidamente nazificato la Germania, creando un popolo nuovo anche attraverso l’influenza di un’arte nuova, purificata da quella, corrotta, del recentissimo passato. Hitler incaricò tre uomini: Joseph Goebbels, Alfred Rosenberg, Bernhard Rust.
Dopo l’estate, Goebbels aveva già creato la Reichskulturkammer, la Camera della Cultura sotto lo stretto controllo della quale veniva posta ogni attività intellettuale della Germania. Non esisteva ancora un’arte nazista, ma in quei primi mesi di «consolidamento» si diffusero per tutta la Germania mostre definite «camere degli orrori» dove l’arte moderna veniva indicata come inaccettabile. Nacque così la guerra all’«arte degenerata», Entartete Kunst, definizione che fin dagli anni Venti i nazisti utilizzavano per il modernismo visto come antitedesco, cosmopolita e per sua stessa natura antitetico a quella che era già allora l’esigenza principale di Hitler, la progressiva militarizzazione della società. L’arte non corrotta era quella rispettosa di Blut und Boden, la purezza del sangue e del suolo patrio. Sarebbero stati emarginati artisti modernisti, ebrei e cosmopoliti (per non parlare ad esempio dell’allora nuovissima tendenza del jazz americano, bollato come «musica negroide» inaccettabile per motivi razziali prima ancora che estetici).
Fino al 1936, con la necessità di dare al mondo durante l’Olimpiade di Berlino una fasulla impressione di apertura, era ancora possibile organizzare mostre di arte moderna. Terminata l’Olimpiade, Goebbels fece chiudere numerose mostre e annunciò una fase nuova, con «misure sistematiche, e a lungo termine, di conservazione culturale». Nel 1937 il quadriennio di Gleichschaltung poteva dirsi concluso. Monaco, capitale artistica come Berlino era quella politica, ospitò la prima grande mostra di Arte Germanica, organizzata dal Partito. Poco lontano, Goebbels decise di aprire anche una mostra di «arte degenerata» — per fornire in modo netto il contrasto visivo tra il «prima» e il «dopo» — con settecento opere esposte. Nelle foto dell’inaugurazione c’è Goebbels con il famoso impermeabile chiaro e il cappello, ma quel che conta è il discorso di Hitler: «D’ora in poi, dichiareremo una guerra durissima, e spazzeremo via quel che resta di ciò che aveva provocato la nostra decadenza culturale». Traduzione: confisca di tutte le opere d’arte moderna rimaste in Germania, tra musei, istituzioni, collezioni private di ebrei. Ventuno mila opere in tutto.
Due straordinarie mostre a Londra, aperte in contemporanea, ed entrambe lodevolmente gratuite, ripercorrono questo snodo dell’arte del Novecento. La Tate Modern, fino al 14 luglio 2019, presenta Magic Realism: Art in Weimar Germany, 1919-1933. Alla Weiner Library, prestigioso centro studi sulla Shoah di Russell Square, dietro il British Museum, London 1938: Defending Degenerate German Art, fino al 14 settembre. La Tate Modern rende omaggio al critico e storico dell’arte Franz Roh che nel 1925 coniò la definizione di «Realismo magico» (poi accantonata a favore di Nuova Oggettività: oggi quando si parla di Realismo magico si pensa generalmente alla letteratura sudamericana) per raccontare la nuova tendenza postimpressionista che dopo la fine della Prima guerra mondiale presentava una «realtà trasfigurata», la continuazione della guerra (che molti artisti avevano combattuto in trincea) con altri mezzi.
Otto Dix, George Grosz, Harry Heinrich Deierling, Rudolf Schlichter, Albert Birkle, Jeanne Mammen portano alla Tate lo spirito di un’era che non riusciva a dimenticare l’orrore della Prima guerra mondiale: per usare una terminologia contemporanea, è l’arte dello stress post traumatico. Ecco il suicida di Grosz che giace in una strada rosso sangue, con la prostituta a seno scoperto che guarda dalla finestra e l’impiccato appeso al lampione che anticipano di ottant’anni gli incubi di David Lynch; ecco le due donne impiccate nello studio dell’artista immaginate da Schlichter; ecco il Delitto passionale di Dix con l’uomo con la bombetta e la donna massacrata e seminuda sul pavimento. È l’arte di un’estetica nuova partorita nelle trincee della Prima guerra mondiale, che non poteva non entrare in rotta di collisione con la mobilitazione hitleriana per preparare la Germania a una nuova guerra, alla rivincita.
La mostra della Wiener Library ci presenta uno dei momenti piu nobili della storia dell’arte del Novecento, la mostra londinese che nell’estate del 1938 raccolse le opere «degenerate» sfuggite a furti e confische naziste, un successo enorme alle New Burlington Galleries con trecento lavori di Kandinsky, Beckmann, Kokoschka, Klee, Dix. Una mostra che attirò 12mila londinesi nelle prime settimane, estesa per un altro mese, sponsorizzata tra gli altri da Pablo Picasso e dalla famiglia Churchill. Alla Wiener Library c’è il ritratto di Einstein di Max Liebermann, il piu grande scienziato ebreo visto da uno dei più grandi pittori ebrei, opera sfuggita per miracolo ai nazisti. E alla Wiener c’è pure una lettera, difficile dire se più sconvolgente nella sua crudeltà o più ripugnante nella sua cortigianeria: Rosenberg che scrive a Hitler, con toni di ridicolo servilismo, che non vede l’ora d’incontrarlo personalmente per raccontargli la grande quantità di opere d’arte confiscate, cioè rubate, ai loro proprietari. Turba, ma in qualche modo riesce a confortare: l’arte è fragile, ma è anche tanto potente da aver fatto tremare la macchina dello sterminio nazista, e a averla costretta a dichiararle guerra.

Corriere La Lettura 12.8.18
Oceania
Gli arcipelaghi della metamorfosi
Il continente frutto di ondate migratorie che hanno esaltato inventiva a capacità di adattamento delle sue genti
di Adriano Favole


Qualche giorno fa, un amico francese di ritorno dalla Polinesia mi ha raccontato che Aliano è molto ammalato. Non si cura e non vuole che ci si occupi di lui. Aliano è un polinesiano che vive sull’isola di Futuna, uno scoglio di 60 chilometri quadrati e quattromila abitanti, al centro del Pacifico, a qualche centinaio di chilometri dalle più note Samoa, Figi e Tonga. Quando l’ho conosciuto, una decina di anni fa, viveva da solo in un piccolo fale nel villaggio di Vele, una casa con il tetto di foglie di pandano, poggiato su un muretto di mattoni e cemento, il pavimento di corallo sbiancato. La mattina all’alba partiva per i suoi campi di taro e igname sull’acuto pendio della montagna, un piccolo manou (una sorta di pareo) attorno alla vita, l’immancabile machete, due panieri di fronde di cocco intrecciate e appoggiate, come una bilancia, sulle spalle, per trasportare tuberi e banane a valle. Parla solo polinesiano, Aliano, ha frequentato le scuole alla missione cattolica prima che l’isola accedesse allo Statuto di Territorio d’Oltremare francese (1961). Quando era più giovane, beveva molta kava, la bevanda ricavata da una pianta della famiglia del pepe, praticamente ogni sera, nel fale tauasu, la «casa degli uomini».
Ricordo una notte, ero ospite della sua famiglia, mi svegliai di colpo vedendo un fascio di luce che si agitava nella vegetazione: era Aliano che cacciava gli enormi granchi del cocco (Birgus latro). I suoi figli vivono dispersi per il mondo: Koleta abita sui Pirenei e gestisce una pizzeria ambulante nei mercati dell’Ariège; Maité insegna in una scuola media a Thio in Nuova Caledonia; Otilia ha sposato un maori autista di autobus a Auckland. Il figlio primogenito di Aliano, Toma, fu uno dei primi studenti universitari dell’isola e, di rientro da Lione, introdusse il cristianesimo evangelico, incrinando 150 anni di esclusiva presenza cattolica. Philo, un’altra figlia, ha sposato un polinesiano discendente di catalani che lavora con una compagnia aerea del Pacifico e attraversa senza sosta oceani e nazioni.
L’Oceania che sarà celebrata dalla mostra della Royal Academy of Arts di Londra, 250 anni dopo la (ri)scoperta di Cook, continua a essere un continente, anzi un «mare di isole» secondo la definizione di Epeli Hau’ofa, che provoca sconcerto, perché scombina e stravolge molti concetti con cui guardiamo alle altre società. La tradizione e il radicamento di Aliano convivono con la mobilità e le vite transnazionali dei suoi figli. James Clifford scriveva che l’Oceania è abitata da «indigeni cosmopoliti». Fortemente radicati sulle isole certo, ma con una incredibile propensione al viaggio, alla creatività e all’espansione delle loro culture. Una complessa tessitura di popoli, l’Oceania, fatti di «radici» e «strade», roots and routes, secondo il gioco di parole inglese che dà il titolo a uno dei più noti libri dell’antropologo americano (Strade, Bollati Boringhieri, 2008).
Lo sconcerto che, fin dall’inizio, colpì gli esploratori occidentali fu trovare già abitata ogni grande isola o piccolo scoglio dotato di un minimo di terra fertile e di possibilità di approvvigionamento di acqua dolce. La domanda che risuona fin dagli inizi settecenteschi dell’epopea europea in Oceania insulare è infatti: come sono arrivati fino a qui? Come è possibile che esseri umani, giudicati al solito dagli europei come «primitivi» e «naturali», che non lavoravano i metalli, fossero approdati su isole, come Pasqua, le Pitcairn, Tuvalu o Kiribati, a migliaia di chilometri dalle terre più vicine?
Oggi sappiamo come andarono le cose, grazie ai saperi nativi e alle indagini della scienza. Semplificando, si può dire che l’Oceania è stata oggetto di tre principali ondate di popolamento. La prima, risalente secondo alcuni fino a 60 mila anni fa, vide l’arrivo di Homo sapiens in Papua Nuova Guinea e in Australia. Erano i lontani antenati di quelle popolazioni che vennero definite Papua, Aborigeni Australiani e Nativi dello Stretto di Torres. Questa ondata si arrestò su alcune grandi isole melanesiane, senza fare il grande balzo verso l’Oceania remota.
La seconda ondata iniziò circa 5 mila anni fa nell’Estremo Oriente, con tutta probabilità a Taiwan, quando gruppi di abili navigatori cominciarono a viaggiare verso est, insediandosi (prevalentemente) sulle coste delle isole indonesiane, in Papua Nuova Guinea e spingendosi poi con un processo di stop and go fino alle estremità orientali del Pacifico e fino, a ovest, alle coste del Madagascar. Queste società, dette «austronesiane» (una categoria linguistica) o «lapita» (dal nome della ceramica decorata che produssero fin verso l’anno mille), esplorarono sistematicamente il più grande oceano del pianeta, raggiungendo le ultime destinazioni (Aotearoa/Nuova Zelanda e Hawaii) poco più di 500 anni fa, un paio di secoli prima di Cook in effetti. Il loro successo fu legato principalmente alle complesse tecniche agricole e alle abilità di navigazione e orientamento. Questo processo di espansione fu anche una incredibile storia di trasformazioni e differenziazioni culturali e linguistiche. Nella sola Nuova Guinea si parlano tuttora 820 lingue. Complessivamente l’Oceania vanta 1.100 lingue parlate, un quarto della ricchezza linguistica del pianeta.
La terza marea di popolamento è quella che ha in Cook, Bougainville, Wallis (prima di loro navigatori spagnoli, portoghesi e olandesi) e in altri esploratori gli antesignani. L’irruzione delle nazioni europee, preceduta da esploratori, balenieri, commercianti di trepang e legno di sandalo, missionari, avventurieri, divenne a fine Ottocento progetto di spartizione coloniale. Confluirono così in Oceania popolazioni e lingue europee ma anche lavoratori più o meno «obbligati» in provenienza dall’Asia, dall’Indonesia, dall’India, dall’America Latina eccetera.
Le storie coloniali furono diversissime e dagli esiti spesso incomparabili: in alcune isole e arcipelaghi gran parte delle terre vennero acquisite dalle nuove potenze, le autorità locali destituite o molto marginalizzate, le risorse minerarie e paesaggistiche spogliate e violentate (Hawaii, Polinesia francese...); in altre aree, nonostante il colonialismo, l’avanzata del cristianesimo e più di recente la globalizzazione economica, i nativi hanno mantenuto il controllo della terra e, seppure trasformati, dei sistemi politici originari (a Tonga la dinastia regale pre-europea è tuttora regnante). L’Oceania di oggi è il prodotto complesso di queste antiche e nuove ondate migratorie e di movimenti e scambi interni che hanno a volte portato violenze e terrore e a volte fecondato le relazioni interculturali.
L’Oceania contemporanea è un laboratorio di forme di organizzazione politica che hanno creativamente legato sistemi locali e democrazie occidentali. L’Australia, Aotearoa/Nuova Zelanda e gli Usa (con un peso crescente della Francia, per via dei suoi territori d’oltremare) svolgono ovviamente, e non da oggi, il ruolo di «superpotenze» del Pacifico. Accanto a esse, tuttavia, esiste un variegato insieme di micro-Stati indipendenti (Tuvalu, Nauru, Kiribati), di territori legati ad altre nazioni da «libere» associazioni (Niue, Cook, Marshall) e soprattutto una marea di isole, regioni, villaggi in cui la tradizione e la modernità si combinano in forme imprevedibili e in continua trasformazione, anche in virtù dei nuovi mezzi di comunicazione che hanno permesso di tenere insieme «isole di tradizione» e popolazioni diasporiche. La caccia ai granchi del cocco, le tecnologie informatiche, l’avanzata di sette e nuove religioni.
A torto si pensa che l’Oceania sia, vista dall’Italia, solo una sognata destinazione esotica, acque coralline, spiagge bianche e cocktail tropicali. Alcuni esploratori, da Luigi Maria d’Albertis a Lamberto Loria, ebbero un ruolo importante nel documentare e cartografare alcune aree della Nuova Guinea. Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco hanno di recente pubblicato Storie straordinarie di italiani nel Pacifico (Odoya, 2016), in cui emergono intrecci politici, economici e culturali tra l’Italia e alcuni Stati pacifici a partire da dieci biografie di italiani e italiane, spesso sconosciuti nel nostro Paese e che hanno invece lasciato tracce in Oceania. Alcune istituzioni italiane, come il Museo nazionale preistorico ed etnografico «Pigorini» di Roma e il Museo nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze conservano collezioni di grande rilevanza internazionale (peccato che la mostra di Londra non abbia attinto materiali, come è stato il caso di recente per il Museo Quai Branly di Parigi). Alcuni archivi missionari (Padri Maristi e Padri dei Sacri Cuori, Picpus, di Roma, per esempio) hanno materiali molto preziosi per ricostruire la storia dell’evangelizzazione del Pacifico. Antropologi e antropologhe italiane hanno compiuto di recente lunghe ricerche di campo in Oceania.
Per le genti del Pacifico, riscoprire il passato, dalla documentazione archivistica al patrimonio di oggetti, ha oggi principalmente il significato di ricominciare a tessere relazioni interrotte dal fatto coloniale. Si lavora e molto nella riscoperta di quell’aria di famiglia che lega lingue, culture, performance, stili dell’abitare il mondo. Davanti a un clima surriscaldato che minaccia gli atolli più indifesi del Pacifico, le società oceaniane rivendicano la loro responsabilità verso l’ambiente e l’abilità nel costruire reti di relazioni che hanno tradizionalmente funzionato come strategie di resilienza verso le grandi calamità naturali (cicloni, terremoti, tsunami, siccità) che queste società insulari hanno dovuto affrontare.

Repubblica 12.8.18
Quelle dittature che minacciano la democrazia
di Eugenio Scalfari


L’Europa sta attraversando un periodo molto agitato.
A dire il vero, il periodo è convulso per tutto il mondo per diverse ragioni, due delle quali dominano su tutte le altre: la prima è il clima, le cui variazioni sono arrivate a un punto di estrema intensità e aumenteranno ampiamente nei prossimi anni e secoli. L’Onu e anche alcuni singoli Paesi stanno cercando di studiare le zone più interessate, ma finora l’importanza di quanto sta avvenendo e di quanto avverrà sfugge alla grandissima maggioranza della pubblica opinione mondiale. Affrontare la situazione con opportune analisi è comunque necessario anche se quel mutamento climatico non sarà fermato.
Oltre al clima, e in qualche modo connessa a questo tema, si profila sempre di più la mobilità dei popoli. Non dipende solo dai mutamenti climatici, ma pure dai diversi sistemi di vita che incitano i popoli poveri a dirigersi verso i continenti e le nazioni più ricchi. Papa Francesco affrontò qualche tempo fa questo problema e lo chiamò «meticciato», cioè l’integrazione di una razza con l’altra.
Questi movimenti si svolgono in varie zone. Sono particolarmente intensi in molte aree del globo e soprattutto verso l’Europa.
Di qui la nascita del movimento politico razzista, di cui l’Italia ha una delle espressioni più forti. Il meticciato comunque non è un fenomeno facilmente avversabile, creerà scontri crescenti, ma anche positive integrazioni.
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In tutti i fenomeni della nostra vita c’è il bene e c’è il male: questa è la legge che ci governa.
***
Nei giorni scorsi è accaduto un fatto nuovo con epicentro in Turchia: la lira turca, infatti, è stata colpita precipitando sui mercati mondiali e penalizzando soprattutto Paesi come la Spagna, le cui banche e il cui governo sono largamente impegnati sulla lira turca. Lo stesso fenomeno è avvenuto per le grandi banche di Paesi europei, specialmente quelli che fanno parte della Nato, cui partecipano anche gli Usa e la Turchia. Non a caso Erdogan ha invocato l’aiuto di Putin, che non appartiene ad alcuna struttura occidentale né politica né economica, salvo per i gasdotti che attraversano l’Europa dell’Est e raggiungono da una parte il Baltico e da un’altra il Mar Nero, e quindi il Mediterraneo. Insomma, è anche un problema che riguarda il petrolio, lo strumento che a volte suscita vasta domanda di lavoro e crea ricchezza e potere politico.
Quanto è accaduto alla lira turca e alle banche di molti Paesi interessati a quanto successo sui mercati finanziari è certamente un fenomeno serio e grave, ma transitorio. Non può essere paragonato alla crisi mondiale, che si è ripetuta due volte e ha sconvolto in maniera totale il sistema economico e anche politico del mondo intero. Questi sconvolgimenti globali avvennero rispettivamente nel 1929 e nel 2007.
La Turchia è un Paese politicamente dittatoriale che sempre ha avuto egemonia su una parte del mondo arabo e di quello balcanico. Quello arabo fino al Marocco, quello balcanico fino all’Ungheria, alla Serbia, alla Macedonia. Ma alle spalle di questo mondo c’è sempre stata la Russia. Se si vuole risalire a una storia molto lontana e quasi mitica, si arriva addirittura ad Alessandro Magno, che creò un impero di dimensioni mondiali.
L’interesse di Putin e di Erdogan è di stare insieme e con motivazioni che non sono soltanto economiche e bancarie, come quelle che si sono verificate in queste ultime ore. La Russia di Putin e la Turchia di Erdogan hanno interessi comuni che, date le diverse dimensioni dei due Paesi, incitano soprattutto Ankara a farsi amica di Mosca. La Russia ha sempre avuto interessi ad ampliare il proprio raggio d’azione verso il Sud e in particolare il Mediterraneo e il mondo arabo. Va ricordato il caso dell’Egitto, quando la monarchia fu abbattuta dalle forze militari mobilitate dai generali Naguib e Nasser. La Turchia fu per loro un punto di riferimento, ma al di là di essa il sostegno ideologico e politico fu indirizzato dall’Egitto alla Russia. Putin, del resto, coltiva il progetto, che potrebbe definirsi un vero e proprio sogno politico, di allargarsi verso l’Africa centrale e dalla Crimea all’Egitto, attraverso il Mar Nero e i Dardanelli. Lo scontro che questo grande disegno politico delinea non è tanto con l’America di Trump quanto con l’Europa tedesca e francese.
E l’Italia? All’epoca in cui questi progetti erano già coltivati e i comunisti in Italia erano guidati da Togliatti, l’Italia aveva una robusta rappresentanza comunista, ma poi, quando arrivò Berlinguer, questa rappresentanza si trasformò rapidamente in una forza politica nazionale. Il Pci diventò in pochi anni Pds e alla fine Partito democratico.
Da quel momento il nostro Paese ebbe una sinistra democratica, cosa che da tempo non avveniva. Oggi, tuttavia, molte cose sono cambiate: la sinistra ha subito molte sconfitte e l’Italia è ormai guidata da un governo gialloverde, che negli ultimi tempi ha cominciato a operare anche in Europa, che finora era stata un terreno ignorato. Da qualche mese non lo è più e anzi la presenza dei “gialloverde” nella politica europea è diventata notevole. Salvini ha un rapporto molto stretto con Putin (anche Berlusconi ce l’ha, ma è un rapporto di natura completamente diversa). Il problema delle conseguenze che da questa presenza possono derivare non tanto per l’Europa quanto per noi è complesso e va esaminato.
***
La Lega di Salvini in Europa è alleata con altre forze che condividono le stesse idee. C’è anche una massa razzista nelle periferie delle grandi città europee, così come in intere regioni. Rappresentanza a doppio senso: i bianchi dominano in molti territori e gli uomini di colore provenienti dalle colonie che i Paesi europei hanno avuto nel mondo intero, dall’Africa all’India, in altri.
Il sentimento razzista fino a poco tempo fa non era tanto diffuso in Europa. Adesso, quasi di colpo, la situazione è cambiata: la pacifica convivenza ha dato luogo a una contrapposizione molto aspra. Il razzismo italiano patrocinato da Salvini è in questo modo diventato una forza notevole. Con un’aggiunta: il populismo, ampiamente diffuso nell’Europa degli ultimi dieci anni. Queste due forze, razzismo e populismo, rappresentano l’intero schieramento gialloverde. Attenzione però: i “gialloverde” in Europa non rappresentano l’Italia, ma un razzismo populista e/o un populismo razzista.
Accade tuttavia che il governo italiano gialloverde non acquisti da questa sua presenza europea una forza maggiore nel proprio Paese. Accade anzi che questo governo veda aumentare le divaricazioni che ci sono tra le due maggiori anime che lo compongono, rappresentate rispettivamente da Salvini e da Di Maio. Può sembrare strano che i partiti da loro guidati siano fortemente uniti in Europa e, viceversa, come governo che guida l’Italia, la maggior potenza che hanno conquistato in sede europea si stia trasfor-mando in una crescente rivalità nella politica interna di ciascuno di loro. Il populismo italiano non è affatto convergente con il razzismo della Lega, anzi gli è contrario, e viceversa. Di Maio non è razzista e Salvini non è populista. Questa situazione può apparire molto singolare: uniti in Europa, ma tanto più disuniti in Italia, dove le loro finalità non coincidono.
Chi ha carte più forti vincerà, ma attenzione: uno dei due potrebbe barare con carte false, oppure entrambi potrebbero sostenere un gioco che non corrisponde alle loro capacità e alle necessità dei cittadini. Dunque abbiamo un Paese politicamente duale. In queste condizioni, come si vede da molti segnali di preoccupazione provenienti soprattutto da alcuni rappresentanti del governo e dal Quirinale, il nostro Paese fa rimpiangere l’Italia di ieri. Talvolta ci si augura che il passato ritorni, ma con i tempi che corrono appare alquanto difficile. Così come siamo, la nostra situazione interna potrebbe addirittura peggiorare: il “gialloverde” è un’etichetta cui non corrisponde la realtà.
Il comando vero e proprio della politica italiana, e quindi anche della nostra economia, è nelle mani della Lega di Salvini. Ci stiamo dunque avviando, e in parte già siamo, verso una situazione guidata da una nascente dittatura. Sappiamo bene in Italia che cosa siano le dittature. Altre volte non possono nemmeno chiamarsi dittature, ma soltanto tirannidi. E queste sono ancora peggio, una rovina totale. Ma già è una rovina essere costretti dalla realtà a distinguere tra dittatura e tirannide, rimpiangendo una lontana democrazia. Forse è questo il compito che ci compete nell’interesse della nostra nazione e dell’Europa, della quale l’Italia fa parte.

Il Sole Domenica 12.8.18
Lettera da Praga. Tra il 20 e il 21 agosto 1968
i sovietici invasero la Cecoslovacchia e misero fine all’esperimento del «socialismo dal volto umano»
La primavera di Dubcek morì d’estate
di Emilio Gentile


Il 12 agosto 1968 giunse a Karlovy Vary, cittadina termale della Cecoslovacchia, Walter Ulbricht, che dal 1950 deteneva il potere assoluto nel regime comunista della Repubblica democratica tedesca. Era venuto per incontrare Alexander Dub?ek, eletto il 5 gennaio segretario generale del partito comunista cecoslovacco. Dub?ek considerava «l’uomo dalla celebre barbetta da capra», come lo descrive nella sua autobiografia, «un dogmatico fossilizzato già ai tempi di Stalin», e lo trovava personalmente «ripugnante». E ancor più ripugnante dovette considerarlo durante la sua visita, avvenuta mentre Dub?ek era impegnato in un asperrimo confronto con Leonid Brežnev, l’onnipotente capo dell’Unione sovietica, ostile al nuovo corso intrapreso dal partito comunista cecoslovacco per realizzare un «socialismo dal volto umano». Altrettanto ostili erano Ulbricht e i despoti comunisti di Polonia, Ungheria e Bulgaria. Da otto mesi, infatti, Dub?ek aveva avviato un esperimento di riforma del regime comunista, per affrontare la grave crisi economica e sociale, acuita dall’asfissia d’ogni vitalità culturale, che stava degradando lo Stato cecoslovacco, nato alla fine del 1918 dalla unione fra la nazione ceca e la nazione slovacca, dopo la dissoluzione dell’impero austro-ungarico,
Da tale condizione, Dub?ek voleva risollevare il suo Paese, facendo approvare dal partito comunista, il 5 aprile 1968, un «programma d’azione» elaborato dalla corrente riformatrice, partendo dal presupposto che la nascita della Cecoslovacchia era stata «un progresso importante per lo sviluppo nazionale e sociale delle due nazioni». Il regime socialista, instaurato nell’ambito della comunità degli Stati socialisti guidata dall’Unione sovietica, aveva voluto proseguire sulla via dello sviluppo nazionale e sociale, eliminando «lo sfruttamento capitalistico e le ingiustizie sociali che ne derivavano». Questo era nei propositi: nella realtà, denunciava Il programma d’azione del Partito comunista di Cecoslovacchia, era avvenuta la «deformazione del sistema politico», dovuta alla «posizione monopolistica del potere in mano ad alcuni elementi», che aveva condotto «alla paralisi dell’iniziativa a tutti i livelli, all’indifferenza, al culto della mediocrità ed ad un esiziale anonimato», a una persistente crisi economica e sociale, aggravata da «un meccanismo che creava l’impotenza e la frattura tra la teoria e la pratica», provocando una generale degradazione morale e culturale.
L’unico rimedio per sanare la crisi e consolidare il socialismo, sostenevano Dub?ek e i riformatori, era l’attuazione di un nuovo modello di «democrazia socialista», ispirata al marxismo-leninismo, promossa e guidata dal partito comunista, il quale, però doveva rinunciare al monopolio del potere, alla prevaricazione sullo Stato, al dogmatismo; restaurare i diritti civili e la libertà di espressione, di associazione, di iniziativa. Tutto questo, precisava il programma, doveva essere attuato senza rimettere in discussione in politica estera l’adesione al Patto di Varsavia, che nel 1955 aveva subordinato le democrazie alla supremazia della Russia.
Avevano però ragione il capo dell’Urss e i despoti dei regimi satellitari a considerare la democrazia socialista di Dub?ek una eresia pericolosissima, che avrebbe potuto diffondersi fra i popoli assoggettati al totalitarismo comunista. Al di là del linguaggio cauto, infatti, il programma dei riformatori era un attacco radicale al «socialismo reale» e al suo corposo, immenso sistema di dominio, fondato sul monopolio del potere concentrato nelle mani dell’oligarchia privilegiata dei partiti comunisti e delle loro burocrazie. Contro un attacco così radicale, i despoti comunisti potevano concepire un solo rimedio altrettanto radicale, già sperimentato nel 1956 in Ungheria con efficaci risultati: stroncarlo con la forza delle armi.
Così avvenne. Nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968, truppe con carri armati dell’Unione sovietica, Polonia, Repubblica democratica tedesca, Ungheria e Bulgaria, invasero la Cecoslovacchia. Dub?ek e gli altri governanti furono arrestati e trasportati a Mosca dove furono costretti, racconta Dub?ek, a fare «concessioni dolorose e umilianti per evitare il peggio», cioè un massacro della popolazione ceca e slovacca. Al potere in Cecoslovacchia furono insediati nuovamente i comunisti proni agli ordini del Cremlino. I riformatori, costretti al silenzio, furono diffamati e perseguitati come controrivoluzionari in combutta con l’imperialismo occidentale. Quasi mezzo milione furono gli iscritti espulsi dal partito; decine di migliaia abbandonarono il Paese. La «primavera di Praga», come fu chiamata, era stata stroncata.
Dub?ek, inviato come ambasciatore in Turchia, rientrato in patria ed espulso dal partito nel 1970, trovò lavoro come manovale, vivendo per venti anni sotto un controllo poliziesco quotidiano. Ebbe molto tempo per meditare sulla fine tragica della «primavera di Praga», che lui aveva coraggiosamente avviato, pensando sinceramente, col suo generoso e forse ingenuo idealismo, di poter realizzare un «socialismo dal volto umano» in un Paese accerchiato dal socialismo reale, che era nel 1968 possente e dominante, e che di «umano » in tutte le sue attuazioni, aveva soprattutto la malvagità e la volontà della più spietata oppressione.
I despoti del socialismo reale stroncarono la «primavera di Praga», per evitare che divenisse una calda estate, e incendiasse gli sclerotizzanti regimi del totalitarismo comunista. Ma l’ingenuo idealista Dub?ek ha avuto la rivincita, assistendo alla fine del socialismo reale. Nel 1989, fu eletto presidente dell’Assemblea nazionale nella rinata Repubblica democratica cecoslovacca, che lui, slovacco, tentò di mantenere unita. Un mortale incidente d’auto, il 14 novembre 1992, non lo fece assistere alla separazione fra la Repubblica ceca e la Repubblica slovacca.
Fu dunque alla fine un vincitore? Certo, lo fu, personalmente. La sua sfortunata impresa politica ha consegnato l’idealista Dub?ek alla Storia, con l’aureola di una straordinaria dignità. Ma è stato comunque sconfitto il «socialismo dal volto umano», coinvolto nella rovina del socialismo reale, che è stato sostituito dal nazionalismo illiberale nei paesi dove aveva dominato. Di socialismo dal volto umano non si parla più in tempi di «democrazia recitativa». Tuttavia, gli idealisti possono tentare una nuova impresa: realizzare una «democrazia dal volto umano», che dell’umano abbia anche, con comportamento conseguente, la mente e il cuore.

Il Sole Domenica 12.8.18
Riscoperte. L’amato figliastro divennefilonazista: un libro tratteggia la vicenda
«Giovannino», un altro dolore per Salvemini
di Gaetano Pecora

Un figlio per nemico. Gli affetti di Gaetano Salvemini alla prova dei fascismi
Filomena Fantarella pref. di Massimo L. Salvadori,
Donzelli, Roma, pagg. 165, € 25

Ci sono libri che si vorrebbe recensire con una parola sola: “leggeteli”. Questo, beninteso, se il recensore avesse voce tanto potente da abbracciare nel giro sonoro della sua esortazione assai più che un drappello di amici. Quando non è così, allora bisogna trattenersi da ogni abbreviatura drastica e spiegare perché.
E dunque: perché va letto questo libro di Filomena Fantarella? Intanto perché restituisce colore alle vicissitudini di Gaetano Salvemini che – come scrive Massimo L. Salvadori nella prefazione - «è stato un eroe del Novecento». E gli eroi (ne sorridano pure gli scettici) ci migliorano, nel senso che dalle loro gesta si ritorna sempre con uno spasimo di bene nel cuore. E poi perché l’autrice, docente a Brown, ha preso di faccia una vicenda che di solito i biografi presentano di lato e le ha dato quel compiuto sviluppo da far dire: ecco una verità nuova su Salvemini. Che non una, ma due volte venne percosso negli affetti intimi. La prima, è noto, fu a Messina quando il terremoto del 1908 gli rapì in pochi attimi la moglie, la sorella e tutti e cinque i figli. Salvemini che aveva il pudore del suo animo straziato non parlò mai di quella sciagura orribile. Mai, tranne una volta. E fu quando scrisse: «Ho sul mio tavolo un po’ di lettere della mia povera moglie, della mia sorella, dei miei bambini. Me le vado leggendo a poco a poco. E dopo averne letta qualcuna, devo smettere, perché un gran pianto disperato mi prende, e vorrei morire». Lo stesso gemito soffocato tornerà più avanti, quando una seconda tragedia – meno conosciuta – butterà all’aria l’altra famiglia di Salvemini, quella che si era costruita nel 1916, con Fernande Dauriac, i cui figli (Fernande era già stata sposata) gli rinverdirono nel cuore le tenerezze della paternità.
Fu specialmente Jean che gli rimise in circolo quella vena affettiva rimasta ingorgata tra le macerie di Messina. Era, Jean (“Giovannino”, nelle effusioni di Salvemini), un quindicenne dall’intelligenza vivacissima, e fin da allora pacifista convinto. Nel vedere come tanta virtù sia andata così pietosamente in sfacelo, quasi si direbbe che quel giovane portasse invidia a se stesso. E infatti lo ritroveremo adulto a Parigi, con quella maledetta idea della pace fitta nella mente che lo stringerà d’amicizia con Otto Abetz, il futuro ambasciatore nazista nella Francia occupata, da cui Giovannino accetterà denaro, molto denaro, e la nomina a presidente della corporazione dei giornalisti. Compito che assolverà con tanto zelo da guadagnarsi il titolo di “Führer della stampa francese”.
Uno dei pregi di questo libro, è la felicità con cui coglie le variopinte gradazioni dell’animo umano, comprese dunque quelle mezz’ombre ambigue e quelle tinte incerte senza delle quali non si dà pienezza di vita. Per cui non bisogna pensare a Salvemini come a un nume irato che dall’alto della sua intransigenza trafiggesse fin da subito l’abominio in cui si era cacciato Jean. L’affetto paterno gli rallentò la condanna, e per un po’ Salvemini vide solo sventura dove invece era già delitto. Quando però gli eventi gli si presentarono dinanzi a contorni spiccati eccolo esplodere con tutto il furore di un cuore angustiato: Jean – dichiarò nel 1945 - «per me è come se non fosse mai esistito». Pure, chi c’era quel giorno, quando ricevette la notizia della fucilazione di Giovannino, ne ricorda lo sforzo per ribersi le lacrime che gli tremavano in gola e gli sentì dire: «Ho voglia di morire». Erano le stesse parole pronunciate per Messina.
Tra questi dolori che si ridestavano a vicenda, l’uno eco dell’altro, si snoda un racconto il cui stile rapido e caldo avvince fin dalle prime pagine. E nelle ultime suscita un fremito che quasi rassomiglia alla commozione. Veramente: leggetelo.