domenica 1 luglio 2018

l’Espresso nelle edicole
L’Europa muore e se lo merita tutto
di Alessandro Giglioli


Orrendo, grottesco, cieco, irresponsabile, meschino: trovatelo voi l'aggettivo più adatto a definire il comportamento dell'Europa verso l'Africa, in questi giorni.
E parlo dell'Europa tutta, non solo del nostro ridicolo Conte (che peraltro segue la strada di Minniti): parlo dei supponenti Macron e Merkel, dei fascistoidi di Visegrad, degli eleganti nordici.
Parlo dell'Europa tutta che non si occupa di Africa ma di rifiutarne i migranti, che frigna per l'effetto fregandosene della causa, che si rimpalla al suo interno esseri umani - prendili tu, no prendili tu! - con lo stesso cinismo con cui cent'anni fa si spartiva la loro terra - la prendo io, no la prendo io! - e come ancora adesso se ne spartisce le risorse naturali, i contratti, le dighe, l'import di armi, i giacimenti, gli appalti - li prendo io, no li prendo io!
Europa di merda, o meglio Stati e governi d'Europa di merda, tutti senza eccezioni, tutti così ipocriti da dimenticare (fingere di dimenticare!) che siamo andati noi a casa loro per primi, e non disarmati, e non per sopravvivere ma per arricchirci, per derubarli, per schiavizzarli e trasportarli nelle Americhe, poi per impiantarci business e dittatori, poi per finire di depredarli di petrolio, oro e bauxite.
Stati d'Europa di merda, che ora guardano ai migranti (via, via!) e non all'Africa, non a quello che potrebbero - dovrebbero - fare per rimediare almeno un po' ai propri danni, per lenirne le ferite e limitarne le stragi, no, ci mancherebbe: il famoso e tante volte promesso "piano Marshall" - tanto dovuto moralmente quanto unica strada pragmatica per convivere affacciati sullo stesso lago chiamato Mediterraneo - non appare in nessuna legge di bilancio di nessun singolo Paese e ancora meno della cosiddetta Unione.
Ma Unione di cosa, poi? L'unica cosa in cui siamo uniti è nell'identificare come emergenza nostra quella che è solo un'emergenza vitale loro, nel rifiutare anche solo l'idea di esserne stati causa o concausa, nel respingerne i più disperati chiudendo dolosamente gli occhi davanti alle cause di questa disperazione.
Ci avevano insegnato a scuola gli ideali europeisti - Ventotene, Spinelli, poi pure l'Erasmus - e ci ritroviamo oggi davanti un'Unione basata solo sull'egoismo di ogni Stato uno contro l'altro e di tutti gli Stati contro ciò che c'è fuori.
Morirà, un'Europa così, anzi sta già morendo: perché basata su disvalori, su meschinità, su bugie: patetica e gigantesca rissa di condominio il cui unico scopo di ciascun condomino è non pagare le spese dovute - e se proprio qualcosa si deve pagare, paghi il vicino, non io.
Morirà, un'Europa così, un'Europa che immette cause di merda e ne trarrà quindi conseguenze di merda, e non ci sarà muro che tenga, né in terra e in mare, né qui né altrove, di fronte agli effetti di queste cause.
Morirà, un'Europa così, anzi sta già morendo, e se lo merita tutto.

Repubblica 1.7.18
Khaled Hosseini “L’Europa si ribelli non ci si può assuefare ai bimbi che muoiono”
di Alessandra Ziniti


FIUMEFREDDO (CATANIA) Da rifugiato a rifugiato. Attorno al tavolo di una disadorna cucina, davanti a un vassoio di biscotti ai datteri fatti in casa.
Khaled sorride, guarda la piccola Haya che sguscia inquieta dalle braccia della mamma, e dice a Yaser: «La salvezza e il futuro dei nostri figli viene prima di tutto. Sarà durissima ma ce la farete a ricominciare».
Fiumefreddo di Sicilia, paesino a metà tra l’Etna e il mare. È qui, in un appartamentino al primo piano di uno Sprar (centro di seconda accoglienza) che da tre mesi vivono Yaser, 40 anni, sua moglie Sumeer, 39, e i loro quattro figli, Botul, 15 anni, il capo già coperto da un velo bianco lezioso, Amar, 12 anni, Heba, quasi 10, e la piccola Haya di 18 mesi. La cucciola di casa è nata in Giordania nel campo in cui, per sette anni, questa famiglia siriana in fuga dalla guerra che ha distrutto la loro vita, ha aspettato che un corridoio umanitario li portasse in qualche parte del mondo per ricominciare una nuova vita.
Oggi alla loro tavola c’è un ospite d’eccezione, Khaled Hosseini, lo scrittore afgano, ambasciatore dell’Unhcr, che al dramma dei rifugiati ha deciso di dedicare il suo nuovo libro “Sea prayer” in uscita per le edizioni Sem il 30 agosto nel terzo anniversario della morte di Alan Kurdi, il bimbo siriano di 3 anni la cui foto (riverso su una spiaggia turca) è diventata simbolo di una tragedia che purtroppo si rinnova.
«Quando accade di nuovo, quando i morti diventano 100, 200, 1000, si crea una sorta di tragica assuefazione. Non ho sentito parole di compassione per questi altri bambini che mi hanno fatto rivivere un giorno che non dimenticherò mai, quello della morte di Alan. Da padre di due figli non riesco neanche ad immaginare cosa possa avere provato quel padre davanti al corpicino di Alan. E poi davanti alla sua foto. Per questo ho deciso di mantenere viva quella memoria, per aiutare lui e le migliaia di migranti come lui che, per disperazione, mettono le persone che più amano al mondo su quelle barche. Per dire al mondo che è atroce, che non è accettabile, che si deve trovare la soluzione perché questo non accada più”.
Quale può essere la soluzione? L’Europa ma anche gli Stati Uniti rispondono blindando i confini.
«L’imperativo morale deve essere salvare la gente in mare e creare canali sicuri e legali per mettere in salvo i rifugiati. È vero, gli Stati chiudono i confini, il clima non è quello giusto per creare compassione e solidarietà. Negli Stati Uniti però l’opinione pubblica si è ribellata. Non in Europa. Le persone, secondo me, sono poco informate, la specie umana è insensibile ai numeri e alle statistiche, l’empatia si fonda sulla conoscenza. Io ho deciso di raccontare la storia di un padre che parla al figlio addormentato sulle sue gambe durante la traversata su un gommone. E un padre è un padre, in qualsiasi continente vive. Oggi lo storytelling è fondamentale, è un dovere civile e tutto il ricavato di questo libro andrà all’Unhcr e alla fondazione Hosseini per progetti in favore dei rifugiati».
L’intolleranza, le campagne di odio, il razzismo stanno facendo breccia in tanti paesi, sdoganando parole e comportamenti impensabili.
Cosa sta succedendo?
«Vede, oggi io sono qui in casa di questa famiglia siriana di rifugiati. Ho rivissuto il loro dramma, mi hanno raccontato che la loro vita è improvvisamente cambiata sotto il peso delle bombe, il peso della decisione di scappare, il rischio della fuga, l’attesa di un Paese che li accogliesse. E ora qui, in una città dove li hanno accolti con indifferenza, dove non parlano con nessuno, dove non è facile integrarsi, imparare la lingua, la difficoltà di ricominciare tutto daccapo. “Porte aperte”, l’iniziativa dell’Unhcr che apre alla gente del posto le case dei rifugiati, è una buona occasione per conoscere. C’è un grosso gap in Europa tra quello che la gente pensa e la verità».
Qual è la verità che l’Europa non riesce a vedere?
«È solo la disperazione, l’assoluta mancanza di alternative che costringe un padre e una madre a mettere i propri figli nelle mani dei trafficanti, a farli salire su una barca sapendo che il rischio di morire è altissimo. È l’ultima chance che hanno. Non vengono qui per vivere nel lusso europeo o per rubare il lavoro. Vengono qui per dare un futuro ai loro figli. Per me, quando la mia famiglia è fuggita dall’Afghanistan, è stato più semplice. I rifugiati non vogliono essere un peso, tutti quelli che ho incontrato vorrebbero essere a casa loro. Lo dico con una magnifica poesia di Warsan Shire. Si chiama “Home”.
E dice: “Nessuno lascia casa fino a quando non diventa la bocca di uno squalo, nessuno vuole essere violentato, compatito”.
L’incontro di oggi con questa famiglia me lo conferma. Sarà dura integrarsi in un Paese così diverso, trovare un lavoro, instaurare rapporti sociali. Per una famiglia che in Siria era felice e aveva tutto quel che gli bastava.
Ma qui sono al sicuro e questa è la strada giusta. Buona vita Yaser, buona vita davvero».

il manifesto 1.7.18
L’Open Arms accusa: «Italia responsabile del naufragio»
A porti in faccia. L’ong spagnola sulla tragedia di venerdì scorso. E ieri salva 59 migranti. Salvini le chiude i porti: «Pericolo per la sicurezza»
di Adriana Pollice


«Si scordino di arrivare in Italia», dice Matteo Salvini. Il ministro degli Interni se la prende questa volta con la ong spagnola Proactiva Open Arms che ieri, al largo della Libia, ha tratto in salvo 59 migranti, tra loro quattro bambini di cui due non accompagnati: erano «alla deriva e in pericolo di vita», spiega l’ong. Salvini nega l’approdo nei porti italiani fin dal mattino, ma a sera dal Viminale arriva una spiegazione che ha tutta l’aria del pretesto: «L’attracco può provocare rischia per la sicurezza», spiega una nota.
Per intervenire l’Open Arms ha deciso di non aspettare l’arrivo della Guardia costiera di Tripoli. Venerdì avevano rispettato l’ordine del Centro di coordinamento di Roma ma, accusano, dopo un ritardo nei soccorsi di un’ora e mezza, i libici hanno trovato in vita solo 16 dei 120 stipati sul barcone, affondato da ore. Ieri sono stati gli stessi attivisti catalani ad avvistare il gommone in difficoltà. Cosa è successo lo racconta l’eurodeputata Eleonora Forenza del Gue, che era a bordo della nave dell’Ong insieme a tre colleghi spagnoli: «Più volte l’Open arms ha contattato le autorità italiane segnalando il pericolo di naufragio, sentendosi rispondere di contattare la Guardia costiera libica. Il mancato soccorso in mare è un reato grave, oltre che un atto disumano. Le persone a bordo ci urlavano ‘No Libia’. A differenza di Salvini, le persone che erano su quel barcone sapevano che la Libia è spesso detenzione, tortura, stupro». Il capitano dell’Open arms ha poi spiegato: «Le autorità libiche non rispondevano né via radio né al telefono. Così Roma ci ha detto che toccava a noi decidere cosa fare». La motovedetta libica è poi arrivata quando il soccorso era già in corso, hanno fatto un’inversione della rotta e sono andati via dicendo alla nave dell’Ong ti tornarsene in Spagna. Il più piccolo dei naufraghi ha appena 9 anni: viene dalla Repubblica Centraficana, era con i genitori, l’equipaggio l’ha messo al posto di comando chiamandolo capitano.
Matteo Salvini ieri mattina ha twittato: «Si scordino di arrivare in Italia. Questa nave si trova in acque Sar della Libia, porto più vicino Malta» innescando così l’ennesima polemica con La Valletta che ha replicato «Basta con le bugie, il salvataggio è avvenuto tra la Libia e Lampedusa». Il direttore operativo della Proactiva, Riccardo Gatti, ha spiegato: «Continuiamo a proteggere il diritto alla vita degli invisibili. La Spagna è lo stato di bandiera della nave, spetta al governo iberico mettersi in contatto con le autorità maltesi, italiane e oltre per trovare un porto sicuro». La nave ha però chiesto di attraccare in Spagna, il Consiglio comunale di Barcellona ha dato la sua disponibilità ma ci vuole il via libera del governo, prudente dopo aver concesso lo sbarco a Valencia dell’Aquarius.
La Ong ha poi messo sotto accusa la gestione dei soccorsi: «Cento persone sono morte venerdì, Open Arms avrebbe potuto salvarle ma è stata ignorata dalle autorità libiche e italiane». Il presidente dell’Ong, Oscar Camps, ha commentato: «Sono affogate davanti alle coste libiche. Però tranquillo, Salvini, non erano italiane. Erano solo ‘carne umana’». Sul sito El Diario Gabriela Sanchez, che è a bordo dell’Open Arms, ricostruisce i fatti: venerdì alle 9 la nave ha sentito, tramite il canale radio 16, l’avviso informale di un aereo militare alla guardia costiera libica, c’era un barcone in pericolo nella zona di Al-Khums, vicino alla costa di Tripoli. Erano a 80 miglia dalla Open Arms ma nessuna comunicazione è giunta alla Ong dal Centro di coordinamento di Roma: «È lontano e hanno avvisato i libici» aveva commentato allora il capitano con la giornalista. Ma alle 10.30 arriva un mayday dal Centro di coordinamento di Malta. Il capo missione, Guillermo Canardo, chiama Roma ma è tardi: i libici erano sul luogo del naufragio, i migranti erano quasi tutti annegati, inclusi tre neonati. «Se ci avessero avvisato in tempo ci saremmo attivati, nonostante abbiamo poco carburante» ha spiegato Canardo. Hanno poco carburante perché Italia e Malta rifiutano l’accesso ai porti alle Ong persino per i rifornimenti.
Ieri i libici hanno riportato indietro 270 naufraghi, 11 i bambini. Sul naufragio di venerdì l’ammiraglio Ayoub Qassem ha spiegato: «La Guardia costiera di Roma non ha responsabilità. Le ricerche sono state interrotte perché non ci sono i mezzi e il personale necessari».

La Stampa 1.7.18
Open Arms, con l’ultimo salvataggio altri 60 profughi bloccati in mezzo al mare
Lite Malta-Italia sulle competenze. La nave chiede il porto sicuro alla Spagna, ma il carburante potrebbe non bastare: e lo scontro diplomatico è dietro l’angolo
di Fabio Albanese

qui

Il Fatto 1.7.18
Mezzo milione nei campi in mano alle milizie libiche
L’inferno dei centri di detenzione “privati”, solo poche migliaia assistiti dall’Onu
Mezzo milione nei campi in mano alle milizie libiche
di Pierfrancesco Curzi


Almeno mezzo milione di immigrati subsahariani si aggirano come fantasmi in Libia. Di questi circa 80 mila sono rinchiusi dentro i centri di detenzione co-gestiti da autorità libiche e organizzazioni umanitarie occidentali, ma soprattutto sono dentro le galere dei campi di prigionia locali che puntellano tutta la Libia. Di questi lager privi di “occhi internazionali” ce ne sarebbero una settantina, da Nord a Sud. Un serbatoio di disperati la cui unica chance è pagare i carcerieri per scappare e tentare la fortuna via mare. Le cento vittime del naufragio di venerdì provenivano in parte da questi buchi neri, gli altri erano cani sciolti, nascosti o costretti a lavori terribili per raggranellare il denaro necessario per pagare gli scafisti. Secondo fonti vicine alle organizzazioni umanitarie, ci sono circa 5-600 mila persone pronte a buttarsi nel Mediterraneo. Tra loro sono una minoranza quelli ad oggi rinchiusi nei centri di detenzione “ufficiali”.
Nell’area tripolitana erano otto fino ad alcune settimane fa, adesso sono ridotti a sei con la chiusura obbligata di Sabratha e Gharyan per motivi di sicurezza. In realtà quelli più utilizzati sono Trik al-Sikka, Trik al-Matar e Tajoura (l’unico dei tre fuori città, a due passi dalla costa e da al-Hmidiya, dove sono stati riportati a terra i pochi superstiti, una ventina). Questi centri sono al collasso, potrebbero ospitare 1.500 migranti, ma, soprattutto nei primi due, ce ne sono il doppio. Le condizioni non sono le stesse dei campi “non ufficiali” e questo grazie alla presenza dell’Unhcr (Onu) e delle organizzazioni internazionali, ma la vita lì dentro è comunque difficile.
Di sicuro durante la visita di lunedì scorso il ministro degli Interni, Matteo Salvini, non ha visitato né i secondi e né tantomeno i primi. Nel suo video postato su Facebook, Salvini ha mostrato un safe shelter, una costruzione securizzata per politici e militari di spicco in caso di pericolo, facendola passare da campo di detenzione. Aria condizionata, frigobar, ambienti tinteggiati di bianco: nessuna di queste dotazioni, assicurano gli addetti ai lavori sul posto, è presente nei centri per migranti. A Salvini però è bastato per liquidare come “retorica” le denunce di violenze e torture sui migranti contenute anche nei rapporti Onu dei mesi scorsi.
Bande di criminali comuni, milizie con arsenali pesanti, organizzazioni di scafisti, gruppi terroristici. Ecco con chi ha a che fare il governo della Tripolitania di Fayez al-Sarraj e con chi, necessariamente, dovrà stringere accordi di convenienza il nuovo governo italiano. Nel passaggio da Gentiloni a Conte e, soprattutto, da Minniti a Salvini, qualcosa andrà ridiscusso. Solo nel distretto di Tripoli ci sono una decina di milizie, alcune dispongono di eserciti fino ad 800 soldati pronti a tutto e armati fino ai denti, come la Brigata Salah al-Marghani, al-Erka Asadisa e la Brigata al-Fany. Quest’ultima ha preso il controllo e stabilito la sua base dentro una prigione. A Tripoli gli accordi di non belligeranza possono saltare per piccole scaramucce o per un torto subìto. Do ut des, io ti lascio controllare quel traffico, tu mi tieni buoni i soldati nervosi di quella milizia a volte ostile. È successo a inizio anno all’aeroporto Mitiga di Tripoli, quando gli uomini del gruppo di al-Bakra hanno propiziato uno scontro a fuoco, con un bilancio di una decina di vittime. Fedeli al governo, non avevano mandato giù uno sgarbo e quella era stata la loro reazione. Martedì scorso uno dei vicepremier di al-Sarraj ha rischiato di essere rapito da un gruppo minore durante il tragitto verso Mitiga.
Le milizie sono una cosa; il loro obiettivo è aumentare la potenza e il controllo del territorio per poi barattare ricchezze e risorse con la controparte di turno. Del traffico di migranti interessa fino ad un certo punto, se non come moneta di scambio. Sopra le barche da buttare tra i flutti del Canale di Sicilia ce li mettono le bande di criminali dedite a questo specifico settore. Chi li deve salvare, in prima battuta, è la Guardia costiera libica, la cui dotazione navale è nettamente migliorata dopo gli sforzi dell’ex ministro Minniti. Motovedette, aiuto logistico, formazione, addirittura nuove divise. Il soccorso ritardato di venerdì ha suscitato perplessità, ma in generale il livello di operatività è aumentato. E l’Italia prepara nuovi aiuti.

Il Fatto 1.7.18
Essere cattivi è facile se ti aiuta il diavolo
di Furio Colombo

Venerdì all’Angelus il Papa ha detto che il Maligno è sempre al lavoro. Era la mattina dopo la squallida notte del summit europeo e aveva tutte le ragioni di dirlo. In quella notte l’Italia, che aveva sempre salvato i profughi, tentava un patto di ferro con coloro che li hanno sempre lasciati morire. L’Italia è stata respinta perché non ha ancora chiuso davvero le frontiere come invocano da tempo le migliori figure italiane ed europee della storia contemporanea.
L’Italia dunque ha miseramente fallito, la notte del 28 giugno, nel fare “la voce grossa” e nel battere il pugno sul tavolo del summit europeo, perché tutti gli altri lo avevano già fatto e lo stavano facendo. Attivissimo il Maligno, giustamente citato dal Papa come il vero autore della nostra vita di questi giorni, si è impegnato a chiudere ogni via d’uscita dalla morte in mare, come dire: credono di essere i più cattivi, questi europei del gruppo di Visegrád o il leader cristiano bavarese che tormenta la Merkel. Ma devono ancora vedere che cosa è la cattiveria quando finalmente sale al governo. Il Maligno è agilissimo nel cambiare cultura. Appena pochi giorni prima aveva realizzato in America uno dei suoi capolavori di cattiveria: non solo catturi chi tenta di entrare per fame, senza permesso, un passo oltre il confine degli Stati Uniti, ma gli togli i bambini. Glieli togli per sempre. Poiché il diavolo, però, fa le pentole ma non i coperchi, persino il Maligno non ha messo in conto l’urlo del bambino di tre anni rimasto solo sulla strada dopo che lo hanno staccato a forza dalla madre. Il diavolo non aveva calcolato la presenza di una telecamera con audio che ha fatto risuonare l’urlo di quel bambino per tutta l’America. E ha risvegliato tutta l’America, ha scosso un popolo, ha creato rivolta. E allora si è visto il famoso uomo più potente del mondo arrendersi all’urlo del bambino e presentare un suo foglio con firma gigante in cui negava e cancellava il suo capolavoro di cattiveria. Sanno tutti che la storia non finisce qui. La vignetta del New York Times del 29 giugno è una fotografia-caricatura della Corte Suprema degli Usa, e uno dei giudici dice (dopo la sentenza che autorizza Trump a vietare i viaggi di chiunque sia di religione islamica, eccetto i partner d’affari): “Il peggior razzismo va bene. Attenzione però a chiamarlo sicurezza nazionale”. La vignetta, naturalmente, raggiunge le élite, i frequentatori di salotti. Ma non tutti.
Per esempio qualcuno ha già cominciano a dirti che non puoi sempre parlare di “fascista dietro la porta” persino se ti viene in casa uno di Forza Nuova con altri diciassette ceffi e ti legge un messaggio non proprio amichevole per indurti a lasciar perdere con la difesa degli immigrati (è successo a Como), persino se deputati e senatori eletti nella Repubblica italiana nata dalla Resistenza si recano a rapporto dal camerata Orbán di Ungheria, uno che governa con il sostegno del partito Obik (nazista per dichiarazione degli interessati) che è considerato un pericolo per il Suo Paese e per l’Europa dalla grande filosofa ungherese Agnes Heller, uno che ha abolito nel suo Paese magistratura e stampa libera. L’altro grande amico dei fascisti nostrani che non dovremmo notare dietro la porta, il presidente polacco Kaczinsky, firma una legge che vieta di parlare della Shoah come delitto polacco (una legge della cancellazione della memoria). Kaczinsky è, allo stesso tempo, l’amico più stretto (perché fascista) e il nemico più duro (perché ha chiuso per primo i sacri confini nazionali e non vuole vedere un nero in giro), dei nostri suprematisti nazional-gialloverdi. Ma l’opera del Maligno, come insiste ad insegnare il Papa, convincendo, su questo punto, anche i non credenti, non si limita al risultato ovvio della cattiveria fascista.
È anche abile nel farti apparire ridicolo se insisti a denunciare il pericolo fascista. Esempio: ti spiegano che se dici a Trump ciò che pensi di Trump (per esempio dopo che ha rubato i bambini degli immigrati, facendo impazzire di stupore e dolore le madri e spingendo all’indignazione persino la moglie Melania) fai il gioco di Trump, perché ingigantisci la sua figura. Lo senti dire con stupore da persone che non si chiedono perché Thomas Mann sia stato così poco gentile con Hitler, perché Gobetti si sia fatto uccidere a bastonate piuttosto che tacere, perché Matteotti abbia pronunciato, con quelle parole, quel discorso alla Camera che gli è costato la vita, perché i fratelli Rosselli non sono mai stati tormentati dalla domanda: se parli troppo di Mussolini fa il gioco di Mussolini? Ora aspettiamo il prossimo messaggio del Papa. Ora che tace anche il presidente della Repubblica (mentre scrivo, altri cento morti in mare, nonostante l’occhio vigile della guardia costiera libica), non c’è altra fonte.

Il Fatto 1.7.18
Spagna, quasi mille naufraghi recuperati in cinque giorni


Il servizio di soccorso marittimo spagnolo ha salvato 63 migranti che tentavano di raggiungere la costa meridionale del Paese mentre un’altra imbarcazione risulta dispersa. Secondo quanto riferiscono i soccorsi, 58 persone sono state recuperate a bordo di tre barconi nello Stretto di Gibilterra partito dal Nord Africa, mentre altri 5 migranti sono stati salvati più a est nel Mediterraneo, vicino alla provincia di Murcia. Una nave dei soccorsi e un elicottero sono impegnati alla ricerca di un altro barcone nella zona di cui si sono perse le tracce.
Soltanto pochi giorni fa, il 26 lugliio, oltre 133 persone di origini magrebine, che a bordo di due imbarcazioni tentavano di attraversare lo Stretto di Gibilterra, erano state soccorse dai mezzi del salvataggio marittimo e trasferiti nei porti di Tarifa e Barbate, in provincia di Cadice. Lo si apprende da fonti del pattugliamento marittimo. Gli occupanti, 63 uomini, 7 donne e 17 minori, tutti di origini magrebine, sono stati trasferiti nel porto di Barbate. Il giorno prima erano arrivati sulle coste spagnole altri 683 migranti, dei quali 447 tratti in salvo nelle acque dello Stretto di Gibilterra e 236 nel Mare di Alboran.

Affaritaliani 29.6.18

Pensioni, Boeri: "La riduzione degli immigrati è problema serissimo"
qui

Repubblica 1.7.18
Il giorno che l’Europa unita ritornò divisa
di Roger Cohen


Il governo tedesco di Angela Merkel cade. I leader allestiscono grandi centri di detenzione per i migranti. La Ue si scioglie e, al confine tra Francia e Germania, la bandiera blu a stelle dorate viene ammainata Trump e Le Pen si congratulano Berlino annuncia una nuova alleanza strategica con Mosca. Naturalmente tutto questo non potrebbe accadere Solo un folle potrebbe credere per un attimo il contrario

Il governo tedesco della cancelliera Angela Merkel cade sulla scia delle richieste avanzate dal ministro dell’Interno, il conservatore Horst Seehofer, il quale chiede che i rifugiati che sono stati registrati in uno Stato dell’Unione europea vengano cacciati dalla Germania.
Il partito xenofobo Alternativa per la Germania (Afd) entra a far parte della nuova coalizione nazionalista di governo. A Berlino riecheggia lo slogan del partito: “Riprendiamoci il nostro Paese e il nostro Volk!”.
Dai leader nazionalisti dell’Ungheria, della Repubblica Ceca, della Polonia, dell’Italia, dell’Austria e degli Stati Uniti giungono messaggi di congratulazioni. L’ambasciatore americano in Germania esprime attraverso un tweet la propria approvazione.
Di fronte all’ondata anti- immigrazione, i leader dell’Unione europea decidono di allestire per tutti gli immigrati grandi centri di detenzione, all’interno dei quali valutare ciascun caso. I richiedenti asilo verranno accolti solo se in possesso dei requisti necessari, mentre i migranti economici che sono semplicemente alla ricerca di un futuro migliore saranno espulsi.
Dietro le mura che cingono questi vasti centri sono scoppiate delle rivolte. Sbrigare le procedure con celerità è impossibile. Le condizioni si deteriorano. Il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, di destra, dichiara che è stato compiuto un errore disastroso: i centri di detenzione andavano costruiti in Nord Africa, al confine tra Libia e Niger, e non solo. E difende la sua decisione di obbligare la Guardia costiera italiana ad ignorare le richieste di aiuto che giungono dalle imbarcazioni che trasportano i migranti. I quali, afferma, potrebbero essere criminali e stupratori.
Il rapimento della giovane figlia di un oligarca russo, messo a segno in un villaggio turistico della costa spagnola per mano di alcuni immigrati marocchini, scatena il putiferio. Si scopre che si trattava di una fake news fatta circolare da alcuni esperti russi di information warfare, ma intanto i leader di destra dell’Unione europea avevano già denunciato gli « animali stranieri» che tenevano prigioniera «la piccola Tatiana ». Il fragile governo spagnolo cade.
La Germania, l’Italia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria annunciano l’intenzione di abbandonare l’area Schengen e di reintrodurre le dogane e il controllo passaporti. La libera circolazione delle persone, fondamento dell’Unione europea, viene meno. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si congratula con l’Europa per « essere finalmente rinsavita » , e il suo ambasciatore in Germania posta un tweet che è un inno « alle nazioni che si riscoprono forti » . L’Ungheria mette al bando la bandiera europea.
Arrivato a Boston per un summit della Nato, il presidente Trump va in escandescenze alla vista del nuovo quartier generale dell’Alleanza: un grande edificio costato 1,3 miliardi di dollari che egli definisce « uno scandalo, una mostruosità, un insulto agli americani comuni». Aggiungendo inoltre che la Nato non è più un’alleanza, bensì un centro di costo. E che gli Stati Uniti stanno pagando troppo. Perché, domanda Trump, non si impiegano gli eserciti europei per rastrellare «gli immigrati che infestano i vostri Paesi e distruggono le vostre culture cristiane?».
Poi, rivoltandosi contro il suo ex amico Emmanuel Macron, Trump denuncia la posizione della Francia — che difende l’Europa unita — definendola « debolissima ». A chi gli domanda del rapporto tra Trump e Macron, un portavoce del presidente francese risponde: «Come diciamo qui in Francia: les grands amours finissent toujours mal. I grandi amori vanno sempre a finire male».
Il summit della Nato si dimostra più complesso di quello del G7 che si è tenuto di recente in Canada. Trump sbraita e mette il broncio. Si incupisce e disturba. Dichiara che così come ha interrotto le esercitazioni militari congiunte con la Corea del Sud perché « rappresentavano una provocazione nei confronti del mio amico Kim Jong-un», dopo essersi consultato con « il mio amico Vladimir Putin » ha deciso di abbandonare le esercitazioni militari della Nato in Polonia e nei Paesi baltici perché « sono una provocazione nei confronti della Russia».
Una fuga di notizie rende noti i contenuti di un documento interno redatto dal consigliere per la Sicurezza nazionale Usa John Bolton. Si viene così a sapere che gli obiettivi strategici del presidente sono « la distruzione dell’Organizzazione mondiale del commercio, della Nato e dell’Unione europea». Vi si legge inoltre che nel il raggiungimento di tali obiettivi sono già stati compiuti molti progressi. Il documento afferma anche che «il club liberal e democratico si sta sgretolando sotto il peso della sua stessa decadenza e del politically correct ».
Adducendo la scusa di presunti «crimini» compiuti ai danni della minoranza russa in Estonia, il presidente Putin invia il proprio esercito in quel Paese — che è un membro della Nato. Ma nega che si possa parlare di « invasione » , spiegando che i russi che vivono in Estonia hanno comprensibilmente imbracciato le armi.
Riguardo alle immagini satellitari che mostrano le truppe russe intente ad attraversare il confine, Trump minimizza e parla di fake news. La sua posizione è appoggiata all’unanimità dagli esponenti di spicco del partito repubblicano. L’Estonia, così come la Crimea, «è una faccenda russa», dichiara il presidente.
La Nato non invoca l’Articolo 5, secondo il quale un attacco contro un membro qualsiasi dell’Alleanza deve essere considerato un attacco contro tutti i Paesi che la compongono. I governi alleati abbandonano quindi l’Estonia al proprio destino e la Nato si scioglie. Putin propone di sostituirla con l’Alleanza degli Stati autoritari e reazionari, o Asar. Un’idea che Trump fa sapere di trovare «interessante».
La Gran Bretagna abbandona quel che resta dell’Unione europea. La Germania, guidata dalla sua coalizione di destra, annuncia di rinunciare all’euro e reintrodurre il marco tedesco. L’Eurozona si sfascia. L’ambasciatore americano in Germania affida ad un tweet la propria soddisfazione.
L’Unione europea si scioglie, e al confine tra Francia e Germania — dove intanto, sotto la supervisione di Israele è iniziata la costruzione di un muro high- tech fiancheggiato da pareti di filo spinato a lama di rasoio — la bandiera blu a stelle dorate viene ammainata.
Trump e Marine Le Pen, la leader del Front National francese, esprimono via Twitter la propria approvazione. La Germania annuncia una nuova alleanza strategica con la Russia. La Corte suprema degli Stati Uniti stabilisce che «per motivi di sicurezza nazionale » l’espulsione degli immigranti privi di documenti non richiede un regolare processo. Iniziano le deportazioni di massa. Trump annuncia con un tweet che i regolari processi «sono sopravvalutati».
Non potrebbe accadere. Naturalmente non potrebbe accadere. Solo un folle potrebbe credere per un attimo il contrario.
(Traduzione di Marzia Porta) © 2018 New York Times News Service

La Stampa 1.7.18
Toni Negri
Moro, il migliore della Prima Repubblica Che intuizione l’apertura alla sinistra
Verso il 7 aprile. Si avvicina (2019) il quarantennale dalla retata che ingabbiò a Padova Autonomia Operaia,
intervista di Bruno Quaranta


Verso il 7 aprile. Si avvicina (2019) il quarantennale dalla retata che ingabbiò a Padova Autonomia Operaia, in ossequio al teorema Calogero. A svettare, un inquisito, Toni Negri, imputato di vari, gravi reati: l’insurrezione armata contro lo Stato come l’assassinio di Moro. Una vicenda giudiziaria che, di accusa caduta in accusa confermata, approdò a una condanna a 17 anni di carcere, di cui 11 e mezzo realmente scontati, tra indulto generale e buona condotta.
Che cosa resta di Toni Negri oggi? Ciò che dissero di lui, per cominciare. Un «cattivo maestro», che Montanelli avrebbe voluto vedere impiccato. Il «professore terrorista» secondo il verdetto inappellabile di Giorgio Bocca. Un «mestatore», per Enzo Biagi. Il Grande Vecchio, a dar retta ai tam tam dietrologici. Un ritratto vetrioleggiante, a più voci, a cui Toni Negri (Padova, 1933), già docente di Dottrina dello Stato, autore di Impero, oppone il suo autoritratto, editore Ponte alle Grazie. Dopo Storia di un comunista, ecco Galera ed esilio (a cura di Girolamo De Michele).
«Storia di un comunista». Quale comunista?
«Considero il capitalismo una malattia della civiltà. Le lotte operaie sono il meglio dell’umanità, tra valori, bisogni, speranze. Il comunismo e il 900, due pagine in assoluto: la rivoluzione sovietica e la battaglia di Stalingrado, che arginò il nazifascismo».
Non dimenticando le pagine orride, come i gulag.
«Va da sé. Rosa Luxemburg non fu tra i primi critici del potere bolscevico?».
Riesce ad immaginare una società comunista?
«Non sono un romantico. Preferisco la praxis. Revolution si intitolerà il mio nuovo libro. Sono certo che la più grande crisi scoppierà nel Paese per eccellenza del capitalismo, gli Stati Uniti. E tutto potrà essere».
Aspettando il comunismo, dilagano sovranismi e populismi.
«L’Italia. Salvini non rappresenta, almeno per ora, gli interessi economici reali di una borghesia atterrita, spaventata, dal comunismo - risaliamo a inizio 900, evochiamo una figura quale il Duce - o da che altro».
E i 5 Stelle?
«Sono la falsificazione di istanze di sinistra non organizzate, dalle rivendicazioni anticasta a quelle ambientaliste. Il tutto sub specie piattaforma Rousseau».
I 5 Stelle proclamano il reddito di cittadinanza. Non lo caldeggiava già il «suo» Potere Operaio?
«Il reddito secondo i 5 Stelle è una misura assistenziale o di Workfare (disciplina del lavoro). Per me è un diritto di ogni cittadino. Tale universalità rispecchia la forma in cui si sviluppa oggi la ricchezza: cooperazione sociale del lavoro cognitivo, relazioni di servizio, ricerca...».
Sovranismi e populismi oltre l’Italia. Condizioneranno inesorabilmente il destino dell’Europa?
«È la mia impressione. Solo una vera trasformazione federalista dell’Unione permetterà di unire e di riprendere lo sviluppo - oltre a produrre valori di convivenza in un mondo nel caos».
Caos di oggi, caos di ieri. Quarant’anni fa l’assassinio di Moro.
«Il politico migliore della Prima Repubblica. La sua intuizione: l’apertura a sinistra».
Dov’era il Pci di Berlinguer...
«Spentosi il faro della Piazza Rossa, la partita si giocava in Occidente. Berlinguer commise un madornale errore: cambiare missione al Partito comunista. Dalla lotta di classe alla lotta morale. Di qui l’era di Mani Pulite. Il trionfo del morbo giustizialista, la trincea di una certa Repubblica».
Mezzo secolo fa il Sessantotto...
«Il 68 italiano ha una matrice operaista. Gli studenti si proiettano verso le fabbriche, il pensiero si forgia nelle officine. Il nostro 68 è il ’77. La fantasia, l’immaginazione al potere, la comunità gioiosa e offensiva».
Il ’77. Il Movimento a Bologna. Al convegno «contro la repressione» partecipò un intellettuale borghese come Casalegno, animato dalla volontà di capire, I terroristi lo uccideranno di lì a poco...
«L’omicidio Casalegno: una sciagura, un’indecenza. Ma Casalegno era uno. La sua onestà intellettuale, la sua urgenza di capire non era di altri giornalisti».
Quel convegno contro «la repressione». Un allarme da Casalegno non condiviso. Scrisse, riferendosi al grido d’allarme, per esempio, di Guattari: «Il filosofo Guattari ha superato in comicità Dario Fo».
«Casalegno sottovalutò la realtà. Ruotante intorno alla legge Reale, di una durezza senza eguali».
Lei leader di Autonomia Operaia. La differenza rispetto alle Br?
«Le Br avevano una concezione leninista del potere e una nozione di classe di stampo vecchio operaista. Autonomia Operaia era invece aperta alle nuove soggettività, il suo era un respiro federalista».
Autonomia Operaia e le Br, entrambe «offensive».
«L’assassinio politico delle Br, organizzate militarmente, è assassinio delle lotte. Ecco perché lo contrasto».
La violenza contrassegnò anche Autonomia Operaia, no?
«Autonomia Operaia - di sicuro non un’avanguardia di anime belle - non contemplava l’omicidio. La sua violenza, in risposta alla violenza padronale, la violenza che non è legale, ma legittima, andò dalle occupazioni di case agli espropri».
Le è capitato di distinguere fra estremismo e terrorismo suLe Monde, annoverando le Br nell’estremismo...
«A definire il terrorismo sono le bombe. Dagli anarchici dell’Ottocento alle stragi di Stato».
Fra azione e pensiero, il professor Negri, docente di «Dottrina dello Stato». Un paradosso, no? Lei che impersona l’antiStato...
«Dissentendo radicalmente da Bobbio, che mi sostenne convintamente verso la cattedra universitaria. Sostengo la demistificazione dello Stato. Curai, per Feltrinelli, un volume di teoria dello Stato in cui mancava la voce Stato, che è violenza organizzata: se ne analizzavano le funzioni, che vanno ridotte, non esaltate».
Lo Stato francese l’accolse, in esilio. Grazie alla dottrina Mitterrand, di cui hanno beneficiato diversi criminali, come Cesare Battisti.
«La dottrina Mitterrand, mutuata dalle destre, da Chirac, mirava a contenere gli effetti del Sessantotto. La generalità che caratterizza la norma giuridica implica che non si distingua, che ad avvalersene, nel caso, sia un criminale. Vogliamo ricordare l’amnistia di Togliatti?».
Due secoli fa nasceva Marx, il terzo suo nume, dopo Machiavelli e Spinoza...
«Che cosa rimane di Marx? L’analisi del capitalismo. Non vi si può prescindere, come ogni professore di economia sa. E il desiderio di liberare il lavoro dallo sfruttamento».
Lei abita a pochi passi dalla Coupole e dalla Closerie de Lilas, luoghi hemingwayani. Il suo scrittore?
«Melville. Ovvero libertà, spazio, selvaggeria, impavida analisi dell’umana interiorità, mistica della resistenza. Bartelby docet: preferirei di no».

Il Sole Domenica 1.7.18
Tempestose vite di filosofi
1919-1929. Wolfram Eilenberger tratteggia con brio i quattro protagonisti della rivoluzione del pensiero nel decennio che sconvolse il mondo: Ludwig Wittgenstein, Walter Benjamin, Martin Heidegger e Ernst Cassirer
Il tempo degli stregoni. 1919-1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero
Wolfram Eilenberger Feltrinelli, Milano, pagg. 406, € 25
di Maria Bettetini


«Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto». Così John Maynard Keynes, economista già allora molto noto, dopo un casuale incontro con Ludwig Wittgenstein il giorno del suo rientro in Inghilterra. La divinità austriaca tornava alla filosofia dopo gli anni trascorsi come maestro elementare in montagna e come architetto a Vienna. Una vita tormentata, un genio solo, che agli esaminatori del dottorato diede una pacca sulla spalla e disse «Non fatene un dramma, so che non lo capirete mai», con riferimento alla sua tesi, che era poi il Tractatus logico-philosophicus. Si rivolgeva a Bertand Russell e George E. Moore, non proprio due pivelli.
Siamo nel 1929, al termine di un decennio che sconvolse il mondo non solo occidentale. Wolfram Eilenberger ne insegue quattro protagonisti, tratteggiandone la vita e il pensiero, gli incontri e le divergenze. Il libro scorre vivace mentre alterna in maniera ordinata pagine sulle vite di quattro filosofi di lingua tedesca. Wittgenstein, dunque, mistico e forse malato di una qualche forma di autismo, intelligenza altissima e difficile da gestire, padrone della matematica e della logica. L’esperienza della prima guerra mondiale (fu anche prigioniero a Cassino per mesi) lo segna profondamente, la lettura di Tolstoj lo porta al cattolicesimo. Ricchissimo, lascia ai fratelli tutti i suoi beni. Faticosamente omosessuale, accudito dalle sorelle, evita sempre per pochissimo il suicidio. Il Circolo di Vienna lo considera fondatore e nume tutelare, ma quando interviene agli incontri parla dando le spalle a tutti, in disaccordo con tutti. Cambridge lo invita, lo implora, con quell’esame di dottorato riesce a tenerlo con sé.
Sarebbe tanto piaciuto al berlinese Walter Benjamin essere desiderato da un ateneo. Anche al coetaneo Martin Heidegger, il figlio del sagrestano cattolico che trentenne decide di «vedere le cose con un nuovo sguardo» e abbandona le idee di Dio, di matrimonio, di vita con cui era cresciuto. Ma se il primo fallirà ogni tentativo di carriera accademica, il secondo invece la costruirà meticolosamente, cercando appoggi, selezionando amicizie, sicuro di essere superiore a tutti e, decisamente, parecchio antipatico.
Il quarto filosofo è Ernst Cassirer, nato a Breslavia (oggi in Polonia) e morto a New York, dove era fuggito per scampare le persecuzioni naziste. Unisce e divide i quattro proprio il tema della religione e dell’antisemitismo che non dovrà certo attendere Hitler per impregnare la cultura tedesca. Benjamin e Cassirer sono di famiglia ebraica, lasceranno la Germania, ma Benjamin, coerentemente con una vita di viaggi come fughe, amori, spese insensate, mancato riconoscimento, imbrogli, indecisioni, illusioni, quando il visto per gli Stati Uniti tarda ad arrivare, si uccide nella città di mare spagnola da dove avrebbe dovuto salpare.
Dall’altra parte Heidegger, di cui non diremo i discorsi da rettore e gli appunti dei quaderni, perché per fortuna ci fermiamo prima, ma che è noto per un’idea di cultura tedesca pura e davvero “sopra tutti”. Infine il convertito Wittgenstein, di cui si è detto, e della sua fatica a stare con se stesso.
Gli amori, poi, dei quattro, così simili al loro pensiero: tranquilla vita matrimoniale per Cassirer, l’accademico convinto di poter arrivare a comprendere e spiegare tutto intendendo l’uomo e il suo mondo come un insieme di simboli da interpretare e utilizzare (ebbe la cattedra ad Amburgo e lì lavorò molto con un altro genio folle, Aby Warburg). Heidegger visse amore ed erotismo come momenti di filosofia, dato che la vita del filosofo è anche il suo pensiero, entrambi compresi nell’immanenza dell’«esserci». Di Benjamin e della caotica vita si è detto: inseguendo l’attrice organica al partito comunista Asja Lacis, soggiornò a Capri e andò a Mosca in pieno inverno, senza legarsi al Partito per essere più libero di fare quel che gli pareva. Non si sa nulla di certo di eventuali compagni di Wittgenstein, anche se è sicuro il suo disprezzo per quella cosa sporca che sarebbe la sessualità. Come poteva essere altrimenti, per colui che ha tentato di leggere il linguaggio come la matematica, come la logica, dove ogni segno non dà adito a indecisioni o interpretazioni? Il linguaggio di Dio, questo sembra cercar.
Con modalità diverse, anche gli altri però: i simboli di Cassirer e quindi la sua filosofia della cultura; la domanda di Heidegger su ciò che c’è qui e ora, sulla finitezza e dentro la finitezza, non sono forse tentativi verso una lingua originaria, una conoscenza che sappia davvero che cosa c’è e lo sappia dire? Benjamin non è dato per disperso, è solo un po’ perso, altri dopo la sua morte mostreranno come genialmente per primo ha saputo leggere e spiegare i tempi nuovi. Ma lui non lo sapeva.

Corriere La Lettura 1.7.18
Novecento
Il secolo (lunghissimo) della filosofia
di Donatella Di Cesare


Il Novecento rappresenta uno degli apici della filosofia nei suoi 2.500 anni di storia. Lo caratterizza una radicalità che si esprime nel tentativo di decostruire la tradizione occidentale. La filosofia si interroga sulle sue radici, cerca un nuovo inizio.
La rottura rispetto al passato è avvertita nitidamente. Viceversa il «secolo breve» si prolunga fin oltre l’esordio del millennio e si rivela epoca filosofica tutt’altro che conclusa. Di qui i giudizi differenti, persino opposti. Un filosofo che alcuni considerano una figura chiave, viene ritenuto da altri un impostore. Se gli animi si accendono è per via di una continuità di fondo che fa dei temi di ieri quelli di oggi.
L’estrema radicalità della filosofia si spiega alla luce degli eventi catastrofici che costellano la prima parte del secolo: le due guerre mondiali, la Shoah, Hiroshima. La riflessione sulla modernità trae spunto non solo dal progresso scientifico e dagli esplosivi risultati della tecnica, ma anche dagli incomparabili processi distruttivi e autodistruttivi. La filosofia ne è profondamente scossa, lacerata, afflitta. Diviene voce critica — non più, però, in nome della Ragione. Al contrario, il suo bersaglio è la razionalità tecnica del mondo occidentale. Occorre rimettere in discussione antichi concetti, demolire vecchi idoli, che sono passati nel repertorio delle scienze, producendo crimini e sventure.
L’effetto è dirompente. Si dubita di tutto, anche del dubbio. Viene meno persino il soggetto, protagonista incontrastato dell’epoca moderna, da Descartes a Kant. Sarà davvero autonomo, omogeneo, identico a sé, o non si deve piuttosto riconoscere, scrutando in quell’arena dove si combattono forze contrastanti, che il soggetto è stato una bella illusione? Che significa dire «io»? Mentre si dissolve una certezza dopo l’altra, resta almeno il linguaggio. È il tempo della «svolta linguistica». Sempre più apolide e nomade, la filosofia è chiamata a intervenire su temi lontani e questioni disparate.
Il Novecento filosofico viene annunciato da Nietzsche, il cui nome diventa simbolo di quell’alba. Ma i precursori sono più d’uno, outsider che vivono fuori dall’accademia, refrattaria alla creatività. Il primo è Kierkegaard che, con le sue opere dal timbro autobiografico, guarda nell’abisso della finitezza umana. Anche per chi crede — e la fede è salto rocambolesco nel non credibile — non ci sono più appigli; l’intimo dissidio è inaggirabile. La filosofia ricomincia da questa finitezza. Non è figlia del suo tempo. Piuttosto confessa la propria data di nascita.
Marx, Nietzsche, Freud, i tre grandi «maestri del sospetto», sono gli araldi di una liberazione che promette di essere ardua. Non è lo Spirito a scandire il corso della storia, bensì i rapporti di produzione e la lotta di classe. Marx chiama la filosofia a essere di parte: non basta interpretare il mondo — occorre cambiarlo! Non è la Coscienza a dirigere le azioni, perché nell’intimo abita un imbarazzante estraneo, l’inconscio, spia del corpo, complice del sesso. La psicoanalisi assesta un colpo basso al vecchio soggetto. Quello decisivo viene, però, da Nietzsche. Non è la Verità quella che molti presumono di possedere, immaginando che il loro intelletto corrisponda d’incanto alle cose. Basta guardare alla sua genealogia: la verità è un «mobile esercito di metafore», la rete che articola il mondo e in cui ciascun parlante è irretito. Con una finzione le metafore vengono innalzate a concetti. L’interpretazione contenuta nella lingua diventa la verità. Così quel maestro inerme di un pensiero pericoloso, rivelando la dottrina dell’eterno ritorno, che perpetua il progresso in decadenza perenne, smaschera il rovesciamento dei valori morali, diagnostica il nichilismo e proclama la «morte di Dio».
Sono suoi eredi i grandi protagonisti del Novecento, quelli che qualcuno chiama «maghi», qualche altro definisce gli «ultimi filosofi». A cominciare dal più controverso: Martin Heidegger. Lo scenario era già cambiato con Husserl. «Tornare alle cose stesse!»: fu questo il suo motto. La filosofia non poteva più occuparsi di teorie scientifiche né identificarsi con la storia della filosofia. Come un musicista non è uno storico della musica, così un filosofo non è uno storico della filosofia. Era urgente riandare al «mondo della vita» per delineare le cose come appaiono, i fenomeni quali si danno all’intuizione. Ecco la fenomenologia. Husserl era radicale — ma non abbastanza. Perché vedeva ancora nella filosofia una «scienza originaria» in grado di descrivere i fenomeni nella loro evidenza. All’irrequietezza il fenomenologo opponeva la quiete della certezza assoluta conquistata alla sua scrivania nell’esercizio rigoroso e nell’estasi asciutta.
Ma arrivò Heidegger. «È già notte fonda — la tempesta spazza le cime, cigolano le assi della baita, la vita è qui pura, semplice e grande dinanzi all’anima». Così scriveva il 24 aprile 1926 a Jaspers, lo psichiatra prestato alla filosofia, con il quale condivideva l’attenzione per l’esistenza. Nel 1933, quando Heidegger aderì al nazismo, s’interruppe quel sodalizio.
Già in Essere e tempo, pubblicato nel 1927, l’esistenza lascia il posto al termine «esserci», più adatto a indicare la finitezza ineluttabile. Chi ha scelto, ad esempio, di vivere proprio in quest’epoca? Heidegger parla di «gettatezza». Come può l’esserci, non solo gettato, ma anche affetto da una miriade di emozioni, raggiungere l’evidenza oggettiva? La metafisica ha sognato un soggetto sovrano che si aggira nel mondo con sguardo disinteressato per cogliere le cose in una visione teoretica. Questo sogno si sgretola. Chi mai nella quotidianità vive così? Ciascuno si muove tra le cose che gli stanno intorno, a portata di mano, utilizzandole. Se deve aprire una porta, fa uso della maniglia. Non cerca di conoscerne l’essenza. L’uso pratico è possibile perché gli oggetti non sono dati nella loro «nudità», ma sono sempre precompresi grazie all’articolazione della lingua che offre l’orientamento. Rispetto al comprendere, che è primario, il conoscere è derivato e secondario. È la svolta ermeneutica della fenomenologia. Nel mondo della vita Husserl ha dimenticato il linguaggio.
La filosofia, però, non si limita a descrivere; risveglia dal sonno in cui ciascuno consuma l’esistenza da un ente all’altro. Heidegger chiama inautenticità questo smarrimento, un’alienazione più abissale di quella di Marx. Ciascuno è convinto di essere se stesso, ma pensa e dice a partire da ciò che «si pensa» e «si dice». Vive sotto la «dittatura del si», anche quando contesta. La via dell’autenticità passa anzitutto per l’angoscia, che non è malattia da curare con psicofarmaci, bensì esperienza del nulla che, se minaccia l’esistenza, può però anche liberarla. Il secondo passo è l’essere per la morte che non significa né il crogiolarsi nel pensiero della morte né scegliere il suicidio. Nell’Occidente che rimuove la morte, Heidegger la reinserisce nella vita. Perché la morte incombe sull’esistenza; è l’unica certezza, quella di non esserci più. Solo chi guarda alla propria morte riesce a raccogliersi progettando autenticamente la propria vita.
La filosofia del Novecento è contraddistinta da episodi leggendari. Il dibattito di Davos nel 1929, da cui Heidegger esce vincitore contro Cassirer. Non meno famosi sono gli incontri a Vienna, un paio di anni prima, tra il Circolo degli empiristi logici, oltre a Schlick anche Carnap, e un filosofo singolare, Ludwig Wittgenstein. Reduce dalle trincee, quell’ingegnere ex miliardario, che aveva rinunciato all’eredità per fare prima il maestro elementare, poi il giardiniere in un convento, aveva già fatto parlare di sé per genio e stravaganza. Fu sempre attratto da un ideale monastico in un mondo dilaniato dalle lotte politiche. Influenzato dall’analisi logica di Frege, aveva studiato a Cambridge con Russell. Durante la guerra scrisse il Tractatus in cui si proponeva di tracciare il confine delle proposizioni sensate e vere. Era questo il modo per sbarazzarsi delle questioni metafisiche che fuorviavano il pensiero. «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Questa la sua lapidaria sentenza. Avrebbe dovuto essere l’ultima, ma non lo fu.
Il Tractatus è destinato a divenire un’isola in un arcipelago che emerge da un’oscura immensità. Frasi sparse, appunti, manoscritti, diari, alcuni affiorati di recente, sono l’imponente lascito di Wittgenstein la cui riflessione negli anni si approfondisce toccando l’etica, l’estetica, la religione, la psicologia. Il culmine sono le Ricerche filosofiche del 1953, considerate, insieme a Essere e tempo, l’opera capitale del Novecento. Anche per Wittgenstein il grande tema è il linguaggio. Non si tratta, però, come vorrebbero gli empiristi logici, di ripulirlo per farne uno strumento piegato a una spiegazione scientifica del mondo. Resterà il bizzarro malinteso che fa di Wittgenstein il capostipite della filosofia analitica. Ma opposta è la via che lui imbocca. La filosofia non è scienza. Il suo compito è terapeutico: può guarire dal morbo metafisico, riconducendo le parole all’impiego quotidiano, mostrandone i significati in molteplici giochi linguistici. «Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli». La critica del linguaggio si compie dentro il linguaggio per svelare abusi e sortilegi secolari: il mito dell’identità, quello del concetto e dell’interiorità. Quando si parla, già si filosofa, avallando la vecchia metafisica. Dopo duemila anni occorre ripartire da qui — questa è la rivoluzione di Wittgenstein, non ancora compiuta.
Ma c’è un altro lascito che attende di essere valorizzato: quello di Walter Benjamin. Troppo spesso i seguaci lo mettono sul piedistallo, senza raccogliere le suggestioni della sua profetica originalità. Giornalista free lance, intellettuale caotico, collezionista ossessivo, comunista anarchico, autore esoterico i cui scritti vanno dalla numerologia ebraica a Lenin, vulcano di progetti falliti, teorico dello smarrimento, morto suicida a Portbou, Benjamin è la voce che restituisce il timbro radicale del Novecento. Chi non ha letto un suo saggio non sa che cosa sia quel secolo. Benjamin mostra le condizioni di impossibilità della vera conoscenza e lo fa, anche lui, a partire dal linguaggio. L’epoca di decadenza è la caduta del linguaggio, ridotto a strumento dell’informazione. La sua profondità sembra perduta. È questo il grande lutto. La rivoluzione, attesa dagli sconfitti della storia sul baratro del progresso, si annuncia come evento del linguaggio. Un evento che è un salto, uno choc, una cesura: come la fine di un infelice matrimonio borghese, o il taglio liberatorio del debito, quello che pesa sulla Repubblica di Weimar. Un freno messianico interromperà quell’opprimente crepuscolo di luce artificiale che è il capitalismo.
Nel dopoguerra la filosofia si ferma a riflettere: sullo sterminio, la catastrofe europea, la condizione umana. In Francia l’Esistenzialismo tenta con Sartre una ripresa, in chiave marxista, della tradizione umanistica. In un dialogo a distanza Heidegger ribadisce la sua posizione nella Lettera sull’«umanismo» del 1947: inutile ostinarsi a vedere nell’uomo un animale razionale. Questa visione riduttiva manca la potenzialità dell’esserci umano che può ancora riconoscere la riduzione della ragione alla tecnica. È questo il terrificante ingranaggio: chi usa la tecnica non si accorge di essere usato.
Nel marxismo occidentale, dove si era distinta l’opera di Gramsci, nonché il pensiero affascinante di Bloch, le voci sono discordanti. Se Lukács intitola La distruzione della ragione il suo libro del 1954 che vorrebbe spiegare quel che è accaduto, Adorno e Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, nella Dialettica dell’Illuminismo puntano l’indice contro l’epopea della Ragione occidentale culminata nei progetti totalitari. Il nazismo è nato nella civiltà, non nella barbarie. Il dominio razionale del mondo assume, con la scienza e la tecnica, forme perverse che non producono libertà, ma creano piuttosto dipendenza. Nella Dialettica negativa Adorno sottolinea il potere burocratico della tecnocrazia che, nel tardocapitalismo, va facendosi globale.
C’è un tratto violento della filosofia occidentale: la volontà di appropriarsi di ciò che è altro da sé, di inglobarlo. Auschwitz non è che la conclusione «logica» di un totalitarismo ego-centrico sempre vittorioso sulle differenze altrui. Incapace di uscire da sé, non disturbato da rimorsi, questo «io» detestabile si è svincolato da qualsiasi responsabilità. Ma senza l’esodo verso l’altro, l’io neppure esisterebbe. Si alza potente la voce di Lévinas per raccogliere, dopo Rosenzweig e Buber, l’eredità dell’ebraismo e per chiedere che l’etica diventi filosofia prima. Il tema della responsabilità, rilanciato da Jonas, sarà un motivo ricorrente negli ultimi decenni del secolo, mentre l’etica assumerà enorme importanza e, dando luogo alla bioetica, finirà tuttavia per suddividersi in numerosi ambiti.
E le donne? La novità del Novecento è la loro presenza. Le prime vengono dall’intellighenzia ebraica e siedono nelle aule delle università tedesche: Edith Stein, Hannah Arendt, Jeanne Hersch. A loro si aggiungono Simone Weil e María Zambrano. Non si deve però fraintendere: la filosofia delle donne non è di per sé filosofia femminista. Lo prova la riflessione politica di Arendt: dalle Origini del totalitarismo alla Banalità del male e alla Vita activa. Il femminismo risale al Secondo sesso di Simone de Beauvoir, libro destinato a un enorme successo. In seguito emerge una divaricazione tra le filosofe che, come Kristeva e Irigaray, lavorano sull’identità femminile, e quelle che, sulla scia di Butler, decostruiscono il concetto stesso di genere.
Dall’ermeneutica di Gadamer alla decostruzione di Derrida, dalla nuova fenomenologia alle correnti analitiche, la filosofia al volgere del secolo resta per un verso nel solco di Heidegger e Wittgenstein, per l’altro si diversifica in una varietà di temi, ambiti e questioni, dove riesce difficile indicare quel che resta in comune. C’è chi prosegue nel distruggere la metafisica, mentre altri tentano un’opera di ricostruzione. Se non vengono meno le tensioni fra la tradizione anglosassone e quella continentale, stridente è il contrasto che emerge, nella filosofia politica, fra l’approccio fortemente normativo di Rawls, Walzer e altri americani, molto ossequiosi, come Habermas, verso la democrazia liberale, e un approccio ben più critico che si sviluppa nel contesto francese e in quello italiano.
È con Foucault che la filosofia si spinge nei sobborghi rimossi della follia, della malattia, del crimine, della sessualità, entra nelle prigioni e nelle cliniche psichiatriche. Con un immenso lavoro di scavo, una «archeologia del sapere», si articola in un’indagine minuziosa di regimi discorsivi per lasciare che venga alla luce la «microfisica del potere». Senza la genealogia di Nietzsche questo ulteriore attacco al pensiero metafisico ortodosso non sarebbe stato possibile.
Se nel panorama frastagliato è arduo dire quali riflessioni avranno fortuna nel futuro, se non è escluso che, chi come Badiou, osannato come il più grande, finisca in una nota a piè di pagina, certo è che Nietzsche e Heidegger sono tornati alla ribalta grazie a Sloterdijk, prima con la Critica della ragion cinica, poi con le Sfere, storia filosofica della globalizzazione. A riprova che il Novecento, inteso come epoca filosofica, non si è ancora concluso.

Corriere La Lettura 1.7.18
Le sirene, una malattia oltre il mito
di Stefano Bucci


Tutta la potenza e la modernità di un mito. Quello delle giovani donne-pesce che spuntavano dalle acque del mare e che, con il loro dolcissimo canto, incantavano i naviganti facendoli naufragare (in realtà Omero nel XII libro dell’Odissea le descrive semplicemente «sedute sul prato», l’iconografia classica le voleva metà donne e metà uccelli). Un mito tuttavia capace da sempre di conquistare gli artisti con il fascino della bellezza mostruosa. Perché di sirene (anche nelle loro più classiche mutazioni, quelle dei Tritoni, delle Nereidi, quelle celebrate dagli Etruschi, dai Greci, dai Romani) è affollato ancora oggi un immaginifico bestiario che assembla le creature inventate dall’anonimo artigiano che attorno al 1100 scolpisce, in pietra, il capitello della chiesa di San Sigismondo, a Rivolta d’Adda (Cremona), e dall’«armoraro» Filippo Negroli che nel 1543 crea un fantastico elmo in ferro e oro (oggi al Met di New York); dall’Arcimboldo e da Marc Chagall; da Auguste Rodin e da John William Waterhouse.
Paradossalmente, però, la mostra aperta fino al 30 settembre al Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma (La sirena: soltanto un mito?) parte dalla classicità, quella di un raro ex voto del IV-III secolo a.C. ritrovato nella necropoli di Veio nell’Ottocento, per avvicinarsi in maniera sorprendente alla contemporaneità, una contemporaneità che coinvolge mito, religione, arte, scienza e medicina: quella, recente, delle sirene secondo Kiki Smith (Sirens), creature demoniache che sul corpo confondono piume e squame; quella della sirena con il volto della top model Kate Moss fusa in oro da Marc Quinn (Siren, 2008); quella della grande scultura blu scuro (Mermaid, 2017) che occupava Punta della Dogana durante la monografica-evento di Damien Hirst a Venezia. Quella di figure indefinite tanto nella loro diversità (una coda da pesce, la pelle verde, le corna da cervo) quanto nel loro sesso (così, nel 2012, Elmgreen & Dragset avrebbero potuto senza tanto scandalo piazzare nella baia di Elsinore Han, versione maschile in alluminio della Sirenetta di Copenaghen).
Intorno a questo singolare intreccio di mitologia e di scienza (che ha visto coinvolti, oltre al Museo di Villa Giulia, altre istituzioni romane come il Dipartimento di medicina molecolare del Museo di storia della medicina, il Polo museale della Sapienza, la Fondazione San Camillo Forlanini) ruotano racconti e immagini che fanno comprendere come nel mondo antico alcune malattie — per esempio il nanismo e l’epilessia — fossero ritenute straordinarie. E come, nel mondo etrusco, numerose manifestazioni del sacro venissero collegate in maniera quasi automatica all’evidenza di anomalie o di «comportamenti divergenti dalla norma» in bambini a loro volta ritenuti prodigiosi. E come, ancora, nella letteratura latina ricorressero di frequente termini quali monstrum o prodigium, paragonabili al greco téras e (allo stesso modo) destinati a esprimere concetti legati al soprannaturale, più o meno funesto. Concetti che potrebbero essere oggi tranquillamente utilizzati per Il mostro della laguna nera dell’horror di Jack Arnold (1954) come per l’uomo anfibio di La forma dell’acqua di Guillermo del Toro (2017, Leone d’Oro a Venezia, quattro Oscar tra cui miglior film e miglior regista).
L’ex-voto che fa da «pretesto» alla mostra evoca, in maniera suggestiva e molto chiara, un corpo affetto da una rarissima malformazione congenita, la sirenomelia, grave patologia che determina lo sviluppo di un singolo arto, simile a una coda di pesce. Dunque, il lato scientifico della diversità. A sottolinearlo arriva dal Museo di anatomia patologica della Sapienza il reperto anatomico di una neonata affetta appunto da sirenomelia. All’elemento prodigioso (e poetico) volutamente si contrappongono lo «sguardo tecnico» degli strumenti chirurgici, di quelli diagnostici e delle cartelle cliniche; e poi quello «sociale». Nella Grecia classica Platone sognava un mondo senza patologie mentre Ippocrate e la sua medicina si basano sull’edificazione di una società risanata dalle malattie. Sarà soltanto la cultura alessandrina che sceglierà di rappresentare con verismo (e talvolta compiacimento) la decadenza fisica e la malattia.
Sono storie e suggestioni di religione, scienza, arte e medicina che fanno comprendere come nel mondo antico, al pari della sirenomelia, fossero ritenute «straordinarie» altre patologie rare. Tra queste, il nanismo acondroplastico che avrebbe colpito la tozza figurina intenta a liberare un picchio nero in una pittura della Tomba François di Vulci. O la progeria, malattia genetica che si manifesta nei bambini con evidenti segni di invecchiamento e con uno sviluppo precoce di malattie tipiche delle persone anziane: quella che avrebbe afflitto Tagete, il fanciullo divino dalle sembianze di vecchio, raffigurato nella Gemma Castellani, agata di età micenea (nella collezione del Museo etrusco di Villa Giulia). La stessa malattia che potrebbe avere manifestato Benjamin Button nel racconto breve di Francis Scott Fitzgerald (1922). Ancora una volta, nel mondo antico come in quello contemporaneo, la storia e, in qualche modo, la celebrazione della diversità. In tutte le forme.

Corriere La Lettura 1.7.18
L’epos
Da mostri a seduttrici per merito di Omero
di Eva Cantarella


Per noi le sirene sono donne bellissime, con la parte inferiore del corpo in forma di pesce. Ma la tradizione che dà loro questa forma non è greca, nasce solo nel Medioevo: per i Greci le sirene avevano testa di donna e corpo di uccello, come ce le mostra tra l’altro un celebre vaso, sul quale svolazzano sopra la barca di Ulisse, che si è fatto legare all’albero dai compagni per ascoltare il loro canto senza fare la terribile fine che aspetta chiunque lo ascolti. Come scrive Omero, chi sente la loro voce «mai più la sposa e i piccoli figli,/ tornato a casa, festosi lo attorniano,/ ma le sirene dal canto armonioso stregano/ sedute sul prato: pullula in giro la riva di scheletri/ umani marcenti; sull’ossa le carni si disfano». Lungi dall’essere affascinanti, le sirene greche erano simili alle Arpie, anch’esse metà donna e metà uccello, temute perché, oltre all’abitudine di rapire i bambini, avevano il compito di accompagnare le anime nell’aldilà. E lì giunte cedevano il passo alle sirene, che con voce sgradevolissima, gracchiando, le conducevano da Ade e Proserpina, i sovrani di quel terribile mondo. Per i Greci, insomma, le sirene erano demoni dell’oltretomba. Ma come, perché accadde che in Omero perdessero l’inquietante somiglianza con le Arpie e acquistassero una voce melodiosa, cui nessuno poteva resistere? Tra le ipotesi, quella che Omero, che a volte attingeva ai racconti popolari (come prova il personaggio di Circe, la maga con la bacchetta), si sia ispirato a un uccellino dalla voce melodiosa e incantatrice, famoso nel folklore orientale. Ma ammesso che questa sia la spiegazione, un mistero resta: cosa cantavano le sirene? Svetonio racconta che l’imperatore Tiberio perseguitava i grammatici con questo interrogativo, al quale nessuno sapeva rispondere. Meglio così: il segreto della seduzione ingannevole rimane e ciascuno di noi può continuare a cercare e trovare la sua risposta.

Corriere La Lettura 1.7.18
La scienza
Un difetto raro e grave che colpisce le gambe
di Luigi Ripamonti


Le sirene esistono anche nella realtà. Ma di solito per pochissimo tempo. Per loro la luce, nei rarissimi casi in cui la vedono, si spegne molto rapidamente. I bambini-sirena sono quelli affetti da una rara malformazione congenita, definita sirenomelia, proprio perché caratterizzata sostanzialmente dalla fusione degli arti inferiori, il che richiama ovviamente le leggendarie creature marine. Di sirenomelia esistono diverse varianti, fra cui la sinpode (presenza di due piedi), la monopode (un piede solo) o la ectromelica (assenza di entrambi i piedi). In realtà, però, la condizione è molto più complessa di quanto possa apparire da una descrizione sommaria con riferimenti mitologici e ha drammatiche declinazioni, che comprendono menomazioni di vario tipo, in particolare a carico dell’apparato genitale e urinario. Tanto che talvolta, come è accaduto nell’ultimo caso che ha avuto eco nelle cronache, quello di un bambino nato nel 2017 in India, non è stato neppure possibile stabilire il sesso del piccolo, che è deceduto poche ore dopo la nascita. Nella maggior parte dei casi la sirenomelia provoca peraltro la morte prima della nascita o nel giro di pochi giorni al massimo. Il caso di sopravvivenza più lungo sembra essere stato quello di Tiffany Yorks, una ragazza statunitense che è vissuta fino a 27 anni. Altri casi noti sono quelli di Shiloh Pepin e di Milagros Cerrón. La prima, anch’essa americana, è vissuta fino ai dieci anni; la seconda, peruviana, fino ai cinque.
Non si conoscono le cause che provocano la sirenomelia. È stato ipotizzato che il problema abbia origine da una formazione anomala dei vasi che irrorano la parte inferiore dell’organismo.
La sindrome della sirena si verifica in media in un caso su centomila nascite, ed è poco meno frequente della condizione più famosa dei gemelli siamesi, che è conseguenza di una tardiva divisione dell’embrione.

Il Sole Domenica 1.7.18
David Bidussa. Una riflessione sulle ragioni della rivolta e la sua attualità
Il tempo lungo (e il bilancio) del ’68
The Time is Now a cura di David Bidussa Chiarelettere, Milano, pagg. 224, € 13
di Mario Ricciardi


Nella copiosa letteratura che ha accompagnato il cinquantesimo anniversario del Maggio Francese il libro curato da David Bidussa si distingue per due caratteristiche. La prima è che si tratta di una raccolta di testi che, mettendo a disposizione del lettore brani di diversa natura e provenienza, gli consente di avere accesso diretto a pensieri e parole di alcuni protagonisti della protesta, e di diversi autori che, in vario modo, l’hanno ispirata e accompagnata.
La seconda è che la selezione di testi fatta da Bidussa assume sullo sfondo una doppia prospettiva interpretativa, che tiene conto sia del “tempo corto” sia del “tempo lungo” del Sessantotto.
L’effetto di questa doppia prospettiva temporale, che si muove tra partecipazione e riflessione, è molto interessante perché permette, grazie all’ordine cronologico dei brani, di ricostruire il filo di un clima di opinione che ha origine diversi anni prima rispetto all’insurrezione francese, e prosegue con una certa intensità almeno fino agli anni Ottanta del secolo scorso. Se, come hanno osservato diversi storici, da Eric Hobsbawm a Paolo Pombeni, il Sessantotto può essere a buon titolo considerato una “rivoluzione degli intellettuali” (per riprendere l’espressione coniata da Lewis Namier per descrivere le rivoluzioni del 1848), la lettura di questi testi è effettivamente utile per mettere insieme i diversi motivi che si intrecciano nel discorso della rivolta.
Gli scritti di don Lorenzo Milani (sulla disobbedienza civile), di Ernesto Che Guevara (sul Vietnam), di Martin Luther King (sul valore e la forza dell’utopia, il notissimo discorso di «I Have a Dream») e di Nelson Mandela (sul significato e l’importanza delle libertà civili) fanno emergere in maniera limpida le ragioni della rivolta e le contraddizioni che finiranno per metterla in crisi. In maniera molto sommaria, possiamo individuare alcuni nuclei. La critica dell’autoritarismo della società borghese tradizionale, l’esigenza di fare i conti con le diseguaglianze sociali, rese più stridenti da una fase di sviluppo economico (c’è, in questo, un interessante parallelo con il 1848), il rapporto difficile con la democrazia parlamentare.
Da un lato, in Milani, in Mandela e in King, c’è forte l’istanza di una critica morale delle istituzioni politiche e legali, che si manifesta però in forme - la disobbedienza civile - che non mettono in discussione il fondamento della democrazia parlamentare, ma cercano di renderla più aperta al cambiamento. Lo scontro, in un certo senso, è sulla migliore interpretazione dei principi di giustizia su cui si regge una democrazia. Un tema che, non a caso, viene messo a fuoco, proprio in seguito alle proteste degli anni Sessanta, da due grandi filosofi della politica, Hannah Arendt e John Rawls. Dall’altro lato, c’è la spinta rivoluzionaria, di vaga ispirazione marxista, che pone in modo molto chiaro il tema della violenza come strumento del cambiamento. Guevara è un combattente, e il suo è un richiamo alla battaglia. In un Paese come il nostro, che ha conosciuto, proprio dopo il Sessantotto, una lunga stagione di violenza motivata politicamente, la versione rivoluzionaria del discorso della rivolta acquista inevitabilmente un tono inquietante, che non si può sottovalutare.
Sarebbe sbagliato, tuttavia, vedere nella violenza politica un esito necessario della rivolta sessantottina. Di grande interesse, sotto questo profilo, è il brano di Guido Viale sul ruolo dell’università. Per quanto molte delle proposte del movimento fossero ingenue e velleitarie, non c’è dubbio che gli orizzonti della ricerca, specie nelle scienze umane, furono arricchiti dalla pressione del movimento. L’attenzione per temi che erano estranei alla visione “olimpica” della cultura occidentale, la spinta critica che emerge con forza in settori come la psichiatria (di cui c’è testimonianza nel bel testo di Franco Basaglia), hanno lasciato il segno e, a distanza di anni, e con l’affievolirsi degli eccessi iniziali, si sono dimostrate fertili sul piano della ricerca e della pratica.
A cinquanta anni di distanza è difficile evitare la richiesta di un bilancio politico. Nell’antologia ciò avviene principalmente attraverso due brani, uno di Alex Langer e l’altro di Giorgio Gaber, che indicano due vie d’uscita dal Sessantotto. La prima, da sinistra, che apre la strada ai temi, che diventeranno importanti negli anni Ottanta, della sostenibilità ambientale. La seconda, da destra, di uno scetticismo individualista che si allontana dall’impegno.
L’impressione che se ne trae è che, come aveva intuito sin dall’inizio Eric Hobsbawm, il Sessantotto, nonostante l’uso di un linguaggio fortemente politico, non avesse scopi politici definiti. Che la rivolta, non trovando sbocco in una rivoluzione, si sia presto trasformata in una ricerca di «cambiamento senza un contenuto definito» (come scrive lo stesso Bidussa nell’introduzione). Distruggere senza costruire. La politica, verrebbe da dire, è altro. Richiede istituzione per sopravvivere al movimento.

Il Sole Domenica 1.7.18
L’eutanasia del duce
Emilio Gentile. L’accurata ricostruzione, sulla base anche delle carte Federzoni, del 25 luglio: Mussolini quasi “propiziò” la sua caduta per «scendere dal treno della storia»
25 luglio 1943 Emilio Gentile Laterza, Roma-Bari, pagg. XXV-288, € 18
di Raffaele Liucci


Il 25 luglio 1943 fu «una giornata movimentata» nell’alloggio segreto di Amsterdam che da un anno nascondeva Anna Frank e i suoi famigliari. Le pareti della casa vennero scosse da ben tre bombardamenti, un forte odore di bruciato si sprigionò nell’aria, una spessa nebbia caliginosa scese sulla città. L’indomani Anna sarà però svegliata da «una splendida notizia, così belle non ne avevamo udite da mesi, forse mai in tutti gli anni di guerra». Mussolini aveva rassegnato le dimissioni, il Re d’Italia ripreso lo scettro del comando: «Eravamo felici. Dopo tutti gli spaventi di ieri, finalmente qualcosa di buono e… una speranza. Speranza nella fine, speranza nella pace».
In Italia, la notizia s’era diffusa la sera stessa. Il giubilo popolare per la cacciata del duce si sfogherà simbolicamente contro i vessilli e i simulacri del ventennio, in un’ansia catartica che prefigurerà Piazzale Loreto. Come ricorda Emilio Gentile nel suo libro, senz’altro il più approfondito mai dedicato al tema, l’insieme di eventi passati alla storia come «25 luglio» era in realtà iniziato 24 ore prima: allorché alle 17 del 24 luglio 1943 s’era riunito a Palazzo Venezia, nella sala del Pappagallo, il Gran Consiglio del Fascismo, organo supremo del regime. Dopo più di dieci ore, alle 2,30 della notte, fu votato a maggioranza un ordine del giorno di Dino Grandi (presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni) che di fatto sfiduciò Mussolini. Alle 17,30 di quella stessa giornata, all’uscita da un’udienza con il Re Vittorio Emanuele III, Mussolini sarà arrestato dai carabinieri e sostituito dal maresciallo Pietro Badoglio. Il regime littorio terminava così, sciolto come neve al sole da un colpo di mano militare ordito nelle segrete stanze con l’avallo della Corona.
Par di vederli, i gerarchi riuniti nella sala del Pappagallo, tra velluti blu e quadri d’autore. Seduti ai propri tavoli disposti a ferro di cavallo, con il duce al centro in posizione sopraelevata, contemplavano vent’anni di dittatura. La guerra ormai persa, la Sicilia invasa dal nemico, Mussolini diventato «l’uomo più odiato d’Italia» e i suoi moschettieri alla disperata ricerca di una via d’uscita. Tanto evocato nel nostro immaginario, il 25 luglio resta tuttavia una data fluttuante nella memoria piuttosto che un avvenimento storico accertato in via definitiva. Mancando infatti il verbale della seduta, non potremo mai sapere come andarono effettivamente le cose, se non basandoci sulle diverse testimonianze dei protagonisti. Da Grandi a Federzoni, da Bottai a Cianetti, quasi tutti hanno rievocato quel giorno cruciale.
Gentile ha compulsato e collazionato queste memorie (ben ventidue), giungendo alla conclusione che si tratta di «apocrifi d’autore». Redatti dopo il crollo del regime e rimaneggiati con il senno di poi, offrono «una rappresentazione parziale, lacunosa o semplicemente falsa», essendo ognuno dei comprimari «impegnato unicamente a far risaltare la coerenza, la dignità, il coraggio, la consapevolezza del proprio comportamento. Salvo poi contraddirsi in successive versioni o smentirsi reciprocamente». Il mosaico resta insomma monco, con molte tessere che non s’incastrano. Mutatis mutandis, è quanto accade anche allo studioso che tentasse di ricomporre i «55 giorni» del sequestro Moro basandosi sui resoconti dei brigatisti. Sarà interessante vedere come risolverà il rebus Miguel Gotor, il quale ha in cantiere un volume sul 16 marzo 1978 (strage di via Fani), ospitato nella stessa collana laterziana («10 giorni che hanno fatto l’Italia») che accoglie questo libro sul crepuscolo del fascismo.
Sin qui la pars destruens di Gentile. Ma uno storico non può limitarsi a smontare, attraverso la puntuale esegesi delle fonti, una versione distorta; deve anche giungere, per successive approssimazioni, a una ricostruzione plausibile. In assenza di un verbale ufficiale, non restava che andare alla ricerca di tracce il più possibili coeve. Gentile ha avuto la fortuna (o la sagacia) di rinvenire due documenti inediti nell’archivio del presidente dell’Accademia d’Italia Luigi Federzoni (le note da lui prese durante la riunione e il verbale manoscritto a più mani compilato a casa sua qualche giorno più tardi), cui vanno aggiunti gli appunti raccolti da un altro partecipante, il guardasigilli Alfredo De Marsico, non inediti ma sinora trascurati dagli studiosi. Pur non risolutivi, questi reperti aprono uno squarcio significativo sull’ultima notte del regime, permettendo all’autore di formulare una suggestiva interpretazione degli eventi.
Il «25 luglio», sostiene Gentile, è stato una sorta di grande equivoco. Da un lato, non fu subìto, ma quasi propiziato da Mussolini. In un regime totalitario, infatti, nessun organo dello Stato avrebbe mai potuto sfiduciare il capo supremo. Però il duce era ormai stanco e rassegnato, conscio dell’abisso in cui aveva condotto il paese. Non fece nulla per bloccare quella votazione, che sfruttò anzi come «un espediente», non particolarmente eroico, «per scendere dal treno della storia». Dall’altro lato, gli eterogenei firmatari dell’ordine del giorno Grandi non intendevano abbattere la dittatura, ma soltanto sollecitare Mussolini a restituire il comando delle Forze Armate al Re. Essi stessi rimarranno sorpresi dal colpo di Stato attuato l’indomani dai vertici militari, già in programma, va sottolineato, indipendentemente dall’esito della seduta del Gran Consiglio.
«Tutto quello che è accaduto doveva accadere, poiché se non fosse dovuto accadere non sarebbe accaduto», scrisse Mussolini nel primo dei suoi «pensieri» vergati durante la prigionia. Velatamente, il duce ammetteva dunque che il 25 luglio non vi era stata né una congiura di traditori (o patrioti, come avrebbe detto Grandi), né un suicidio del regime (secondo la lettura di Badoglio), bensì un’eutanasia, da lui scelta consapevolmente. «Quando un uomo crolla col suo sistema», ribadirà ancora Mussolini, «la caduta è definitiva, soprattutto se quest’uomo ha passato i sessant’anni». Allorché il 18 settembre 1943 il duce, resuscitato da Hitler, annuncerà da Radio Monaco il proprio ritorno, «dopo un lungo silenzio», Benedetto Croce annoterà di essere rimasto indifferente: «perché egli prese in me la figura di un fantoccio di pezza, che ha perduto la segatura della quale era imbottito, e pende e si ripiega floscio»

Corriere 1.7.18
L’intervista Nicola Zingaretti
«Farò un Pd diverso I 5 Stelle si divideranno, dovremo confrontarci»
intervista di Aldo Cazzullo


Zingaretti, allora si candida?
«Io ci sono. Anche se sono il primo a dire che il problema fondamentale non è il segretario».
Qual è allora?
«Riaprire una sfida collettiva. Molti di noi sono fuori da noi. C’è un popolo di competenze e di sensibilità che è disperso, frammentato. E c’è una nuova generazione, molto combattiva, che non ci ha mai incontrati. L’obiettivo è riaggregare. Ricostruire una cultura politica che ti faccia sentire parte di qualcosa. Sostituire alla rabbia interna la passione, alla polemica il contenuto».
E come?
«Con un Pd diverso, per costruire una nuova alleanza azzerando le attuali forme politiche. Anche la nostra. Dobbiamo saper includere e valorizzare come Pd le forze produttive, le energie popolari e sociali, in una forma-partito radicalmente democratica, capace di conciliare una forte leadership collegiale e decisioni dal basso».
Calenda parla di Fronte repubblicano.
«Ogni ipotesi frontista su categorie non sentite intimamente dalla gente porterà a nuove sconfitte. Però apprezzo l’impegno di Calenda su molti contenuti che condivido. Il nostro movimento deve animare una larga alternativa per il governo del Paese; che non significa rimettere insieme i cocci, ma immaginare l’Italia del 2050».
Nel 2050 molti di noi saranno morti.
«Noi dobbiamo pensare alle nuove generazioni. Di più: dobbiamo imparare da loro. In Italia c’è un’enorme questione giovanile, che la politica neanche riesce a vedere. Forse è la prima volta nella storia che la nuova generazione ha tanto da insegnare a quella precedente. I nativi digitali rappresentano un’opportunità, anche per i “padri analogici”. Non riesco ad accettare questo spreco di energie e talenti».
Quali sono i tempi della sua candidatura? Quando deve tenersi il congresso Pd, secondo lei?
«Il congresso del Pd è indispensabile prima delle elezioni europee. Ma anche insufficiente. Occorre aprire una fase nuova. Riunire le energie intellettuali, professionali, scientifiche che da tempo sono diventate ancelle del potere o cassandre isolate. Scrivere un manifesto che andrebbe discusso, arricchito e corretto da mille, diecimila agorà, dove la gente liberamente possa, dal basso, in modo talvolta rozzo e contraddittorio ma vero, elaborare le suggestioni di un’Italia futura. A partire dalla loro condizione reale».
Anche Prodi propone di andare oltre il Pd. Orfini risponde che oltre il Pd c’è la destra.
«Se fosse vero, sarebbe di destra l’82% degli italiani; e mi rifiuto di crederlo. Non occorre una discussione interna che sia utile a noi e non all’Italia. Ci attende un lavoro paziente, collettivo e umile. Noi non dobbiamo chiedere a nessuno di aderire a qualcosa di preconfezionato; dobbiamo chiedere a tanti di costruire insieme una nuova proposta».
Ha senso eleggere un segretario in assemblea a luglio e cambiarlo con le primarie a marzo?
«Ho fiducia nelle scelte di Martina. Sta raccogliendo le opinioni di tutti; saprà trarne una sintesi. Vedremo cosa proporrà all’assemblea nazionale del 7 luglio sulla data e il percorso per il congresso».
Renzi cosa farà?
«Dipende in gran parte da lui, se si sentirà di dare il suo contributo».
Potrebbe andarsene?
«Non ne ho la più pallida idea. Penso e spero di no».
Se lei fosse eletto segretario, resterebbe anche presidente della Regione?
«Credo che fare l’amministratore sia un valore aggiunto: significa portare nella politica la concretezza e la durezza della vita reale dei cittadini. Se il 4 marzo mi hanno votato 340 mila persone che alle politiche hanno scelto un’altra coalizione, è perché il Cotral ha 550 pullman nuovi, i treni regionali vengono puliti tutti i giorni, la sanità che perdeva 800 milioni ha il bilancio in attivo».
Ma è possibile tenere entrambe le cariche?
«Ho sentito qualcuno, forse troppo preso dal Truman Show di una politica narcisista, dire che Nicola in questi anni è scomparso. Invece ero nella trincea dell’amministrazione e dei territori».
Salvini l’ha elogiata. Che effetto le ha fatto?
«Mi ha fatto piacere. Ha riconosciuto che nelle periferie, nel quartiere dei Casamonica, insieme con la procura e le forze dell’ordine c’è la Regione».
Ma lei di Salvini cosa pensa?
«Che rappresenta una nuova destra. Molto più decisa, marcata ed estremista rispetto a quella del ’94. Non è più la Lega di Bossi, circoscritta geograficamente e concentrata sul federalismo. È la Lega di Salvini: una forza nazionale, autoritaria, razzista e xenofoba. Occorre prendere le misure a questo nuovo fenomeno; che già si manifesta nelle forme più indecenti, con la chiusura dei porti a una nave con quasi 700 persone, tra cui tanti bambini e tante donne incinte».
È una destra che vince le elezioni.
«Ci siamo allineati al peggiore vento europeo, che spira forte. La Francia, la Germania e l’Inghilterra, nonostante Brexit, restano ancorate a princìpi democratici. L’Italia si è collocata prontamente con l’Ungheria, la Polonia, Putin, Erdogan e l’India di Modi».
È un governo di destra?
«L’insieme del governo è egemonizzato dalla destra. Ma presenta evidenti contraddizioni. Il grosso dell’elettorato che lo sostiene ha votato 5 Stelle, ed è un errore madornale considerare i 5 Stelle un’organica formazione di destra. È l’errore che non ci ha permesso di tentare un’iniziativa politica, dopo il voto, nei confronti di questo mondo».
Cosa sono allora i 5 Stelle?
«Un corpaccione dove c’è dentro un po’ di tutto. Prevale una protesta, spesso assai giustificata, verso le istituzioni italiane ed europee così come sono oggi, i partiti che sono diventati macchine elettorali. Da questa contraddizione deve scaturire una nostra opposizione intelligente, che tenda a disarticolare, a convincere, a spostare orientamenti dentro quell’elettorato».
Sta dicendo che i 5 Stelle sono destinati a «disarticolarsi», a dividersi?
«Probabile. La loro identità ha un limite che definirei genetico: una lettura della società che parte dalla presunzione di rappresentare indistintamente i “cittadini”. Va bene per raccogliere consensi, ma è letale al momento del governo. I “cittadini” non esistono, perché è “tra” i cittadini che vivono le disuguaglianze. E devi scegliere».
Cos’ha fatto la sinistra contro le disuguaglianze?
«La sinistra ha accettato il terreno del pensiero unico: mercato, meritocrazia, competizione, narcisismo, consumismo. Al massimo è riuscita a declinare un liberismo progressista. Oggi la spinta liberista ha portato al fallimento delle società occidentali; e anche la sinistra si è trovata senza la terra sotto i piedi. Non si possono riproporre vecchie ricette. Ma l’innovazione — parola inflazionata — va indirizzata verso la giustizia, contro le disuguaglianze. Altrimenti i frutti del crollo del liberismo vengono raccolti dalle forze populiste, di destra, antieuropee. E per l’Italia questo è particolarmente pericoloso».
Perché?
«Perché l’Italia ha una democrazia e una Repubblica fragili. Quelli che si proclamano sovranisti boicottando l’Europa, in realtà portano la sovranità italiana al massacro: l’Italia senza Europa sarebbe terra di conquista delle nuove, grandi, aggressive potenze del mondo. Solo l’Europa può salvarci».
Le piace questa Europa?
«No. Questa Europa, così come funziona, o meglio non funziona, è una delle cause del successo della destra. L’Europa può ridiventare popolare, se si orienta alla crescita e al sostegno della vita dei cittadini: quindi stop all’austerità. Le forze europeiste dovrebbero uscire dalla stasi e raccogliere per le strade cento milioni di firme per l’elezione diretta del presidente degli Stati Uniti d’Europa».
Ma la sinistra, finita la fase blairiana, cosa dovrebbe fare?
«Tornare all’origine della sua funzione storica. Tornare alle “persone”, come dicono i cattolici. Chiudere la forbice tra chi ha di più e chi non ha. Questa forbice non riguarda solo il salario o la società divisa in classi. L’aumento delle disuguaglianze è legato anche a un modello di sviluppo che ha colpito le aree interne del Paese, a vantaggio delle grandi città. Le nostre politiche hanno ignorato questa desertificazione; non è un caso che la Lega o la retorica dei “cittadini” inizi proprio nelle province. Dobbiamo dare una nuova centralità ai territori; anche lasciando a livello locale una quota del finanziamento pubblico ai partiti. In cambio tutti nei Comuni debbono concorrere a far crescere l’adesione al 2 per mille».
Nel Pd i territori non hanno contato molto più di nulla.
«Purtroppo, per il correntismo e la diffusione di forme nuove di notabilato, non si rappresentano più gli interessi dei territori nelle sedi decisionali; si rappresenta il proprio gruppo di appartenenza. Ciò va superato per il bene della democrazia, oggi in pericolo».
Perché in pericolo?
«Perché quando i populisti al potere non riusciranno a realizzare quel che hanno promesso, si inventeranno un ulteriore nemico esterno. Prima criticheranno le procedure democratiche, lente e inconcludenti. Poi passeranno direttamente all’attacco delle istituzioni, all’informazione, ai diritti, in chiave autoritaria».
Ma se l’alleanza di governo dovesse rompersi, il Pd potrebbe allearsi con i 5 Stelle?
«Se avessi voluto una semplice alleanza, l’avrei fatta in Regione. Però credo che dentro i 5 Stelle si aprirà un conflitto, e in futuro conosceremo un movimento diverso; con il quale sarà indispensabile confrontarsi».
Cosa risponde a quelli che la considerano poco più del fratello del commissario Montalbano?
«Non sento Luca da due mesi: ha girato le nuove puntate di Montalbano, ora organizza il suo festival a Pesaro. Siamo uniti da un amore profondo, noi fratelli e nostra sorella Angela; ma con una maniacale difesa della vita privata e dei modi distinti di vivere quella pubblica».

Il Fatto 1.7.18
Israele - La sera tutti a cena a casa di Sara: tanto paga il contribuente
L’allegra gestione dei conti della residenza ufficiale nella Città Santa: la moglie del premier Netanyahu a processo per frode
di Fabio Scuto


Il processo a Sara Netanyahu, la moglie del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, incriminata per aver speso circa 100.000 dollari in pasti a spese del contribuente, si aprirà il prossimo 19 luglio. Giornali e tv israeliani si preparano, sarà certamente un’estate calda e ricca di colpi di scena. La signora Netanyahu è stata incriminata la settimana scorsa per presunta “frode” e “violazione della fiducia” e dovrà rispondere anche di corruzione e abuso di potere. Sarà un tribunale di Gerusalemme a giudicarla per la gestione “allegra” dei conti della residenza ufficiale del premier nella Città Santa, ma anche della loro casa privata di Cesarea.
Nonostante il gossip sulla First Family di Israele sia galoppante e i giornali dell’opposizione non fanno certo sconti, l’impeachment della signora Netanyahu, non sembra avere un effetto politico immediato per suo marito, che non è coinvolto nel caso. Ma la vicenda si somma ai vari casi di corruzione – su cui indaga l’Unità speciale anti-frode 433 – che minacciano il lungo regno del primo ministro.
Lady Netanyahu è sospettata di aver ordinato tra settembre 2010 e marzo 2013, per sé, per i suoi familiari e i suoi ospiti, centinaia di pasti per una spesa di oltre “350.000 shekel” (poco meno di 100.000 euro). La Corte l’accusa di aver mentito, invocando l’assenza di un cuoco nella residenza del premier, per ordinare – fino a decine di volte nello stesso mese – pasti in diversi ristoranti esotici di Gerusalemme, dall’italiano all’asiatico o a quello del Vicino Oriente. Benjamin Netanyahu com’è immaginabile difende a spada tratta la moglie, sostenendo che nell’inchiesta si “è superato ogni record dell’assurdità” e che i tentativi di colpirlo attraverso la sua consorte falliranno.
Questa indagine fu avviata nel luglio 2015 dopo che all’ufficio del Procuratore generale erano giunte diverse denunce sulla gestione della residenza ufficiale di Balfour Street a Gerusalemme, e sulla villa della famiglia a Cesarea. Diverse segnalazioni erano arrivate proprio dallo staff di servizio della residenza ufficiale. L’inchiesta ha esaminato una serie di presunte irregolarità, tra cui le spese per almeno 15 cene riservate a ospiti privati e la falsificazione del numero di persone presenti per aumentare la fattura; un addetto alla manutenzione – pagato dallo Stato – era impiegato invece come badante per il padre di Sara; e il caso di un elettricista, amico di famiglia, incaricato di svolgere un lavoro presso la residenza e la casa della famiglia Netanyahu a Cesarea. La prestazione, costata qualche migliaio di dollari, sarebbe stata eseguita in un giorno di festa nazionale, come recita l’esorbitante fattura incriminata. Altri aspetti dell’inchiesta sono stati archiviati perché non sono stati trovati illeciti: comprendevano mobili da giardino comprati per la residenza ufficiale e finiti invece nella casa privata della coppia a Caesarea, l’acquisto di migliaia di dollari in candele profumate, e il bottlegate: Sara Netanyahu avrebbe scambiato bottiglie vuote, acquistate con fondi pubblici per l’uso della residenza del Primo Ministro, per un importo di oltre 4.000 shekel. Nel settembre 2017, il procuratore generale Avichai Mendelblit annunciò che avrebbe presentato un’accusa contro Sara Netanyahu, oggetto di un’audizione preventiva.
L’udienza si è svolta in gennaio ed è stata poi seguita da negoziati per trovare un patteggiamento ed evitare lo spettacolo della moglie del premier alla sbarra.La difesa di Sara Netanyahu ha respinto però ogni tentativo di raggiungere un accordocon i pubblici ministeri. Accettando di pagare le spese “ingiustificate” e ammettendo i fatti accertati contro di lei, le accuse sarebbero cadute. Ma Sara non ne ha voluto sapere.
È noto a tutti a Gerusalemme che qualsiasi nomina, investitura, candidatura, decisa dal primo ministro passa prima per il vaglio della moglie. Bibi e Sara sono, come scrivono i giornali israeliani, un brand indissolubile, nonostante le disavventure, le gaffe, e gli scandali sulle spese e le questioni legali con il personale di servizio. Inciampi sui quali il gossip impazza sempre. Ma tutti sanno però che alla fine “chi tocca Sara muore”. Ne hanno fatto le spese negli anni diversi parlamentari, diplomatici, membri dello staff, ministri e perfino un capo del Mossad. È stata “intoccabile”, almeno finora.
“C’è un lato positivo in tutta questa faccenda – ha scritto Yedioth Ahronoth nel suo editoriale – nonostante il lungo tempo trascorso, i ritardi e le manovre sottobanco, il procuratore generale Avichai Mandelblit ha dimostrato di non aver paura della famiglia Netanyahu, mandando Sara davanti alla Corte. E questa è certamente una brutta notizia per il primo ministro, con tutte le indagini che lo riguardano”.

il manifesto 1.7.18
Picchi di intensità per il ritmo di Achille ed Ettore
Classici ritradotti. L’esametro greco viene trasformato in una sequenza sillabica scandita con enfasi contenuta e discreta, che spesso gioca sulla sospensione precipitando nel verso successivo
di Maria Grazia Ciani


Nonostante la mole, la nuova Iliade di Franco Ferrari (Oscar «Classici», testo greco a fronte) è estremamente maneggevole e soprattutto ha il pregio di cogliere tutti gli aspetti relativi a un capolavoro antico, restituendolo nella sua complessità ma sciogliendo al tempo stesso quei nodi tecnici che tendono a rendere di difficile comprensione i testi classici. L’introduzione è fondata sulla questione dell’oralità e della redazione scritta del poema. Qui Ferrari chiarisce la «scoperta» di Parry e Lord inserendola in un quadro più ampio che si rivela a una lettura molto attenta del poema, a quei particolari considerati come «incidenti» sui quali facilmente il lettore sorvola, e che fanno pensare a una «precoce redazione scritta del poema» (come documento da conservare), tesi sostenuta dai numerosi esempi di riprese omeriche – sia pure elaborate e variate – da parte di autori posteriori a Omero, quali Simonide, Stesicoro, Alceo, Alcmane… Esistevano quindi esemplari scritti anteriori alla cosiddetta redazione pisistratea e il poema – come del resto osservava Wilamowitz – era già «pronto» quando pervenne agli Ateniesi.
Nonostante ciò o forse proprio per questo, il testo dei poemi omerici rimase a lungo «liquido e cangiante nel dettato e nel numero dei versi», e qui il curatore interviene sulla figura degli aedi (quali Femio e Demodoco nell’Odissea) , che rappresentano una sorta di archeologia del canto epico e in un certo senso precedono i rapsodi, che si esibivano per lo più nelle feste recitando pezzi staccati dell’epopea e si davano il cambio, raccogliendo l’uno il testimone dell’altro. Ma l’osservazione più interessante – al di là di altri particolarità su cui sorvolo – è, a mio parere, quella sulla concezione dell’Iliade stessa, poema di guerra, ma fino a un certo punto, in quanto si basa innanzitutto sull’ideologia del dono e dell’onore per poi trasformarsi in una visione allargata della vita e del destino dei singoli, mentre la guerra, pur nella ferocia delle descrizioni, diventa lo sfondo necessario ma non fondamentale del racconto.
In conclusione: un’introduzione originale, concreta, che si sofferma su particolari in genere tralasciati, ignorati, poco analizzati – i quali invece mettono in luce la frastagliata realtà di questi poemi che in genere si leggono e studiano tenendo conto delle parti più poetiche, dimenticando che la filologia, quando è applicata con chiarezza e ariosità, apre scenari inattesi e svela minuti e affascinanti misteri.
Asciutto ed essenziale il commento, variegato in quanto unisce rilievi tecnici e informazioni necessarie senza dilungarsi in interpretazioni fantasiose: modello da imitare specie trattando opere così vaste e complesse. E lo stesso dicasi della «Nota filologica», che ci presenta un tratto della storia della filologia interessante come un romanzo, sfatando una volta di più l’idea che questi argomenti siano la morte della poesia.
Abituale asciuttezza
Infine, la traduzione, cioè l’argomento che più ci interessa e incuriosisce. E incominciamo da quanto lo stesso Franco Ferrari ci dice in poche paginette con l’abituale asciuttezza. La posizione di Ferrari è categorica ma non è facile comprendere la sua esposizione se non si possiede un concetto chiaro e una conoscenza approfondita della metrica in generale e della sua evoluzione, perché è su questa che si basa la scelta del traduttore. Risalendo al blank verse e al gioco di fusione tra la ritmica delle sillabe (italiano e lingue romanze) e quella degli accenti (lingue germaniche), Ferrari opta per lo «statuto sillabico forte della lingua italiana» (senza peraltro attenersi a una polarità secca sillaba/accento, ma a uno spettro allargato di tendenze secondo l’orientamento di Franco Fortini) – il quale fa sì che «una cadenza legata a picchi di intensità si risolva… in un ritmo scandito con enfasi contenuta e discreta, più adatto del martellante esametro barbaro pascoliano a riverberare le inflessioni dell’esametro greco».
Se la comprensione di quanto viene affermato non è facile, veniamo alla traduzione per la quale ho pensato di prendere in considerazione alcuni brani noti del poema omerico.
«Canta, Musa, l’ira…»
Ineludibile l’inizio del primo canto: «Canta, Musa, l’ira di Achille Pelide, / l’ira sciagurata che lutti innumerevoli impose / agli Achei precipitando alla casa dei morti molte / anime forti di eroi e facendo dei loro corpi / la preda di cani, il banchetto di rapaci: si attuava / il piano di Zeus da quando, scontratisi, si separarono / l’Atride capo di genti e Achille divino».
Non credo sia dovuto a suggestione il fatto che – in luogo della resa dell’esametro ad verbum, che suscita la sensazione di un racconto ininterrotto, di una specie di prosa spezzata – qui si avverta un ritmo il quale, facendo leva sulla lingua d’arrivo, «traveste», secondo l’espressione stessa del traduttore, l’esametro greco e lo trasforma in una sequenza scandita, nella quale gli enjambement – invece di scomporre l’ordito – lo rafforzano, sottolineando una sospensione che precipita nel verso seguente, in un alternarsi di pieni e di vuoti, di pause e di riprese che trascinano il lettore concentrando l’attenzione proprio sul «travestimento». Una nuova proposta di traduzione, profondamente studiata e rispettosa del testo greco senza essere né libera né pedissequa, ma originale soprattutto nella resa del «passo epico», grazie appunto all’adozione dello «statuto sillabico».
Citerò un passo del Catalogo delle navi (libro II): «Lo seguivano gli agili Abanti chiomati sulla nuca, / guerrieri avidi di squarciare con le aste protese / di frassino le corazze attorno al petto dei nemici. / Venivano con lui quaranta navi scure».
La ripetizione del ritornello, reso molto felicemente (venivano quaranta o ottanta navi scure) e la versione sincopata della rassegna rendono la misura del terrore – la forza marinara dell’intera Ellade schierata all’orizzonte, archetipo di un’Operazione Overlord ante litteram.
La bellezza di alcuni passi
Sfogliando il poema, anziché leggerlo puntigliosamente da cima a fondo, è più facile cogliere la bellezza di alcuni passi, come questi del libro IX: «Ma anche a voi altri vorrei consigliare di far vela verso casa / Perché ormai non vi accadrà di vedere la fine / Di Ilio scoscesa: stese la sua mano a proteggerla / Zeus tonante, la sua gente ha ripreso fiducia» (vv. 417-420); «Nulla per me vale il soffio della vita: non le ricchezze / Che dicono ospitasse la popolosa città di Ilio / In tempo di pace, prima che arrivassero i figli degli Achei, / né quelle che chiude al suo interno la soglia marmorea / di Febo Apollo l’arciere di Pito rupestre. / Buoi e grasse pecore si possono razzziare, bacili / E cavalli dalle fulve criniere si possono acquistare: il soffio / Della vita non si può, per farlo tornare indietro, né rubare / Né comprare una volta che abbia varcato la barriera dei denti» (vv. 401-409).
E alcuni versi tratti dalle scene di morte di Sarpedonte e Patroclo nel libro XVI: «Cadde simile a quercia o a pioppo o a pino / Svettante che calafati tagliano sui monti con scuri / Appena affilate per farne scafo di nave: / così quello giaceva disteso davanti ai cavalli / e al cocchio rantolando e stringendo la polvere insanguinata» (Sarpedonte, vv. 482-486); «Si troncò di netto nelle mani di Patroclo l’asta / Dalla lunga ombra, pesante, poderosa, dalla punta / Di bronzo e gli cadde dalle spalle con la sua cinghia lo scudo / Ben orlato. Gli slegò la corazza Apollo sovrano / Figlio di Zeus. Cecità gli invase la mente, si sfaldarono / I suoi splendidi arti, si fermò sbalordito…» (Patroclo, vv. 801-806);
Dal libro XXIV – da molti ritenuto un’aggiunta postuma – ricorderò almeno due passi significativi di quel risvolto umano della guerra che Ferrari ha sottolineato nell’introduzione: «Achille prende tra le sue braccia il cadavere di Ettore per deporlo sul carro: / Dopo che le serve lavarono e unsero il corpo / E lo avvolsero in un telo pregiato e in una tunica Achille / Lo sollevò di persona e lo depose su un letto e insieme / Con lui i compagni lo issarono sul lucido carro» (vv. 587-590); e la mirabile scena della «contemplazione»: «Allungavano prontamente le mani sui cibi imbanditi, / ma quando ebbero saziato il desiderio di bevanda e di cibo / Priamo Dardanide guardava Achille ammirandone / L’imponenza e la bellezza tanto somigliava agli dei / E Achille guardava Priamo Dardanide ammirandone / La nobile figura e porgendo ascolto alle sue parole» (vv. 627-632).
Considerata l’arte della traduzione nel suo insieme, pur citando solo pochissimi esempi, vorrei dire ancora due parole sull’uso e la resa delle formule fisse e degli epiteti. Regola aurea della tradizione epica è – si dice – il rispetto di tutti quegli elementi «fissi» che costituiscono i punti di appoggio per i cantori itineranti. A tal proposito Ismail Kadaré, rievocando in un suo docu-romanzo la scoperta dell’oralità da parte di Parry-Lord, rammenta che nei Balcani era prassi consueta la conservazione delle leggende per via orale e che esistevano gilde di cantori molto chiuse, che si trasmettevano le loro leggende col divieto assoluto di alterare alcunché, con una fissità dura e ostinata da portare alla follia (Ismail Kadare-Jusuf Vrioni, Le dossier H., Fayard, 1989).
La traduzione di Franco Ferrari rispetta l’antica regola, con qualche leggera variante peraltro giustificata dalla fluidità del poema da lui stesso sottolineata. Quindi Apollo è sempre «arciere» o «signore dell’arco», Ettore «sterminatore», gli Achei «dalle forti gambiere», Zeus «adunatore di nembi», Aiace «baluardo degli Achei», Andromaca e Era «dalle candide braccia» (confesso che la variante «candida di braccia» mi piace meno, e così «bella di guance» e simili). Trovo estremamente efficaci le formule «di morte», nelle loro lievi variazioni, che peraltro rispondono alle variazioni del testo («Lo catturò tenebra odiosa», «Morte lo avvolse», «Livida notte avvolse i suoi occhi», «La notte calò sui suoi occhi» ecc.). Qualche altra soluzione, specie degli epiteti, mi piace meno e eviterò di citarle perché è solo un mio parere, ma non posso fare a meno di confessare che là dove sono rimasta delusa è nella traduzione degli epiteti degli eroi maggiori. Non mi riconosco in un Achille «scattante di piede» o anche semplicemente «scattante», e soprattutto in Ettore «domesticatore di puledri», siano o non siano questi termini quelli più esatti per rendere il greco. Per entrambi gli eroi l’epiteto è importante, li caratterizza in modo assoluto e inoltre l’Ettore domesticatore di puledri chiude il poema – musicalmente parlando – in minore. Certo, anche questo dimostra come sia difficile tradurre l’epiteto che in sé racchiude tutta una storia, a volte ci vorrebbe un verso intero, come ha fatto quello scrittore che , citando l’ultimo verso dell’Iliade, scriveva: «Questi furono gli onori funebri resi a Ettore, a Ettore che quando era vivo, amava domare i cavalli». Bello, certo, ma non è possibile forzare e snaturare in questo modo il severo anche se fluido esametro. D’altronde quello che conta è l’insieme di questa nuova traduzione che appare diversa dalle altre e avvincente per il ritmo trascinante di quello «statuto sillabico forte» che si dimostra una scelta estremamente felice e che rende la lettura sorprendentemente scorrevole e «nuova». Una bellissima Iliade.

il manifesto 1.7.18
L’«Iliade» plurilingue di Franco Ferrari
Classici ritradotti. Negli Oscar una nuova, personalissima versione, con denso commento
di Federico Condello


«Non si è autori che a partire dalla seconda opera», diceva il Lejeune del Patto autobiografico. Aurea regola, dalla quale viene una formula tra le più fortunate del nostro marketing librario: «dallo stesso autore di…». Segue, naturalmente, menzione di uno o più bestseller anteriori. Ma cosa accadrebbe se volessimo applicare la regola, e la pubblicità che ne deriva, all’autore primo e principe, cioè a Omero? Il gioco funzionerebbe ancora? O invece Omero fa eccezione, ed è nato autore fin dalla sua prima opera, che è per noi la prima di tutte le opere a venire? L’«Oscar» omerico che si discute in queste pagine (Iliade, a cura di Franco Ferrari, pp. 1232, € 14,00) esibisce placidamente questa réclame: «di Omero negli Oscar: Iliade, Odissea». E però bisogna ammettere che la dicitura suona piuttosto spiazzante, se applicata al cieco di Chio, al poeta dei poeti. «Iliade, Odissea»: che altro mai dovrebbe esserci? «Di Omero»: siamo sicuri? E «di Omero» in che senso? Omero è forse un autore come un altro?
Eppure, a suo modo, la regola di Lejeune funziona anche per l’autore dell’Iliade e dell’Odissea. «Omero» – il suo nome, il suo mito – è decisamente posteriore ai poemi che del suo nome e del suo mito si alimentarono: appropriarsi di quei poemi, e diffonderli sotto la paternità di un proto-poeta leggendario, fu una geniale operazione di marketing letterario avvenuta nel corso del VI sec. a.C. Gli aedi che la promossero, oltre a tutelare se stessi dietro un comodo anonimato, diedero impulso a una dilagante attività pubblicitaria in virtù della quale «tutta la poesia epica, intorno al 500 a.C., è poesia di Omero» (Wilamowitz): tutta l’epica perduta che noi oggi leggiamo a brandelli. Finché essa circolò sotto il nome di Omero, fu salvaguardata. Poi si perse. Così, se dapprima «Omero» trasse lustro dall’Iliade, di lì a breve l’Iliade trasse lustro da «Omero»; e con essa l’Odissea, poema programmaticamente epigonale con cui inizia davvero «la letteratura», diceva Vincenzo Di Benedetto; e con l’Iliade e l’Odissea ogni altro epos di età arcaica a vocazione panellenica: tutti poemi provenienti a qualche titolo da Omero, cioè «dallo stesso autore di…».
E oggi? Oggi Omero è più che mai «Omero», perché la sua canonizzazione moderna – un fenomeno tutto sommato recente, di pretta età romantica – ne fa un autore più che mai anonimo, più che mai collettivo. Diciamoci la verità: situare Omero nel tempo e nello spazio non solo non ci interessa, ma ripugnerebbe al nostro gusto, e ci parrebbe lesa maestà. Semmai, ci interessa sapere chi lo traduce per noi.
In effetti, fra le infinite patenti di classicità che vanno riconosciute a Omero, una si deve sottolineare, perché la si nota di rado: Omero è l’unico «autore» classico di cui importa sapere chi sia il suo traduttore. Nessuno se lo chiede, fuori dagli specialisti, per Senofonte o Cicerone, per Seneca o Plutarco, e nemmeno per Platone o Aristotele. Omero è diverso. «Voglio rileggere Omero», oppure «mia figlia deve leggere Omero, che traduzione mi consigli?»: ecco una domanda che i classicisti si sentono porre da amici e conoscenti con la stessa frequenza con cui i medici si sentono interpellare su questo o quell’acciacco. E improvvisamente i classicisti si scoprono utili: anche se quasi mai riescono a dare una risposta secca.
D’ora in poi, per l’Iliade, la risposta risulterà forse più facile. Sì, perché a Ferrari riesce qualcosa che ai traduttori omerici riesce di rado: emanciparsi, nella misura in cui è possibile e legittimo, dal canone traduttivo anteriore. Ora, si sa che l’Omero novecentesco è indiscutibilmente quello di Rosa Calzecchi Onesti: la portentosa traduttrice forgiò nel 1950 l’italo-omerico contemporaneo; liberarsi del suo modello si è rivelato per lo più un’impresa impossibile, anche quando la si è lucidamente perseguita. Fra le rare eccezioni, il coraggioso Omero in prosa di Maria Grazia Ciani; e l’ispida, laboriosa, genialmente cervellotica Odissea del citato Di Benedetto.
Ferrari, con questa sua Iliade, si colloca da par suo fra le eccezioni. La sua Iliade viene dopo l’Odissea da lui tradotta quasi vent’anni fa; e viene dopo tanti altri classici – lirici, tragici, prosatori – volgarizzati per le maggiori case editrici italiane: se a Ferrari applicassimo la formula «dallo stesso traduttore di…», l’elenco sarebbe lunghissimo. Con l’Iliade, però, egli compie un’operazione speciale, costata anni e anni di lavoro: il traduttore cerca un ritmo e un tono che siano solo suoi; e solo sue sono tante singole soluzioni che innovano, oltre al ron-ron formulare, tutto il campionario lessicale del poema. Ne esce una stupenda Iliade plurilingue: accanto al registro aulico, c’è il colloquiale; accanto alla vaghezza lirica, c’è il vocabolario tecnico; accanto all’epiteto stereotipato – atto d’ossequio dell’aedo alla sua tradizione, che impone al traduttore un analogo tradizionalismo – c’è l’imprevisto guizzo della nominazione inedita, esatta, illuminante.
Un’Iliade nuova è una novità davvero. Le novità sono qui figlie di dottrina, non solo di felicità espressiva: quasi ogni scelta è una meditata presa di posizione esegetica. E infatti l’introduzione, la nota filologica, il densissimo commento sono fra i migliori contributi omerici recenti. La profondità si abbina a una chiarezza superba, di cui pochi sarebbero stati capaci.
«Voglio rileggere l’Iliade…». Bene: questa traduzione si può caldeggiare con ottimi motivi.

La Stampa TuttoLibri30.6.18
“Artisti, tornate a pensare in grande al Mondo serve un nuovo Rinascimento”
Dall’amore per la letteratura alle ideologie moderne, gli scritti del premio Nobel sul potere della bellezza. “Le mode, i soldi e il politicamente corretto sono trappole: per creare davvero bisogna essere in fuga”
di Leonardo Martinelli

qui

La Stampa 1.7.18
Morta “Puppi”, figlia di Himmler
“Papà non era un mostro”
di Letizia Tortello

Puppi» non aveva neppure 12 anni quando il padre, per raccontarle di quanto era bravo al lavoro, la portò a fare una passeggiata nella “grande fabbrica” di Dachau, tra gli internati ebrei in attesa della soluzione finale. Era il luglio del 1941. «Oggi siamo andati al campo di concentramento delle SS a Dachau», scrisse Gudrun sul suo diario, «è una grande azienda!». Gudrun Burwitz, la figlia di Heinrich Himmler, teorico dell’Olocausto e numero due della Germania nazista, è morta a Monaco il 24 maggio scorso, a 88 anni. È morta non lontano da quel campo di indicibili atrocità che lei giustificava. Dopo una vita passata nel culto di Hitler, lo “zio” che le regalava cioccolata e bambole per giocare, e senza mai rinnegare i crimini del nazionalsocialismo.
La notizia della sua scomparsa si è diffusa venerdì, quando il quotidiano tedesco Bild ha portato alla luce inquietanti dettagli sulla sua carriera. Per Gudrun, unica figlia di Himmler, il suicidio del padre era stato un trauma. Anche da adulta, non smise mai di difenderlo, dicendo che “non era un mostro». Era arrivata a sostenere che non si fosse suicidato, ma che fosse stato ucciso dagli inglesi.
La carriera segreta
Crebbe con la madre Margaret a Gmünd. A pochi chilometri di distanza da lei, milioni di bambini venivano gasati, «Puppi» - così la chiamava Himmler - invece passava i Natali a casa Hitler e si esaltava per i successi del Reich. Con la fine della guerra, venne catturata e mandata in campo di concentramento in Germania, poi in Francia e Italia. Fu rilasciata nel novembre ’46. Sposò il giornalista di estrema destra Wulf-Dieter Burwitz, tra i nostalgici divenne la “Principessa nazista”. Per decenni fu membro della Stille Hilfe, l’organizzazione fondata nel ’51, che ha aiutato gli ex uomini delle SS a rifugiarsi all’estero. Così riuscì a salvarsi Klaus Barbie, “il boia di Lione”, comandante della Gestapo nella città francese, sfuggito a Norimberga e rifugiatosi in Bolivia al soldo dei servizi segreti americani (arrestato negli Anni 80). Con la regia di Gudrun si nascose pure Anton Mollath, capo delle SS nel campo di Theresienstadt, vissuto indisturbato in italia dal 1948 al 1988.
Gudrun Burwitz dal ’61 al ’63 lavorò anche per il Bundesnachrichtendiens (Bnd), l’agenzia di intelligence “esterna” della Repubblica Federale Tedesca. Sarebbe interessante sapere perché era diventata uno degli agenti segreti della Germania dell’Ovest. Ma queste risposte, con la sua morte, non arriveranno mai.

Repubblica 1.7.18
Morta a 88 anni
Gudrun, una vita per negare i crimini di papà Himmler
di Tonia Mastrobuoni


BERLINO, GERMANIA Era la figlia dell’uomo più potente del regime nazista dopo Adolf Hitler: ieri Bild ha reso noto che Gudrun Burwitz è morta un mese fa, a 88 anni, dopo una vita dedicata al tentativo penoso di riabilitare la memoria del padre, Heinrich Himmler. E l’aspetto più inquietante della figlia dell’architetto dell’Olocausto non è tanto che per decenni sia rimasta un’icona dei neonazisti, attivissima nel sostegno agli ex fanatici del Führer e a organizzazioni nostalgiche.
Secondo le rivelazioni apparse sul tabloid tedesco, Burwitz avrebbe lavorato negli anni Sessanta per i servizi segreti della Germania federale. Guidati, all’epoca, da un personaggio controverso, l’ex maggiore della Wehrmacht Reinhard Gehlen, noto per aver ingaggiato numerosi ex nazisti nei servizi della giovane Germania repubblicana.
Detta ironicamente “la principessa nazi” sin dal dodicennio bruno, arrestata dopo la fine della guerra e internata brevemente in Italia, Gudrun e sua madre presero parte ai processi di Norimberga.
Dopo essere stata liberata, Burwitz annunciò per anni un libro che avrebbe dovuto riabilitare la figura del capo delle SS. Rovinata, secondo lei, dagli ebrei. Quel libro non è mai uscito. Mentre Burwitz non ha mai smentito di aver visitato con l’adorato padre il campo di concentramento di Dachau. Che le avrebbe mostrato un giardino di erbe aromatiche, scrisse. En passant, avrebbero incrociato dei prigionieri, quelli politici con la stella rossa e poi gli altri, “i criminali”.

La Stampa 1.7.18
Accusato di abusi
In cella lo storico che ha rivelato i crimini di Stalin
di Giuseppe Agliastro

Lo storico Yuri Dmitriev è tornato dietro le sbarre. L’accusa è di abusi sessuali sulla figlia adottiva tredicenne, ma in Russia molti sospettano che si tratti di un escamotage per colpire un ricercatore che ha dedicato la propria vita a portare a galla i crimini commessi dalla polizia segreta sovietica negli anni Trenta e dare un nome e un volto alle vittime delle purghe staliniane in Carelia. Le pagine più tremende del passato sono infatti troppo spesso ignorate dalle autorità di Mosca, che preferiscono diffondere una versione mitizzata della storia russa alimentando l’orgoglio nazionale col ricordo di vittorie militari e successi in ogni campo
Assolto solo due mesi fa
Dmitriev era stato assolto appena due mesi fa dalle accuse di pedopornografia che gli erano state mosse per nove foto della figlia trovate sul suo pc. Ad aprile, dopo oltre un anno di carcere, lo storico aveva finalmente visto il tribunale di Petrozavodsk accogliere la sua versione dei fatti: quelle immagini servivano a documentare che la ragazzina cresceva in modo sano e non veniva maltrattata. Non per niente erano archiviate in una cartella intitolata “Salute”. Inoltre, nella loro perizia legale, gli psichiatri assicuravano che Dmitriev non era un pedofilo. «Al giudice - spiega il medico Lev Scheglov - ho detto che se quella era pornografia dovevamo chiudere tutti i musei della Russia e del mondo perché ne sono pieni». Mercoledì sera però lo studioso è finito di nuovo in manette e l’indomani è stato incriminato per «atti violenti di carattere sessuale» nei confronti della figlia adottiva. Adesso rischia fino a 20 anni di reclusione. Lo storico, ora 62enne, in Carelia è a capo dell’Ong per la difesa dei diritti umani ‘Memorial’, da tempo sotto il mirino del Cremlino. Ha dedicato metà della sua vita a compilare una lista con i nomi di 40.000 persone uccise o deportate durante il terrore staliniano. Ma è famoso soprattutto per aver scoperto una serie di fosse comuni tra i boschi a Sandarmokh con i resti di 9.500 persone, molte delle quali uccise con un colpo d’arma da fuoco alla nuca. Sandarmokh è stata trasformata da Dmitriev in un luogo della memoria, dove la gente depone fiori e ceri per ricordare le vittime della repressione. La propaganda però rema in direzione opposta: un recente sondaggio rivela che il sanguinario Stalin è tra i personaggi più apprezzati dai russi, con un livello di popolarità in ascesa, che quest’anno ha raggiunto il 51% contro il 37% del 2005.

Corriere 22.6.18
Sospetti, trappole, processi La guerra russa allo storico che indaga gli orrori di Stalin
Dmitriyev rischia 20 anni per pedofilia e violenze. Tra mille dubbi
di Fabrizio Dragosei

MOSCA Yurij Dmitriyev, uno storico ed etnologo sessantaduenne che ha alzato il velo in questi anni sui crimini staliniani in Karelia, è di nuovo in prigione. L’accusa è di aver compiuto atti sessuali «violenti» nei confronti della figlia adottiva tredicenne. Ma la vicenda è sempre quella dalla quale era stato assolto in primavera dopo aver passato un anno in prigione. Allora l’addebito era più leggero e ruotava su nove foto della ragazzina. Adesso Dmitriyev rischia venti anni di carcere e il suo caso sta suscitando grandi polemiche.
Lo storico è il responsabile dell’ufficio in Karelia (al confine con la Finlandia) di Memorial, l’associazione fondata dal premio Nobel per la pace Andrej Sakharov che si occupa della riabilitazione delle vittime staliniane e dei diritti umani in Russia. Dopodomani si apre poi il processo contro Oyub Titiyev, direttore dell’ufficio dell’organizzazione in Cecenia. Lui, che lavora in un ambiente particolarmente ostile (controllato dall’uomo forte di Putin, Ramzan Kadyrov) è imputato di possesso di droga. Gliel’hanno trovata in macchina. Nella Russia centrale, a Yoshkar-Ola, le autorità locali stanno poi per sfrattare sempre la stessa Memorial per «violazioni amministrative». Poco distante, i funzionari dell’Organizzazione non governativa hanno scoperto una fossa con duecento vittime delle esecuzioni degli anni Trenta.
È sempre più difficile dare torto ai difensori dei diritti umani quando dicono che tutto questo non è casuale. «Sono in molti a non amarci, soprattutto in determinate strutture», dice il presidente di Memorial Ian Rachinskij. Che aggiunge: «Il passato di Putin ha il suo peso».
Il caso di Dmitriyev è sintomatico. Lui ha ricostruito la storia di quarantamila persone finite nell’ingranaggio delle «purghe» nella sua regione soprattutto nel biennio 1937-1938. Poi ha scoperto l’enorme carnaio di Sandarmokh dove furono nascosti i corpi di novemila vittime.
Trent’anni di lavoro interrotti l’anno scorso quando è scattata una perquisizione. Nel computer hanno trovato nove foto della figlia in un file intitolato «salute». La ragazzina era debole di costituzione e Yurij l’aveva fotografata nuda di fronte e di profili in pose chiaramente mediche. Almeno stando a testimonianze di esperti i quali hanno escluso che si potesse trattare di materiale creato a scopo pornografico. Lo storico è stato anche sottoposto a esami da parte di un istituto psichiatrico governativo che non ha riscontrato tendenze pedofile.
Ma l’assoluzione di pochi mesi fa ha innescato le nuove accuse, assai più gravi. Tulle le Ong in Russia hanno enormi difficoltà, ma Memorial, la più prestigiosa, sembra in collisione continua con le autorità. Ai tempi del presidente Eltsin, la riabilitazione dei milioni di russi repressi fu addirittura affidata a una commissione presieduta da Aleksandr Yakovlev, ex ideologo della perestrojka di Gorbaciov. Ma anche lui aveva non pochi problemi nella sua attività: «Nonostante la copertura presidenziale, alla vecchia sede del Kgb dove ora lavora l’Fsb, mi negano i dossier», mi confessò una volta con amarezza.
Dal Duemila le cose sono peggiorate. Memorial ha recentemente pubblicato una lista con quarantaduemila nomi di agenti della polizia politica dell’epoca, l’Nkvd, promossi o decorati tra il 1935 e il 1939. Verosimilmente molti furono coinvolti nelle uccisioni. In quattromila furono a loro volta fucilati per ordine di Stalin. La cosa ha suscitato le proteste di attuali agenti e di familiari. Alcuni hanno scritto una lettera aperta a Putin. Altri hanno rilasciato dichiarazioni: «È come andare a rovistare nei panni sporchi. C’è chi vuole creare difficoltà al Paese», ha detto il nipote dell’agente Yakov Vasiliev.
Ma lo scopo di Memorial è un altro: quello di consentire una riconciliazione tra discendenti delle vittime e dei carnefici. Denis Karagodin, ad esempio, ha ricevuto la lettera di Yulia Zyrianova, nipote dell’uomo che aveva fucilato il bisnonno: «Una pagina infame nella storia della mia famiglia», c’era scritto.

Repubblica 1.7.18
Il reportage
Oggi il voto per le presidenziali
Il fattore Trump spinge Obrador alla conquista del Messico
La retorica del leader Usa contro i vicini del Sud favorisce il candidato populista, che anche sul “no” al muro ha impostato la sua campagna
di Omero Ciai


CITTÁ DEL MESSICO «Voto López Obrador, per forza, è l’unica alternativa alla mafia al potere». Rosa Maria ha 27 anni, lavora part-time in uno studio di grafica e vive a Coyoacan, antico distretto di classe media intellettuale — c’è anche la casa dove visse Frida Kahlo — vicino all’Università pubblica più prestigiosa dell’America Latina, l’Unam.
Sull’effetto del fattore Trump in queste elezioni Rosa Maria ha le idee chiare. «Trump è un fascista che ci disprezza e che con l’intenzione di allungare il Muro al confine (e farcelo pagare), ha risvegliato l’orgoglio nazionale. Io voterò Amlo anche perché credo che sia l’unico che ci può difendere, di certo non sarà servile con la Casa Bianca, e con le multinazionali americane, come i politici del Pri e quelli del Pan che hanno governato in questi ultimi vent’anni».
In realtà il fattore Trump è stato molto sotto traccia nella campagna elettorale. Il presidente americano non ha twittato sull’argomento evitando di esprimere pareri sui candidati in lizza. Ma la battaglia sul futuro del Trattato di libero commercio è già cominciata. Mentre i negoziati fra Messico, Usa e Canadà, per il rinnovo del Nafta ristagnano, alla fine di maggio Trump ha messo i dazi sull’import di acciaio (25%) e alluminio (10%) anche al Messico, che ha subito risposto tassando le importazioni dall’America per il whisky, il formaggio e la carne di maiale.
Sciocchezze per ora, visto che gli scambi commerciali tra Messico e Usa hanno raggiunto nel 2017 il record di 577 miliardi di dollari con un attivo a favore dei messicani pari a 71 miliardi, e in crescita. Ma non c’è dubbio che con il probabile arrivo di López Obrador (detto Amlo) alla presidenza le relazioni cambieranno, in bene o in male non si sa.
La sinistra messicana ha sempre osservato con molti pregiudizi — alcuni giusti — l’area continentale di libero commercio del Nord America.
Basti ricordare che un certo subcomandante Marcos, 25 anni fa, all’inizio del Nafta, era il capodanno del 1994, organizzò un esercito di indios, quello zapatista, per combattere la globalizzazione «americana». E le idee economiche di López Obredor sono protezioniste tanto quanto quelle di Trump.
Quando ripete «prima i messicani», proprio questo intende: concentrarsi sul suo Paese e ridurre la dipendenza dall’economia Usa per provare a guardare anche altrove. La Cina, l’Asia, gli altri Paesi a sud dell’America Latina. Ce lo spiega Daniel Sibaja, un giovane politologo che lavora nell’equipe dei consiglieri di Amlo. «La nostra economia e quella degli Stati Uniti si sono integrate troppo — dice Sibaja — . Non c’è dubbio che in tutta la zona Nord del Paese, questa integrazione abbia portato lavoro e benessere. Ma che prezzo abbiamo pagato?
Precarizzazione e schiavitù lavorativa nelle “maquilladoras”, lungo la frontiera, dove le multinazionali Usa producono pagando la mano d’opera meno di un terzo di quello che gli costerebbe negli Stati Uniti».
Che la sfida di Trump, e tutti i suoi insulti ai messicani, abbiano aiutato López Obrador a consolidare la sua forza elettorale come unico leader in grado di rispondere per le rime al maleducato inquilino della Casa Bianca, ne è convinto anche Oswaldo Zavala, professore di letteratura messicana all’Università di New York. «Una sfida ostile che ha aiutato López Obrador perché tante cose nei rapporti tra Messico e Stati Uniti devono cambiare e Amlo sembra l’unico che può combattere sul tavolo del negoziato per gli interessi messicani». Per Zavala, il Nafta va completamente rivisto perché in Messico «ha favorito il saccheggio delle risorse da parte di una piccola élite che ha svenduto il Paese arricchendosi».
A loro modo, Amlo e Trump si assomigliano moltissimo e possono definirsi due populisti, uno di destra l’altro di sinistra, che pretendono di mettere al centro quelli che ritengono essere gli interessi dei loro Paesi, costi quel che costi.
Negli Stati Uniti vivono oltre 30 milioni di persone di origine messicana e l’economia integrata tra i due Paesi è decisiva per entrambi. Così come le politiche sulla sicurezza — leggi Narcos — e gli accordi migratori. Ma se Trump ha già fatto capire chiaramente che non considera il Messico né come un socio, né come un interlocutore, rapidamente anche López Obrador, che potrebbe insediarsi a dicembre, potrà arrivare alla stessa conclusione. E voltargli le spalle. Finora nel suo potenziale governo — se vincerà tutti i nuovi ministri sono già stati indicati prima del voto — c’è molta moderazione. I principali responsabili dell’area economica sono tecnocrati riformatori che hanno studiato nelle università americane. Ma chi lo conosce bene fa notare che la politica estera non sarà una priorità della nuova amministrazione. Il futuro presidente non solo non possiede un cellulare e non parla inglese: non ama neppure i viaggi e le relazioni internazionali. Nell’ultimo anno López Obrador è uscito dal Messico una volta sola. Per andare a Londra a incontrare Jeremy Corbyn.
Austero e frugale, risiede adesso in un quartiere periferico, Tlalpan, estremo Sud della capitale. E a molti ricorda Pepe Mujica, l’ex presidente star dell’Uruguay.
Come dice Oswaldo Zavala «è la nostra ultima speranza.
Dopo 200mila morti nelle guerre narcos, gli assassini impuniti di studenti, giornalisti e, adesso, anche di candidati alle elezioni, peggio a questo disperato Paese non gli può andare».
Certo, se oggi vince, Trump non l’aiuterà a cambiare il Messico. Nonostante si assomiglino.

Corriere 1.7.18
Noi, oggi, alla fine della storia
L’anticipazione Il testo del politologo statunitense in uscita sulla rivista «Vita e Pensiero»: qui ne pubblichiamo un estratto
Trent’anni dopo Francis Fukuyama torna sul tema del suo celebre saggio. E lo difende
di Francis Fukuyama


È dal 1989 che mi viene ripetuta sempre la stessa domanda: «E allora? La fine della storia?... X non smentisce forse la sua tesi?». X può essere un evento della politica internazionale, come un colpo di Stato in Perù o gli attentati dell’11 settembre, oppure una crisi finanziaria a Wall Street. Di solito, la domanda proviene da chi non ha capito il senso di fine della storia e non ha letto il mio libro La fine della storia e l’ultimo uomo, pubblicato nel 1992 (Rizzoli; edizione originale 1992).
Sono sempre convinto che il concetto rimane essenzialmente valido, anche se indubbiamente la fase attuale della politica mondiale non è più la stessa di quando scrivevo il mio articolo. Sarebbe strano che quasi trent’anni non avessero modificato il mio modo di pensare il mondo. Cionondimeno, è importante distinguere tra le critiche ragionevoli e quelle stupide, o fondate su una semplice mancanza di comprensione.
Cominciamo dal titolo dell’articolo originale La fine della storia?, pubblicato dalla rivista statunitense «The National Interest» e in francese da «Commentaire» nell’estate del 1989. Vi si utilizzano altri termini per descrivere il fenomeno che oggi sarebbe definito piuttosto «sviluppo» o «modernizzazione». La «fine» della storia indicava lo scopo o l’obiettivo, più che non la sua conclusione; la «fine della storia» poneva quindi la questione della finalità o del punto terminale dello sviluppo umano o del processo di modernizzazione.
L’espressione «la fine della storia» non era mia; è stata originariamente utilizzata in questo senso dal grande filosofo tedesco Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Hegel è stato il primo filosofo della storia, nel senso che non credeva possibile penetrare il pensiero o le società umane senza comprendere il contesto storico in cui esse s’inscrivono e il processo evolutivo che le ha prodotte. Karl Marx, autore della versione più celebre della fine della storia, ha ripreso lo stesso quadro storicista. Sosteneva che le società si modernizzano, evolvendo da uno stadio primitivo verso il capitalismo borghese passando per il feudalesimo. Per Marx, la fine della storia era lo stadio finale di tale processo, un’utopia comunista. Io mi accontentavo di sostenere, nel 1989, che non sembrava che saremmo un giorno pervenuti allo stadio finale del comunismo. Mikhail Gorbaciov, che aveva lanciato la perestrojka e la glasnost, stava trasformando l’Unione Sovietica in qualcosa di sempre più simile a una democrazia. In conseguenza, se fine della storia doveva esserci, sarebbe stata simile piuttosto a una democrazia liberale collegata a un’economia di mercato.
Il motore della modernizzazione descritto nel mio libro del 1992 era una versione molle della teoria della modernizzazione. Le società umane si sono sviluppate, ma tale processo non è una sorta di ascensore che va automaticamente verso l’alto. I progressi dipendono dalle contingenze e dal fattore umano; niente è inevitabile né predeterminato. Sostenevo tuttavia che la modernizzazione è un processo coerente che sembra fondamentalmente non differire da una cultura umana all’altra. Questo ha a che vedere con la natura della tecnica o con ciò che io chiamavo «il meccanismo». A un dato stadio della storia dell’umanità, le forme dominanti della tecnica determinano una frontiera delle possibilità di produzione che modellano la natura della vita economica. La forma dominante di organizzazione economica ha allora degli effetti critici sull’organizzazione sociale e finisce per plasmare le forme dell’organizzazione politica stessa. È così accaduto, per esempio, che le tecnologie di produzione del carbone, dell’acciaio e delle industrie di grande scala hanno stravolto l’antico ordine agricolo e imposto l’urbanizzazione e, al tempo stesso, livelli di istruzione più elevati. Le prime fasi della rivoluzione dell’informazione hanno messo termine al monopolio dell’informazione, che era nelle mani di diverse gerarchie, e favorito la mobilitazione orizzontale. L’aumento dei livelli di reddito ha allora generato un ceto medio che voleva partecipare alla vita politica. Questo spiega la correlazione relativamente stretta tra la ricchezza e la democrazia nel mondo.
Il decollo dell’Asia orientale è l’esempio più palese di uno sviluppo economico che conduce a una convergenza sociale. Dal Giappone alla Corea, da Taiwan alla Cina, è un’intera regione che si è industrializzata. In ciascuno di questi casi, le trasformazioni sociali prodotte da questo processo hanno comportato una convergenza con i Paesi occidentali: si è verificato un massiccio esodo rurale, abbiamo assistito a maggiori investimenti nell’istruzione e nel know-how, allo sviluppo di una classe media urbana e a una divisione del lavoro più complessa e interdipendente.
Nel caso del Giappone, della Corea del Sud e di Taiwan, c’è stata anche una convergenza politica. Con l’andare del tempo, ognuno di questi Paesi è diventato una democrazia liberale; gli ultimi due hanno operato la loro transizione negli anni Ottanta, allorché le rispettive società, che erano soprattutto agricole, sono diventate urbane e industriali. Il modello non è però universale. Singapore ha raggiunto un Pil pro capite superiore, in termini di potere d’acquisto, a quello degli Stati Uniti, ma è restato un’autocrazia elettorale liberale. La Cina ha conseguito adesso un livello di reddito paragonabile a quello di Taiwan e della Corea del Sud degli anni Ottanta, e sotto Xi Jinping è evoluta non verso una democrazia, ma verso una forma di dittatura più repressiva.
A parte il caso cinese, in questo quadro mancavano diversi elementi, che oggi comprendo molto meglio che nei primi anni Novanta. Il primo consiste nel sapere in quale modo la crescita economica si mette in moto. Una volta che ti trovavi nell’ascensore che saliva, andavi incontro a conseguenze sociali e politiche prevedibili; molte parti del mondo, però, sembravano sprofondare nella povertà, senza una realistica speranza di riprodurre il processo di crescita di Giappone, Corea e Cina.
Se questo genere di crescita non è diventato maggiormente universale, è a motivo dell’assenza di istituzioni, in particolare a motivo dell’assenza di uno Stato moderno. Se le società dell’Asia orientale si sono così bene sviluppate economicamente nel corso delle due generazioni precedenti, è perché si erano dotate di Stati moderni prima di confrontarsi con l’Occidente e non hanno così dovuto creare questo genere di istituzioni, mentre si dedicavano ai loro progetti di modernizzazione. Il secondo problema della mia formulazione del 1992 è strettamente connesso alla difficoltà di dar vita a Stati moderni: essi possono tanto svilupparsi quanto declinare, ossia regredire verso qualcosa di meno moderno.
La terza sfida è collegata al problema del peso delle élite nelle istituzioni dello Stato. In molte democrazie liberali contemporanee è largamente diffusa l’idea che le élite esistenti abbiano truccato il sistema a loro beneficio e vi si siano radicate talmente in profondità che la politica democratica ordinaria non basta più a snidarle.
L’inerzia o l’impasse politica che ne risulta inducono allora a reclamare un leader forte, capace di affrontare tali élite, anche a costo di scalzare il quadro istituzionale che definisce la democrazia liberale.
La quarta sfida alla mia ipotesi è quella sollevata da Samuel Huntington: la democrazia liberale è il prodotto della cultura occidentale e non un elemento inevitabile del processo di modernizzazione. In proposito, la Cina è di gran lunga la più grossa sfida alla narrazione della fine della storia, poiché si è modernizzata economicamente rimanendo una dittatura.
Ci si è domandati, per un certo tempo, se una simile società fosse veramente capace di innovare e non si sarebbe accontentata di copiare e inseguire le economie mondiali di testa. Ma oggi, con il suo immenso settore tecnologico in espansione, la Cina sorpassa i rivali occidentali in molti settori.
Resta la domanda sulla sostenibilità del modello. Nessuna società può essere giudicata sulle sue performance a breve termine e ci sono ragioni per credere che su questo Paese incombano delle gravi sfide per i prossimi anni. Esso ha potuto conservare gli elevati livelli di crescita degli ultimi anni facendo un largo ricorso all’indebitamento; se la Cina ha un tasso di risparmio ragguardevole, il suo debito netto non è però sostenibile. Il suo modello di crescita, basato su alti livelli di sviluppo delle infrastrutture, segna il passo; viene da domandarsi se tale modello possa essere esportato attraverso la nuova Via della Seta. La Cina ha privilegiato così a lungo la crescita economica da avvelenare il proprio ambiente naturale; se il governo ora tenta di disinquinare, non è sicuro che sarà in grado di risolvere l’insieme di questi problemi mantenendo lo stesso tasso di crescita.
Per finire, la legittimità del Partito comunista rimane molto dipendente dai suoi risultati. Il Paese non ha conosciuto gravi recessioni dal 1978, ma è inevitabile che vada incontro a pesanti difficoltà economiche, nella misura in cui cercherà di passare allo statuto di economia ad alto reddito. Come reagirà la nuova classe media dinanzi al perdurare della dominazione del partito durante una lunga recessione economica? Se nei prossimi anni la crescita della Cina proseguirà, serbando il suo posto di prima potenza economica del mondo, allora ammetterò che la mia tesi del 1992 sarà stata definitivamente confutata.
(traduzione di Pier Maria Mazzola)

Corriere 1.7.18
Marx dubbioso, senza barba
di Antonio Carioti


Karl Marx in vita sua viaggiò fuori dall’Europa soltanto una volta. Nel febbraio del 1882, due mesi e mezzo dopo aver perduto l’amatissima moglie Jenny von Westphalen, andò ad Algeri, all’epoca possedimento coloniale francese, nella speranza che il clima caldo del Nord Africa potesse offrirgli un qualche sollievo, aiutandolo a guarire dalla brutta pleurite che lo affliggeva, molto probabilmente causata da una tubercolosi.
Lo scrittore tedesco Uwe Wittstock prende spunto da quell’episodio per narrare a ritroso la vita del filosofo comunista nel libro Karl Marx dal barbiere (traduzione di Gabriella Rovagnati, Edt), molto attento al lato umano del personaggio ed equilibrato nei giudizi sulla sua opera. Il titolo deriva dal fatto che nel soggiorno maghrebino il famoso pensatore si recò dal parrucchiere per eliminare, come scrisse in una lettera al fraterno amico Friedrich Engels, «la barba da profeta e la parrucca in testa».
Wittstock attribuisce al taglio dei capelli e alla rasatura un significato profondo. Vi legge «l’ammissione segreta, magari nascosta persino a se stesso, di non voler essere più considerato un profeta, dato che i suoi stessi dubbi sulle proprie previsioni politiche erano cresciuti a dismisura». Da spirito critico qual era, per quanto pervaso di fervore rivoluzionario, forse Marx alla società senza classi non credeva più tanto neppure lui.

Il Giornale 22.6.18
"Vi racconto vita, abusi e dolori dentro la clausura"
Suora di clausura dal giorno dei suoi 18 anni, vissuto in 24 ore di monastico ritiro, in cui «si doveva fare silenzio assoluto
di Marta Calcagno Baldini

qui

Il Fatto
La trattativa (2014) Sabina Guzzanti
“Vedere #LaTrattativa in Parlamento – scrive la regista su Facebook – ha scatenato tante energie,
tanta commozione”. Il video della proiezione in Parlamento in cui Guzzanti parla del film, infatti, è stato condiviso da oltre 15mila persone, con più di due milioni di visualizzazioni. Poi spiega per quale motivo ha deciso di dare il via all’iniziativa dal basso: “Nel dibattito sono andata a braccio e mi hanno detto: ‘Se gli italiani vedessero questo film, comincerebbero ad aprire gli occhi. Capirebbero chi sono i nostri veri nemici’. Per questo – prosegue – raccolgo con entusiasmo le vostre tante richieste di riportare il film nelle sale. Sarà molto difficile, ma non possiamo lasciare il nostro Paese a chi lo sta distruggendo”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/02/trattativa-sabina-guzzanti-proiezioni-richieste-cittadini-scuole/1244472/

Repubblica 1.7.18
Incentivi a sorpresa
Premi a chi va al lavoro i netturbini pagati per non ammalarsi
cecilia gentile,
Roma, accordo tra sindacati e azienda dei rifiuti. La cifra più alta a chi fa meno del 5% di assenze, ma prende soldi anche chi arriva al 20
di Cecilia Gentile


Roma Premiati per andare al lavoro. Succede anche questo in Ama, la municipalizzata dei rifiuti della capitale, dove il tasso di assenteismo è ancora intorno al 15%, mentre le montagne di spazzatura perennemente in strada la dicono lunga sui problemi irrisolti dell’igiene urbana.
Ebbene, l’azienda ha appena siglato con Cgil, Cisl, Uil, Fiadel e le Rsu un accordo sul premio di risultato, che la Cgil Roma e Lazio celebra come «un altro passo avanti che getta le basi per il futuro».
In cosa consiste il premio? In 260 euro lordi all’anno per i dipendenti che non supereranno la percentuale del 4,7% di assenze dal servizio, in 180 euro lordi per assenze comprese tra il 4,7% e il 9%, in 80 euro di importo massimo per le assenze comprese tra il 9 e il 20%, con la decurtazione di un euro per ogni giorno di assenza. L’accordo è stato firmato l’altroieri, dunque potrà beneficiare delle agevolazioni fiscali previste dalla Finanziaria per i premi derivati da protocolli siglati entro il 30 giugno.
In vari modi, nel passato, la municipalizzata ha provato ad incentivare i lavoratori ad essere presenti, fino ad arrivare al provvedimento surreale previsto per le prestazioni del 2010. Per beneficiare del premio, in verità pochi spiccioli, allora era richiesta una presenza al lavoro non inferiore al 50%, vale a dire un giorno su due, e sanzioni disciplinari inferiori a 6 giorni di sospensione. Criteri più che discutibili che infatti non hanno portato a sensibili miglioramenti nelle abitudini dei dipendenti.
Ora Ama e sindacati percorrono la strada aperta dalle ultime due Finanziarie, che prevedono incentivi per ridurre l’assenteismo. « Di per sé l’obiettivo è nei criteri di legge — riconosce anche l’ex ministro Tiziano Treu — Sarà poi l’Agenzia delle entrate a verificare se l’azienda ha raggiunto gli obiettivi dichiarati » . Via libera anche dal giuslavorista Pietro Ichino: « È una tecnica come un’altra per gestire il personale. La filosofia è: ti pago di più se non ti ammali. Un tempo non si pagavano i primi due giorni di malattia, ed io ritengo auspicabile il ritorno a questa pratica».
Dove prenderà i soldi Ama, che ha chiuso il bilancio 2017 con appena 200mila euro di utili? L’accordo prevede un investimento totale di quasi sei milioni di euro, un milione e mezzo in più rispetto all’anno precedente: 5 per il premio di risultato, che oltre al criterio della presenza in servizio (40%) prevede anche l’operatività ( 50%) e la disciplina ( 10%), un milione per chi da contratto è stato assunto per essere inserito nei turni domenicali. « Le maggiori risorse per l’anno 2018 — recita l’accordo — saranno oggetto di una contrattazione integrativa, da definire contestualmente alla individuazione delle maggiori risorse».
Athos De Luca, presidente del Forum Ambiente del Pd annuncia un esposto alla Corte dei Conti: «Scandaloso — dice — chiederò di valutare se non ci siano gli estremi per danno erariale. Capisco il premio di risultato, ma non quello per la presenza».
«Premiare chi lavora con continuità e opera in condizioni di lavoro difficili, come ad esempio gli operatori che raccolgono con le mani i rifiuti in strada, ci sembra il giusto segnale per motivare il personale e migliorare i servizi per i cittadini » , dichiara Natale Di Cola, segretario Fp Cgil Roma e Lazio che difende l’accordo. La raccolta manuale dei rifiuti è ormai diventata prassi. Lo svuotamento dei cassonetti non avviene infatti con regolarità e i romani abbandonano i sacchi in strada.

Marco Bellocchio, su Repubblica
Repubblica Robinson 1.7.18
Mao, Beatles & coca La vita che non vissi
Le confessioni di Marco Bellocchio
Intervista con Marco Bellocchio di Arianna Finos


Marco è stato uno dei cineasti più belli del nostro cinema, molti colleghi ne erano segretamente innamorati”, raccontava Ettore Scola. Vittorio Gassmann non avrebbe mai girato con lui “perché non lavoro con un regista che è più attraente di me”. A 78 anni Marco Bellocchio, maglietta a maniche corte e pantaloni sportivi, ha lo stesso fisico asciutto, lo stesso sorriso distante. A pochi giorni dalla notizia della sua inclusione nella giuria degli Oscar, è nello studio romano di via Nomentana, in partenza per Londra dove da oggi e per un mese intero al British Film Institute prende il via Satira e moralità, la prima retrospettiva inglese dedicata ai suoi film. Che non sono solo storia, ma presente e futuro del nostro cinema. Il regista prepara Il traditore su Tommaso Buscetta e L’urlo, sul suicidio del gemello Camillo. In coda c’è la serie sul rapimento di Aldo Moro: «È una sfida col tempo, una sfida alla volta».
Perché nel ’63 partì ventiquattrenne per Londra?
«Andai per sprovincializzarmi. I miei luoghi erano stati Piacenza, Lodi, Milano e Roma, dove mi ero diplomato in regia al Centro Sperimentale. E siccome — questo era ed è un mio limite — non avevo intenzione di fare la gavetta, ho messo una pausa prima di affrontare la vita professionale. Mi iscrissi a una scuoletta d’inglese in Piccadilly Circus, mio fratello Piergiorgio mi mandava i soldi per sopravvivere. Vinsi una borsa di studio alla Slade School of Fine Arts grazie al regista Thorold Dickinson. Soprattutto conobbi Enzo Doria, ex attore che lavorava come cameriere e voleva fare il produttore. A Londra scrissi la prima versione di I pugni in tasca » .
Come fu l’impatto con la società inglese?
«Poi fui rimproverato perché mantenni un profilo provinciale. Non approfittai di quelle coincidenze straordinarie: Rolling Stones, Beatles... C’era la libertà sessuale che ho percepito e in parte vissuto, sempre un po’ da provinciale, appunto».
Sta dicendo che ha lisciato la Swingin’ London?
«Forse la deludo, sì. Ho vissuto con prudenza, in questo senso ho evitato le droghe e le derive autodistruttive. Ho sempre fatto film estremi ma nella vita mi sono difeso. Ho bordeggiato la rovina, la morte. Sono stato amico di Franco Angeli, Mario Schifano e Tano Festa, e quindi la cocaina, l’eroina… Cose che ho toccato senza mai entrarci davvero, tanto che poi ci separammo».
Quale cinema inglese la folgorò e influenzò?
«Il realismo che si vede ancora in Ken Loach, ma le mie radici erano Renoir e Vigo: surrealismo e espressionismo».
Fece una tesi su Antonioni e Bresson.
«Autori di cui ammiravo il rigore che non possedevo. Bresson mi diede un’intervista al telefono, Antonioni mi incontrò sui gradini in Piazza del Popolo e mi accolse sul set di
Deserto rosso.
Molti giovani riescono a creare nel rapporto con gli autori affermati un interesse reciproco. Io non avevo questa capacità di penetrazione affettiva. Ero un solitario: non per scelta, ma per limite. Il cinema mi è stato utile alla vita».
E poi c’era la politica.
«Sì, allora il peso della politica e dell’ideologia era fortissimo. Con il ’68 ci fu una crisi importante. Nel senso che la scelta, pur breve, della militanza politica nell’Unione dei comunisti marxisti leninisti e nel maoismo rappresentava il mio rigetto di una mentalità borghese che detestavo. Pensavo che una rivoluzione politica personale potesse essere un riscatto. In questo senso nel ’77 e ’78 c’è stata l’esperienza di analisi collettiva con Massimo Fagioli. Ancora la fissazione che si potesse cambiare e che solo nel cambiamento si potesse combattere la disperazione, avere una dimensione di autenticità».
Vale ancora adesso per lei?
«Vale ancor di più nell’età avanzata. Perché solo così, dal momento che non credo nell’aldilà, mi sento vivo».
Il suo cinema ha raccontato l’Italia e la politica. I maoisti e l’eutanasia, Moro e Mussolini. Oggi?
«La politica non mi interessa più. C’è una paura diffusa, in grande misura inventata, alla base del successo di tanti movimenti. Ma vedo nei giovani una sensibiiltà sui temi degli immigrati e dei diseredati. C’è un movimento reattivo che non vede nello zingaro qualcuno da prendere a martellate».
Perché il suo cinema è stato spesso estremo?
« Una certa dimensione anarchica contro i padri e coloro che vogliono importi il proprio sapere c’è stata. È chiaro che questo andare contro nel tempo è diventato più pacifico e moderato. Penso al passaggio tra I pugni in tasca e L’ora di religione, quando il personaggio di Sergio Castellitto vede il proprio passato e capisce che il matricida è in manicomio, che la giustizia contro la madre porta alla follia e all’autodistruzione. Questa dimensione, anarchica ma non violenta, torna sempre».
Come la morte del suo gemello Camillo.
«Nel 1982 feci il film Gli occhi e la bocca sul suo suicidio. Ma mi restò la sensazione che la presenza di mia madre mi avesse reso meno capace di approfondire quella tragedia. Così, dopo un compleanno in famiglia del 2016, ho iniziato una carrellata di ritratti familiari che sono anche testimonianze alla ricerca di una verità. Il titolo del film è
L’urlo,
quello di mia madre davanti al corpo di suo figlio, chiaramente il rimando è alla Madonna e Gesù. Mio fratello gemello si ferma nel dicembre del ’68 a ventinove anni. Io vado avanti e invecchio e lui non c’è più, ma resta la sua immagine di giovane uomo. Sarà il film più difficile, spero di vivere abbastanza per finirlo».
È cresciuto in una famiglia numerosa.
«Eravamo nove fratelli. Uno morì piccino. Avevo una sorella sordomuta, il primogenito era malato mentale, le sue urla hanno segnato la mia adolescenza. Tornavo dal collegio a Lodi e c’era sempre il pazzo che urlava: in I pugni in tasca si trasforma nel fratello che il protagonista alla fine uccide. Quel film lo girammo in due appartamenti di mia madre. Ma la storia privata è talmente metaforizzata che i miei familiari solo anni dopo si accorsero che parlavo di noi. Mia madre mi mandò una lettera ironica, che nell’Urlo leggerà mia sorella. Non era stupida, come faccio dire a Castellitto in L’ora di relgione, ma sopraffatta dalla necessità familiare. Ha retto a ogni dolore, non si è mai goduta nulla. Era ossessionata dall’idea che ci salvassimo l’anima. Accusava Piergiorgio di averci allontanati da parrocchia e fede. Non era vero».
Con Camillo avevate il rapporto speciale dei gemelli?
«No. A 14 anni decisero di mandare me al liceo classico, anche se ero mediocre, e lui all’istituto per geometri. Da lì ci separammo. Questa distanza poi io l’ho sentita come una mia mancanza. Ero più autonomo, anche se la vita privata faceva acqua in fondo me la cavavo, avevo una mia identità professionale forte. Per capirlo e andargli incontro ci sarebbe voluta una ricchezza sentimentale che non avevo».
Ha fatto sempre film personali: qual è il legame con Tommaso Buscetta?
«Il tradimento. Mi è venuto in mente il mio tradimento verso tutta una società, la mia educazione cattolica. Si può tradire in modo vile, o il tradimento può essere una separazione. In Buscetta c’è l’ambiguità e la sofferenza di un uomo che tradisce, ma al tempo stesso rimane un mafioso. Quando gli fanno sparire i figli scatta l’odio e la sensazione di non averli protetti. Ha davanti due possibilità: morire — infatti tenterà di suicidarsi — o parlare contro una mafia che lui non riconosce più. È il crepuscolo di un antieroe che però riesce a morire nel suo letto. Tutti gli altri sono stati ammazzati. Lui no. Quando Falcone, che era un fatalista e lettore di Montaigne, gli dice “tutti dobbiamo morire”, Buscetta risponde “sì, ma io voglio morire nel mio letto”».
Dopo tanti anni resta l’ansia del pubblico?
«Girando I pugni in tasca pensavo: “Ho 25 anni, se fallisco farò altro”. Nasco come pittore, Grazia Cherchi mi diceva “ lascia perdere i film, sei pittore e poeta”. Si sbagliava, in realtà il cinema è davvero la mia vita. Ma non, come dice qualcuno, per non diventare pazzo. È che ti mette in gioco continuamente con decine di persone, ti obbliga a confrontarti e a lottare. In passato c’era l’ambizione, la rivalità. Per anni ho subìto il gran successo di Bernardo Bertolucci: era diventato una star internazionale, mentre io ero ammirato e stimato in un ambito più piccolo. Adesso questo aspetto non c’è più. Ma c’è il sentimento di giocarmi ancor più la vita».
Anche Bertolucci prepara il nuovo film.
«Abbiamo cenato insieme un mese fa, un incontro cordiale. È come se la sua vita fosse anche la mia, con tanti grandi padri scomparsi. Noi dobbiamo resistere». ?