venerdì 1 giugno 2018

Repubblica 1.6.18
“La politica è cultura” La scuola secondo Gramsci
Il filosofo: “Tutti devono avere la possibilità di diventare uomini”
di Simonetta Fiori


Nella Gramscimania che dilaga dall’Oceano Pacifico all’Atlantico, la riflessione sulla scuola è rimasta incomprensibilmente sullo sfondo. E il merito del saggio di Giuseppe Benedetti e Donatella Coccoli è aver orientato un fascio di luce su questo aspetto ignorato anche dalla più recente letteratura pedagogica (Gramsci per la scuola. Conoscere è vivere,
L’asino d’oro, con una prefazione di Marco Revelli).
La grande intuizione di Gramsci fu comprendere che dalla scuola si misura il livello di civiltà di un Paese. E certo non deve sorprendere il peso da lui affidato alla più importante istituzione culturale, motore di quella conoscenza a cui il pensatore sardo attribuiva un ruolo fondamentale nel processo di crescita personale e collettiva.
Grazie a un’accurata ricerca in un materiale sterminato - tra scritti giornalistici, Quaderni, lettere dal carcere e prima del carcere – i due autori sono riusciti a restituire organicità a una riflessione frammentata, ricomposta lungo un percorso che parte dall’analisi del pensiero critico come chiave del cambiamento del mondo per arrivare al centro della questione che investe non solo l’istituzione scolastica ma anche i buoni e cattivi maestri incontrati da Gramsci nel corso della sua vita studentesca e il Gramsci educatore, l’intellettuale naturalmente vocato alla formazione proprio perché capace di ascoltare. Ed è da questo itinerario che affiorano i vari elementi che interpellano il lettore contemporaneo. A cominciare dall’irrinunciabile binomio di politica e cultura che in questi decenni è andato dissolvendosi. Gramsci era convinto che i politici dovessero studiare e gli intellettuali far politica. Ma “sapere” e “comprendere” implicano anche “sentire”. Chi sa senza sentire è un pedante e un ipocrita. Chi sente senza comprendere è un settario travolto da cieca passione. Premessa indispensabile allora, e drammaticamente evocativa oggi.
Altra questione molto attuale è la difesa di «una scuola disinteressata», sottratta al raggiungimento di un fine pratico. Gramsci intuisce il pericolo che «la scuola professionale diventi una incubatrice di piccoli mostri aridamente istruiti per un mestiere, senza idee generali, senza cultura generale, senza anima, ma solo dall’occhio infallibile e dalla mano ferma». La scuola deve dare a tutti «la possibilità di diventare uomini, di acquistare quei criteri generali che servono allo svolgimento del carattere». Invece accadeva allora – e accade ancora oggi – che «la scuola educativa» fosse privilegio di pochi, mentre le scuole professionali finiscono per cristallizzare le diseguaglianze sociali.
Per chi avversa il liceo classico sono consigliabili le pagine sulle lingue morte. Gramsci incoraggia lo studio del latino perché permette di acquisire «un’intuizione storicistica del mondo e della vita»: si studia un fenomeno che si è concluso, quindi nella sua interezza. Ed è questo studio “disinteressato” che consente di esercitare il pensiero tra astrazione e realtà, tra generale e particolare, tra teorie e individui concreti. Senza alcuna concessione «all’illusione della scuola facile». La scuola è «fatica», «coercizione», «impegno», costrizione fisica davanti a un tavolino. «Occorre persuadere molta gente che anche lo studio è un mestiere, e molto faticoso, con un suo speciale tirocinio, oltre che intellettuale, anche muscolare-nervoso: è un processo di adattamento, è un abito acquisito con lo sforzo, la noia e anche la sofferenza».
Un’idea diventata clamorosamente inattuale in un’epoca che chiede agli insegnanti un rutilante esercizio di entertainment.
Nella loro introduzione Benedetti e Coccoli, un professore e una giornalista che hanno a cuore il destino della scuola, ricordano che le opere di Gramsci non rientrano nei programmi fissati dal ministero. All’autore delle Lettere dal carcere non viene riconosciuta la stessa dignità di Machiavelli o di Leopardi. Eppure pochi altri scritti hanno la stessa forza come lettura di formazione: la parola come tramite di conoscenza, di vita, di resistenza.
La regista Licia Sanesi ha passato anni a raccoglier interviste su cosa colpisca di questo intellettuale un secolo dopo. «Per noi è importante perché ci parla del futuro, delle persone che saremo», è la risposta d’un ragazzo di un istituto tecnico.
Tenere Gramsci fuori dalla scuola? Niente di più insensato.

Repubblica 1.6.18
Letture La lectio di Carlo Rovelli ai Lincei

Carlo Rovelli terrà una lectio all’Accademia dei Lincei sul successo empirico della relatività generale e le sue implicazioni filosofiche (domenica, Roma, via della Lungara 10, ore 11)

il manifesto 1.6.18
Portogallo, i comunisti votano con i cattolici: no all’eutanasia
110 sì, 115 contro. Il parlamento boccia la proposta di depenalizzazione della somministrazione della morte assistita
di Goffredo Adinolfi


LISBONA Eutanasia sì o no? Il parlamento portoghese dice no e boccia di stretta misura (110 a favore 115 contro) tutte e quattro le proposte di depenalizzazione della somministrazione della morte assistita nei confronti di chi sia in una condizione di «sofferenza estrema causata da una malattia incurabile».
A favore si sono espressi Bloco de Esquerda (Be), Partido Socialista (Ps), Partido Ecologistas Verdes (Pev) e Pessoas Animais e Natureza (Pan). Diviso il centro-destra Partido Social Democrata (Psd) e contrari il Centro Democrático e Social (Cds/Pp, di matrice cattolica) e, cosa che ha destato notevoli polemiche, il Partido Comunista Português (Pcp).
Semplificando si potrebbe pensare di essere di fronte a una frattura ideologica molto novecentesca che ha diviso e divide formazioni materialiste e post materialiste. Però forse c’è qualche cosa di più complesso che va al di là sia del credo religioso, nonostante le apparenze il Portogallo è un paese profondamente cattolico, che di quello politico.
I comunisti non sono refrattari in sé e per sé ai diritti civili, in passato hanno votato a favore alla legalizzazione dell’aborto e al matrimonio e all’adozione tra coppie dello stesso sesso.
Una posizione contraria all’eutanasia giustificata dal fatto che, spiega Antonio Filipe deputato del Pcp, «non si possa affrontare la vita umana in funzione della sua utilità, degli interessi economici o di discutibili modelli di dignità sociale» anche se, prosegue FIlipe «continueremo a batterci per il diritto di tutti di rifiutarsi a pratiche mediche che prolunghino artificialmente la vita».
Per Jerónimo de Sousa, segretario generale del Pcp, la questione ha un valore che, all’interno della categoria dei diritti civili, assume una natura molto più delicata e del tutto differente dagli altri temi. Va dopotutto ricordato che oggi in Europa la questione è controversa e dibattuta, lo è certamente in Portogallo dove in queste settimane ci sono state manifestazioni a favore e contro.

Repubblica 1.6.18
Abusi sessuali, diocesi Usa pagherà 210 milioni di dollari di risarcimento alle vittime
Avviata procedura fallimentare. I soldi verranno divisi tra 450 persone molestate dal clero di St. Paul e Minneapolis. Si tratta di una delle più imponenti cifre versate da un'organizzazione cattolica
qui

Il Fatto 1.6.18
«Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare»
«Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male (Simone Weil)»
Il Colle ha fallito? Dipende da noi
di Roberta de Monticelli


Un filosofo è come il matto di corte, lo si può lasciar parlare. C’è chi vuole far processare per alto tradimento il presidente della Repubblica e chi lancia hashtag in suo sostegno. Ci sono giuristi pronti ad affermare che non ha fatto che il suo dovere (Flick) e altri radicalmente critici (Villone e Carlassare), come ce ne sono di molto perplessi (Onida). Ci sono commentatori che in mancanza d’altre idee attribuiscono lo sconquasso al “circo mediatico giudiziario” che ci avrebbe per troppo anni lavato il cervello facendoci credere che in Italia corruzione e impunità siano maggiori che altrove (Panebianco) – ma non vedono che il lavaggio non è bastato, visto che nessuno (neppure il capo dello Stato) s’è fatto un baffo della circostanza che il candidato ministro dell’Economia da ex presidente dell’Impregilo era incorso in inchieste giudiziarie ben motivate dalle intercettazioni, che gli avrebbero sbarrato in ogni altro Paese civile la porta di quel ministero.
C’è chi sostiene con assoluta convinzione che il gesto del Presidente ha salvato la democrazia assediata dai populismi e chi con convinzione altrettanto assoluta sostiene che ha soffocato la domanda democratica di cambiamento, per asservire lo Stato alla tecno-plutocrazia europea, o peggio al diktat tedesco. Nota a margine: non si percepisce traccia di simili congiure e diktat da quassù – il regno del fool è il vuoto celeste, dove le linee aeree franco-canadesi forniscono una massa di giornali nelle principali lingue europee, e neppure un angolino contiene un commento su queste indebite pressioni, nonostante i titoli ridondino di “crisi istituzionale in Italia” e “l’Italia mette a processo l’Europa”.
Ed ecco lo sragionamento del fool, per chi volesse conoscerlo. Che il gesto del presidente della Repubblica sia o non sia stato un tragico errore, dipende da noi. Nel senso che non sarà stato un errore, e forse sarà stato invece uno di quegli attimi che le generazioni future ricorderanno con ammirata gratitudine, solo se d’ora in poi gli uomini e le donne di buona volontà non si daranno tregua a costruire in due mesi la Parte della Speranza Progressista e Civile, per farla trovare pronta alle elezioni, con a capo i migliori cavalieri delle buone cause sconfitte nell’ultimo quinquennio… Quanti ce ne sono, e come saranno bravi se somigliano alle idee per cui furono silenziati, in materia di anticorruzione e legalità, di taglio alla spesa, di politica industriale e del lavoro, di lotta alla disuguaglianza, allo scempio dell’ambiente e del paesaggio, di vera politica della scuola, dell’università e della ricerca. Non contro ma verso gli Stati Uniti d’Europa. Il programma di questa Parte? Sarà buono se si procederà con infinita attenzione ai veri tagli. “Il vero male non è il male, ma la mescolanza del bene e del male” (Simone Weil).
È questo il taglio sottile da operare, o il groviglio da dirimere. Guardate se non torna, lo sragionamento. Tutto il male che ci circonda viene da questo groviglio! Vorresti difendere, certo, la bandiera italiana dal disprezzo di chi ci tratta da gente che non sa stare ai patti, ma poi guardi quelli che la levano ora sulla piazza e ti accorgi che è sporca, lordata dall’uso che ne fece il demagogo lombardo predecessore dell’attuale. Vorresti accorrere, certo, a difesa della Repubblica e del suo presidente, allinearti a quei poveri corazzieri in alta uniforme, ma ti si stringe il cuore solo a guardarli, tanto svilita è l’idea che difendono, che solo il ricordo di quell’adunata di ceffi e mammole che presiedettero all’elezione del precedente presidente al suo secondo mandato ti riempie di vergogna, come quello delle innumerevoli forzature di un governo che da incostituzionalmente eletto si fa costituente senza averlo mai avuto in alcun programma. Vorresti ripetere anche tu, lo stesso, “sto col presidente”, perché dall’altra parte c’è la prepotenza di chi “se ne frega” di qualunque vincolo etico e giuridico in nome di folle senza volto, di chi addirittura non si vergogna a ripetere “chi si ferma è perduto”. E ti accorgi che il solo sostegno al governo del presidente verrà dai responsabili di tutte quelle forzature che hanno svilito l’uniforme dei miei corazzieri, e anche dal ghigno trionfale di un signore politicamente appena riabilitato, ancora prima che si sia quietato l’effetto di rivolta emetica indotto dalle immagini di Sorrentino in Loro 1 e Loro 2…
Il fool nella sua follia si rivolge anche a molti elettori Cinque Stelle: avete lottato – lo so perché ero con voi – per preservare un po’ di bellezza dove interessi biechi la sconciavano. Ma la bellezza non è un valore, è il nome di tutti i valori, compresa la (pari) dignità di tutte le persone. Come potete ora sostenere anche la bruttezza di parole e gesta di chi la nega? Non sta lì il primo nefasto miscuglio?

Repubblica 1.6.17
Gli hikikomori
Il ragazzo del buio “La mia vita in una stanza”
Paolo, 16 anni, e la scelta di isolarsi dal mondo “Oltre le finestre c’è gente che non mi piace”
di Maria Novella De Luca


ROMA Nella sua stanza-rifugio Paolo non alza mai le tapparelle. Vetri schermati, odore di chiuso, tende tirate. «La luce mi disturba. Meglio il buio.
Tanto non ho orari. Gioco tutta la notte. C’è silenzio. Soltanto noi in Rete. Oltre quelle finestre c’è gente che non mi piace. In questa grotta mi sento tranquillo». Nella sua camera di adolescente in cui si è autorecluso da oltre due anni, Paolo, 16 anni, si sfida con cento flessioni al giorno. «Seguo i video dell’esercito, così resto in forma, mi stanco e dormo». Non fanno così anche detenuti in cella? Paolo ammette ironico: «Sì, sono come un carcerato». Il tirassegno, le scarpe in giro, i vestiti sul letto, i fumetti, ma anche il fucile e il giubbotto per “Softair” conservati con cura. Tutto è in ombra, ammassato. Dove mangi? «Mio padre mi passa il vassoio, lo appoggio qui, vicino al computer». Perché non siedi a tavola con lui?
«Perché ci sarebbe un silenzio di tomba». Ma un sogno ce l’hai?
«Vorrei far volare i droni». Come fossero aquiloni.
Una villetta di Roma Sud, Paolo, nome di fantasia, occhi neri e capelli scuri, aria gentile e lineamenti delicati, apre la porta della sua prigione senza sbarre di ragazzo “hikikomori”. Nome giapponese per indicare uno degli oltre centomila adolescenti italiani che hanno scelto di confinare il loro cielo in una stanza. Ragazzini che si isolano dalla famiglia, dagli amici, abbandonano la scuola e restano in contatto unicamente con l’universo virtuale del web.
Confondono il giorno con la notte, consumano i pasti da soli, si trasformano in eremiti domestici, ma sono campioni di gaming e di giochi in Rete.
Epidemia silenziosa di disagio sociale, il primo a codificarla è stato lo psichiatra giapponese Tamaki Saito negli anni Ottanta, nel Sol Levante gli “hikikomori” sono un milione, un’emergenza nazionale. Valicare la frontiera delle loro prigioni casalinghe è quasi impossibile, ma Paolo, incredibilmente, per un pomeriggio la sua porta l’ha aperta. E ha anche accettato, seppure schermato, di farsi fotografare. Come se in fondo, da qualche parte, il suo cuore volesse saltare oltre l’ostacolo.
Il letto incassato nell’armadio è sfatto, ci sono gli scatoloni di un trasloco recente, la postazione del computer è invece linda e ordinata. «Ecco, io vivo qui, mio padre sta di là, con il nostro cane.
Non esco da due anni, da quando ho lasciato la scuola. Il mondo esterno non mi interessa, non mi dà stimoli. Anzi un po’ mi fa schifo. A noi giovani dicono sempre che non c’è futuro, non c’è lavoro. E allora a che serve studiare? Ma ho invece un sacco di amici di tutto il mondo in Rete, facciamo tornei anche con squadre di 50 giocatori, l’altra notte sono andato a dormire alle cinque ma abbiamo vinto».
Un lutto grave nella sua vita di bambino, ma poi un’infanzia serena, un papà che rimasto vedovo si dedica anima e corpo al suo unico figlio. Ma qualcosa in Paolo si rompe all’ingresso nella scuola superiore, istituto tecnico informatico. Anche se per Paolo, come per molti “ hikikomori” la vera origine dell’autoreclusione resta misteriosa. Ma il dato comune è il rifiuto della prestazione. Scendere dal treno in corsa. La voglia di ritirarsi da una società che corre, dove chi non è al passo è “ sfigato”.
Seduto sul suo letto, mentre mostra con orgoglio il fucile con cui andava a giocare a “ Soft Air”, ( simulazione dal vivo di tattiche di guerra), perfetta ricostruzione di “ M4” in dotazione alle forze speciali Usa, Paolo prova a guardare dentro la sua prigione.
« In classe ero a disagio, mi annoiavo, sempre solo nel mio banco, non avevo legato con i compagni, i miei amici d’infanzia erano in scuole diverse. E poi un computer io lo so già smontare, rimontare, potenziare, delle altre materie non mi importava nulla.
Bullismo? No, del resto non ho mai dato fastidio a nessuno, però nessuno mi cercava. Anche i prof mi ignoravano, era come se fossi invisibile » .
Nella sua stanza- grotta Paolo ascolta le colonne sonore di Hans Zimmer, divora film e fumetti, gioca a “ Countstrike”. « Tra noi gamers ci sono rispetto, onore, siamo una squadra sempre in contatto, anche la notte, con loro sono felice, mi danno stimoli, mi fanno sentire vivo. Per questo vorrei entrare nell’esercito: per ritrovare questa emozione » .
Chissà. Per adesso il cielo di Paolo sembra ancora ben chiuso nella sua stanza di hikikomori. « Non so spiegare perché ma piano piano ho avuto un rifiuto di quella classe, non studiavo più, non volevo uscire la mattina, ero felice soltanto quando tornavo a casa e potevo chiudermi con il mio computer. Mio padre era al lavoro, mia nonna non diceva niente, il mio ritiro è cominciato così » . Carlo, papà di Paolo, è un uomo affranto che grazie all’associazione “ Hikikomori Italia” fondata dallo psicologo Marco Crepaldi, si è unito ad altri genitori e ha ritrovato la forza di lottare. « Spero sempre che la sua porta si apra. Quindici giorni fa ha accettato di venire con me a trovare la nonna. In auto si guardava intorno, parlava... Allora è possibile, mi dico, che torni il mio ragazzo allegro e pieno di vita, Come altri genitori, mi chiedo ogni giorno: l’ho lasciato troppo solo? È colpa dei videogiochi? Poi la smetto di tormentarmi e cerco di portarlo per mano a uscire dalla prigione » .
Racconta Marco Crepaldi: « Avevo studiato gli hikikomori nella mia tesi di laurea, è bastato aprire un blog per capire che il fenomeno stava esplodendo anche in Italia.
Attenzione però, non è la Rete che porta all’isolamento, semplicemente i “ ritirati” si affratellano sul web. Curarli? La scuola può fare moltissimo, così il sostegno psicologico e l’auto- aiuto tra genitori. La nostra pagina Facebook ha migliaia di contatti, tra cui tanti ragazzi auto- reclusi » .
Paolo richiude la stanza. « Uscire?
Ci vorrebbe una spinta, Ehi, se mi date un lavoro smetto di fare l’hikikomori... » . Ride. Ha di nuovo sedici anni. E farà volare i droni.
Paolo vive a Roma e ha accettato di farsi fotografare nella sua “tana”: tutto è in disordine, tranne il tavolo del computer

http://www.hikikomoriitalia.it/

Repubblica 1.6.17
L’esecutivo gialloverde
Nuova destra al potere
di Claudio Tito


Il governo gialloverde nasce già vecchio. Logorato da un balletto inverecondo e con novità sbiadite. I dicasteri- chiave sono in mano a uomini del passato. Da Moavero, ex ministro del governo Monti, a Tria, che faceva parte del gruppo di lavoro che ha scritto il programma di Forza Italia di qualche anno fa. E poi Savona, già in carica con l’esecutivo Ciampi del ‘93. Tutte le altre figure, a partire dal premier, semplici ancelle del rito Salvini-Di Maio. Su questa compagine, dunque, gravano già diversi macigni. Compresa la natura dichiaratamente di destra.
È il risultato del gioco di veti incrociati, ripicche, bassa lotta per il potere e per le poltrone durato tre mesi. Solo domenica scorsa Giuseppe Conte ha rinunciato al suo primo incarico. Cosa è stato fatto che non si potesse fare cinque giorni fa? Paolo Savona è stato dirottato dal ministero dell’Economia agli Affari europei. Il Quirinale già si era dichiarato disponibile a nominarlo con una delega diversa. Perché si è dovuto aspettare? Perché si sono dovute esporre le istituzioni, il Paese e i nostri conti pubblici a una continua fibrillazione? L’M5S ha addirittura minacciato l’impeachment nei confronti di Mattarella. Lo stesso Savona, probabilmente dimentico delle responsabilità che gli derivano dai tanti incarichi ricoperti in passato, ha ingaggiato uno sgangherato duello verbale con il Colle. Un inutile psicodramma.
La motivazione di tutto è purtroppo semplice: la paura di perdere l’occasione e il potere. Lo sconquasso avvenuto martedì scorso sui mercati finanziari ha spinto Di Maio e Salvini a rivedere le loro posizioni. Il rischio di dover affrontare nuovamente le urne, magari in piena estate, li ha indotti a non sottoporsi a una eventualità: lasciare sul terreno una parte dei consensi conquistati il 4 marzo scorso. Per i grillini — e in particolare per il loro capo politico — l’ultima settimana è stata vissuta come se la porta del governo non dovesse mai più riaprirsi. Hanno sostanzialmente accettato tutte le richieste della Lega. Che sta capitalizzando elettoralmente il suo movimentismo sapendo però che il 29 luglio quella capitalizzazione si sarebbe dispersa nei luoghi di villeggiatura delle regioni del nord. Meglio, allora, le poltrone.
Una squadra scolorita assume però il tono di un governo di destra. Nella storia repubblicana mai nessun esecutivo ha spostato il baricentro fino a questo punto. Il suo programma è di destra — nel cosiddetto contratto non sono mai citate le parole “diritti civili” — e i suoi atteggiamenti sono di destra. L’ingresso a Palazzo Chigi viene intepretato non come un cambio di governo, ma come un cambio di regime. Descrivono ogni scelta con una visione palingenetica, come se tutto dovesse cambiare in quell’istante. Si affidano a un sorta di dittatura del malumore dei cittadini, anziché rispondere a quello stesso malumore. Gli attacchi, poi parzialmente ritirati al presidente della Repubblica, sono un elemento di questo schema. Hanno bisogno di colpire la massima istituzione per provocare una grande suggestione: il cambiamento totale, appunto. Giustificare un governo con le riforme non basta più, serve un non meglio identificato “cambiamento”.
E forse non è un caso che Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, abbia deciso improvvisamente di trasformare il suo voto negativo in astensione accettando il ruolo di stampella destrorsa. Tenendo presente che i numeri esigui di questa maggioranza al Senato troveranno un notevole corroborante nell’astensione, visto che il nuovo regolamento di quell’aula non la considera più un voto contrario come accadeva fino a due mesi fa.
Anche il M5S dunque ha buttato la maschera. La sua trasversalità elettorale viene bruciata da questa alleanza. Si sta così formando un nuovo blocco sociale con la sovrapposizione e l’unione delle due rispettive basi elettorali. Questo esecutivo sarà il laboratorio pratico di questa nuova destra sovranista e antieuropea. I primi esperimenti ci saranno già a giugno con l’assestamento del bilancio e in autunno con la legge di bilancio. Le promesse sconsiderate fatte in campagna elettorale si misureranno in quelle due occasioni con il principio di realtà. E le rassicurazioni europeiste, apparse posticce, subiranno un test probante.
I quattro “tecnici”, da Conte a Moavero, dunque, sono solo una sorta di trucco estetico. Le chiavi di questa vettura lanciata verso la deriva orbaniana sono in mano a Di Maio e soprattutto a Salvini. E il premier rischia di non essere l’avvocato degli italiani, ma il semplice notaio verbalizzante del contratto gialloverde.

Repubblica 1.6.18
La festa del 2 giugno
La democrazia a un bivio
di Guido Crainz


Mai come quest’anno il 2 giugno ci costringe a interrogarci sul nostro essere nazione e sulla tenuta della nostra democrazia, ed è difficile sfuggire alla sensazione di essere di fronte a un bivio. Mai infatti, neanche nelle fasi più aspre, questa data ha cessato di essere la festa di tutti gli italiani: il momento in cui ribadiscono i fondamenti culturali, politici e civili del proprio vivere collettivo. Mai qualcuno aveva pensato di utilizzare il 2 giugno per contestare le nostre regole costituzionali. Mai, neanche per un attimo, era stata proposto di lacerare questa giornata con una manifestazione di parte volta a colpire proprio quelle regole, assieme alla figura istituzionale che ne è garante ( e il vulnus resta, anche se la miserevole proposta è crollata grazie alla alta e necessaria fermezza del presidente della Repubblica, SergioMattarella).
Non avvenne neppure nel clima teso della Guerra fredda, nonostante le profonde divisioni e contrapposizioni di allora. E non avvenne negli anni cupi della strategia della tensione e del terrorismo degli anni Settanta: la centralità del 2 giugno verrà appannata semmai dalla smemoratezza degli anni Ottanta, nel prolungarsi dell’abolizione della festività decisa nel 1977 (discutibile conseguenza di esigenze di “austerità”).
Quell’appannarsi era in realtà il sintomo dell’indebolimento civile del Paese, malamente mascherato dalle euforie di quel decennio, e alla vigilia del crollo della “ prima Repubblica” Giorgio Bocca evocava a contrasto, su queste pagine, l’Italia uscita dalla guerra: eravamo divisi in fazioni, scriveva, in un Paese distrutto, eppure «uniti nel vivere, liberali, cattolici, monarchici, comunisti, padroni, operai, tutti certi di essere padroni del nostro destino. Ma questa voglia di avere un’identità, di essere noi, sembra esserci uscita dal corpo. Che Paese siamo? Che cosa significa essere italiani? » . In quella crisi il valore centrale del 2 giugno sembrò offuscarsi ancora e la sua decisa riaffermazione fu parte integrante della pedagogia civile avviata con forza dal presidente Ciampi e proseguita dai suoi successori.
Fu parte integrante del loro impegno a rifondare il “ patriottismo repubblicano” nella coscienza collettiva, collocandolo nella più ampia appartenenza europea e rafforzandone al tempo stesso i momenti simbolici e le date fondative. In primo luogo, appunto, la festa del 2 giugno, ripristinata da Ciampi nella sua interezza e accompagnata da una parata che poneva ora al centro l’impegno dell’esercito nelle calamità civili e nelle missioni di pace. Ciampi stesso ha ricordato: andai a quella prima, rinnovata sfilata «in una vettura scoperta, con al fianco il ministro della Difesa, Sergio Mattarella. Eravamo circondati da una folla festosa che mi diceva di andare avanti, mi ringraziava, era contenta » . Quella ispirazione è andata via via arricchendosi e sono ancora vive le immagini di un anno fa, con la folta presenza di sindaci e con quell’enorme tricolore che calava sul Colosseo.
È forte dunque la sensazione di essere oggi di fronte a una possibile, inquietante divaricazione, e nei giorni scorsi lo abbiamo compreso in maniera traumatica: in essi infatti il fantasma del populismo è uscito definitivamente dal limbo delle definizioni astratte o da territori ancora lontani. È diventato forza corposa e devastante, con la lacerante contrapposizione fra una “ sovranità del popolo” arbitrariamente interpretata e le istituzioni che la fanno realmente vivere, svilite e calpestate assieme alle loro regole. Questo abbiamo vissuto e viviamo, e quelle lontane parole di Giorgio Bocca sembrano di nuovo drammaticamente attuali.

Il Fatto 1.6.18
Caro Recalcati, Renzi rimane il capo dei Proci
di Daniela Ranieri


Ammiratori sfegatati quali siamo del professor Recalcati, fresco della sua trasmissione su Rai3 in cui da una sedia al centro della scena, avvolto da un’aura di fascinosa lacanianità, lancia agli adepti perle quali “Il compito primo di ogni maestro non è quello di trasmettere il sapere ma quello di portare il fuoco” e “Per essere un giusto erede bisogna essere sempre eretici”, non potevamo perderci l’ultima sua lezione su Repubblica sulle analogie tra l’Odissea e la situazione politica attuale. Ci eravamo appena ripresi dalla bella lavata di capo che la psico-star col ciuffo ci fece dal palco della Leopolda pre-referendum: Renzi era Telemaco, il “figlio giusto” in cerca del padre, mentre noi antirenziani eravamo masochisti, conservatori e paternalisti.
La storia si è incaricata di contarci: 20 milioni al referendum (soprattutto giovani), poi, alle elezioni, una legione che ha rispedito al mittente la baldanzosa promessa di felicità del giovinotto toscano e della sua corte dei miracol(at)i.
Ora Recalcati, questo Farinetti del lettino, torna sul tema per aggiornarlo, piegando il mito all’evolversi dello storytelling: se “anagraficamente Salvini e Di Maio appartengono alla generazione che avevo battezzato Telemaco”, riflette, politicamente essi “sembrano assomigliare di più ai Proci”, i giovinastri che “esigono di possedere la regina Penelope e di insignorirsi del trono decretando Ulisse morto”.
Va da sé che nello schemino del carismatico guru Renzi è sempre Telemaco; noi siamo il “popolo” che appoggia i Proci – qui Recalcati se la deve un po’ aggiustare: “Una differenza sostanziale differenzia (sic) i nuovi Proci dai vecchi. I nuovi hanno ottenuto democraticamente il consenso del popolo per governare la polis”, mannaggia; mentre il “padre” è Mattarella, al quale farà piacere essere paragonato a Ulisse, un avventuriero fedifrago e bugiardo che fa morire tutti i suoi compagni.
Verrebbe proprio da fare sì con la testa, tant’è l’evidenza cristallina di questa lettura, sennonché già l’anno scorso, sul Fatto, nell’articolo Renzi, un Narciso a capo dei Proci, ci prendemmo la briga di smontare la trovata della “generazione Telemaco” con la quale Recalcati (poi messo a capo di una scuola politica del Pd intitolata al povero Pasolini) cercava di far passare un rampichino come Renzi per il protagonista di un’epica grandiosa, sembrandoci egli semmai più simile al capo dei Proci, che saccheggia per pura brama di potere.
Oggi, alla luce dei fatti, l’analogia (la nostra) ci pare ancora più corretta. Telemaco si reca a Pilo e a Sparta a farsi dare notizie del padre. Il suo è un “pellegrinaggio contrassegnato dalla devozione” (sono parole di Giorgio Manganelli), tra “i grandi di un’altra generazione”. Non risulta che Renzi abbia mai compiuto la sua Telemachia; al massimo è andato in California a parlare della vita su Marte. È partito, con enfasi annichilente, come rottamatore del passato. Nella sua “narrazione” la Legge è sempre stata un freno, così come l’autorità (i “professoroni”), occhieggiante e censoria. Renzi è quello del “ce ne faremo una ragione”, del “costi quel che costi”, del “si discute ma poi si decide”: formule liquidatorie, non eretiche.
Telemaco è solo; Renzi è a capo di una corte. Telemaco è malinconico (Omero dice “afflitto nell’animo”); Renzi è garrulo, gaglioffo, ilare, spesso aggressivo. Telemaco soffre per l’assenza di padri; Renzi voleva rottamarli. Telemaco ascolta e, per quanto goffo e spaccone, impara dai suoi errori; Renzi per i suoi fallimenti dà sempre la colpa a qualcun altro, persino al popolo che non ha compreso il suo genio. I Proci invece sono gli estranei che sfondano le porte, ma non con la violenza, piuttosto con una “strana qualità magica” (sempre Manganelli), “una malattia, che inutilmente gli dèi ammoniscono”. La malattia è il nichilismo di chi pretende il potere e viene ridotto all’impotenza dalla sua inettitudine rapinosa.
Ci riserviamo di capire meglio chi siano Di Maio e Salvini, ma Renzi è inequivocabilmente Antinoo, il capo dei Proci che distrugge la casa della sinistra condannandosi al nulla. O, se proprio deve esser Telemaco come vuole lo psico-guru pop organico, valgano per lui le parole che il Poeta fa dire a Atena: “Pochi figli risultano uguali al padre; i più sono peggiori, e solo pochi migliori”.

Il Fatto1.6.18
Cuperlo, Re Giorgio e il ministro al buio
di Ma. Pa.


Gianni Cuperloè uomo di candore disarmante. Ieri, per dire, ospite de L’aria che tira su La7, nel tentativo di difendere Sergio Mattarella dall’accusa di aver travalicato il suo ruolo, ha commesso il più classico fallo di reazione violando il più classico dei “si fa ma non si dice” istituzionali. L’uomo che con nobile gesto ha rifiutato la candidatura alle ultime Politiche (Claudio De Vincentis, che prese il suo posto, può però ringraziarlo fino a un certo punto: non è stato eletto) ha scolpito quanto segue: “Credo che il presidente del Consiglio Matteo Renzi abbia conosciuto Pier Carlo Padoan dopo che gli era stato indicato come ministro dell’Economia del suo governo” (indicato dal presidente Giorgio Napolitano, s’intende). Insomma, il niet per reato di opinione a Paolo Savona è “una situazione del tutto ordinaria”. La prassi, si sa, ha questa sua caratteristica di sembrare eterna, eppure questa in particolare pare una violazione della Costituzione mica da poco: “Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri”, dice l’articolo 92. E come lo avrà proposto Renzi a Napolitano se non sapeva neanche chi fosse? È l’ordinarietà della politica extra-costituzionale, luogo in cui – come ci ha svelato Mattarella – il ministro dell’Economia deve avere la fiducia dei mercati, non dei partiti.

Il Fatto1.618
“Savona fu molto amico del Gran Maestro Corona”
Ombre. Le voci sulla presunta affiliazione alla massoneria e le frequentazioni dell’economista sardo tra i “fratelli”
di Fd’E


Più o meno velatamente, la voce rimbalza da una decina di giorni, da quando cioè al Quirinale è scattato l’allarme sul suo nome, fino alla drammatica crisi istituzionale di domenica sera, 27 maggio, con il veto del capo dello Stato sulla sua nomina a ministro dell’Economia.
Parliamo ovviamente di Paolo Savona, l’ottuagenario economista che con le sue critiche all’euro è passato d’emblée da un solido ruolo d’establishment a quello di amico rivoluzionario del popolo gialloverde.
Un bel salto, appunto, nonostante le voci su una sua presunta affiliazione alla massoneria che ieri sono deflagrate grazie a un’indiscrezione riportata dal Corriere della Sera. Questa: Luigi Di Maio avrebbe detto a Carlo Cottarelli (che però smentisce) che Savona farebbe parte della massoneria americana. Tout court. Intendiamoci, essere iscritti a una loggia non è reato ma nel contratto di governo tra M5S e Lega c’è un’esplicita norma anti-massonica.
La leggenda, chiamiamola così, di Savona massone, dal prodigioso curriculum istituzionale e politico, comincia più di quattro decenni fa. L’economista frequentava il Pri di Ugo La Malfa, prima, e di Giovanni Spadolini poi. L’Edera repubblicana è il simbolo del secondo partito più antico d’Italia fondato alla fine dell’Ottocento (il primo fu il Partito socialista).
Laici e spesso massoni, tra i repubblicani di rango degli anni Settanta e Ottanta c’era il sardo Armando Corona detto Armandino, corregionale di Savona. I due erano amici e Corona nel 1982 fu chiamato a un compito severo e per certi versi immane. “Ripulire la massoneria dalla P2 di Licio Gelli”, come disse anni dopo un altro sardo d’élite, Francesco Cossiga.
Corona fu infatti eletto Gran Maestro del Goi, la maggiore obbedienza dei massoni italiani (più di ventimila affiliati oggi), dopo lo scandalo piduista che come un virus aveva contagiato politica, giornali, forze armate, servizi segreti, finanza e imprese (compreso l’imprenditore Silvio Berlusconi).
Dice il senese Stefano Bisi, attuale Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia: “Non mi risulta un’affiliazione di Savona però era vicinissimo ad Armandino Corona, questa è una cosa nota”.
Fin qui la parte visibile, meglio, ufficiale su Savona massone.
Indi ci sono i sospetti su logge più “coperte” e di sapore internazionale. Di qui il presunto riferimento alla massoneria americana attribuito a Di Maio.
Quello che è certo è che dopo gli anni repubblicani, Savona fu vicino al “gladiatore” Cossiga, cultore appassionato di grembiuli a cavallo tra la Chiesa e il Tempio massonico. È l’esclusivo mondo della cattomassoneria (teismo più deismo dal punto di visto speculativo) oggi ancora attiva e in prima linea nella guerra al nuovo corso di papa Francesco (ma questa è un’altra storia).
L’esponente più famoso di questa filiera, un tempo potentissimo, è stato l’ex piduista, nonché grande amico di Savona, Giancarlo Elia Valori. E non è un caso che in questi giorni, l’economista non voluto da Mattarella sia stato difeso sul Tempo da Luigi Bisignani, altro cattomassone ed ex piduista di vaglia.
Bisignani ha accusato Mario Draghi di essere il vero nemico di Savona e ha fatto un perfido riferimento a due “confraternite”: “Sono da sempre di due confraternite opposte in politica economica: keynesiano Draghi, neo-monetarista Savona”.
L’esatto opposto, però, di quanto sostenuto dai massoni progressisti di Gioele Magaldi, il Grande Oriente Democratico (God): “La guerra a Savona è opera di fratelli controiniziati, aristocratici e anti-keynesiani”. Chi ha ragione?

La Stampa 1.6.18
Il popolo leghista brinda
“I clandestini inizino a tremare”
di Emilio Randacio


il raduno , organizzato da tempo, diventa questa sera la festa nella festa, con lo sfondo delle ciminiere delle acciaierie di Dalmine che da domani, forse, soffriranno per i dazi «trumpiani». Ma questa stasera , nella landa bergamasca che si avvicina alle montagne, si brinda alla vittoria: il Capo è al governo, ministro della Polizia; clandestini «e delinquenti» possono iniziare a tremare. Sul tavolino del self service campeggia l’invito: «Firma per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica » e la data di questo weekend. Sopra, campeggia la foto in giacca scura e un sorriso interminabile del nuovo ministro dell’Interno, Matteo Salvini. Tra una porzione di casoncelli - ripieno tipico della Bergamasca-, e uno stracotto d’asino, tra vini rossi densi e birre alla spina serviti in bicchieri di plastica, si consuma la festa della Lega di Dalmine. Due tensostrutture impiantate nei prati, musica anni settanta in sottofondo, decine di persone che mangiano in allegria e lo spazio per la pista di una serata che si promette danzante e anche la tombola. «Prima il Nord», recita un cartello, «Sì all’autonomia» fa eco un altro. Un altoparlante invita il numero 32 a ritirare le patatine fritte. «Pronte per essere mangiate!».
Roma è lontana
Le notizie da Roma, sembrano lontane. Nessuno esulta più di tanto. «Salvini ministro dell’Interno? E una settimana che non accendo la televisione, ma vengo qui a lavorare», dice un tipo con l’aria di essere il capo di questa sagra di paese in salsa leghista. Più che parlare, l’uomo sorride sotto imponenti baffoni, tradendo la soddisfazione. Non vuole dire nemmeno il suo nome, indica con le sue manine solo a chi rivolgersi. Tra i banconi di «Dalmine in festa», molti indossano magliette verde padano, ma non amano le chiacchiere. «Contenti? Ma, io non parlo». E indica Fabio Facchinetti., 42 anni, «iscritto alla Lega dal 1991», dice con orgoglio. Quattro anni fa ha perso la corsa da primo cittadino, «per colpa dell’onda lunga di Matteo Renzi». Da allora, qui, poco distanti dallo stabilimento Tenaris, dalle sue ciminiere, il sindaco è di centrosinistra. Ma garantiscono che gli hanno reso la vita difficile. «Voleva eseguire gli ordini del prefetto - spiega Facchinetti, con l’immancabile divisa verde di addetto alle griglie e alla carne alla brace -. Voleva mettere gli immigrati in una struttura pubblica, ma ci siamo opposti. Noi quel posto lo volevamo per la città ». E come è finita? «Li hanno messi in alcuni appartamenti». Erano molti? «Per me anche troppi, una decina di ragazzini». E adesso, cosa succederà? «Per noi basterebbe che Matteo facesse anche solo la metà di quello che ha promesso, per me saremmo a posto».
Per il sindaco mancato di Dalmine, «Matteo è un bravo ragazzo e si sta muovendo bene. È venuto qui, ci ha sempre dato una mano». Ma cosa vi aspettate da lui? Facchinetti sorride e, poi, spiega. «Alfano delle cose che ha promesse non ne ha fatte il 90%. Minniti ne ha fatte la metà, di Matteo ci fidiamo...» Fabio precisa, «siamo sempre in una coalizione », ma è ottimista. «Speriamo solo che non ci sia un Casini di turno, oppure un Fini. Quando stavamo per realizzare il nostro programma, gente così, si è messa in mezzo e ha mandato tutto al diavolo». «Prima c’era Berlusconi che metteva il nostro programma in bella, attraverso il suo impero, ora no...». E il presidente Mattarella, come si è comportato? «Noi abbiamo dimostrato che non siamo un Paese ricattabile, come gli Stati Uniti, che di fronte a un ricatto, non si sarebbero mai piegati». Fabio sorride ancora, ma ora deve proprio andare. Gli spiedini sulla carbonella si stanno bruciando, lui li deve girare. L’altoparlante, intanto, avverte i numeri per la tombola che vengono estratti.

La Stampa 1.6.18
Tra i migranti che ora temono
“Per noi l’aria diventa pesante”
di Lodovico Poletto


I primi carretti con i rottami di ferro arrivano alle 8 di sera. E i ragazzoni sfatti da questo pomeriggio di afa scaricano davanti al garage quel poco che sono riusciti a trovare in ore di ricerca: una lavatrice, pezzi di giochi per bambini. Una vecchia tv. Preziosissima, perché contiene rame, il metallo che fonderie pagano meglio.
Benvenuti al Moi, le ex palazzine costruite per le Olimpiadi invernali del 2006 e diventate casa della più grande concentrazione di migranti di Torino, un tempo soltanto industriale e oggi in trasformazione. Mille e 200 persone da almeno 20 Paesi. Una piccola città dentro la città che ha conosciuto tutte le migrazioni dell’ultimo secolo. Quelle dal Sud d’Italia, quando le ciminiere delle fabbriche fumavano nero e c’era fame di operai, e dai Sud del mondo, in questi ultimi anni. Arriva Salvini al Viminale e torna in mente quando durante la campagna elettorale il leader leghista era andato nel più grande campo rom di Torino per visitarlo e dire alla gente che abita in zona: «Dobbiamo restituire vivibilità al territorio. Qui come altrove». E l’altrove era il Moi.
Permesso e buon senso
Bram Hema Kone, è un omone di origini ivorane, 46 anni, permesso di soggiorno in tasca e tanto buon senso in testa. Ha vissuto al Moi. Oggi fa parte del Movimento Rifugiati e migranti, e nel suo italiano quasi perfetto dice: «Avevamo capito che l’Italia stava cambiando atteggiamento nei confronti dei migranti». Scusi Kone, che cosa intende? «Che i migranti non erano più amati come un tempo. E se adesso, con l’arrivo di Salvini è chiaro: noi stranieri avremo qualche problema».
Kone è un uomo che media, che si spende per la gente del Moi e non soltanto. Sa che quei ragazzi che raccolgono il ferro lo fanno per fame. Che i soldi qui sono pochi. E che le famiglie che hanno occupato l’ultima palazzina al fondo, quella azzurra, sono qui perché non hanno alternativa. E sa pure che il Moi non è soltanto questo. È lo spaccato dell’immigrazione: nel bene e nel male, con la povera gente da un lato e chi delinque dall’altro. E che in quelle case, fino a qualche tempo fa, c’erano anche una banda di pusher con quintali di erba. Poi un giorno sono arrivati gli agenti della Squadra mobile della questura di Torino e se li sono portati via in manette. Mentre la gente per bene guardava dalla finestra. E tirava un sospiro di sollievo.
Ecco, Kone sa. E ha intuito «che l’aria adesso si farà pesante» dice. «Ne abbiamo parlato con le comunità di diversi Paesi: gli ivoriani, i senegalesi, i maliani. Sappiamo che potrebbe esserci un cambio di passo». Che cosa significa, nel dettaglio, però non lo sa neppure lui. Espulsioni più facili? Forse. Regole più strette per i permessi di soggiorno? Può essere. Altro? «Torino è sempre stata una città accogliente con i migranti. Ma è certo che qualcosa accadrà anche qui, anche a Torino» ripete Kone. E poi c’è la questione Moi, nel suo complesso. Con il solito carico di problemi e di significati. Perché mille e 200 migranti concentrarti in poche case, in uno dei quartieri più popolosi della città, è ovvio che qualche tensione l’hanno creata. Ma i mugugni e un diffuso senso di insofferenza tra residenti e commercianti sono sentimenti più reali. Nonostante i progetti di integrazione. E quelli di «svuotamento dolce» delle palazzine. Kone adesso sorride. Che farete? «Ne parleremo ancora. La gente per bene non può pagare per chi non si comporta come dovrebbe».
Alle nove di sera il Moi è ancora in fermento. Ragazzi in ciabatte che entrano ed escono. Luci dentro le palazzine delle famiglie. Il buio in quella arancione. Quella delle camerate. Dei ragazzi da soli. Quella sopra i garage diventati magazzino di rottami e piccoli tesori.

Repubblica 1.6.18
Lavoro
L’occupazione ai massimi più donne, crescono i precari
Ad aprile record storico con 64 mila nuovi assunti I contratti a tempo sfiorano i tre milioni L’inflazione sale all’1,1%
di Rosaria Amato


Roma Il mercato del lavoro torna a correre ad aprile, con 64 mila occupati in più nel giro di un solo mese. Un contesto economico dinamico, accentuato anche dall’accelerazione dei prezzi: a maggio, rileva l’Istat, l’inflazione arriva all’ 1,1% annuo, l’aumento maggiore da settembre, mentre nell’Eurozona è all’ 1,9%. A fronte però di diverse tendenze incoraggianti, a cominciare dal calo degli inattivi, scesi ormai al minimo storico, continua un travaso tra lavoro stabile e lavoro precario. Con una novità significativa: per il secondo mese di fila cresce l’occupazione tra gli indipendenti, in calo perlomeno dall’inizio delle “ serie storiche” dei dati mensili sul lavoro dell’Istat, che risalgono al 2004. Da allora si registra infatti una tendenza di calo dapprima moderato e poi sempre più veloce: nel 2017 il numero dei lavoratori autonomi è calato dell’1,9%, certifica la Relazione annuale di Bankitalia.
Eppure, adesso, nel giro di due soli mesi, marzo e aprile, c’è stato un forte recupero, che ha fatto tornare il numero degli autonomi ( 5 milioni 354 mila) quasi ai livelli di un anno fa. Presto per trarne delle conclusioni, considerato che in Italia tra le file degli autonomi ci sono anche molte situazioni anomale, di parasubordinazione se non veri e propri rapporti di lavoro dipendente mascherati.
A crescere sono soprattutto le occupate donne ( 137.000 in più in un anno), e si conferma con forza la tendenza che vede la riduzione degli occupati permanenti ( in un anno se ne sono persi 112 mila) e l’aumento di quelli a termine ( 329 mila in più nello stesso periodo, 41 mila solo tra aprile e marzo). Un dato che fa dire ai senatori del Movimento Cinque Stelle che il governo uscente ha ben poco di cui vantarsi: « Non comprendiamo le reazioni esultanti del Pd » , obiettano, replicando a Matteo Renzi che rivendica i dati: «C’è chi fa aumentare lo spread e c’è chi fa aumentare l’occupazione». Critici anche i sindacati: Cgil e Cisl fanno notare come ormai da tempo a crescere sia solo l’occupazione a termine, mentre la disoccupazione giovanile è di nuovo in rialzo. In effetti gli occupati della fascia 15- 24 anni crescono dello 0,5%% rispetto a marzo, ma quelli della fascia successiva, 25- 34, calano dello 0,4%. È l’effetto di incentivi “a esaurimento”?. Ma a trovarsi in una situazione difficile, fa notare Francesco Seghezzi, analista di Adapt, sono anche i più anziani: per effetto delle riforme infatti crescono gli occupati over 50, ma c’è anche un aumento annuo del 7,5% dei disoccupati della fascia 50-64 anni. Potrebbe essere la spia di un disagio: archiviati una serie di ammortizzatori sociali, molti over 50 sono costretti a cercare di nuovo lavoro, ma con scarso successo.

il manifesto 1.6.18
Finisce l’era Rajoy, sepolta dagli scandali. È il turno dei socialisti
Spagna. La mozione di sfiducia presentata dal leader Psoe ha i numeri. Pedro Sánchez promette un governo «paritario ed europeista»
di Luca Tancredi Barone


BARCELLONA La Spagna oggi avrà un nuovo governo a guida socialista. Dopo i due tentativi falliti di Pedro Sánchez di diventare il capo dell’esecutivo spagnolo nel 2016, lo storico voto che lo incoronerà come il nuovo presidente del governo avverrà nel corso della giornata di oggi. È la prima volta che in Spagna una mozione di sfiducia viene approvata: quella di oggi, presentata dai socialisti una settimana fa, dopo la dura sentenza sul caso di corruzione che condanna esponenti di primo piano del partito popolare, è la quinta della storia democratica di questo paese.
L’ultima, l’aveva presentata Unidos Podemos un anno fa: allora i socialisti si astennero. Oggi invece, a fianco dei socialisti e dei deputati di Unidos Podemos e alleati – che dal primo momento hanno regalato a Sánchez il voto senza chiedere nulla in cambio pur di allontanare il Pp dalle leve del potere – si schiereranno i nazionalisti catalani del PdCat e di Esquerra Republicana, i nazionalisti baschi del Pnv e una manciata di altri deputati. I Sì si assesteranno sui 180, 4 in più della maggioranza assoluta necessaria.
IL QUADRO POLITICO si è andato chiarendo ieri durante il dibattito parlamentare. Sia il PdCat che Esquerra hanno offerto i loro voti per «sfrattare» Rajoy, «principale responsabile della crisi catalana». Ma il sì chiave è arrivato dai baschi, che con i loro 5 deputati hanno fatto pendere l’ago della bilancia dalla parte di Sánchez. Una settimana fa, era stato il loro voto a salvare il bilancio 2018 di Rajoy.
LA PRESENTAZIONE della sfiducia al Congresso da parte di un portavoce socialista – Sánchez non è più deputato da quando si dimise per non votare il Sì a Rajoy che un Psoe diviso decise nel 2016 – è iniziata ieri con la durissima lettura della sentenza del cosiddetto caso Gürtel. Una volta presa la parola, il candidato Sánchez ha attaccato Rajoy: «Incapace di assumere in prima persona le responsabilità politiche». Il discorso del candidato è stato attento: per evitare l’accusa di sete di potere da parte del Pp, è stato Sánchez stesso a proporre che Rajoy si dimettesse per bloccare tutto. Se l’avesse fatto – l’ipotesi è circolata tutto il giorno – il re avrebbe dovuto iniziare un giro di consultazioni. Forse Sánchez avrebbe potuto ottenere l’incarico ma si sarebbe aperto un periodo incerto, anche se in questo caso per Sánchez sarebbe stato più semplice ottenere i voti (in seconda votazione non serve la maggioranza assoluta).
Sánchez è stato abile verso i futuri alleati: a sinistra, ha promesso che avrebbe ripreso le leggi e le mozioni approvate dal congresso e che il governo del Pp non ha applicato, come la legge per cambiare la guida della radiotelevisione pubblica (che sarà chiave per le prossime elezioni), la riforma della durissima legge bavaglio, la cancellazione della tassa sull’energia solare, la reintroduzione dell’universalità del sistema sanitario (il Pp aveva lasciato fuori i migranti), una legge sull’uguaglianza salariale fra uomini e donne, l’applicazione del patto di stato sulla violenza di genere, il rilancio del sistema nazionale sulla scienza e sulla tecnologia. Ai catalani ha promesso di «tendere ponti», che difenderà la «Spagna plurale» di zapateriana memoria e ha addirittura riconosciuto che «ci sono territori che si sentono nazioni». E soprattutto ha promesso al Pnv che non salterà la finanziaria del Pp appena approvata (che dà ampi benefici economici ai baschi): a oggi, manca l’approvazione definitiva al senato (dove il Pp ha la maggioranza assoluta).
RAJOY HA RISPOSTO con durezza a Sánchez, con un tono rassegnato più da leader dell’opposizione che del governo. Ma potrà ancora mettere i bastoni fra le ruote: Pp con Ciudadanos hanno ancora la maggioranza della presidenza del Congresso. Dopo un botta e risposta con Sánchez, l’ormai ex presidente del governo, in un ultimo gesto di spregio, lasciava l’emiciclo dove non si è più presentato per il resto del dibattito. Chi perde, oltre al Pp, è chiaramente Ciudadanos che si è trovato spiazzato. Rivera ha implorato nuove elezioni, dopo aver sostenuto Rajoy. Ma oggi entrambi hanno perso la partita.
Se c’è una cosa su cui tutti gli altri partiti sono d’accordo è proprio bloccare l’ascesa degli arancioni.
Il nuovo governo, dice Sánchez, sarà «paritario» e «europeista», ma per ora non sappiamo null’altro. A parte che sarà difficile duri i due anni che mancano di legislatura.

La Stampa 1.6.18
Il gay pride di Tel Aviv
Israele pronta per l’evento dell’anno
di Elena Loewenthal


C’è anche chi, con buona dose di sterile sprezzo, lo definisce «pink washing»: il politicamente corretto della libertà sessuale, che in Israele sarebbe il modo per distogliere dal conflitto con i palestinesi l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. Sta di fatto che Tel Aviv è ormai universalmente nota come la città più gay friendly del mondo, dove il rispetto delle scelte individuali si esercita su una vasta piattaforma che va dall’abbigliamento ai gusti sessuali alla creatività artistica. Qui tutto è sempre aperto, un po’ come l’orizzonte sconfinato sul mare.
La settimana del gay pride è da queste parti uno degli eventi più al top dell’anno, forse il più clamoroso – anche se quest’anno dovrà giocarsi il primato con l’avvio del Giro d’Italia, qualche settimana fa. Sta di fatto che a pochi giorni di distanza dalla gay parade che l’8 giugno prossimo fermerà il traffico della città e la riempirà di colori sgargianti, musica, performance d’ogni sorta, tutta Tel Aviv e piena di bandiere arcobaleno che sventolano per le strade, appese ai balconi delle case, dentro i negozi. Ovunque dei cartelli stradali indicano i luoghi fulcro della settimana del gay pride, che prevede eventi ludici ma anche incontri e dibattiti. Ristoranti, locali, alberghi e spiagge offrono pacchetti d’accoglienza creati apposta per l’evento. Il palazzo del municipio in piazza Rabin si appresta a tingersi dei colori dei gay pride in un gioco di luci più allegro che mai.C’è insomma un coinvolgimento totale della città che, come scandiscono i suoi slogan preferiti, «non dorme mai» e «non sta mai ferma»: ed è proprio così, più che mai in questo 2018 – settantesimo compleanno dello stato ebraico – quando per curiosa coincidenza la settimana del gay pride si accavalla a quella del Taglit, il «viaggio scoperta» fatto apposta per i ragazzi ebrei della Diaspora, che sono arrivati qui a migliaia.
Ma la cosa più stupefacente di questa settimana dell’orgoglio omosessuale a Tel Aviv è la sua normalità, che è lo specchio di quello che la città è giorno dopo giorno, nella sua quotidianità: coppie di genitori dello stesso sesso ai giardinetti con il passeggino, alti ufficiali dell’esercito che fanno coming out senza per questo occupare pagine di giornale. Certo, Tel Aviv non è tutto Israele e Israele è un insieme di mondi diversi, a volte opposti fra di loro. Ma è pur vero che qui la settimana del gay pride ha dalla sua il fatto di essere ormai parte della città in un modo così pregnante che quasi tutti i cittadini sentono queste giornate come qualcosa che appartiene a Tel Aviv, che sta dentro il suo cuore.

Corriere 1.6.18
Elzeviro Il libro di Claudio Colombo
Lo Schindler del calcio che sfidò le SS
di Francesco Cevasco


Che occuparsi del gioco del calcio non sia soltanto inseguire con lo sguardo ventidue ragazzi che corrono in mutande dietro a un pallone è già ampiamente dimostrato da grandi scrittori di tutto il mondo. Che il gioco del calcio e i suoi protagonisti, calciatori, allenatori, abbiano avuto un ruolo nelle vicende storiche un po’ meno. Poi ci sono libri come questo, Niente è stato vano. Il romanzo di Géza Kertész, lo Schindler del calcio (Meravigli edizioni, pagine 144, e 15). Lo ha scritto Claudio Colombo («Corriere d’Informazione», «Gazzetta dello Sport», «Corriere della Sera», oggi direttore di «Il Cittadino» di Monza).
Si comincia a leggerlo per seguire la traccia di un non-grandissimo giocatore di calcio ungherese «emigrato» in Italia con la famigliola per diventare allenatore. E lo diventa. Anche in questo secondo mestiere non sarà una superstar (in serie A allenerà Roma e Lazio senza fare sfracelli). Ma è il più bravo a conquistare promozioni a raffica dalle serie minori.
Siamo negli anni Venti e la nostra storia durerà fino a una data tristemente precisa: il 6 febbraio 1945. Se restiamo agli anni Venti e Trenta e ai primissimi Quaranta, Kertész può essere più che soddisfatto. E lo è: dopo una breve parentesi di allenatore-giocatore (lo Spezia) fa soltanto il trainer. È bello, alto, elegante, poliglotta, simpatico. Piace ai presidenti delle squadre di calcio, piace ai tifosi e i calciatori si fidano di lui anche se è un po’ troppo esigente: sarà lui a inventare «il ritiro», cioè a ritrovarsi in un albergo alla vigilia delle partite importanti senza mogli, fidanzate, amici, distrazioni di ogni genere.
Intanto arriva, cresce, si allarga il fascismo. Kertész non si turba più di tanto. Come la maggioranza dei calciatori e degli allenatori si sente «apolitico». Allenerà, in un momento di scarso successo, persino il «Littorio», squadretta fascista di serie C. Ma...
Ma arriva il ’43. A Roma, dove Kertész vive, piovono troppe bombe degli Alleati per campare tranquilli. Lui pensa alla famiglia e s’illude che tornare nella sua Budapest sia ritrovare la pace. Oltretutto, con la fama che s’è fatta in Italia, ha già un ingaggio per una panchina importante, quella dell’Újpest, uno dei club più prestigiosi della capitale. E anche qui c’è un altro ma...
Ma Budapest non è la città del ricordo, della pace, della tolleranza che Géza conservava in mente. Sono arrivati i nazisti, nella triste primavera del ’44.
Dopo una vita dedicata al calcio, il trainer capisce che la sua vita può avere un senso soltanto se si oppone, per quello che può e può molto, alla barbarie. Entra in un gruppo clandestino chiamato Dallam (in italiano Melodia, nome dolce rispetto al suono violento della crudeltà nazista). Arriva al punto di travestirsi da ufficiale tedesco per salvare la vita agli ebrei perseguitati. Arriva a portarsi a casa una coppia di giovani ricercati per la sola colpa di esistere. Arriva al punto di scommettere una vita — la sua — per salvarne mille altre.
Come andrà a finire, in quel 6 febbraio ’45, si può leggere nel libro Niente è stato vano. Abbiamo cominciato a parlare di calcio. Abbiamo finito a parlare di storia. Merito di un libro che ha saputo tenere insieme calcio e storia.

il manifesto 1.6.18
Europa, le contraddizioni della competitività
«Chi non rispetta le regole?», il libro di Sergio Cesaratto edito da Imprimatur
Mira Oosterweghel, Precarious Life (2016)
di Michele Prospero


Il nodo di una valutazione storico-realistica dell’esperienza dell’eurozona pare ormai ineludibile. Una riconsiderazione la impone anche il duello distruttivo in corso tra tecnocrazie, che scontano una crisi di consenso sociale sempre più accentuata verso la stagione neoliberista, e populismi, che con simbologie ingannevoli si proclamano gli autentici interpreti del vero sentire delle comunità invase da religioni altre e oppresse da burocrati privi di ogni legittimità.
Quello che manca nel dibattito pubblico contemporaneo, proprio mentre i paesi più fragili precipitano sull’orlo di una grave crisi costituzionale, è una riflessione disincantata sul rendimento effettivo della architettura dell’Europa e, con essa, una chiara indicazione dei pilastri essenziali della riprogettazione di un altro modello politico e sociale.
Lo sforzo che Sergio Cesaratto porta avanti nel suo recente volume (Chi non rispetta le regole?, Imprimatur, pp.125, euro 14) ha il pregio di coniugare le categorie di un pensiero economico critico e le indicazioni di un approccio politico attento alle suggestioni del realismo che evita di assumere come plausibili mitici punti zero. In questo quadro, che è insieme critico e realistico, egli assume le regole sul serio, e ciò serve per svelare le ambiguità costitutive del modello, le aporie che ne scandiscono la genesi, e per mostrare il funzionamento distorto che esse hanno conosciuto per lunghi anni.
ADOTTATE originariamente con una certa dose di azzardo, riguardo l’effettiva ricaduta di taluni principi che imponevano ai diversi paesi una comune disciplina del vincolo esterno, le regole del gioco hanno mostrato nella loro esperienza empirica che l’eurozona doveva vedersela con il peso delle differenziazioni, del plusvalore di singole aree o nazioni. Cesaratto ritiene che i dati obiettivi rendano possibile indicare la sussistenza di regolarità funzionali ineludibili. Sotto il velo di ignoranza, che sempre accompagna il progetto delle origini, si nasconde la maturazione con il tempo di un rapporto asimmetrico in base al quale la confezione dei trattati e l’adozione della moneta unica si imbatte assai diversamente sulle compatibilità delle diverse economie e sul grado effettivo di influenza che la riserva agli Stati o alle economie più solide.
Il principio di potenza condona a taluni paesi la violazione di regole esistenti con la possibilità di reiterati scostamenti dai parametri che ad altri sono preclusi da una idolatria dei numeri sacri. E rende accettabile la condotta eccentrica del paese che impone ad altri sistemi economici un selettivo e costoso Berlino Consensus (mistica del rigore fiscale, politiche di bilancio restrittive) e che per sé ritiene opportuno convivere con un surplus di bilancio lucrato in esplicita contraddizione con i paletti concordati.
SU QUESTA REALE antinomia che vede la coesistenza di paesi centrali e di paesi periferici, i sovranisti inscenano i donchisciotteschi moti populistici. Al di là delle formule pittoresche, la realtà per Cesaratto è che «il modello tedesco è destabilizzante per le altre economie, le condanna a una eterna deflazione per evitare di essere sommerse dalle esportazioni tedesche e dai conseguenti debiti».
La proposta del libro è quella di sondare la riformabilità delle istituzioni comunitarie minate da una contraddizione scaturita dalla difficoltà di conciliare la realtà della «super competitività» tra le economie (dumping salariale) e il richiamo alla possibilità di momenti di cooperazione (politica economica, fiscale e monetaria). La necessità di un ripensamento delle regole del mercato della concorrenza operante in un quadro di istituzioni minime è rimarcata ormai da tutti.
C’è chi si limita ad adattamenti funzionali, con il completamento delle istituzioni della moneta unica, con fasi di ingegneria per l’unione bancaria e il monitoraggio dei fondi pubblici, per l’assicurazione sui depositi. Secondo Cesaratto occorre invece un «rinnovato riformismo progressista» che accantoni il «surreale Fiscal Compact» e determini politiche economiche continentali per il «recupero della domanda aggregata». L’alternativa è secca: o un «nuovo patto sociale per lo sviluppo» o l’implosione dell’eurozona.

il manifesto 1.6.18
La strada sul Danubio che divide romani e barbari
Mostre di archeologia. Ad Aquileia, una rassegna narra la storia della regione dell’Illirico, corrispondente all’attuale Serbia. Seicento anni di guerre, conquiste e invasioni ma anche di fruttuosi scambi culturali
di Valentina Porcheddu


Là dove il Danubio attraversa le cosiddette Porte di Ferro e segna il passaggio dai Monti Carpazi meridionali ai Balcani, la possente roccia che pure sembra affiorare dall’acqua, conserva la traccia di un’antica strada. L’iscrizione nota come Tabula Traiana, incisa nel 100, ne ricorda il rifacimento per iniziativa dell’imperatore che vinse i Daci. Nel I secolo d.C. il Danubio non era solo un fiume ma parte del limes, il confine che separava i territori sottomessi a Roma dalle genti barbariche.
Una mostra ospitata presso Palazzo Meizlik ad Aquileia (fino al 3 giugno) racconta la storia della regione romana dell’Illirico corrispondente all’attuale Serbia. Tesori e Imperatori. Lo splendore della Serbia romana (catalogo Gangemi) è promossa dalla Fondazione Aquileia, dal Museo nazionale di Belgrado e dalla Soprintendenza archeologia belle arti e paesaggio del Friuli Venezia Giulia in collaborazione con il Polo museale del Friuli Venezia Giulia, il Comune di Aquileia e l’Associazione nazionale per Aquileia.
CURATA DA UN TEAM internazionale – Bojana Boric-Breškovic, Ivana Popovic, Deana Ratkovic, Cristiano Tiussi, Monika Verzár e Luca Villa –, riunisce sessantadue oggetti provenienti dal Museo nazionale di Belgrado, di Zajecar e di Niš e dai musei di Požarevac, Novi Sad, Sremska Mitrovica e Negotin oltre a un calco storico della Colonna Traiana (1861) prestato dal Museo della Civiltà Romana.
Nell’allestimento sobrio ed elegante progettato dall’architetto Enrico Smareglia e accompagnato dalle suggestive foto di Gianluca Baronchelli, emergono seicento anni di guerre, conquiste e invasioni ma anche di fruttuosi scambi culturali. Il diploma militare di Taliata (Donji Milanovac), costituito da due tavolette bronzee e datato precisamente al 28 aprile del 75 d.C., testimonia la presenza dei soldati in servizio lungo il Danubio e riveste un interesse particolare per essere il più antico reperto di questa tipologia.
La Tabula Traiana sul Danubio. Foto di Gianluca Baronchelli
All’ambito militare appartengono anche gli elmi e le maschere da parata cronologicamente collocati tra II e IV secolo d.C. I primi, rinvenuti a Berkasovo, sono formidabili esempi del ridondante stile dell’epoca, con le paste vitree incastonate in una calotta dorata, a imitare pietre preziose. Le maschere, specialmente quella proveniente da Vinceia/Smederevo, emanano tutto il mistero dei fulgidi sguardi che dovettero animarle in occasione delle giostre equestri. Significativo per le confluenze artistiche è, invece, il Tesoro in argento di Transdierna/Tekija del I secolo d.C.: malgrado i gioielli rivelino somiglianze stringenti con ornamenti daci, i recipienti – patera e simpulum –, gli elementi di cintura e le iconcine con raffigurazione della Magna Mater (o Proserpina) e Giove – furono realizzati in Italia.
L’IMPORTANZA STRATEGICA delle province balcaniche, porta d’accesso alle ricchezze dell’Oriente, determinò la carriera di alti ufficiali dell’esercito, i quali – originari di queste aeree – si erano distinti nei combattimenti contro i Barbari. A metà del III secolo, molti di essi furono proclamati imperatori. La rassegna in corso a Palazzo Meizlik mette in evidenza soprattutto il periodo della Tetrarchia, quando Diocleziano – per affrontare meglio il problema della difesa dei confini e della soppressione delle rivolte locali – proclamò Massimiano coreggente e scelse poi come Cesari Costanzo Cloro e Galerio. Da questo momento, i ritratti imperiali divennero rigidamente frontali, con la forma della testa tendente al cubico e grandi occhi spalancati. Le figure, private di qualsiasi caratteristica individuale, dovevano trasmettere l’idea di uguaglianza tra gli Augusti e i Cesari, loro «figli».
TALE VOLONTÀ POLITICA trovò espressione nel porfido rosso, la più dura fra le pietre, che ben rappresentava i valori della forza e della dignità. Tra i frammenti scultorei esposti si distingue la testa di Galerio da Felix Romuliana (Gamzigrad) sormontata da una corona trionfale a medaglioni, abbellita con busti di divinità come nelle corone indossate dai sacerdoti. In porfido rosso è anche una statuetta votiva di Igea, dea della salute, scoperta in una villa a Mediana.
L’ESERCITO fu il principale mezzo di diffusione della religione romana, sia nelle strutture militari che negli abitati sorti lungo le vie d’acqua del Danubio e della Sava. In mostra non poteva mancare, dunque, una sezione dedicata ai culti: alle radiose teste in marmo di Ercole e Venere si affiancano i rilievi del dio Mitra da Transdierna /Tekija e Vinceia/Smeredevo: in entrambe le lastre è rappresentato il rito del sacrificio del toro (tauroctonia) dal quale prendeva luce questa divinità misterica adorata dagli oppressi.
Degno di menzione, infine, il Cammeo di Belgrado, piccolo capolavoro che – attraverso le sfumature policrome – esalta le virtù di un personaggio a cavallo: si tratta probabilmente di Costantino il Grande, nato a Naissus e autore del celebre editto del 313 che «legalizzò» il cristianesimo.
DOPO IL CICLO dell’«Archeologia ferita», che ha portato ad Aquileia reperti di paesi colpiti da guerre e terrorismo, con Tesori e Imperatori. Lo splendore della Serbia romana, la Fondazione Aquileia – per il tenace impegno del suo presidente Antonio Zanardi Landi – offre al pubblico l’occasione di conoscere un paese con un patrimonio archeologico di notevole impatto e una sponda protesa all’amicizia fra i popoli.

La Stampa 1.6.18
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