lunedì 25 giugno 2018

l’espresso 24.6.18
Cultura
Le parole del presente/2 ONESTÀ
Dagli ideali di Tolstoj e dai tormenti di Dostoevskij alle promesse del populismo. Un grande scrittore spiega perché fuggire la corruzione non equivale a fare giustizia a doppio taglio colloquio con Javier Cercas
di Wlodek Goldkorn


 E poi c’è la parola “onestà”. Quante volte l’abbiamo sentita gridata nei comizi, declinata nei discorsi dei politici (onesti e disonesti), evocata nei testi degli uomini e donne che fanno opinione. Ma basta l’onestà per far buona politica e per far prevalere il bene sul male?
La domanda non è retorica né demagogica, tanto che a un certo punto della sua vita, un uomo come Tolstoj sembrava essersi convinto che la Redenzione laica (e non solo quella religiosa) passasse appunto per una mobilitazione degli onesti contro i bugiardi e i falsi. Dell’onestà abbiamo parlato con Javier Cercas, scrittore spagnolo tra i più bravi del nostro Continente, autore di romanzi dove con estremo rigore etico ed estetico racconta e mette in scena storie scomode, come la scelta di un suo zio di militare nelle forze armate franchiste contro la Repubblica (“Il sovrano delle ombre”); o quella di un soldato repubblicano di risparmiare la vita a un ideologo falangista (“Il soldato di Salamina”) e via elencando. Prima di entrare nel cuore delle nostre domande Cercas fa una lunga e indispensabile premessa. Dice: «Oggi, molte parole bellissime vengono usate come maschere, come uno specchio deformato, per dire il contrario del loro significato originario. Si viola la libertà in nome della libertà. Si dicono menzogne in nome della verità. Si corrompe in nome dell’onestà. Dell’onestà parlano i politici convinti invece che l’unica cosa importante sia la conquista del potere e quindi che il fine giustifichi i mezzi. Io invece penso al contrario, in democrazia sono i mezzi a giustificare i fini. Uno scopo giusto si corrompe se i mezzi per raggiungerlo non sono buoni né onesti. Ha presente l’immagine di Barack Obama e Hillary Clinton mentre stavano guardando sullo schermo del computer l’azione in cui veniva ucciso Bin Laden? Il messaggio implicito in quella immagine era: è lecito usare un mezzo terribile per fare bene? E Obama ha fatto bene? Felipe González, nostro ex premier ha detto recentemente in tv: ho avuto la possibilità di uccidere tutta la direzione dell’Eta ma non l’ho fatto. E ha aggiunto; non so se ho fatto bene. E allora, González ha risparmiato vite umane o è stato codardo?
Aggiungo, Max Weber diceva: il politico fa il patto con il diavolo, perché fa il patto con la violenza». In fondo quella di usare mezzi sbagliati per un fine buono e di aver stretto il patto con il diavolo, è la storia del comunismo. «Un fine bellissimo, corrotto dai mezzi, per cui il comunismo è una parola da non usare».
Cominciamo con le domande. Partendo da un gigante, Tolstoj. In “Guerra e pace” Pierre Bezuchov dice a Natasha: «Se le persone viziose sono tutte quante collegate tra di loro e perciò sono una forza, basterebbe che le persone oneste facessero lo stesso». Anche oggi, spesso vince l’idea che basta che gli onesti si mettano insieme contro i corrotti e i bugiardi per cambiare il mondo.
«Pierre Bezuchov è ingenuo. Ma è un personaggio letterario».
Sappiamo che è Tolstoj a parlare con la voce di Bezuchov.
«Lo presumiamo. Comunque io non sono d’accordo con questa frase, perché penso che il mondo non si divida tra gli onesti e i disonesti e fra i giusti e gli ingiusti. Le persone oneste possono diventare disoneste e i giusti possono diventare ingiusti, i coraggiosi possono rivelarsi codardi.
L’animo degli uomini e delle donne è complesso e contraddittorio. Per questo la vita sociale ha bisogno delle regole. Da voi in Italia il Movimento Cinque Stelle e da noi in Spagna gli attivisti di Podemos dicono: siamo gente onesta. L’ingresso dei grillini al governo viene presentato come l’arrivo dell’onestà al potere. Ma questa rappresentazione è un errore e un’ingenuità, oppure una forma di cinismo. Non sono giovanissimo e quindi mi ricordo quando per la prima volta i socialisti spagnoli arrivarono al governo, dopo 40 anni di franchismo. Ci sembrava una festa. I socialisti erano i giusti e gli onesti. Ma poi è successo che i socialisti sono diventati disonesti, e corrotti». Quindi?
«Quindi la meraviglia della democrazia non sta nel carattere delle persone ma nel rispetto delle regole. Tutto qui».
Possiamo azzardare un’ipotesi? Dentro l’animo di ognuno di noi - uno scrittore lo sa perché il suo mestiere è indagare e raccontare l’animo umano - è insito un elemento del Male. Ognuno di noi è un potenziale carnefice. Ma non tutti lo diventiamo. Vale anche per la corruzione?
«Infatti, è molto più importante capire il carnefice che la vittima. Certo, la solidarietà con le vittime deve essere assoluta, ma dobbiamo comprendere il boia. Sarebbe straordinario capire Hitler».
Ma ci sarà un limite all’empatia. Lei, in “Il sovrano delle ombre” descrive un soldato franchista, Manuel Mena. Per come lei lo racconta potrebbe essere un nostro fratello, salvo che in guerra l’avremmo ucciso. Ma allora fin dove si può essere empatici, fin dove è lecito capire? È una domanda sull’onestà dello scrittore e sull’etica della letteratura e quindi sull’onestà del nostro immaginario collettivo.
«Per me è una questione essenziale. Rispondo: non c’è limite all’empatia. Quello che deve fare uno scrittore, ma anche un filosofo, è capire tutto, capire i peggiori. Capire non vuol dire giustificare. Ma il contrario. Capire è darci le armi per non diventare carnefici e corrotti».
Quindi Primo Levi quando diceva che capire è un po’ giustificare sbagliava? Lo vogliamo dire? «L’ha posta, come domanda, Tzvetan Todorov».
Possiamo spingerci oltre? Levi, essendo una vittima, non poteva capire il carnefice.
«Appunto. Per una vittima capire il suo boia significa autodistruggersi. Però, a pensarci bene, me la sento di dire che Levi non sbagliava: La sua “Trilogia di Auschwitz” (in Spagna “Se questo è un uomo”, “La tregua” e “I sommersi e i salvati” sono usciti appunto come “Trilogia di Auschwitz”, ndr) è ovviamente un geniale tentativo di comprensione. Uno sforzo di capire tutto».
Stiamo parlando dell’onestà letteraria e intellettuale.
«Certo. E continuo. Sappiamo tutti chi era Hitler. Ma allora la domanda è come mai un pazzo, un oligofrenico come lui sia riuscito a conquistare l’animo della Germania, il Paese più colto, e anche quello di mezzo mondo. Se oggi ci fosse un Dostoevskij, un Cervantes o uno Shakespeare in grado di capire quella testa, avremmo un’arma per impedire che un personaggio come Hitler torni. È come quando abbiamo paura di una bomba che sta per scoppiare. Non basta urlare: qui c’è una bomba. Occorre un artificiere per disattivarla. A questo serve la letteratura e il pensiero complesso. E per questo non bisogna porre limiti alla letteratura e all’empatia. Del resto Shakespeare era empatico con Riccardo III, un assassino feroce. E anche chi legge “Delitto e castigo” è in grado di capire un assassino. Questa è l’onestà dello scrittore e l’etica della letteratura. Aggiungo un esempio: come faccio a giudicare Manuel Mena (il soldato franchista del romanzo “Il sovrano delle ombre”, ndr)? Quello che devo fare è comprenderlo. Aveva solo 17 anni».
In altre circostanze avrebbe potuto essere un eroe repubblicano. Cercas, che rapporto c’è tra onestà e verità? Abbiamo parlato di Levi e della sua estrema e radicale onestà. Si può osar dire che Levi per raccontare Auschwitz, da grandissimo scrittore quale era - uno dei più grandi del Novecento - doveva immaginarsi Auschwitz?
«Immaginare vuol dire dare un senso». Ma se la verità nasce nel racconto, ci sono tante verità. «Credo che la verità esista. Ma penso anche che chi crede di possedere la verità o è uno stupido, o un fanatico, o un pazzo, o tutte e tre le cose. Detto questo: una cosa è la verità letteraria un’altra la verità dei fatti. La verità dei fatti è concreta, la verità letteraria è una verità morale, universale. È la finzione che cerca di indagare su cosa succede a tutti gli umani, in tutto il mondo e in tutti i Paesi. E questa verità è il risultato della forma. “Guerra e pace” o “Don Chisciotte” parlano di ciascuno di noi. Siamo tutti protagonisti di Tolstoj e di Cervantes. Ecco, non c’è verità letteraria senza onestà. Ma l’onestà è come la democrazia. È forma».
Esiste una verità politica?
«Esiste la menzogna che è una forma di disonestà in politica. Oggi sta trionfando (basti guardare l’esempio di Trump) perché il disprezzo della verità è enorme. Ed è una situazione pericolosissima».
Lei, nei suoi libri si è sempre occupato del rapporto tra onestà e memoria. Oggi, la memoria, è sacralizzata...
«La interrompo per dire che una memoria sacralizzata è come se non ci fosse».
E anche il tempo è stato abolito. È tutto nel presente. Ed è facile essere disonesti quando non c’è più memoria. Senza memoria si può raccontare la storia che si vuole.
«Sono d’accordo. Oggi, la possibilità di manipolare le menti e i fatti è più grande che mai. Viviamo in una dittatura del presente. È questo uno dei risultati del potere dei media che ormai non riflettono la realtà ma la creano. Per i mezzi di comunicazione, la tv e i social media, la settimana scorsa è preistoria. Il passato è roba da biblioteche, archivi, che può interessare gente strana come me. Ma una simile tesi è menzognera. E sa perché? Perché il passato e soprattutto un passato di cui c’è ancora la memoria e i testimoni, non è passato; è invece parte del presente senza il quale il futuro è mutilato. Diceva T.S. Eliot: “Il tempo presente e il passato sono forse entrambi presenti nel tempo futuro e il tempo futuro contiene il passato”. Vede, il potere costruisce sempre un racconto manipolato del passato, perché sa benissimo che per controllare il futuro e il presente occorre controllare il passato. Mi ha chiesto qual è il rapporto fra onestà e memoria? La sacralizzazione della memoria che è una forma della sparizione della memoria, rende diicile l’onestà e facile la manipolazione. Aggiungo: Pierre Nora, il grande storico, ha detto una volta che la memoria viene ormai a sostituire la storia e che il Ventunesimo secolo sarebbe stato il secolo dell’oblio».
Forse è arrivato il momento di chiederglielo direttamente: cosa è l’onestà?
«L’onestà è una virtù. E la virtù o è segreta o non è. L’unico uomo puro dei miei libri è il soldato di Salamina, che salva una vita (la vita del poeta franchista, ndr), ma nessuno lo sa e lui muore da solo e nell’anonimato. L’uomo diventato famoso con la virtù è invece Enric Marco (il protagonista di “L’impostore”, storia di Enric Marco che per decenni pretese di essere stato prigioniero a Mauthausen; incarnava in pubblico la memoria delle vittime del fascismo, ma si è inventato quasi tutto, ndr). Marco ha trasformato la virtù in uno spettacolo. Ma torniamo alla guerra civile: dal punto di vista politico i repubblicani avevano ragione. Ma dal punto di vista etico i repubblicani hanno fatto tante cose sbagliate. Molto spesso gente onesta ha appoggiato cause ingiuste».
Sta parlando delle suore stuprate e uccise, dei preti assassinati. Ma parliamo invece, per un attimo, del ruolo degli intellettuali. Uomini e donne come Zola o Camus o Hannah Arendt erano l’onestà fatta persona. Oggi, l’intellettuale è considerato una specie di radical chic, lontano dal popolo. Ha senso il ruolo dell’intellettuale?
 «Dipende cosa intende per intellettuale».
Colui o colei che dice «il re è nudo», mentre tutto il mondo elogia i vestiti del re.
«Io lo dico in un altro modo. Io dico di no, quando tutti dicono di sì. Ha citato Camus. Cosa è un uomo in rivolta? È un uomo capace di dire no. Questo è l’intellettuale. Quando il mondo diventa sovranista io dico di no, io non lo sono. Per me l’emblema di intellettuale è Kafka. Kafka partecipava a una riunione degli anarchici. Entrò la polizia e intimò agli astanti di disperdersi. La gente cominciò a scappare. Kafka invece restò fermo, immobile. E si fece arrestare. Detto questo oggi molti intellettuali sono troppo frivoli, appoggiano cause sbagliate e dicono di sì».
Lei una volta ha contrapposto i quadri di Velázquez a quelli di Goya. I soldati in battaglia di Velázquez sono pervasi di una certa gravitas, la battaglia ha un che di solenne; in Goya, la guerra è invece cruda e crudele.
 «La verità di Velázquez è una verità idealizzata. Lui dipinge gli uomini come dovrebbero essere, non come sono».
Ma non era disonesto.
«Non lo era di certo. Non nascondeva niente, ma presentava le cose come sarebbe stato bello che fossero. Narrava la guerra come un fatto nobile. Lo faceva pure Omero e in fondo l’epica in questo consiste: nella narrazione di gesta nobili dei guerrieri. Goya invece era un visionario. Al Museo del Prado a Madrid ci sono due suoi quadri sulle fucilazioni alla Moncloa (il 3 maggio 1808, durante l’invasione francese della Spagna, ndr). Nel primo racconta la ribellione degli spagnoli contro Napoleone. In quel quadro gli spagnoli commettono atrocità. Nel secondo, i carnefici sono i francesi e le vittime gli spagnoli. È questa, per me l’onestà».
Ultima domanda, di rito. Vede un futuro per la sinistra?
«Sì, a patto che sia capace di autocritica. La sinistra senza la democrazia non è sinistra. Fidel Castro, per fare un esempio, non era di sinistra. La sinistra è Concordia, Prosperità, Democrazia. Aggiungo anche, a scanso di equivoci: il populismo, che sembra così forte, è solo una tecnica di conquista del potere, ma non ha un programma. Non basta dirsi onesti per stare dalla parte del popolo».