domenica 24 giugno 2018

La Stampa 23.6.18
Ad Ankara fra Corano e i russi
Gli assi nelle mani di Erdogan
reportage di Giordano Stabile


I ritratti di Mustafa Kemal Ataturk vegliano ancora sui viali e sui palazzi di Ulus, il quartiere amministrativo di Ankara, dominato dalla grande statua equestre del condottiero. La città al centro dell’Anatolia, l’antica Ancira greca e romana, venne scelta come capitale dal fondatore della Turchia moderna, lontana dalla Istanbul e dai fasti decadenti ottomani. Una città severa come il generale che in pochi anni ricostruì dalle macerie di un impero uno Stato moderno. Domani sera Recep Tayyip Erdogan saprà se la sua scommessa lo avrà portato allo stesso livello. «Rifondatore» della Turchia trasformata in una «monarchia repubblicana», con tutti i poteri nelle mani del presidente e una data all’orizzonte, il 2023, centenario della rinascita turca.
Erdogan non è apparso mai così stanco, ma al 2023 vuole arrivarci alla guida «di una nazione e di un popolo» di nuovo in grado di decidere i destini del Medio Oriente, e anche più in là. Vede una nazione più grande, con pezzi di Siria e forse Iraq di fatto annessi lungo quella linea a Sud dell’attuale confine che era stata tracciata dallo stesso Ataturk. Non è fantapolitica perché nelle siriane Afrin, Idlib, Al-Bab e presto Manbij, i cartelli sono già scritti in turco e i programmi scolastici adeguati a quelli della Turchia. Una annessione strisciante, tanto che un osservatore come Joshua Landis già non esclude che la Siria Nord-Occidentale possa diventare «un’altra Hatay», la provincia siriana annessa nel 1938 con il consenso della Francia.
I progetti di conquista
Erdogan ha già allargato i suoi piani all’Iraq, dove «400 chilometri quadrati di territorio» sono stati occupati dalle truppe speciali che danno la caccia al Pkk e assediano il quartiere generale dei guerriglieri curdi sui Monti Qandil. Tutto nel nome della «lotta al terrorismo», un’etichetta che ormai include le operazioni nei Paesi confinanti e gli arresti di massa, cinquantamila persone ancora in carcere (e 140 mila licenziate), seguiti al fallito golpe del 15 luglio 2016, la data della svolta in senso sempre più autoritario. La nuova Turchia che presto, nei progetti del presidente, dovrà contare «cento milioni di abitanti» con le famiglie invitate a «fare almeno tre figli» si allarga a macchia d’olio nei vicini Stati arabi, ma è stata anche capace di accogliere tre milioni e mezzo di profughi siriani, più della metà del totale, contro il milione scarso di tutta l’Unione europea.
Circa 50 mila sono diventati cittadini turchi e domani voteranno. Altri saranno «spostati» nelle province siriane sotto controllo turco. Ma il gigantesco sforzo è stato fatto pesare sui tavoli della trattative europee. Erdogan vede la Turchia, non diversamente da Ataturk, come un ponte fra Europa e Asia, solo che adesso ha lo sguardo fisso a Est. Il reiss non vuole però chiudere la porta europea. Come nota il Carnegie Europe, se Erdogan vincerà «ci sarà un rilancio per l’adesione alla Ue, anche per consolidare la legittimità del nuovo regime in tutti gli strati della popolazione». Ma i proclami «difficilmente convinceranno i leader europei». Il nuovo presidenzialismo spinto «metterà Ankara e Bruxelles su due orbite differenti» e il probabile veto dei Paesi dell’Est «impedirà ogni progresso reale verso l’adesione».
I sistemi anti-aerei di Mosca
Questo spiega, in parte, lo sguardo a Est, con le relazioni con la Russia di Vladimir Putin che «rimarranno forti, se non altro per controbilanciare le travagliate relazioni con i Paesi occidentali». Anche se è difficile capire quanto Erdogan giochi la carta russa o quanto invece Putin giochi la carta turca, contro la Ue e contro la Nato. Per strappare Ankara dall’Alleanza, lo Zar ha offerto il meglio della tecnologia militare russa, i sistemi anti-aerei S-400, gli aerei invisibili Su-57, ha promesso la «condivisione delle tecnologie», a partire dal nucleare civile e poi chissà, creato un solco con Washington, che ora vuole fermare la vendita alla Turchia dei suoi super cacciabombardieri, gli F-35. Ma l’abbraccio dell’orso ha i suoi limiti, proprio in Siria, dove Erdogan resta il nemico numero tre, dopo Arabia Saudita e Israele, di Bashar al-Assad, e le visioni neo-ottomane cozzano con il nazionalismo arabo del raiss.
La nuova Turchia iper-presidenziale sarà forse in grado di scavalcare l’ostacolo. Erdogan ha toccato il tasto più emotivo dell’orgoglio arabo-musulmano quando si è autoproclamato «difensore di Gerusalemme» ed è andato allo scontro frontale con l’America, Israele, persino l’Arabia Saudita, nel rivendicare la «linea rossa» a difesa della Città Santa, dopo il trasferimento dell’ambasciata americana. La retorica , notano gli stessi osservatori israeliani, non si è tradotta in fatti concreti. Erdogan ha respinto la proposta dell’opposizione nazionalista del Mhp che voleva rompere gli accordi del dopo Mar Marmara, tagliare le relazioni diplomatiche e ridurre gli scambi commerciali con Israele. Gli atteggiamenti da «sultano», custode dei luoghi santi islamici come fu l’Impero ottomano per 400 anni, hanno soprattutto un risvolto interno. L’Akp, l’ultimo e il più riuscito dei partiti di ispirazione islamica, con un occhio al modello dei Fratelli musulmani, si fonda anche sull’alleanza Stato-religiosi. La propaganda è martellante. «Il mese scorso – racconta un giovane – l’imam della mia moschea ci ha chiesto di mettere le mani sul Corano e giurare che avremmo votato per l’Akp». Una promessa che nessun musulmano oserebbe rompere. Con queste promesse, e un controllo capillare dei media, il successo al primo turno sembrava scontato. Finché, nelle ultime settimane, il candidato repubblicano Muharrem Ince, ha cambiato gli umori con una serie di comizi travolgenti, in cui compariva una marea di ritratti di Ataturk. Il figlio di un agricoltore della povera provincia di Yalova, si sente il vero erede del Fondatore, nel nome della «repubblica» e della «laicità».