venerdì 22 giugno 2018

La Stampa 22.6.18
La Corte Ue dei diritti umani respinge il ricorso di Breivik
di Monica Perosino


Nel 2011 aveva ucciso, uno dopo l’altro, con un incredibile sangue freddo, 69 adolescenti sull’isola di Utøya, in Norvegia. Un’ora prima erano state 8 le vittime delle sue bombe a Oslo. Nel 2016 Anders Behring Breivik, scontento per il «regime inumano di carcerazione», aveva fatto ricorso alla Corte europea di Strasburgo. Ieri il suo ricorso è stato respinto: «manifestamente infondato».
Nell’istanza inviata alla Corte per i diritti umani, usando il nome Fjotolf Hansen, l’autore della strage di Utøya ha affermato che lo Stato norvegese «viola i suoi diritti a non essere sottoposto a maltrattamenti e alla privacy sottoponendolo all’isolamento, a perquisizioni, al controllo della corrispondenza e non curando la sua vulnerabilità mentale». Ma i giudici della Cedu hanno determinato che non vi è stata alcuna violazione dei suoi diritti rispetto a tutti i punti sollevati. In particolare i togati di Strasburgo affermano che il regime di isolamento imposto a Breivik non supera la soglia necessaria per essere ritenuto un trattamento inumano o degradante, confermando così le conclusioni a cui erano arrivati i tribunali norvegesi.
La Corte afferma che l’isolamento dell’uomo, necessario per garantire la sicurezza ma anche la salute di Breivik, non è totale e che le autorità hanno preso diverse misure affinché non lo fosse. Oltre ai contatti quotidiani con le guardie carcerarie, le autorità hanno offerto all’uomo la possibilità di avere contatti con un prete, infermiere, un visitatore volontario alla prigione, e con uno psicologo.
La sequenza di denunce
Già due anni fa l’autore della strage di Utøya aveva minacciato lo sciopero della fame dichiarando di essere «pronto a morire» per protestare contro la sua condizione nel carcere di Skien, dove sta scontando una pena di 21 anni. Nel febbraio 2014 denunciava di essere vicino alla morte e chiedeva una nuova Playstation e più soldi. Poi decise di andare oltre: l’assassino di Utøya fece causa alle autorità norvegesi sostenendo di essere vittima di «detenzione inumana» e violazione dei diritti umani a causa del regime di isolamento. Aveva perso anche allora perché il tribunale aveva sottolineato che nel carcere modello il detenuto era «libero di muoversi, con accesso quotidiano ad uno spazio per fare ginnastica, guardare la tv e una console per i videogiochi».

La Stampa 22.6.18
Antonio Damasio
Professore alla University of Southern California di Los Angeles
“Siamo dominati dalle emozioni
Anche la ragione è loro ostaggio”
di Gabriele Beccaria


Antonio Damasio è un neuroscienziato. C’è chi sostiene «il Neuroscienziato». Professore alla University of Southern California di Los Angeles, a lui le osservazioni e gli esperimenti nei labirinti del cervello umano, per quanto sofisticati, non bastano. Punta - ci spiega da Lignano Sabbiadoro, dove è arrivato per ricevere il Premio Hemingway - «a un approccio filosofico».
«Ci sono discipline in cui non fa molta differenza il tipo di mente che hai. Ma nelle neuroscienze non puoi non preoccuparti del significato stesso del cervello e della situazione in cui si trovano gli umani. Le domande che nascono sono - e non posso descriverle altrimenti - di tipo filosofico. Si tratta di una prospettiva ad ampio raggio». Ecco perché non è banale provocare Damasio fino alle estreme conseguenze delle sue ricerche, soprattutto se ci si è dedicati alla meravigliata esplorazione del suo ultimo saggio: edito da Adelphi, si intitola Lo strano ordine delle cose.
Professore, lei retrocede ai microbi e approda fino a noi, evocando la domanda delle domande: siamo buoni o siamo cattivi?
«Dobbiamo riconoscere che la natura umana ha lati sia positivi sia negativi, specialmente quando si osservano le emozioni e i sentimenti dalle quali scaturiscono. Alcune ci arricchiscono, spingendoci all’attenzione per gli altri, alla comprensione e all’amore, alla compassione per chi soffre o alla gratitudine per chi inventa grandi cose. Sfortunatamente ci sono altre emozioni, che comprendono rabbia e paura, desiderio di distruggere e creare conflitti invece di stabilire forme di cooperazione. Questa è la realtà dei fatti, ma a differenza degli animali noi umani abbiamo la possibilità di riconoscere le significative differenze tra le emozioni e poi possiamo fare qualcosa».
Che cosa in concreto?
«Tentare di raggiungere un equilibrio tra le diverse emozioni e ottenere così risultati costruttivi, che siano benefici per l’umanità, scongiurando sofferenza e infelicità. È un compito estremamente difficile ed è questo il punto del mio libro».
Lei, smentendo il buon vecchio Cartesio, sostiene che ragione ed emozioni non possono essere tenute separate: è possibile?
«Le persone, spesso, dicono: “Ah, le emozioni sono sempre cattive!”. Ma è una sciocchezza, perché la ragione, da sola, non basta: se lo fosse, vivremmo in un mondo meraviglioso. E tuttavia non succede. Dobbiamo essere consapevoli del fatto che la ragione è costantemente manipolata dalle emozioni, buone e cattive. E, quindi, anche le culture sono strettamente legate ai sentimenti e ai meccanismi di regolazione biologica, un processo che definisco omeostasi».
A proposito di filosofia, se Cartesio era caduto nell’equivoco, chi aveva visto giusto - lei sostiene - era Spinoza: qual è stata la sua idea decisiva?
«Spinoza è degno di ammirazione: sebbene non potesse sapere nulla del cervello umano, dato che visse nel XVII secolo, intuì però la stretta connessione del corpo e della nostra parte biologica con la mente».
Nel libro lei ci fa viaggiare lungo i sentieri dei sistemi nervosi e della coscienza, tra animali apparentemente semplici e umani volutamente contraddittori, e conclude con un appello per un nuovo tipo di cultura collettiva: ce la spiega?
«Dobbiamo realizzare un massiccio sforzo educativo, rivolto prima di tutto ai giovani, perché capiscano chi sono e chi siamo. Devono sbarazzarsi dalle false idee sul bene e sul male e rendersi conto che ognuno di noi è, potenzialmente, sia buono sia cattivo. È questa la lezione della biologia».
E a questo punto emerge la sua nuova concezione di mente, volutamente provocatoria: quanto siamo determinati dalla natura e quanto, invece, liberi di seguire le nostre scelte culturali?
«È ciò che provo a portare alla luce: tutti gli esseri viventi, anche i più semplici come i batteri, antichi miliardi di anni, presentano strutture biologiche che permettono loro di cooperare o di confliggere. Ciò non significa che siano dotati di menti nel senso proprio del termine, ma queste abilità specifiche fanno parte della loro esistenza. Solo in tempi successivi, quando si svilupparono i sistemi nervosi, 500 milioni di anni fa, iniziarono a emergere delle menti vere e proprie: è in questa fase che si percepisce se la vita ci sta spingendo in direzioni buone o cattive. E poi è attraverso l’accesso ai sentimenti che si diventa consapevoli di se stessi e si entra in possesso di una modalità con cui orientare la propria esistenza. Quello che sto descrivendo è un work in progress».
Ora gli umani creano menti sintetiche, quelle dell’Intelligenza Artificiale: condivide le paure di chi prevede il loro prossimo dominio?
«Non c’è alcuna certezza che queste “creature” - voglio definirle così - si rivoltino contro di noi. Potrebbe succedere, come temeva Stephen Hawking, ma è importante, se evolveranno, che capiscano che cosa siano i sentimenti: solo chi conosce il dolore può decidere di non infliggerlo. È racchiuso nei sentimenti il freno agli eccessi».

Corriere 22.6.18
Scienze
Domenica dialogo con Rovelli
Affetti e coscienza ci rendono creativi Le tesi di Damasio
di Luigi Ripamonti

Senza sentimenti e affetti non esisteremmo. Antonio Damasio, quasi 25 anni dopo L’errore di Cartesio, torna con Lo strano ordine delle cose (traduzione di Silvio Ferraresi, Adelphi, pagine 352, e 29), un libro che riabilita sentimenti e coscienza, detronizzando il ruolo del cervello come agente razionale giustapposto a un organismo relegato quasi a mero esecutore di funzioni. La tesi del neuroscienziato portoghese poggia sul concetto di omeostasi, la capacità di rimanere intrinsecamente in equilibrio in relazione all’ambiente. Questo radicale movente all’adattamento, e quindi all’evoluzione, l’abbiamo ereditato dai primi organismi unicellulari, dotati di sensori che hanno permesso loro di adeguarsi e sopravvivere, prima in unità elementari e poi in organizzazioni collaborative più complesse, sviluppando strutture senzienti sempre più sofisticate, fino a veri sistemi nervosi. Sistemi mai svincolati dall’originario scopo di mantenimento dell’omeostasi, che da imperativo per la sopravvivenza cellulare si è riverberato fino a promuovere l’organizzazione sociale e la nascita della cultura.
In questa visione le funzioni superiori della corteccia cerebrale sono debitrici nei confronti degli input omeostatici provenienti dal resto dell’organismo sotto forma di messaggi nervosi e non solo. Tali messaggi danno luogo a immagini interne e creano le premesse per la costruzione di immagini esterne. C’è un mondo antico dentro di noi, quello degli organi interni, il cui stato descriviamo in termini di benessere, malessere, dolore, piacere. Sensazioni che non possiamo trascurare perché cruciali per la vita e per la mente. Le immagini che ne derivano sono le «componenti nucleari dei sentimenti».
Il mondo interno e il sistema nervoso formano un complesso interattivo su cui si innesta la memoria, il cui flusso traduciamo in linguaggio. Ed esiste un mondo mentale parallelo che tiene per mano tutte queste immagini, è quello degli affetti, «dove scopriamo i sentimenti che accompagnano le immagini che prevalgono nella nostra mente». La comparsa delle culture ha avuto probabilmente origine nella macchina degli impulsi, delle motivazioni e delle emozioni. «La socialità entra nella mente culturale umana per mano dell’affetto» scrive Damasio. L’edificio costruito dall’autore lascia una domanda: «Che cosa potrà essere l’intelligenza artificiale se mancherà sempre di questa parte biologica?». «Se non fosse disponibile alcun sentimento potreste pur sempre imparare, benché con grande impegno, a fare classificazioni estetiche o morali. E potrebbe farlo anche un robot. In teoria, dovreste affidarvi a un’analisi deliberata delle caratteristiche percettive e dei contesti, e a uno sforzo di apprendimento meccanico, brutale. Ma l’apprendimento naturale è difficile da immaginare senza la ricompensa e senza il suo assistente: i sentimenti!». Soggettività ed esperienza integrata sono gli elementi costitutivi centrali della coscienza. «L’intelligenza creativa, responsabile delle nostre opere culturali, non può funzionare senza affetti e coscienza. Che sono anche le capacità più trascurate, sopravvissute perché sono state dimenticate nelle convulsioni delle rivoluzioni razionalista e cognitiva. Meritano dunque una speciale attenzione».
L’incontro: domenica 24 giugno Antonio Damasio, vincitore del premio Hemingway, dialoga a Milano con Carlo Rovelli sul tema L’ordine del tempo e lo strano ordine delle cose. Il dibattito si tiene alle ore 21 presso il Piccolo Teatro Grassi (via Rovello 2) nell’ambito della rassegna La Milanesiana, ideata e diretta da Elisabetta Sgarbi

Corriere 22.6.18
Giovedi 28 l’incntro a Milano con Remo Bodei e Armando Torno
Nel saggio «Quant’è vero Dio» (Solferino) i nodi dell’etica e del rapporto tra fede e vita
La necessità del sacro nell’età del disincanto
Sergio Givone riflette sull’insopprimibile ricerca del trascendente
Nella visione del filosofo, laico non è chi rivendica la sua indifferenza alla religione ma chi la prende sul serio
di Umberto Curi


«È più vicino a Dio chi fa professione di ateismo, ma tiene ferma la verità, di chi nega la verità in nome di Dio». È questa — in estrema sintesi — la tesi principale che è alla base del libro di Sergio Givone, appena uscito presso la casa editrice Solferino, Quant’è vero Dio. Perché non possiamo fare a meno della religione. Un testo strano e affascinante. Strano per il coraggio, ai limiti della temerarietà, con il quale argomenta la necessità di Dio, in controtendenza rispetto a una fase storica caratterizzata dall’abusiva identificazione del disincanto con l’ateismo. Affascinante per il rigore e la freschezza di un modo di condurre il ragionamento, insensibile alla moda deteriore che vorrebbe imporre l’equazione fra oscurità criptica del discorso e profondità del pensiero. Con un valore aggiunto, tutt’altro che trascurabile, soprattutto in confronto alla sciatteria di tanta saggistica pseudofilosofica: una scrittura sapida e limpida al tempo stesso, evidentemente filtrata dalle non poche felici esperienze narrative dell’autore, al quale si devono alcuni romanzi rivelativi di un sicuro talento (Favola delle cose ultime, 1998; Nel nome di un dio barbaro, 2002; Non c’è più tempo, 2008; tutti editi da Einaudi).
Ma queste pur non pleonastiche annotazioni relative allo «stile» del libro non devono trarre in inganno. Nelle pagine scritte da Givone non vi è alcun indugio meramente «letterario», né alcuna concessione a una variante «debole» dell’interrogazione filosofica, così come è totalmente assente, d’altra parte, ogni concezione «reazionaria» del rapporto fra la permanenza del sacro e l’età della secolarizzazione. Piuttosto, l’autore dimostra — e in maniera particolarmente convincente — che è possibile aver imparato la lezione di Kierkegaard e Nietzsche, essersi misurati con la sfida della morte di Dio, aver attraversato il deserto della trasvalutazione di tutti i valori, non cancellando, ma al contrario recuperando l’ineliminabilità del sacro, inteso come quell’originario «sì», che resiste quale fondamento inconcusso all’offensiva concentrica di agnosticismo, scetticismo e fideismo — di quel «fideismo irreligioso» che poco o nulla ha a che fare con la laicità autentica.
In questo quadro generale (qui inevitabilmente ridotto a uno schema ipersemplificato), si collocano alcune questioni di grande rilievo strettamente filosofico, che Givone affronta per così dire a viso aperto, senza alcuna remora puramente tattica, in maniera perfino imprudente: il rapporto fra legge e giustizia, il confine mobile e reversibile fra bene e male, i limiti della manipolazione tecnica (e biotecnologica) della natura, al di fuori di ogni moralismo ecologistico, il transito apparentemente inesorabile dall’umano al postumano. Come risulta dai titoli stessi dei capitoli che compongono il libro (fra gli altri: «Un pensiero di altri mondi», «Tempo intermedio e Apocalisse», «Potere spirituale e potere temporale»), Givone affronta i nodi teoretici decisivi per una riflessione sul sacro che, come accade in questo testo, risponda all’ambizione esplicitamente dichiarata di non riproporre ipotesi speculative già dissolte dall’irrompere della modernità, preferendo la strada certamente più arrischiata, ma anche incomparabilmente più feconda, della ricerca di un vero e proprio «nuovo inizio».
Impossibile dar conto in termini analitici, come pure sarebbe necessario, del ricco ordito di problemi sapientemente annodato da Givone. Ma almeno alcuni spunti, suggeriti senza alcuna arroganza, ma anche senza alcun preventivo accomodamento diplomatico, meritano di essere citati: l’impossibilità dell’etica, certamente nella versione kantiana, ma anche nella variante utilitaristica, in un orizzonte dal quale Dio sia scomparso, e dunque perda ogni senso l’essere o il non essere al mondo. Un modo di concepire la laicità secondo il quale laico non è chi rivendica la sua indifferenza alla religione, ma proprio al contrario chi prende la religione sul serio, riconoscendo che i contenuti essenziali con cui è chiamato a fare i conti vengono proprio dalla religione. Un approccio ai problemi della vita — della nascita e della fine — affrancato dalle pretese prescrittive della bioetica di stretta osservanza confessionale, immobile nell’astratta rivendicazione della sacralità della vita, e ricondotto piuttosto al più maturo contesto concettuale di una riflessione libera da impacci dottrinari. Pur trattandosi di temi di indubbio rilievo, le questioni ora semplicemente accennate (e altre ancora, qui necessariamente espunte), nel libro di Givone sono riportate all’interrogativo di fondo, richiamato anche dal titolo. Si incontra Dio, in queste pagine, non come ciò che residua dalla devastazione indotta da un pensiero refrattario a ogni idolo, quale è il pensiero contemporaneo, né come conclusione di un freddo e astratto sillogismo, bensì come approdo e insieme come presupposto, senza il quale «dovremmo riconoscere che il nulla ha vinto».

Repubblica 22.6.18
Il religioso nell’arte
L’ultimo segreto delle icone russe
Le opere di Rublèv restano custodi del mistero proprio mentre lo esprimono
di Massimo Cacciari


Tra le vere opere di Elémire Zolla sta certamente quella di averci fatto scoprire l’opera di Pavel Florenskij, promuovendo prima l’edizione di La colonna e il fondamento della verità presso Rusconi nel 1974 (prima traduzione nel mondo) e poi, presso Adelphi nel 1977, di Le porte regali. Opere fondamentali per il pensiero teologico e filosofico del Novecento, scaturite dall’irripetibile humus della apocalisse russa a cavallo della Rivoluzione. Non posso non ricordare con emozione anche il mio incontro con esse (e l’influenza determinante che ebbero per alcuni miei lavori, come Icone della legge e L’angelo necessario, precedenti il largo sviluppo di studi su Florenskij che negli ultimi trent’anni è maturato soprattutto in Italia, fino al recentissimo e importante volume collettivo curato da Silvano Tagliagambe, Il pensiero polifonico di Pavel Florenskij, presso l’University Press della Facoltà teologica della Sardegna).
La ristampa di Le porte regali, dopo molte adelphiane, avviene ora a cura e con una post-fazione di Grazia Marchianò, nell’ambito dell’edizione delle Opere Complete di Zolla, presso Marsilio. Occasione preziosa per approfondire ancora il valore epocale di questo saggio. Esso va ben oltre all’illuminare i fondamenti teologici dell’arte dell’icona russa del XV secolo, e del sommo Andrei Rublëv in particolare, a partire dai suoi modelli bizantini (chiarendo cosi, retrospettivamente, anche aspetti decisivi di tutta l’arte paleocristiana); Le porte regali impongono una drammatica comparazione tra forme di civiltà, sulla differenza che sembra avere per sempre deciso la spiritualità dell’Europa orientale da quella occidentale.
Una comparazione che in Florenskij diviene perentorio giudizio, quasi ad assumere la forma dell’aut-aut. Da una parte, l’opera che rivela, che apre il Velo e permette di intuire il Realissimo; dall’altra parte, l’Occhio sovrano del poietes, dell’artista-poeta, che dispone la sua materia secondo la sua prospettiva. Da una parte, l’opera che fa tutt’uno col culto; dall’altra, la creazione che si pretende “libera”, e che per Florenskij è invece incatenata, come i prigioni della Caverna platonica, alla rappresentazione delle apparenze, delle ombre del Reale. L’icona vive sulla soglia, trova il proprio luogo appunto sull’Iconostasi che distingue lo spazio dei fedeli dal Sacro in sé inaccessibile. Nel mostrare la abissale differenza tra i Due, l’icona è segno a un tempo dell’Invisibile stesso. Custode del mistero nel momento in cui lo esprime. Il mondo della sua immagine è puramente metafisico; l’immagine dell’icona è mundus imaginalis in sé, non in relazione a quello dell’esperienza sensibile.
È questo un destino dell’immagine e dell’immaginare da cui l’Occidente sembra separarsi per sempre con la grande svolta segnata da San Francesco, Cimabue, Giotto, Dante: qui la Luce taborica dell’Icona si incarna nella sofferenza, nel dramma storico delle figure fino a esserne inghiottita. E tuttavia Florenskij, grande teorico anche dell’arte dell’avanguardia russa, sa bene quale poderosa nostalgia per l’icona, per il suo pathos anti-soggettivo, anti-romantico, rinasca proprio nel Novecento!
Le forme fondamentali in cui una civiltà si esprime difficilmente muoiono, scompaiono, piuttosto, e altrettanto imprevedibilmente possono in altri modi risorgere.
Ciò fa di Le porte regali un testo imprescindibile anche per la filosofia dell’arte contemporanea.
Non si intenderebbe però l’importanza filosofica del grande saggio florenskijano se non lo si leggesse alla luce dell’idea di Verità svolta nel suo capolavoro La colonna e il fondamento. Non si conosce vera- mente se non divenendo uni- sostanziali all’altro, non semplicemente simili. Non vi è verità nella semplice corrispondenza tra forme dell’intelletto e l’apparire delle cose. Anzi, l’errore è già contenuto nel chiamare “cose”, e cosi reificare, gli essenti reali di cui facciamo esperienza.
Conosciamo vera- mente soltanto il vivente che amiamo, e di cui, amandolo, vogliamo partecipare in toto. La Verità integra, eterna, luminosa, sovra-luminosa si rivela soltanto quando, usciti dalla caverna dell’Io, amiamo il vivente amando Dio che è Amore. Questa idea di Verità, che ha origini neo-platoniche, e che Zolla pone giustamente in relazione con le grandi metafisiche dell’Iran, sembra essersi separata per sempre da quelle dominanti nell’Occidente, tutte, per Florenskij, nient’altro che rappresentazioni del nostro esserci storico (e perciò memoria o oblio di eventi temporalmente determinati). E tuttavia, di nuovo, come intendere nelle sue radici il nostro stesso destino se non comparandolo al paradigma che Florenskij gli oppone? Due civiltà, eppure entrambe appartenenti all’Europa o Cristianità. Un agon, una lotta nello stesso cuore? Questo mi sembra certo: che cessando tale lotta, cesserà di battere questo cuore. Evento che molti segni affermano già essersi compiuto.

Repubblica 22.6.18
Riscoperte
Caro Aristotele ti traduco per essere felice
di Maurizio Bettini


Il filosofo greco torna per la terza volta in quarant’anni in una prova di maturità del liceo classico. E il suo pensiero “flessibile” rivela un’idea di saggezza a uso e consumo dell’individuo molto adatta ai tempi
Chissà se chi ha scelto la versione di greco per la maturità classica aveva in mente la celebre Scuola di Atene delle Stanze Vaticane. Forse sì. Basta infatti aver osservato questo affresco per aver notato che l’Aristotele di Raffaello ha in mano proprio L’etica a Nicomaco; mentre Platone (con il suo famoso “dito” rivolto verso il cielo) regge il
Timeo. Questa scelta dell’artista possiamo prenderla come un simbolo del fatto che quest’opera costituisce una presenza fondamentale all’interno della nostra memoria culturale. Non solo quella del passato più lontano, perché certo l’Aristotele etico ha ispirato la riflessione dei Romani, dei cristiani, su su fino al Rinascimento e oltre; ma la sua eredità continua ad animare anche la filosofia a noi più vicina, fino alla contemporaneità.
L’opera etica dello Stagirita, infatti, ha costituito un importante punto di riferimento per il pensiero posteriore all’Illuminismo, quello tedesco in particolare, da Hegel fino ad Heidegger. Così come ha goduto di rinnovata fortuna nella filosofia analitica inglese ispirata dall’opera dell’ultimo Wittgenstein, interessato non più al linguaggio della scienza, ma a quello ordinario. Proprio come l’Aristotele dell’etica, che nella sua complessa ricostruzione, e interpretazione, dell’agire umano, si fondava molto sulle risorse diciamo spontanee offerte dal lessico greco. Al di là di questo, però, ciò che dell’etica aristotelica sembra aver maggiormente attratto i moderni (da Gadamer a Nussbaum) è proprio la sua dimensione di filosofia “pratica”: con la contestuale rinunzia, cioè, a fondare l’etica umana sui principi della pura conoscenza. Aristotele è convinto che il fine ultimo che guida l’agire degli uomini sia la felicità, l’eudaimonia: una visione, come si vede, molto realistica dell’umanità. Ma in che cosa consiste la felicità? Non è la stessa per tutti, ciascuno desidera infatti raggiungerla a modo suo, in base alle condizioni in cui si trova. Chi è malato pensa che la felicità consista nella salute, chi è povero pensa che consista nella ricchezza, e così via. Né si deve pensare che la felicità risieda nel puro piacere, o negli onori, o nella ricchezza. Questi sono infatti beni esclusivamente esteriori – ma che tuttavia non debbono essere semplicemente esclusi dal recinto del bene, alla maniera di Socrate e di Platone. Al contrario, una certa dose di piaceri, onori, ricchezza è necessaria, perché se essi non sono di per sé in grado di donare la felicità, la loro assenza può comunque guastarla. E anche questa costituisce una posizione, come dire, di grande realismo. La felicità più piena, o meglio quella che è possibile raggiungere per un essere umano, la si ottiene però solo attraverso la virtù: intesa come un’attività razionale capace di guidare e costruire al meglio la nostra esistenza, orientando le nostre scelte verso il “giusto mezzo”. La virtù consiste in primo luogo nell’evitare il troppo e il poco, l’eccesso e il difetto – ma chi, o che cosa, può mai guidarci in questa ininterrotta, responsabile serie di scelte verso una felicità virtuosa? A questo punto entra in scena l’altra polarità di cui – accanto alla felicità, la eudaimonia – Aristotele ha fatto dono alla riflessione etica: la saggezza, la
phronesis. È questa infatti la facoltà che permette all’uomo di guidare le proprie scelte e di costruirsi una vita felice. Quando è in gioco il comportamento, la sophia, la conoscenza, non può svolgere il suo ruolo, tocca alla
phronesis, la saggezza: perché la vita ci mette di fronte ad eventi diversi, imprevedibili, e per questo l’etica non può fondarsi su un sistema, su principi. La saggezza ha valore individuale, è ciò che permette al saggio di valutare ciò che è bene e utile “per lui”, nelle circostanze in cui si trova; la saggezza è ciò che gli permette di vivere una vita buona, in generale. In definitiva la riflessione etica di Aristotele conserva tanta vitalità proprio in ragione della sua flessibilità, verrebbe da dire della sua “umanità”. È proprio la visione dell’umano, così moderata, e insieme così sfaccettata, ciò che rende non solo moderna, ma soprattutto utile, maneggevole, la riflessione aristotelica. Anche l’amicizia però – la philia, ossia la virtù discussa nel brano assegnato ai maturandi – ha un ruolo in questa complessa articolazione etica di Aristotele. Solo che la sua philia non corrisponde esattamente a ciò che noi intendiamo per “amicizia”. E qui la cosa si fa più interessante. Alla philia Aristotele dedica ben due libri dell’Etica Nicomachea e un intero libro dell’Etica Eudemia. In questo modo egli ha creato la base per la riflessione filosofica posteriore su questo tema. Ma come dicevamo, nella philia Aristotele fa rientrare una serie di relazioni che certo noi non rubricheremmo come “amicizia”: per esempio l’amore di un genitore verso i figli, o viceversa, o la passione di un amante verso l’oggetto amato; della philia fa naturalmente parte anche il rapporto che noi definiremmo “amicizia”, ma insieme a relazioni di affari o di convenienza. Il fatto è che per Aristotele la philia si rivolge verso tre oggetti, il bene, l’utile e il piacere – e non credo che l’opinione corrente, in materia di amicizia, sarebbe disposta ad accettare una simile tripartizione.
Che cosa ci insegna, dunque, quest’ultima riflessione? Beh, in primo luogo che tradurre la philia di Aristotele con “amicizia” non è del tutto giusto – anche se i maturandi non debbono preoccuparsi, lo si fa comunemente. In secondo luogo che il pensiero antico non costituisce solo, come si ripete, l’archetipo – la radice – della nostra cultura. Gli antichi pensavano anche in modo “diverso” da noi: e riflettere su questa diversità ci aiuta solo a pensare di più.

Corriere 22.6.18
Da Aristotele alle equazioni: «Test difficili»
Maturità, sorprese e qualche polemica per i compiti del secondo giorno. Spunta anche l’alternanza scuola-lavoro

di Antonella De Gregorio
(...)
«Da incubo» la prova di greco («difficile, lunga e inaspettata» gli aggettivi più usati), con un Aristotele proposto ai maturandi tre volte in 40 anni. Nel pomeriggio sul testo è nata anche una querelle legata a un presunto refuso, un punto che — a detta di un team di anonimi professori citati dal sito di Panorama — sarebbe inesistente nell’originale. Di sicuro era ostico, però pieno di significato il lungo brano dall’Etica Nicomachea: per qualcuno avrà comportato «una fatica immane» — ha commentato Franca Gusmini, docente di Greco e Latino del liceo Carducci di Milano — ma avrà impresso negli studenti il messaggio che il sentimento di amicizia, «è insito nella natura dell’uomo». Una scelta coraggiosa e fortunata anche per la grecista Andrea Marcolongo: «Non si può che andare fieri del fatto che saper tradurre l’Etica Nicomachea oggi non significa sapere una lingua morta, ma saper ragionare», sostiene.
Polemico Luciano Canfora, docente di Filologia greca e latina, che ha letto la scelta del brano di Aristotele («Un brano che dà inizio alla Resistenza contro il nuovo fascismo») come un «dispetto al ministro dell’Interno, perché ruota intorno al concetto che è l’amicizia con gli altri che tiene in piedi le città».
(...)

Corriere 22.6.18
La lezione del filosofo su vita felice e amicizia
Testo bello ma difficile
di Mauro Bonazzi


Gli studenti del Liceo Classico che hanno affrontato la versione dal greco hanno dovuto tradurre un testo tratto dall’incipit del libro VIII dell’Etica Nicomachea di Aristotele in cui il filosofo rispondendo alla domanda «che cosa sia il bene per l’uomo» parla dell’amicizia. Negli ultimi 40 anni Aristotele era stato proposto ai maturandi solo nel 2012 e nel ‘78

Per Petrarca le pagine di Aristotele scorrevano come un fiume dorato. Ma Petrarca il greco non lo conosceva e si doveva affidare ai giudizi di Cicerone, che leggeva opere diverse da quelle che sono giunte fino a Petrarca e a noi: appunti scritti da Aristotele per se stesso, frasi compresse al limite dell’oscurità, ragionamenti spezzati che tocca al lettore ricostruire (si spiega così il punto in alto dopo la cita-zione omerica, di cui ieri si è discusso). Non era facile, in-somma, il testo che gli stu-denti si sono trovati davanti. Ma il contenuto vale bene lo sforzo. Come vivere una vita felice? Questa è la domanda dell’etica di Aristotele. Per gli dèi è facile: onnipotenti, fanno quello che vogliono, disinteres-sandosi di tutto e tutti. Ecco la loro felicità. Ma noi non siamo dèi. Siamo deboli, fragili, bisognosi gli uni degli altri: per questo l’amicizia diventa così importante. L’ami-cizia è una virtù politica: significa saper ricono-scere le ragioni proprie e quelle degli altri, per cercare di trovare soluzioni concrete ai problemi che gli uomini devono fronteggiare, pena il ri-piombare di nuovo nella violenza e nell’odio. Ed è qualcosa di più della ricerca del semplice interes-se. Se contasse solo l’interesse si finirebbe per ac-compagnarsi con chi magari si comporta in mo-do ingiusto o esecrabile: ma è difficile che questo sulla lunga distanza possa soddisfare. Così si deve avere il coraggio di percorrere strade più impe-gnative e riconoscere che le amicizie più auten-tiche sono quelle finalizzate alla ricerca del vero bene: vale a livello individuale e vale ancora di più a livello collettivo, perché in fondo la vera politica altro non è che il tentativo di costruire un mondo in cui tutti possano vivere soddisfatti, e dunque felici. Si divertono di più, gli dèi; ma alla fine è più bella la vita di chi s’impegna a rendere più umano il nostro mondo.

il manifesto 22.6.18
Quell’ospite inquietante
«Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie», di Ilvo Diamanti e Marc Lazar per Laterza
di Francesco Antonelli


Alla svolta del XIX secolo la società borghese, lo Sato liberale e la «democrazia limitata» per censo entrarono in crisi irreversibile, sotto la pressione della seconda rivoluzione industriale e l’avvento della società di massa. Partendo da Tarde, Le Bon, Rossi, Sighele, arrivando a Ortega y Gasset e Freud, quasi tutti i grandi intellettuali e studiosi di scienze sociali dell’epoca interpretarono la nuova fase come trionfo dell’irrazionalismo politico e culturale che rompeva con l’ideale illuminista e positivista dell’individuo razionale.
Un nuovo protagonista, un «ospite inquietante», blandito da capi demagogici e ambiziosi, occupava ora il centro della scena: la folla. Una folla che era sinonimo di «nuovi barbari». Soggetti non assimilabili nei vecchi schemi istituzionali che premevano alle porte della città e che, anzi, erano cresciuti al suo interno, mettendola definitivamente a soqquadro.
LA BARBARIE: da destra e poi, soprattutto con la scuola di Francoforte, da sinistra, questa fu la diagnosi e la profezia realizzata dalle grandi tragedie della prima metà del Novecento, dalle due guerre mondiali alla crisi del Ventinove, ai regimi totalitari. Il mondo nato nel secondo dopoguerra fu ricostruito avendo sempre presente l’obiettivo di evitare il barbarismo. Un fine politico condiviso da democratici, progressisti e liberali in tutto il mondo occidentale e che diede vita al patto fordista e keynesiano. Il libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie (Laterza, pp. 176, euro 15) si muove tutto all’interno della consapevolezza che oggi quel «barbarismo» stia di nuovo mettendo radici nel nostro mondo. Che cos’è la «popolocrazia»? Un neologismo che gioca evidentemente con la radice greca del termine democrazia, a sottolineare che la base del sistema non sarebbe più il «demos» organizzato nelle forme e nelle istituzioni del pluralismo democratico, bensì un «popolo» costruito e auto-costruito attraverso retoriche, valori e stili di azione che, anche se gli autori non lo dicono esplicitamente, ricordano molto le folle irrazionali, anti-liberali e manichee dell’inizio del Novecento. Gli attori politici che danno corpo e rappresentanza a tutto questo sono i famigerati «populisti» alla cui analisi – o meglio all’analisi dei casi italiano e francese – è dedicata la gran parte del libro.
SE LO STUDIO di Diamanti e Lazar si fermasse qui non sarebbe certo molto originale. Anche perché i presupposti espliciti e impliciti dell’analisi riproducono spesso quella idealizzazione intellettualistica di un mitico «demos» razionale e disciplinato (in altrettanto mitici partiti e sindacati) dei tempi passati che, forse, non è mai esistito. Il merito, l’originalità e il grande interesse di Popolocrazia sta invece nella sintesi.
In primo luogo, il nuovo sistema politico nascerebbe dalla confluenza di cambiamenti strutturali, di lungo periodo e da fattori «precipitanti», più contingenti. I primi fanno riferimento all’ascesa di una società nella quale sono declinate (forse irreversibilmente) tutte le forme di intermediazione sociale e politica: il crollo dei corpi intermedi, dai partiti ai sindacati all’associazionismo.
Ai quali si aggiunge l’ascesa dei media digitali che rendono possibile comunicare direttamente le proprie opinioni, atteggiamenti, istanze. Questa società «im-mediata» si basa sulla solitudine del cittadino globale, sulla diffusa sensazione di essere marginali e irrilevanti rispetto ai processi decisionali (la periferia come categoria esistenziale e non solo come luogo fisico) e sulla personalizzazione delle relazioni politiche e sociali.
IN UNA ESPRESSIONE su quel «declino dell’uomo pubblico» già ampiamente analizzata da Richard Sennett nell’omonimo libro del 1974. Ciò che avrebbe fatto definitivamente precipitare la situazione, introducendo mutamenti radicali nel funzionamento della democrazia, sarebbe la crisi economica e finanziaria del 2007. Questa avrebbe diffuso marginalità, sfiducia sistemica, delegittimazione delle classi politiche, nuove fratture politico-sociali in particolare tra «centri» (ormai identificati non solo con lo Stato-nazione ma anche con l’Unione europea) e «periferie» nuove e vecchie, simboliche e fisiche. L’ipotesi più interessante e contro-intuitiva è che tutto questo non avrebbe generato un rigetto della democrazia (ideale) a favore di un neo-autoritarismo; al contrario, avrebbe rafforzato il valore di una democrazia ideale e diretta, im-mediata, magari promossa e tutelata da un leader al di là delle istituzioni consolidate.
NE DERIVEREBBE che il conflitto sociale attivato dalla crisi e dai cambiamenti strutturali delle società occidentali non si esprimerebbe più nel sociale, nei movimenti o tramite i corpi intermedi ma direttamente nella politica e nelle sue forme elettorali. Nonostante tutto, l’unico vettore rimasto di espressione degli interessi e delle opinioni dei cittadini. L’interessante diagnosi di Diamanti e Lazar coglie dunque una contraddizione centrale del presente: da una parte le forme della rappresentanza con i suoi meccanismi di intermediazione sono fortemente criticati e avversati.
Dall’altra, è solo attraverso di esse che il conflitto ha trovato un’espressione. Senza tuttavia la possibilità certa che possa giungere anche ad una ricomposizione, soprattutto progressiva per la società. Ed è su questo crinale che si giocheranno in futuro i destini delle nostre società e della stessa sinistra.

Corriere 22.6.18
L’egemonia del populismo opportunità per i riformisti
di Goffredo Buccini


Per paradossale che appaia, la sinistra riformista dovrebbe vivere come una grande opportunità di rigenerazione questa caotica stagione segnata dall’egemonia di Matteo Salvini.
Se allineassimo i problemi nazionali su un foglio, come una lista della spesa, il bellicoso ministro leghista avrebbe la funzione di gigantesco evidenziatore di quelli ora più radicati nel senso comune popolare. E non perché, come la sinistra sostiene, crei lui stesso quel senso comune (non solo, almeno) ma perché lo interpreta per ciò che è, un grido di dolore generato da disagi reali, senza addomesticarlo con le lenti della correttezza politica, a lui ignota.
L’uso improprio della questione rom e i relativi eccessi lessicali hanno l’orrendo sapore della ricerca di un capro espiatorio, peraltro a scapito di un gruppo etnico finito nei lager assieme a ebrei e comunisti. Ma pongono un tema che esiste, eccome. Non solo per l’abbandono scolastico dei bimbi rom, arrivato all’80 per cento nei campi. Ma per i roghi tossici che da quei campi si levano nelle periferie di Roma, Napoli, Torino e Milano, con pregiudizio per la salute degli abitanti delle zone vicine e dei minori rom usati per accendere i roghi perché non perseguibili (dopo l’incendio di Torre Spaccata nel 2017 i valori della diossina rimasero per due giorni di 20 volte superiori alla soglia fissata dall’Organizzazione mondiale della sanità). Non il KKK ma la Commissione Jo Cox, voluta la scorsa legislatura da Laura Boldrini, ci ricorda che il 41 per cento dei minori che vivono in baraccopoli a Milano non è mai stato visitato da un medico e che il 75 per cento di chi abita nei campi «informali» non ha tessera sanitaria: censimento è parola oscena ma un’occhiatina là dentro saprebbe di riformismo più che di razzismo.
Non siamo sottoposti a un’invasione di migranti, lo ammetta Salvini. Ma la percezione della gente comune sta in un esempio a tre cifre. La prima è nota: Roma ha circa 3 milioni di abitanti. Le altre due vengono dalla Commissione parlamentare sulle periferie: gli stranieri regolari a Roma e hinterland sono 360 mila (dunque diremmo che il rapporto romani/stranieri sia circa di 10 a 1); ma i romani che vivono in zone di disagio economico sono 950 mila. Domanda (retorica): in quali zone immaginiamo che vivano quei 360 mila stranieri? Conseguenza: è plausibile che il vero rapporto tra romani e stranieri (regolari) sia nelle zone di disagio tre a uno, senza aggiungere al conto gli stranieri irregolari. Questo spiega perché a Roma il Pd abbia stabilito le sue roccaforti in centro storico e ai Parioli.
Sono 500 mila i migranti «smarriti» negli ultimi anni dal circuito dell’accoglienza. Il punto sfuggito alla sinistra nell’intreccio tra crisi economica e picco delle migrazioni (2014-2017) è questo. Ma basta affacciarsi in una periferia geografica o sociale per capirlo: sia la Bolognina o la Domiziana, siano i Caruggi o i sobborghi di Macerata.
Salvini può essere utile a una sinistra che voglia tornare a competere, non scimmiottandolo ma superandolo, perché le impone di coniugare solidarietà con sicurezza (ciò che lui non fa e non saprebbe fare). È stato questo il breve tentativo di Marco Minniti, assai criticato dalla sua stessa parte politica. Per cattiva coscienza sulla sicurezza il Pd ha ritirato anche la sola proposta forte che aveva costruito sulla solidarietà, lo ius soli (meglio se declinato in ius culturae). Ma qui non si tratta di sottrarre, si tratta di aggiungere.
Una plausibile proposta riformista dovrebbe tenere insieme magari i Cie (o come vogliamo chiamare luoghi sicuri e umani dove contenere i fantasmi che vagano nelle nostre città finché non avranno identità e destinazione) e lo ius soli o lo ius culturae; il taglio drastico dei tempi di decisione sulle domande d’asilo e i canali economici e diplomatici per nuovi accordi bilaterali che consentano i rimpatri; Sprar obbligatori (oggi solo un Comune su quattro vi aderisce) e programmi di investimento nelle periferie da un miliardo l’anno per dieci anni (come indicato dalla Commissione parlamentare), con una tassazione locale ad hoc (altro che condono) e una agenzia nazionale che coordini gli interventi.
Occorre chiudere i campi rom. E la sinistra dovrebbe proporre qualcosa di meglio di una ruspa, smetterla di strillare all’Uomo nero e vergare una proposta seria che comprenda abitazioni, lavoro ma anche revoca della patria potestà per chi sfrutta i bambini ed espulsioni per chi non ha diritto di stare qui.
È possibile che Salvini usi migranti e rom come armi (gratuite) di distrazione di massa di fronte a promesse elettorali in gran parte irrealizzabili. E questo sarà un punto su cui varrà la pena insistere soprattutto in autunno, quando i nodi dell’economia verranno tutti al pettine. Ma, intanto, dargli del fascista può indignare il 60 per cento degli italiani (un pd su tre) che ne condivide le scelte su Ong e flussi. Recriminare non serve: il populismo riempie i cuori lasciati vuoti dall’assenza di riformismo. Meglio, per ciò che resta della sinistra, rimboccarsi le maniche.

Repubblica 22.6.18
Il welfare
Povertà, 380 mila in coda per il reddito d’inclusione
Boom di domande, l’Inps ne ha accolte la metà. Il 67% degli assegni va al Sud
di Valentina Conte


Roma Tra gennaio e maggio, primi cinque mesi di operatività, le domande per il Rei - il Reddito di inclusione messo in piedi dal governo Gentiloni per combattere la povertà con un assegno massimo di 540 euro al mese (in media 300 euro) e un percorso di reinserimento sociale - hanno toccato quota 380 mila. Ma quasi la metà delle richieste è stata respinta dall’Inps, perché priva dei requisiti di legge. In particolare, quello reddituale calcolato nell’Isre (un pezzo dell’Isee) e che deve essere sotto i 3 mila euro. «Un criterio stringente che non sempre fotografa la reale situazione di povertà », osserva Nicola Marongiu, responsabile welfare della Cgil. «Il dato però certifica che lo strumento ha creato aspettative, al punto che molte persone povere, ma non così povere, l’hanno richiesto pur senza ottenerlo » , aggiunge Cristiano Gori, coordinatore dell’Alleanza contro la povertà. « Motivo in più per allargare la misura».
In realtà, dal primo luglio la platea sarà selezionata in base ai soli criteri reddituali. Mentre decadranno quelli legati allo status famigliare, come la presenza di minori, disabili, donne in gravidanza o un disoccupato over 55. Le domande respinte perché sin qui non ricomprese in queste tipologie saranno riesaminate. Ma i limiti di Isee e Isre resteranno.
I nuovi dati Inps sono comunque di grande interesse. La metà delle 184 mila domande accettate viene da Campania e Sicilia. Quasi sette su dieci dal Sud. Tre su quattro da famiglie numerose, con più di 3 figli. Proprio il quadro che dà l’Istat quando descrive la povertà in Italia. L’obiettivo del Rei - per il quale sono stanziati 2,3 miliardi nel 2018 e 3 miliardi dal 2020 - è arrivare a 700 mila famiglie quest’anno (2,5 milioni di poveri, la metà del totale). Siamo a 184 mila. A questo numero va aggiunta però una quota delle 477 mila famiglie ancora coperte dal vecchio sostegno, creato dal governo Letta, il Sia. Quando il Sia finirà, molte verranno dirottate dai Comuni verso il Rei. In diverse Regioni poi - come Friuli, Puglia, Emilia- Romagna - esistono altre misure contro la povertà, talora sostitutive del Rei. Fatto sta che per ora dei 2 miliardi e passa a disposizione sono stati erogati appena 54,4 milioni (Sia escluso). E va detto che se a fine marzo le famiglie destinatarie di Rei erano a quota 110 mila ( 317 mila persone), ora siamo a 184 mila, di cui 100 mila con figli minori ( oltre mezzo milione di persone coinvolte, all’incirca). Solo 74 mila in più in due mesi. Tanto o poco?
« C’è disinformazione nei Comuni, forse è stata fatta anche un po’ di confusione con gli annunci sul Reddito di cittadinanza in campagna elettorale, molte Regioni hanno altri strumenti » , dice ancora Marongiu. « E poi consideriamo pure lo stigma, la difficoltà delle persone a dichiararsi poveri » . Anche Gori osserva che «bisogna intanto considerare insieme Rei e Sia, siamo solo all’inizio e poi in tutti i paesi europei un’ampia quota di poveri, quasi un terzo, non fa domanda » . Nei nuovi dati Inps c’è poi una curiosa quota di domande accolte ma con beneficio nullo, ovvero assegno pari a zero (13 mila) oppure inferiore a 20 euro al mese ( 2.300). Cosa significa? « A queste famiglie spetta il Rei, ma per legge dall’assegno vanno sottratti altri redditi esistenti, come ad esempio i benefici comunali», spiega Marongiu. « In ogni caso saranno prese in carico e aiutate a seguire un progetto per la ricerca di un lavoro o l’inserimento dei figli a scuola».
Cosa resterà del Rei, anche alla luce di questi dati, quando il governo progetterà il Reddito di cittadinanza? « Evitiamo di fare la riforma della riforma», si augura Gori. «Partiamo da quanto esiste».

Corriere 22.6.18
Tra passato e futuro
Sovranisti, interessi e false alleanze
di Angelo Panebianco


Sovranismo, malattia senile dell’Occidente? Chissà se alcuni dei politici che, sulle due sponde dell’Atlantico, invocano il ritorno pieno delle sovranità nazionali, si rendono conto delle possibili implicazioni. Forse qualcuno sì. Ma sa anche che difficilmente sarà chiamato a risponderne.
Per capire occorre una piccola digressione. «Chi rompe paga e i cocci sono suoi» è una regola che vale solo qualche volta in politica. Per lo più, a pagare non è chi ha sbagliato: il conto, e i cocci, vengono affibbiati a qualcun altro. Ciò dipende dalla sfasatura temporale che c’è fra il momento in cui viene presa - per lo più per ragioni demagogiche - una decisione sbagliata, e il momento in cui si manifesteranno gli effetti negativi. Poiché può passare molto tempo prima che ciò accada, delle due l’una: o ci sono adesso nuovi dirigenti, diversi da quelli che presero a suo tempo la decisione sbagliata, oppure, se sono ancora al potere questi ultimi, essi possono sfruttare la suddetta sfasatura temporale per negare, di fronte al pubblico, ogni responsabilità. Si consideri anche il fatto che quando la decisione sbagliata venne presa i responsabili ci guadagnarono in consensi. È nella natura delle scelte demagogiche di assicurare consenso ai governanti nel breve termine e danni ai Paesi nel lungo termine.
Torniamo al caso dei sovranisti/nazionalisti. Forse il loro successo attuale in Occidente è il portato della «maledizione» della terza e della quarta generazione.
Coloro che hanno vissuto sulla propria pelle il tormento della guerra faranno di tutto per impedire che essa ritorni e trasmetteranno, con i racconti delle proprie tribolazioni e delle tragedie vissute, la stessa disponibilità d’animo e la stessa volontà alla generazione successiva. Ma dopo che coloro che hanno vissuto il dramma sono scomparsi, quando non ci sono più testimoni diretti, le generazioni subentranti sono ormai, per così dire, «vergini», di quel dramma ne hanno sentito parlare (forse) solo a scuola. Bisogna essere ottusi per pensare che i nomi di Hitler o di Stalin possano evocare chissà quale forma di raccapriccio in un giovane di oggi. Perché mai quei nomi dovrebbero suscitare in lui emozioni diverse da quello, poniamo, di Gengis Khan?
La maledizione della terza e della quarta generazione consiste in questo: le prudenze di un tempo vengono abbandonate poiché i fantasmi del passato sono svaniti. Le nuove generazioni si avviano così, in modo incosciente, a ripercorrere le orme di coloro che, diversi decenni prima, misero in scena il dramma.
È a questo «ciclo generazionale» che va imputata anche la diffusione della falsa idea secondo cui l’Europa, non conoscendo più guerre generali dal 1945, sarebbe entrata, in modo irreversibile, in un’era di «pace perpetua». Anziché riconoscere che la lunga pace post-1945 si deve a un concorso di condizioni eccezionali, che potrebbero svanire prima o poi, molti pensano che non ci sia più alcuna possibilità che gli incubi di un tempo ritornino.
I sovranisti scherzano con il fuoco. Ammesso che, prima o poi, si possa ricostituire qui in Europa un mondo di Stati pienamente sovrani, è certo che in quel mondo la guerra tornerebbe a essere la regola. Altro che pace perpetua.
Dovrebbe essere facile capire perché. Basta considerare quanto già oggi accade. I sovranisti sono vittime di una contraddizione. Si dichiarano solidali l’un con l’altro: i sovranisti francesi con quelli americani, italiani, inglesi, eccetera. Si ascolti, ad esempio, cosa dice quel piazzista del sovranismo che è Steve Bannon (ex sodale di Donald Trump). In realtà, nel caso che molti di loro (ancor più di quelli già oggi al potere) si trovassero simultaneamente alla guida dei rispettivi Paesi, sarebbe la loro stessa ideologia a spingerli l’uno contro l’altro. Il sovranismo, infatti, concepisce i rapporti internazionali in termini di gioco a somma zero (di tanto guadagna lui, di altrettanto perdo io, e viceversa). Ma se i rapporti internazionali sono solo a somma zero non c’è altra possibilità che la rivalità. Mors tua vita mea: non voglio migranti e quindi voglio che te li tenga tutti tu. Non voglio le tue merci e quindi alzo dazi che ti danneggeranno.
Per evitare di cadere nello stesso vizio — una fuga dalla realtà — che rimproveriamo ai sovranisti, occorre tenere conto di tre circostanze. La prima: il sovranismo è l’estremizzazione di una tendenza che accomuna molte forze, anche quelle dette moderate. Macron e Merkel sono solo più ipocriti di Salvini o del gruppo di Visegrád. Con le loro politiche sulla questione dei migranti hanno favorito il risultato delle elezioni italiane del 4 marzo e stanno contribuendo a mandare all’aria il principio di Schengen sulla libera circolazione in Europa. Il sovranismo è una malattia che in Occidente ha contaminato un po’ tutti.
La seconda circostanza riguarda il fatto che in un contesto di interdipendenza internazionale, saturo di legami, i sovranisti, se vogliono combinare qualcosa, devono venire a patti con la realtà. Ed ecco Salvini che invoca «frontiere europee» o che ricorre (come attestava ieri Il Foglio) a fondi europei e all’Onu per intervenire in Libia.
La terza circostanza è che il sovranismo si declina diversamente a seconda della forza dei Paesi. Una cosa è essere la superpotenza guidata da Trump, altro è essere un Paese europeo. Se sei l’Italia (e domani, eventualmente, la Francia) dovrai conciliare le velleità sovraniste con la ricerca di un protettore (la Russia).
Ciò che un tempo si chiamava Occidente (e che forse oggi non è più lecito chiamare così) ove convivevano il legame atlantico e l’integrazione europea, si fondava sull’idea che dalla cooperazione tutti i membri della famiglia occidentale potessero guadagnare. La cooperazione, valorizzando l’interesse nazionale di ciascuno, alimentava la pace fra i Paesi occidentali.
Ora ci sono forze che contestano quel principio. Cosa credete che accadrà se un giorno vinceranno su tutta la linea? Si potrebbe esser tentati di dire: imponiamo a tutti questi incoscienti sovranisti la visione obbligatoria di un bel film di un paio di anni fa: Frantz. Narra di genitori europei che, entusiasticamente, mandarono i propri figli a farsi scannare sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Ma bisogna resistere alla tentazione: per un sovranista sarebbe come assistere a una noiosa conferenza su Gengis Khan.

Corriere 22.6.18
Trump e la morte della democrazia
di Massimo Gaggi


I nazisti emersero nella Germania di Weimar come movimento di protesta nazionalista contro la globalizzazione. Con Hitler, leader non di un popolo che sceglie razionalmente, ma di una tribù decisa a seguire il suo Führer: che usava di continuo argomenti falsi, accusando poi gli avversari di essere i veri bugiardi. Attore consumato, ma anche uno capace di intuire speranze e paure della gente. Nel suo nuovo saggio sull’ascesa di Hitler lo storico americano Benjamin Carter Hett sta attento a non fare paragoni tra la Germania di quegli anni e gli Stati Uniti di oggi. Ma il titolo scelto — The Death of Democracy, «La morte della democrazia» — è già di per sé evocativo e i liberal americani che divorano il suo saggio (come altri simili, ad esempio How Democracies Die di Daniel Ziblatt) hanno lo sguardo fisso su Trump e sul partito repubblicano che lo tollera, pur considerandolo un corpo estraneo. Per capire ciò che si muove nella pancia dell’America e misurare la scarsa lungimiranza dell’attuale dirigenza Usa è, però, più utile leggere un altro libro pubblicato di recente: The Marshall Plan, Dawn of the Cold War («Il piano Marshall, l’alba della Guerra fredda») scritto dallo storico dell’economia Benn Steil. Un racconto dalle tinte assai meno forti degli altri ma assai lucido nell’analizzare la ricostruzione post-bellica. Un’America vittoriosa e generosa, pronta a spendere per rimettere in piedi i Paesi appena sconfitti, nel ricordo di molti. Non andò così: la gente, dopo due guerre mondiali nate in Europa e costate la vita di 522 mila americani, voleva tornare all’isolazionismo predicato da Washington fin dall’alba della nazione. Ma Truman capì che lasciare un’Europa distrutta e affamata avrebbe significato fare un regalo a Stalin: bisognava ricostruire e fermare l’espansione sovietica. Il presidente democratico rinunciò a dare il suo nome al piano, consapevole che c’erano da battere i venti contrari di un Congresso in mano ai repubblicani e di un popolo che non voleva fare altri sacrifici per l’Europa. Il piano fu così affidato a un eroe di guerra: il generale George Marshall, divenuto segretario di Stato, che mise tutto il suo carisma nello sforzo di convincere il Congresso e il popolo americano che aiutare l’Europa e restarci militarmente era l’unico modo per evitare un’altra guerra. Stessi americani recalcitranti, ma anche leader lungimiranti, disposti a restare dietro le quinte: altri tempi.

il manifesto 22.6.18
Scontro Salvini e Saviano: «Valutiamo la sua scorta»
Polemiche. Lo scrittore risponde al leader leghista: «Sei il ministro della Malavita, non ho paura di te»
di Mario Di Vito


È la scorta dello scrittore Roberto Saviano l’argomento della sparata giornaliera di ieri del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Dopo la «pacchia» dei migranti e la schedatura dei rom, il titolare del Viminale si è chiesto durante l’ospitata mattutina ad Agorà su Raitre se Saviano «corra davvero qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero». Un modo per titillare gli umori dei suoi seguaci, che vedono nell’autore di Gomorra l’emblema quasi mitologico del radical chic che giudica il mondo dal suo fantomatico «attico newyorkese». E ancora: «È una persona che mi provoca tanta tenerezza e tanto affetto, ma è giusto valutare come gli italiani spendono i loro soldi. Lui è l’ultimo dei miei problemi, gli mando un bacione se in questo momento ci sta guardando».
La colpa di Saviano, a quanto pare, risiede nelle sue ultime dichiarazioni, in cui aveva definito Salvini «crudele, inumano e incapace», associando inoltre le sue uscite alla «retorica del fascismo». E così, seguendo l’ormai consueto copione di questo inizio di legislatura, dopo la sparata del ministro di polizia è esplosa la polemica.
«Se Salvini vuole risparmiare tolga la scorta a me e la lasci a Saviano», ha detto il capogruppo dem alla Camera Graziano Del Rio. Bacchettate anche dall’ex ministro Marco Minniti («Le scorte non si assegnano né si tolgono in tv») e di Laura Boldrini («Mettere in discussione la scorta a una persona minacciata dalla criminalità organizzata è il contrario di quello che dovrebbe fare un ministro dell’Interno»). Dalle parti di Leu, si fanno sentire anche le parole di Arturo Scotto: «La classe dirigente che Salvini ha promosso al Sud è composta innanzitutto da ex amici di Nicola Cosentino. Non sono dunque stupito che il suo primo obiettivo sia togliere la scorta a Saviano. Tutto torna. Anziché punire le mafie, si punisce chi lotta contro le mafie».
Nel pomeriggio, lo stesso Saviano è intervenuto per replicare. Salvini diventa così, con una citazione della memorabile definizione che Gaetano Salvemini diede di Giovanni Giolitti nel 1910, «il ministro della Malavita» eletto a Rosarno «con i voti di chi muore per la ’ndrangheta» e le sue sono «parole da mafioso». In un video pubblicato sulla sua pagina di Facebook, lo scrittore affonda il colpo ancora di più: «E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da undici anni? Ho la scorta da quando ho 26 anni, ma pensi di minacciarmi o di intimidirmi? In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, quella del clan dei Casalesi e dei narcos messicani. Ho più paura a vivere che a morire così. Credi che possa aver paura di te? Buffone».
Alla fine, al culmine della sua strategia che prevede una dichiarazione pazzesca di prima mattina, diverse ore di discussione che tengono alto il topic sui social network e una parziale smentita che comunque non modifica la sostanza del discorso, Salvini ha aggiustato il tiro: «Verificheremo tutti i servizi di vigilanza, sono quasi 600 e occupano circa duemila uomini delle forze dell’ordine. Molti di questi servizi sono chiaramente giustificati, ma qualcuno può essere rivisto perché non ci sono eguali in altri paesi europei». E il ministro chiude lavandosene le mani: «Ci sono organismi che decidono chi merita di essere protetto, non sono io ad avere questa facoltà». Chiusa la questione, è molto probabile che già oggi il leader leghista ne sparerà un’altra delle sue. Nuovo giorno, nuovo topic. Purché se ne parli.

il manifesto 22.6.18
L’inaccettabile avviso del ministro a Saviano
di Andrea Colombo


Possono esserci decine di buone ragioni per revocare una scorta, o anche solo per paventarne la revoca.
Ma ce n’è una certamente sbagliata: l’aver criticato il ministro degli Interni. La minaccia di Matteo Salvini, forse resa ancora più grave dallo stile scelto, l’avvertimento implicito, non è faccenda che riguardi lo scrittore Roberto Saviano, sul quale ciascuno può pensare ciò che vuole. Attiene solo allo stile del ministro e vicepremier, e all’idea di potere che ne traspare.
«Saranno le istituzioni competenti a valutare se corra qualche rischio, anche perché mi pare che passi molto tempo all’estero», così il responsabile del Viminale, tra una dichiarazione di guerra alle Ong e l’altra, giusto all’indomani di una critica acuminata mossagli dallo scrittore napoletano. Decidere in materia non spetta al ministro, e lo sa anche lui. Come sapeva benissimo di non poter censire etnicamente nessuno. Ma è il suo stile e sarebbe un errore scambiare i ringhi in questione per pure boutade pubblicitarie.
Sono segnali e in quanto tali pericolosi. A volte come e anche più delle stesse misure concrete.
Un ministro che minaccia un nemico politico, che lascia capire di non gradirlo affatto, dà coraggio e forza a chi in un modo o nell’altro vorrebbe sbarazzarsene, proprio come un ministro che minaccia di censire i Rom legittima e autorizza chiunque non veda l’ora di sfogare frustrazioni e pregiudizi.
La reazione è stata corale. La scorta di Roberto Saviano non verrà rimossa.
Ma non era questo l’obiettivo di Salvini. Il segnale è arrivato comunque e non solo all’autore di Gomorra. Ora chiunque si senta troppo in vena di criticare, inclusi moltissimi meno visibili e dunque meno protetti di Saviano, sa che ciò non sfuggirà allo sguardo del nuovo alto loco, sente olezzo di editto bulgaro, registra il brutale invito a moderare i toni e a esercitare la debita autocensura.
Prima che intervenga la censura vera e propria. Non è il cambiamento promesso, ma l’eterno ritorno dell’uguale, delle mire censorie, delle allusioni minacciose seguite spesso dagli interventi brutali, che nella politica italiana equivale spesso al peggio.

Corriere 22.6.18
Roberto Saviano L’intervista
«Alimenta l’odio per distrarre, è un clima fetido M5S? Una pena»
di Marco Imarisio


Roberto Saviano, come ci sente ad essere la seconda maggior preoccupazione del ministro dell’Interno?
«In ottima compagnia, dato che la prima sono i migranti. Sono insieme alle persone per le quali vale la pena oggi ancora scrivere e parlare. E se io e i migranti per Matteo Salvini siamo degli obiettivi verso cui canalizzare le peggiori pulsioni, sbaglia chi si sente al riparo. Ieri i migranti, oggi io. Domani toccherà a voi».
Il ministro dell’Interno che attacca uno scrittore è una cosa normale?
«In Italia sembra di sì. Altrove ancora fa scandalo. Ma Salvini mi attacca perché è a capo di un partito di ladri, quasi 50 milioni di euro di rimborsi elettorali rubati. Parla di tutto e se la prende con gli ultimi perché le persone non devono sapere che il suo partito ha rubato allo Stato. Parla alla rabbia di persone ignare del fatto che i primi obiettivi di quegli imbrogli sono loro».
Perché Salvini si occupa di lei proprio ora?
«Salvini sta sparando tutte le sue cartucce che però sono solo parole, aria. Mi spiego: chiudere i porti alle Ong, rendere la vita impossibile agli immigrati che in Italia vivono e lavorano da anni, togliere la scorta a me, come potrà mai migliorare vita ai milioni di italiani di cui la politica continua a non occuparsi?».
Attaccare Saviano è un’arma di distrazione di massa?
«Se io fossi ridotto al silenzio, se tutti i migranti e i rom, per ipotesi, fossero scaraventati sulla Luna, se sparissero gli immigrati con regolare permesso di soggiorno verso cui Salvini sta facendo montare un odio senza pari nella nostra storia, gli italiani veraci, quelli doc, che non hanno lavoro, che lo hanno perso, che usufruiscono di una assistenza sanitaria indecente, quale giovamento ne avrebbero? Gli ospedali di Napoli straripano di italiani. Non ci sono immigrati a occupare letti e italiani sulle barelle. Ma di cosa stiamo parlando?».
Ha ricevuto nuove minacce?
«Le valutazioni sulla mia sicurezza non sono io a farle. La scorta non sono stato io a chiederla».
La «verifica» delle minacce nei suoi confronti rischia di aiutare la camorra, per cui, una volta entrati nel mirino, non se ne esce più?
«Se Salvini vuole chiedere una valutazione di questo tipo, faccia pure. Del resto in un Paese che “vanta” le mafie più pericolose e potenti del mondo è del tutto “naturale” che il ministro dell’Interno invece di contrastare le mafie, voglia ridurre al silenzio chi le racconta».
Come vive oggi?
«Da quasi 12 anni vivo così: se voglio uscire non posso semplicemente chiudermi la porta alle spalle, ma devo avvertire i carabinieri, devo dir loro con chi mi vedo e dove, perché facciano un sopralluogo. Non potrò mai dire a nessuno: “Aspettami, tra 10 minuti sono da te”, perché prima che io possa muovermi passano almeno due ore».
I viaggi?
«Quelli in Italia vanno organizzati tempo prima, perché bisogna allertare le scorte locali. Durante i tour di presentazione dei libri, divento un pacco postale. Mi sposto da un’auto all’altra e conosco decine di carabinieri che mi prendono in consegna quando passo per le loro città. Quando vado all’estero devo comunicare per tempo i miei spostamenti, gli alberghi dove alloggerò, gli incontri pubblici che farò e i ristoranti in cui cenerò. Chi di voi sa esattamente cosa farà quando è in viaggio? Ecco, io devo saperlo. Qualcuno vuol far passare l’idea che tutto questo sia un privilegio. Non ho ancora compiuto 40 anni, vivo così da quando ne avevo 26. Vi assicuro che non c’è nulla di divertente in questa vita».
La sinistra ha sottovalutato la sensibilità delle persone sui migranti e fornito così un assist a Salvini?
«La sinistra — ma quale sinistra poi? — ha piuttosto costruito l’autostrada su cui oggi si muove il carrarmato russo Salvini. La dottrina Minniti sui migranti è stata finale».
Cosa è cambiato dalle sue critiche al governo Berlusconi?
«I tempi cambiano e, talvolta, peggiorano. Nel 2010 l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni pretese uno spazio nella mia trasmissione per leggere l’elenco dei latitanti arrestati. E questo solo perché avevo parlato delle inchieste sulla ‘ndrangheta al Nord e della sua interlocuzione con la Lega, provata poi dall’arresto dell’ex tesoriere Francesco Belsito, dal sequestro dei conti della Lega e dalla truffa milionaria. Si raccolsero firme contro di me, che “davo del mafioso al Nord”. Questo per dire che le cose non peggiorano a caso, ma seguono una loro traiettoria».
Gli attacchi di Salvini sono un riflesso dell’onda social, dove lei raccoglie elogi, ma anche tante critiche?
«I social vanno analizzati in maniera diversa, controintuitiva. Sui social contano i like e le condivisioni più che i commenti. Commenta chi ha rabbia».
La spaventa questo rigurgito di odio che emerge dai social?
«Provo pena. Perché odiando si sta peggio, non meglio».
Brutto clima in Italia per gli intellettuali?
«Fetido, direi. Dobbiamo però essere coesi, o altrimenti rassegnarci a vivere in un Paese dove i ladri hanno licenza di insultare i deboli e gli indifesi, dopo averli derubati. Un’ultima cosa: che pena il M5S, morto al grido di “onesta, onestà!”, e finito a far da stampella a questa banda di ladri».

Repubblica 22.6.18
La replica al vicepremier
Il ministro della malavita smetta di seminare odio
di Roberto Saviano


Ecco il testo integrale del video su Facebook con cui Roberto Saviano ha risposto al ministro Matteo Salvini

E secondo te, Salvini, io sono felice di vivere così da undici anni?
Più di undici anni...
Ho la scorta da quando ho 26 anni, ma pensi di minacciarmi, di intimidirmi.
In questi anni sono stato sotto una pressione enorme, la pressione del clan dei Casalesi, la pressione dei narcos messicani.
Ho più paura a vivere così che a morire così. E quindi, credi che io possa avere paura di te?
Buffone.
Salvini ha come nemici gli immigrati, ha come nemici le persone del sud Italia, insultate un attimo prima di andare, invece, a chiedergli i voti. Ha come nemici i rom, tanto che dice: “Beh, quelli di cittadinanza italiana ce li dobbiamo tenere”.
Sono felice di essere tra i suoi nemici, sono felice di essere sommato tra gli ultimi che odia e su cui fa propaganda politica. Teatro, senza dare alcuna vera risposta. Salvini oggi è definibile “ministro della malavita”, espressione coniata da Gaetano Salvemini. Salvini è stato eletto in Calabria.
Durante un suo comizio a Rosarno, tra le prime fila c’erano uomini della famiglia Pesce, storica famiglia di ‘ndrangheta di Rosarno, affiliati alla famiglia Bellocco, potentissima organizzazione di narcotrafficanti.
Non ha detto niente, da codardo non ha detto niente contro la ‘ndrangheta. Ha detto che Rosarno è conosciuta al mondo per la baraccopoli, che quello è il suo problema, un feudo ‘ndranghetista da decenni.
Questo è Matteo Salvini, che non si ricorda dei legami tra Lega Nord e ‘ndrangheta, del riciclaggio, dei soldi, tramite mediazione di ‘ndrangheta, della Lega Nord.
E quindi Salvini parla di soldi, gli italiani devono sapere come vengono spesi i soldi. Salvini non ci dice dove sono i 50 milioni della maxi-truffa che la Lega ha fatto con i rimborsi elettorali alla Repubblica italiana.
Restituisca la Lega di Salvini i soldi che ha preso e poi il ministro parli del danaro che gli italiani devono sapere come viene speso.
Leggo sui social l’hastag #SavianoNonSiTocca, ringrazio chi mi sta dando solidarietà. Non ho alcuna intenzione di diventare agnello sacrificale. Voglio difendere la mia vita, provare per quello che mi è possibile - a essere felice. Non ho alcuna voglia di diventare un martire, non ho alcuna voglia di morire per dimostrare... cosa? La vita è troppo importante. Oggi bisogna dialogare non con Salvini, bisogna dialogare con chi lo ha votato, con chi lo sostiene.
Bisogna dialogare con chi, come me, in questo momento, si rende conto che la situazione è grave, finale.
Vi prego: davvero volete continuare a dare voce, a sostenere, una figura che non fa null’altro che minacciare, propagandare bugie, armare in tutti i modi odio, disprezzo?
Non è così. Non è questa la nostra Repubblica. Togliamo a Matteo Salvini, togliamo al ministro della malavita la possibilità di continuare ad armare odio, disprezzo, continuare a dire bugie perennemente. Chi non lo fa ora, chi non prende parte ora, sarà colpevole per sempre».

Repubblica 22.6.18
Gli “avvisi” dei Casalesi
Da anni sotto tiro della camorra Perché lo scrittore è sotto tutela
di Conchita Sannino


Roma Nel mirino, sì. Anche se spesso impegnato all’estero. Innanzitutto perché ad indicarlo come bersaglio, addirittura da un’aula di giustizia nel 2008, sono stati i casalesi, il gotha criminale poi decapitato. E perché il tiro brutale contro Roberto Saviano è passato a osservatori, intellettuali e politici: alle cui legittime critiche o taglienti ostilità, va detto, l’autore di Gomorra ha sempre risposto con la stessa moneta. Come ha fatto con Salvini, ieri, nel surreale scontro rilanciato dal ministro dell’Interno.
Parole su cui a sera arriva la severa bocciatura di una toga d’assalto vicina al M5S, il pm antimafia Nino Di Matteo. « Mi sarei aspettato che questioni così delicate fossero trattate dagli organi competenti. Chi ricopre cariche istituzionali dovrebbe conoscere bene la mentalità dei mafiosi in modo da evitare che certe dichiarazioni siano interpretate come un segnale di indebolimento », avverte il magistrato. «In terra di mafia molti di quelli che erano scortati sono morti - ammonisce- E’ un paese che non può perdere la memoria. Spero che questo governo decida di considerare la lotta alla mafia una priorità».
L’autore considerato narratore- simbolo dell’Italia inquinata dalle mafie oggi arriva alle manifestazioni pubbliche con 3 blindate e 7 e carabinieri (nei giorni “ordinari” diventano 2 auto e 5 militari). Ma, dietro, c’è un dossier lungo dodici anni.
Comincia tutto con un volantino: pistola alla tempia di Saviano e la scritta “Condannato”. È il 2006, dopo l’uscita del bestseller. A settembre, l’autore è in piazza a Casal di Principe, lancia accuse sul clan: alla fine dell’intervento, gli organizzatori decidono di accompagnarlo, il malumore è palpabile. Nell’ottobre 2006 scatta la scorta, basso livello. L’anno dopo, lo scrittore torna a Casale: e stavolta si trova in piazza il padre del boss Francesco Schiavone (oggi ergastolano), Nicola. Che lo affronta: «Qui a Casale ci sono gli uomini, non come te, fai bene il tuo lavoro».
Nel 2008, il pentito Carmine Schiavone svela l’idea di un attentato al tritolo contro Saviano, poi ritratta, conferma però che i casalesi lo vogliono morto. Ma la vicenda più allarmante si consuma durante il processo d’appello di Spartacus: Saviano è messo all’indice platealmente.
Scatta l’istanza di rimessione, testo che i giudici di primo grado riconosceranno carico di “ capacità intimidatoria”: quella lettera ha nel mirino Saviano, oltre alla cronista Rosaria Capacchione e i magistrati Federico Cafiero de Raho e Raffaele Cantone, considerati responsabili di un clima di pressione sfavorevole ai padrini imputati. E a leggerla è l’ex difensore del padrino del clan Francesco Bidognetti, l’avvocato Michele Santonastaso.
Il legale sarà condannato nel 2014, in primo grado, a un anno di carcere per le minacce a Saviano - mentre ne escono assolti i boss Antonio Iovine e Francesco Bidognetti. Ma è un pronunciamento poi cancellato in appello: i giudici rimandano per competenza gli atti a Roma, dove incombe la prescrizione.
È lo stesso Santonastaso a cui vengono poi inflitti undici anni di carcere per associazione mafiosa. Episodi rimasti quindi o anonimi o impuniti. E un avvocato ritenuto organico alle strategie della cosca. Quella che tra i suoi nemici, piaccia o no, conta anche Saviano.

Repubblica 22.6.18
Salman Rushdie

“Eroe del pensiero libero”
Scrittore minacciato di morte
Salman Rushdie fu colpito da una “fatwa” di Khomeini per il libro “I versi satanici”
«È estremamente preoccupante sapere che il nuovo Ministro dell’Interno italiano sta valutando la possibilità di togliere le guardie del corpo a Roberto Saviano.
A mio parere è vitale che il signor Saviano continui a ricevere protezione finché la minaccia contro la sua vita continua ad essere così grave.
Spero che le autorità italiane continueranno a offrire questa protezione a un uomo che io e molti altri consideriamo un ottimo scrittore e un eroe della libertà di espressione »

il manifesto 22.6.18
In mare l’illegale è Salvini
Immigrazione. Anche senza l’Aquarius le navi delle ong continuano le operazioni di soccorso. Il direttore di Open Arms denuncia la politica italiana e gli accordi criminali con la Libia
di Òscar Camps


Non abbiamo la pretesa di cambiare il mondo, neppure di sradicare tutte le ingiustizie del pianeta, ma solo di fare ciò che è nelle nostre possibilità per evitare che gente innocente muoia annegata nel Mediterraneo.
Noi, che siamo soccorritori e soccorritrici, non potevamo continuare a lavorare nelle spiagge piene di turisti e sapere, al tempo stesso, che il nostro mare si stava trasformando in una macabra fossa comune a causa della politica ipocrita degli stati europei, apparentemente inarrestabili nella loro ossessione di far diventare l’Europa una fortezza.
La decisione del governo italiano di chiudere i suoi porti all’Aquarius e al resto delle navi di salvataggio umanitario è illegale e avrà, come conseguenza, l’aumento delle morti nel Mediterraneo.
Più morti, e nient’altro che questo: perché, in mare, le cose sono o bianche o nere, pochi minuti separano la vita dalla morte.
In alto mare le precarie imbarcazioni sovraccariche di persone sono un’emergenza e, davanti a un’emergenza, non vi è altra priorità che salvare vite ed evitare di metterne in pericolo altre. Questo, semplicemente, è ciò che facciamo noi organizzazioni di salvataggio, nonostante molti sembrino augurarsi che tutte queste persone vengano inghiottite dal mare, senza lasciarne traccia.
CON L’AQUARIUS condannata alla sua infinita Via Crucis nel Mediterraneo e con l’Open Arms in cantiere in Spagna per riparazioni sono solo due le navi umanitarie rimaste nella zona dei soccorsi di fronte alle coste libiche: la SeeFuchs e la Lifeline. Il ministro degli interni Italiano di estrema destra Matteo Salvini ha, di fatto, già avvertito che non permetterà a queste navi lo sbarco in Italia.
Navi mercantili che transitano nella stessa zona, non preparate a mettere in atto operazioni di salvataggio così complicate, hanno soccorso più di 500 persone. Nessuno sa quante ne siano annegate senza lasciare traccia.
Tutti e tutte sappiamo che ciò che è accaduto all’Aquarius non dovrebbe ripetersi.
In primo luogo perché nessun essere umano si merita tale trattamento disumano: dopo mesi passati da vittime di ogni tipo di abuso e tortura in Libia, 629 persone, inclusi minorenni, hanno dovuto sopportare sette giorni di navigazione in penose condizioni per riuscire ad attraversare metà del Mediterraneo, con onde di quattro metri, a bordo di navi che sono equipaggiate per accogliere i naufraghi solamente per poche ore.
Per caso, avete dei dubbi che tutto ciò sarebbe stato classificato come inammissibile, se si fosse trattato di cittadini e cittadine europee?
In secondo luogo, durante tutto questo tempo ci è stato impedito di fare ciò che avremmo dovuto fare: salvare vite in concreto e reale pericolo di morte. E questo oltretutto, oltre che inumano, è un assurdo spreco di denaro: il costo di questi giorni di traversata (migliaia di euro al giorno) non può essere sopportato dalle Ong che si dedicano a salvare vite nel mare.
Infine, anche mettendo da parte le considerazioni etiche e morali, la decisione del governo italiano di chiudere i porti alle navi umanitarie è illegale.
SECONDO IL DIRITTO marittimo internazionale – che ovviamente non fa distinzione tra navi umanitarie, commerciali o militari – l’Italia aveva il chiaro obbligo di offrire un porto sicuro all’interno del proprio territorio. Il ricatto  messo in atto sulla pelle di 629 naufraghi e naufraghe è inammissibile e crea un pericoloso precedente nel Mediterraneo e nell’Unione Europea che ne è altrettanto responsabile. Tutte e tutti inoltre sappiamo che la nuova idea di stabilire porti di sbarco al di fuori del territorio europeo contribuirà solo a peggiorare le cose.
È inoltre illegale l’appoggio alla autoproclamatasi «guardia costiera» di Tripoli – istruita, rifornita e finanziata dal precedente governo italiano – che non risponde a nessun governo eletto e che è stata protagonista di gravissime azioni che hanno causato morti nel mare, oltre a minacciare a suon di armi da fuoco i nostri equipaggi in più di una occasione.
Ogni volta che dall’Italia si «coordina» un’azione di questi gruppi armati nel mare si commette un’ulteriore illegalità: un respingimento collettivo che obbliga persone che potenzialmente sono rifugiate a essere riportate in luoghi nei quali la vita umana è in pericolo.
Ciò è stato dichiarato dall’Onu e dagli stessi giudici italiani che, dopo tre anni di indagini contro le Ong di soccorso in mare da parte del procuratore siciliano Carmelo Zuccaro, hanno stabilito che la nostra attività non contribuisce ad aumentare l’immigrazione illegale.
SALVINI HA INTENZIONE di visitare Tripoli con l’obiettivo di rafforzare gli accordi con la Libia. In parole povere, per poter contrattare la vigilanza delle frontiere europee con personaggi che non hanno alcun tipo di scrupolo e per le quali la vita delle persone più vulnerabili non ha valore alcuno.
Per questi motivi, ritorniamo in zona di soccorso a mettere in atto ciò che abbiamo imparato a fare di fronte al disinteresse degli stati europei: andare dove vi sono vite in pericolo per cercare di evitare che il nostro mare continui a inghiottire donne, uomini, bambini e bambine. E anche per far sì che, mentre la barbarie continua, almeno ci sia qualcuno che la possa raccontare.
* l’autore è fondatore e direttore della ong Proactiva Open Arms. Questo articolo è pubblicato su il manifesto e su El Pais

il manifesto 22.6.18
Linea dura Italia, è il turno della Lifeline: «In porto solo se vuota»
Arrestiamo umani. Dopo l’Aquarius, un nuovo caso agita le acque. «I migranti se li prendano Malta e Libia, poi sequestriamo l’imbarcazione»
A bordo della Lifeline
di Alfredo Marsala


Questa volta la prova di forza del ministro Salvini, che voleva spedire in Olanda la nave Lifeline della ong tedesca con 224 migranti a bordo salvati al largo della Libia, non è riuscita. Per ore l’imbarcazione è stata costretta a fermarsi in mare perché l’Italia, come aveva fatto con l’Aquarius di Msf poi scortata fino a Valencia per l’intervento della Spagna, non aveva concesso un porto sicuro per l’approdo, chiedendo ai Paesi bassi di farsi carico della nave: «Questo carico di esseri umani ve lo portate in Olanda, fate il giro un po’ largo», le parole sprezzanti del vice premier. Ma Amsterdam ha chiuso subito il dialogo comunicando al Viminale che Lifeline, anche se battente bandiera olandese, non è riconosciuta dal loro Paese.
UN RIMPALLO di competenze con le diplomazie insofferenti, mentre la ong tedesca invitava le autorità competenti «a reagire rapidamente in funzione del loro obbligo di designare un luogo di sicurezza», richiamando «il diritto internazionale».
Con Salvini sugli scudi a difesa della linea intransigente, a farsi carico dello stallo che si stava consumando ancora una volta sulla pelle dei migranti soccorsi c’ha pensato il ministro 5stelle per le Infrastrutture. «Nonostante siamo in mare libico ci assumiamo noi la responsabilità di portarli sulle navi della nostra Guardia costiera, la nave la porteremo in Italia dove dovrà fermarsi, perché la sequestreremo: è una nave apolide che non può navigare in acque internazionali».
POCO DOPO era il Viminale ad annunciare una modifica sostanziale alla soluzione indicata da Danilo Toninelli: della prima accoglienza dei migranti a bordo della Lifeline dovranno farsi carico Malta e Libia, a quel punto, una volta svuotata, la nave potrà attraccare in un porto italiano – ma sempre per essere posta sotto sequestro.
Stessa sorte si prospetta per un’altra nave, la Seefuchs, che non è intervenuta in questa operazione, ma per la quale l’Olanda, sostiene il ministro Toninelli, «ha affermato di non avere elementi sufficienti per dire che è registrata da loro». «Noi – aggiunge l’esponente 5stelle – siamo per il salvataggio delle vite, ma in sicurezza e legalità, prima di qualsiasi ideologia. È da irresponsabili trovarsi in mare libico a incentivare le partenze dei barconi della morte e poi non avere competenze e caratteristiche tecniche per intervenire».
Ma la ong Lifeline contesta le parole del ministro. La nave, spiegano i responsabili, era «il mezzo più attrezzato per soccorrere i migranti, bisognava dare una risposta immediata al naufragio». Anche perché, denuncia la ong, «le navi della guardia costiera libica intervenute nella zona del naufragio dei gommoni, non sono dotate di sufficienti attrezzature, come i giubbotti di salvataggio, e a bordo non c’è personale medico».
«Abbiamo ripetutamente chiesto agli stati europei di assumersi le proprie responsabilità e di inviare risorse – accusa la ong – ma non è successo nulla. Per cui il nostro equipaggio non aveva altra possibilità che quella di fare il proprio dovere, perfettamente in linea con il diritto internazionale».
LA ONG ESORTA I GOVERNI europei «a non violare il principio del salvataggio in mare a causa delle tensioni tra stati in materia di sbarco», perché «il momento per discutere la solidarietà europea non è quando le imbarcazioni con le persone in difficoltà arrivano nelle coste dell’Unione europea», ma «la priorità assoluta deve essere quella di offrire loro un accesso immediato al porto più sicuro». Mission Lifeline, secondo quanto si legge nel sito della ong tedesca, è stata costituita nel maggio del 2016.
A SETTEMBRE di quell’anno ha comprato per 200 mila euro la nave che porta il suo nome: 32 metri di lunghezza, 8 di larghezza, bandiera olandese. Lo scafo fu completato nel 1968 nel cantiere navale Hall, Russell & Company ad Aberdeen. In origine era un peschereccio utilizzato come nave da ricerca per l’industria della pesca britannica. Nel 2015 l’acquistò la ong Sea-Watch e la trasferì ad Amburgo, dove nei cantieri navali di Pella Sieta fu convertita in scialuppa di salvataggio. Ribattezzata Sea Watch 2, a marzo del 2016 fu trasferita a Malta per essere operativa del Mediterraneo. Nel 2016 l’acquisto da parte di Mission Lifeline.

il manifesto 22.6.18
Ada Colau: «Dobbiamo creare un fronte comune contro la barbarie»
Restiamo umani. Intervista alla sindaca di Barcellona, a Bologna per due giorni «Affondare le paure, non le navi cariche di esseri umani»
di Beppe Caccia


Ada Colau è ripartita ieri pomeriggio da Bologna dopo un’intensa due giorni nel capoluogo emiliano. Mercoledì pomeriggio ha partecipato alla manifestazione «per i diritti di tutte e tutti» promossa dai centri sociali Tpo e Labás e dalle associazioni dei migranti. Alla sera si è confrontata nel cortile di palazzo D’Accursio con 500 persone in un’assemblea pubblica, organizzata dalla Fondazione per l’innovazione urbana, recentemente creata da Comune e Università di Bologna e presieduta da Raffaele Laudani, proprio con l’obiettivo di sviluppare più avanzate pratiche di democrazia locale.
Ieri si è incontrata col sindaco Virginio Merola e l’assessore Matteo Lepore, per discutere future collaborazioni tra le due città; e ha voluto visitare la Biblioteca delle Donne e l’hub dei richiedenti asilo di via Mattei. In mezzo a tutto questo non è mancato lo scambio con Coalizione Civica, esperienza politica «sorella» di Barcelona en Comú.
Questo viaggio in Italia cade in un momento politico particolare, in cui il nostro paese sembra essere diventato il «laboratorio politico» del nazional-populismo …
Non possiamo tollerare che nelle istituzioni ci siano persone che dicono cose inumane, come abbandonare i migranti in mare o discriminare le persone sulla base della loro etnia. In queste ore sembra che la scena sia occupata solo da Trump e Salvini. Hanno in comune il fatto di sfruttare il loro potere per creare tensioni sociali ed estrarne una rendita politica. Disumanizzano l’altro, criminalizzano il differente, perché non vogliono che ci identifichiamo con il suo dolore. Sono gli esponenti di un discorso dell’odio che vuole penetrare nei cuori e nelle menti delle società occidentali. Non possiamo permetterglielo. Che cosa possiamo fare? Unirci. Non lasciarci intimidire dalle paure prefabbricate. Non per «buonismo», ma per umanità e razionalità, dobbiamo creare un grande fronte comune contro la loro barbarie. Dobbiamo affondare le paure che sfruttano, non le navi cariche di esseri umani che, prima di ogni altra cosa, devono essere salvati e accolti.
Colpisce, proprio in queste ore, il fatto che siano i sindaci di molte città europee a far sentire con più forza e chiarezza la loro voce, per l’apertura dei porti e la creazione di canali umanitari, andando spesso a riempire un vuoto d’iniziativa politica.
Voglio ricordare come a Barcellona, fin dal primo giorno, ci siamo definiti come città-rifugio. Non ci possono essere cose più importanti che difendere la vita. Questo significa affrontare un conflitto, in un contesto difficile, contro i governi di destra, e le loro misure razziste di chiusura delle frontiere, in materia di permessi di soggiorno, di regolarizzazione, di riconoscimento del diritto di asilo. Contro i centri detentivi, vero e proprio buco nero dei diritti umani, che hanno realizzato o vogliono realizzare. Stiamo accogliendo migliaia di persone, garantendo loro i servizi fondamentali, per «hackerare» le politiche razziste degli stati. Questo è parte essenziale del nostro fare una politica diversa, non «in nome delle persone», ma facendo in modo che le persone siano protagoniste. Perciò la nostra proposta non poteva che essere municipalista, partire dalla prossimità, dal quotidiano. Abbiamo deciso di fare politica nella città, nel luogo della comunità, dove prossimo condividere e aiutarci reciprocamente, per cambiare nel concreto la vita di ciascuna e ciascuno. Le città sono lo spazio cruciale della politica di questo secolo. Forse gli Stati nazionali lo sono stati nel secolo scorso, ma adesso la loro storia è finita.
Avete vinto le elezioni nel maggio 2015 e manca ormai meno di un anno alla fine del vostro mandato, in Spagna si voterà insieme per il rinnovo del Parlamento europeo e delle Amministrazioni locali nel maggio 2019. È forse tempo di un primo bilancio?
Abbiamo fatto una cosa che sembrava impossibile. Dai movimenti sociali abbiamo provato a recuperare le istituzioni e ripensare la politica. Non bisogna banalizzare la democrazia formale, ottenerla è costato tantissimo, ma ha ormai raggiunto il suo limite e bisogna rigenerarla. In questi tre anni non solo stiamo dimostrando di gestire meglio le cose: abbiamo un Comune più trasparente e partecipativo, che ha messo al primo posto le persone e i loro diritti sociali. Ma non volevamo solo sostituire quelli che c’erano prima, volevamo proprio cambiare la politica. Siamo la prima Giunta che si definisce femminista, perché il nostro orizzonte è «femminilizzare la politica». C’è una questione di giustizia di genere, e una strutturale violenza patriarcale da sconfiggere, certo. Ma facciamo delle politiche che diano più potere alle donne, perché vogliamo una città più libera e più felice, per noi donne ma anche per gli uomini.
Negli incontri a Bologna ha insistito sulla necessità di sviluppare relazioni orizzontali, vere e proprie «reti di città», non solo di sindaci e di amministrazioni, capaci di essere attori protagonisti del cambiamento su scala transnazionale.
L’Europa è a un momento decisivo della sua storia, deve decidere che cosa fare, se dissolversi e fallire o rinascere e reinventarsi. Tutto è aperto, se ci impegniamo possiamo rifare l’Europa dal basso e farla diventare spazio di diritti e dignità. Torno sulle paure: l’errore delle sinistre tradizionali è non aver guardato le paure negli occhi, far finta che non ci fossero. Ci sono paure ragionevoli e legittime, ad esempio quella di non riuscire a garantire ai propri figli un futuro migliore. Bisogna nominarle. E cercare insieme le soluzioni. Le città sono lo spazio dove affrontarle, perché sono lo spazio dove l’altro non è uno sconosciuto, disumanizzato, è il mio vicino e la mia vicina. Possiamo trasformare qui le paure in speranze. Abbiamo una responsabilità enorme, di esercitare la speranza nelle nostre città, ricostruendo la politica democratica dal basso, femminilizzarla, cooperare. E fare della politica uno spazio di vita, non di crudeltà, competizione e sopraffazione.

Il Fatto 22.6.18
Nessuno è nemico del pd quanto il pd
di Andrea Scanzi


Secondo gli ultimi sondaggi, Lega e 5 Stelle raccolgono poco meno del 60% dell’elettorato italiano. Più o meno la stessa cifra del gradimento nei confronti di Conte. Lo spostamento a destra del governo giallo-verde potrebbe aprire praterie a sinistra, che è invece sempre più in crisi. Potere al popolo grida sui social ma non sfonda nella vita reale. LeU esiste solo nei sogni migliori della Boldrini. E il Pd agonizza con agio atarassico, continuando a sbagliare tutto.
– Aereo di Stato. Conte parte per il Canada e i renziani gridano che è come Renzi: “Altro che lotta alla casta!”. Peccato che Conte non abbia mai usato il Renzi Air Force One, bensì il volo di Stato per risparmiare: se avesse usato quelli di linea, avrebbe speso di più.
– Asilo Mariuccia. Non c’è nulla in natura più vuoto del renzismo. Era così anche quando questa categoria del pensiero del nulla vinceva. Figuriamoci ora che perde. Semplicemente leggendarie le continue risse sui social. Per esempio Anna Ascani che attacca Francesco Nicodemo, in una tenera faida tra pretoriani in disarmo. Di pregio anche lo scazzo tra Calenda e Boccia, col primo che tratta il secondo da dissestato neuronale e poi dice come nulla fosse che il Pd sbaglia a stare sempre sui social a criticare Salvini. Ovvero quel che fa ogni giorno Calenda, il cui bipolarismo politico è sempre più in gran spolvero.
– Il tenero Orlando. Orlando, non proprio uno scapigliato, è arrivato a dire che il Pd non esiste più e quando esiste (al Sud) sarebbe quasi meglio che non esistesse. L’ex ministro della Giustizia è tra i pochi che cercano di elaborare il lutto. Il guaio è che quasi tutti i suoi colleghi non si sono neanche accorti del trapasso.
– Dagli a Casalino. Grandi polemiche per Casalino che porta via Conte, per non farlo rispondere ai giornalisti in Canada. Sdegno trasversale. Okay. Però, quando lo faceva Sensi con Renzi, si trattava di un’abile mossa del “Richelieu di Matteo”.
– “Dovete riferire in aula”. Ogni volta che capita qualcosa, Renzi o un suo emissario dicono che “il ministro deve riferire in aula”. Prima era la Trenta, poi Bonafede. Poi sarà la volta di Mandrake. Tanto per buttare la palla in tribuna e vedere l’effetto che fa.
– Il terribile Parnasi. Parnasi è stato scelto dalle giunte Marino e Zingaretti, gli unici politici in galera sono di Pd e Forza Italia. E da Parnasi han preso soldi praticamente tutti, a partire dal Pd, tranne i 5Stelle. Ma il Pd attacca i 5Stelle su Parnasi. È bellissimo.
– “Che vergogna chiudere i porti”. Ovvero quello che voleva fare Minniti, ministro Pd, e poi non ha fatto per mancanza di coraggio e presenza di Delrio.
– “Che brava la Spagna!”. Quella stessa Spagna che spara ai migranti e prende molti meno migranti dell’Italia. Ma di colpo diventa il Bengodi, se va contro il governo.
– “Salvini è un bullo”. Che è anche vero, ma se lo dice Renzi, la quintessenza del bullo che non ce l’ha fatta, allora viene da ridere. O da piangere.
– Gli stessi in tivù. Dopo il disastro del 4 marzo, il Pd manda ancora in tivù i Migliore e Romano, al cui confronto Fedriga è Churchill. Nessuno invita a non votare il Pd come il Pd.
– Lo zimbellamento di Conte. Il Pd ha trattato sin dall’inizio Conte neanche fosse il Poro Asciugamano. Ovviamente ha fatto il gioco di Conte, che senza strafare si sta rivelando una sorta di Gentiloni più sbarazzino: un democristiano rassicurante, perfetto per piacere a un elettorato stanco e disilluso.
– Renzi Tafazzi. Renzi è il più grande grillo-leghista inconsapevole della galassia. Se il Pd vuole rinascere, deve nasconderlo e non farlo vedere mai più a nessuno. Un’idea carina sarebbe rinchiuderlo nel bar di Rignano, dove potrebbe ricordare i bei tempi sorseggiando gazzosa con Lotti e mordicchiando liquirizia con Bonifazi. Alti livelli.

Il Fatto 22.6.18
Tolta la scorta a Ingroia. Di Matteo: “È in pericolo”
Sorpresa - A maggio il Viminale ha comunicato all’ex pm, “condannato a morte” da Cosa Nostra, che ora non è più “a rischio”. Lui ha risposto, per lasciar traccia del suo dissenso
Allievo di Falcone e Borsellino, Ingroia è stato per vent’anni pm a Palermo
di Gianni Barbacetto

Il magistrato Nino Di Matteo pesa le parole: “La mafia e i potenti che colludono con la mafia non dimenticano”. Eppure – annuncia in una manifestazione pubblica a Milano – lo Stato ha deciso di togliere la scorta ad Antonio Ingroia. Ora avvocato, già giovane collaboratore di Paolo Borsellino, Ingroia è stato il pm palermitano che ha avviato le indagini sulla trattativa tra Stato e mafia, poi portate a processo da Di Matteo, il quale il 20 aprile 2018 ha ottenuto la condanna in primo grado di uomini delle istituzioni come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, di boss di Cosa nostra come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà e del “mediatore” Marcello Dell’Utri.
“Possono passare gli anni, ma Cosa Nostra non dimentica”, gli fa eco Francesco Del Bene, con lui pm in quel processo, “la revoca della protezione a Ingroia fa orrore”. E il sociologo Nando dalla Chiesa, sul palco della Camera del Lavoro milanese insieme a Di Matteo e Del Bene, aggiunge: “Sembra che sotto la decisione burocratica di revocare la scorta a Ingroia ci sia una rappresaglia nei confronti di un magistrato che ha dato fastidio”.
I fatti. Un paio di settimane dopo la sentenza sulla trattativa, agli inizi di maggio, a Ingroia arriva una lettera del prefetto di Palermo. Con linguaggio burocratico gli comunica che, d’intesa con il prefetto di Roma, l’Ucis, l’ufficio centrale interforze per la sicurezza personale, ha valutato che non esiste più per lui “una concreta e attuale esposizione a pericoli o minacce”, dunque gli viene revocata la protezione.
L’ex magistrato ha la scorta dal 1991, quando lavorava a fianco di Borsellino, dunque da 27 anni. Nel tempo è più volte cambiata l’intensità della protezione, passando dal secondo al quarto livello di rischio. Negli ultimi anni si era ridotta a soli due uomini che lo scortavano però in tutti i suoi spostamenti.
Un paio di giorni dopo la lettera del prefetto di Palermo, come annunciato, la scorta scompare. Il 16 maggio Ingroia scrive all’allora ministro dell’Interno del governo di Paolo Gentiloni, Marco Minniti, e al capo della Polizia, Franco Gabrielli.
L’ex magistrato non contesta la scelta dell’Ufficio interforze, non discute la decisione presa dagli organi che hanno la competenza – ma anche la responsabilità – di quella scelta, ci tiene però a lasciare traccia scritta che non solo è rimasto sorpreso dalla decisione, ma anche che non la condivide. Sia chiaro, a futura memoria, che non c’è stato il suo assenso alla sospensione della protezione. Perché alcuni segnali di pericolo restano a suo avviso attuali.
Ci sono anni di indagini a Palermo su Cosa nostra, che Cosa nostra non dimentica. E ci sono fatti più recenti. Totò Riina, intercettato in carcere prima della sua morte, ha definito Ingroia “il re dei cornuti”, mentre raccontava al suo interlocutore la condanna a morte decretata per Di Matteo. Un collaboratore di giustizia, Marco Marino, ha riferito al procuratore aggiunto di Reggio Calabria Giuseppe Lombardo, impegnato nel processo che potrebbe essere chiamato “Trattativa 2”, sulla partecipazione delle cosche calabresi alla strategia stragista, che Cosa nostra e la ’ndrangheta avevano insieme condannato a morte Ingroia con il proposito di farlo saltare in aria con venti chili di esplosivo. L’attentato non c’è stato, ma i mafiosi, si sa, difficilmente revocano le condanne a morte. Un altro “pentito”, Carmelo D’Amico, ha riferito che nel 2015 anche i servizi segreti ce l’avevano con Ingroia e Di Matteo.
C’è il passato di magistrato a mettere in pericolo Ingroia, ma anche il presente di avvocato di parte civile e difensore di collaboratori di giustizia in processi di mafia in corso. Come quello per l’uccisione di due carabinieri, Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, uccisi nel 1994. Ai suoi numeri arrivano di tanto in tanto misteriose telefonate mute. Ancor più inquietante una telefonata parlante, invece, fatta allo studio di Ingroia da una delle figlie di Totò Riina che chiedeva con insistenza di parlare personalmente con l’ex magistrato.
Il ministro uscente Minniti passa la palla al capo della polizia e al nuovo governo. A questo punto Ingroia manda una lettera, il 4 giugno, al nuovo ministro dell’Interno Matteo Salvini. Una ulteriore, datata 21 giugno, la invia a Salvini e al suo sottosegretario Carlo Sibilia, del Movimento 5 stelle. Chiede di essere ricevuto per spiegare di persona. Nessuna risposta. Una concessione però gli viene fatta, gli viene assegnata una “protezione di vigilanza dinamica a orari convenuti”: se comunica per tempo via email quando esce di casa, per quell’ora arriva un’auto della polizia che si piazza sotto casa. Una protezione ritenuta dagli esperti del tutto inefficace, in presenza di pericoli seri.
“Ci sono personaggi della politica che restano sotto scorta”, ricorda Nino Di Matteo, “e alcuni da anni non hanno più alcun ruolo pubblico. Ingroia invece è lasciato senza protezione”. I nomi non li fa, ma non sono difficili da ricostruire: Maria Elena Boschi, Massimo D’Alema, Nichi Vendola e tanti altri girano protetti. Antonio Ingroia, colui che ha dato il via alle indagini sui rapporti incestuosi tra mafia e Stato, è invece lasciato solo.

Il Fatto 22.6.18
Il governo chiarisca: il male peggiore è l’isolamento
Niente cortine burocratiche: come per Saviano, la prima esigenza è il rigore
Il governo chiarisca: il male peggiore è l’isolamento
di Gian Carlo Caselli


Nino Di Matteo, in un incontro organizzato da Nando dalla Chiesa, ha rivelato fatti assai rilevanti che hanno di recente riguardato Antonio Ingroia. L’intervento di Di Matteo è raccontato su questo giornale da Gianni Barbacetto. In sintesi si tratta delle modalità con cui è stato soppresso il servizio di scorta imposto ad Ingroia per anni per ragioni di sicurezza.
Va subito detto che questi fatti non erano (per quanto ne so) pubblici. Segno che Ingroia, nonostante la difficile situazione, ha comunque saputo dimostrare riserbo e rispetto istituzionali. Cosa non da poco di questi tempi, caratterizzati da intemperanze e atteggiamenti oltranzisti e arroganti, tenuti per di più con euforica allegria.
Tutti dovrebbero sapere, nel nostro paese, chi è stato Ingroia. Ma siccome noi soffriamo spesso di amnesia, conviene ricordarlo. Magistrato operante sul versante antimafia prima a Marsala e poi per oltre vent’anni a Palermo, allievo di Borsellino e Falcone, dopo le stragi del 1992 (il selvaggio attacco di Cosa nostra al cuore dello Stato) Ingroia – come magistrato della Procura di Palermo – è stato uno dei protagonisti del riscatto dello Stato. Un componente della “squadra” che (con la collaborazione di altre forze, quelle di polizia giudiziaria in particolare) nel rispetto assoluto delle regole seppe fare “resistenza” al tentativo feroce della mafia di trasformare la democrazia in poltiglia. Ha condotto numerosi importanti processi su un’infinità di mafiosi “doc” appartenenti all’ala militare di Cosa nostra, ma anche processi sul lato oscuro quanto nevralgico, dei rapporti della criminalità con pezzi del potere legale. Un elenco completo sarebbe lunghissimo, quindi impossibile in questa sede, per cui ricordo solo alcuni casi: Bruno Contrada, Marcello dell’Utri e via via fino al processo sulla “trattativa Stato-mafia”, di recente conclusosi con sentenze di condanna in primo grado. Quanto basta, comunque, per comprendere come Ingroia – per il suo lavoro – sia stimato e apprezzato da tanti (innanzitutto quelli che come me hanno avuto l’opportunità di lavorare con lui), ma anche odiato e osteggiato da tantissimi altri, fino al punto di divenire spesso bersaglio di attacchi ingiusti e di infami campagne diffamatorie.
Nella intervista del 10 agosto 1982 (rilasciata a Giorgio Bocca da Carlo Alberto dalla Chiesa, pochi giorni prima di essere ucciso dalla mafia, il 3 settembre a Palermo), il prefetto antimafia ebbe tra le altre cose a dire: “Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”.
Ecco, Ingroia ha lasciato la magistratura, per cui (anche ammesso che l’appartenenza a questa categoria conferisca davvero “potenza” e che Ingroia sia stato fra i “potenti”) ora “potente” non lo è più. Ma in questo momento, proprio a seguito degli avvenimenti riferiti da Di Matteo e Barbacetto, egli mi sembra – oltre che ancora esposto a pericolo – assai isolato. L’ammonimento di Dalla Chiesa non va quindi sottovalutato. Spero che il “governo del Cambiamento” voglia riconsiderare con scrupolo – senza trincerarsi dietro cortine burocratiche – la vicenda (nata nella passata legislatura), spiegando bene all’opinione pubblica le sue scelte. La stessa esigenza di rigore che si coglie perché sia cancellato ogni dubbio di logiche un po’ di bottega nel caso – inopinatamente sollevato in Tv – della scorta di Saviano.

Corriere 22.6.18
Da Forza Italia alla Lega, è cominciato il grande esodo
Le regole di Salvini: no a parlamentari e a big del Nord. Interesse per Fitto
di Tommaso Labate


ROMA «I parlamentari di Forza Italia che vogliono passare nella Lega sono molti di più di una decina». Sono settimane che parte della memoria del telefonino di Giancarlo Giorgetti è destinata ai messaggini dei tanti berlusconiani che gli chiedono un passe-partout per la maggioranza. Peones idealmente con la valigia in mano, che ad abbandonare Forza Italia per convertirsi alla causa di Matteo Salvini ci metterebbero meno di un minuto. Eppure c’è un motivo se, alle confidenze del sottosegretario a Palazzo Chigi, non è seguita tra gli azzurri quella «caccia al traditore» che in altri tempi sarebbe scattata all’instante. Anzi, due. Il primo è che «la Lega — come il suo leader ha ribadito a Berlusconi anche durante l’ultimo incontro ad Arcore — non ha alcuna intenzione né alcun interesse a prendere in casa parlamentari non nostri». Il secondo è che la mastodontica transumanza da Forza Italia alla Lega è un «piano nazionale» che va realizzato lentamente, pezzo dopo pezzo, senza dare nell’occhio, seguendo regole e schemi che a via Bellerio hanno già messo a punto.
Tanto per cominciare, salvo rare eccezioni, non sarà accolto nel Carroccio nessun consigliere regionale forzista lombardo, veneto o ligure. Il Nord, e soprattutto le regioni in cui Salvini e Berlusconi governano insieme, è retto da una specie di «equilibrio di Yalta» e romperlo sarebbe più complicato che utile. «Nessuno di noi vuole colpire il Cavaliere», ripete Giorgetti a ogni pie’ sospinto. E sottrargli persone nel vecchio cuore pulsante del berlusconismo sarebbe un affronto troppo grande.
La «transumanza» va organizzata altrove, perché altrove è più utile all’obiettivo. E lo scopo sono le Europee dell’anno prossimo, quelle in cui il consenso nazionale della Lega — sorpasso sul M5S compreso — può uscire dai sondaggi per approdare nella realtà. Sono elezioni con le preferenze, quindi servono politici coi voti. Come Raffaele Fitto, poi uscito da Forza Italia, parlamentare europeo che punta a una riconferma. Tra i salviniani c’è chi lo candiderebbe immediatamente, anche se la disponibilità dell’ex ministro e governatore sarebbe tutta da verificare. Più agevole, invece, il territorio campano. Dove l’eterna guerra civile forzista sul territorio potrebbe portare presto tra le braccia di Salvini il potente consigliere regionale Gianpiero Zinzi, figlio di Domenico, già presidente della provincia di Caserta.
In Abruzzo, dove per le Regionali si vota entro la fine dell’anno, il fuggi fuggi solo andata da Forza Italia alla Lega, nei Comuni, è praticamente quotidiano. Ed è culminato nel passaggio ai salviniani del potente mister preferenze della Marsica Antonio Morgante. Un’operazione di rafforzamento che consentirebbe ai leghisti di imporre la nomination a governatore di Fabrizio Di Stefano, un ex deputato berlusconiano in rotta con Forza Italia. Se l’operazione andasse in porto, e lo si capirà presto, Di Stefano potrebbe diventare a stretto giro il primo «leghista» (anche se con le virgolette) a guidare una regione del centro-sud.
Perché la più clamorosa delle migrazioni da un partito all’altro all’interno di una coalizione sta avvenendo così, quasi in silenzio, con nomi poco noti a livello nazionale. A fari spenti, com’è stato il sorpasso del 4 marzo. E se mai qualcuno cercasse l’inizio di questa storia, allora bisognerebbe intercettare le brevi dei quotidiani locali calabresi del 28 febbraio scorso. Quando mancavano pochi giorni al voto, Enzo Cusato e Giusi Zungri — due consiglieri comunali forzisti di Rosarno, che poi sarebbe diventata il luogo di elezione di Salvini al Senato — annunciarono a sorpresa il passaggio al Carroccio. Come quel personaggio del Capitale umano di Virzì: scommettendo su un fallimento, quello di Forza Italia, avrebbero vinto. Contro ogni pronostico.

Corriere 22.6.18
La virata di Scamarcio (che stava a sinistra): «Il governo mi piace» Anche Gerini si schiera
di Fabrizio Caccia


ROMAC’è parecchio sconcerto, a sinistra. Dall’ex segretario di Rifondazione comunista Paolo Ferrero al fondatore di Emergency Gino Strada, dal filosofo Gianni Vattimo allo scrittore Fulvio Abbate, ora rimangono tutti un po’ spiazzati. L’endorsement per il nuovo governo Lega-M5S pronunciato da Claudia Gerini e Riccardo Scamarcio, volti noti del cinema schierati in passato col fronte avverso, inevitabilmente fa discutere.
«Questo governo mi piace, il censimento dei rom non è razzista — ha detto ieri la Gerini ospite di Un giorno da Pecora, il programma di RaiRadio1 — Perché mai noi dobbiamo essere censiti e i rom no?». Il giorno prima, anche Scamarcio, nel corso della stessa trasmissione radiofonica, condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari, aveva stupito gli ascoltatori: «Salvini razzista? No, piuttosto nazionalista nel senso più nobile del termine — ha eccepito l’attore, che pure un tempo votò per Rifondazione e per il Pd —. La chiusura dei porti? Una semplificazione. C’è stata invece una presa di posizione dell’Italia che ha prodotto due incontri bilaterali con Francia e Germania». E ancora: «A tutti i pensatori di sinistra , dico che all’interno di questo governo ci sono persone che hanno sempre votato a sinistra, che sono degli intellettuali, e che si sono candidati con Lega e M5S...».
I pensatori di sinistra, però, non sembrano così d’accordo: «Credo siano entrambi in buona fede — sospira lo scrittore Fulvio Abbate —. Io ho simpatia umana per loro, di Scamarcio ricordo posizioni apprezzabili in passato. Probabilmente così come un tempo andavano a vedere i film di Walter Veltroni alla Casa del Cinema e all’uscita lo definivano in coro un capolavoro, così adesso vanno a vedere il Ben Hur interpretato da Matteo Salvini e allo stesso modo dicono che è un capolavoro... Si tratta d’un male tipico italiano, anche piuttosto endemico...». Scuote la testa Paolo Ferrero, l’ex segretario di Rifondazione, oggi vicepresidente del partito della Sinistra europea: «O Scamarcio si è sbagliato a dire quelle cose oppure semplicemente è diventato di destra e questo mi dispiace». A RadioUno, l’altra mattina, Scamarcio, a differenza della Gerini, ha ammesso proprio di aver votato per uno dei due partiti al governo e si è pure espresso a favore della flat tax: «Ecco, appunto — ribatte l’ex segretario di Rc —. Tagliare le tasse ai ricchi vorrà dire dover tagliare poi le spese per gli anziani, i poveri, la gente normale, tutti quelli insomma che non fanno gli attori di professione e stentano ad arrivare alla fine del mese».
«Certe parole mi fanno un po’ rabbrividire — aggiunge il filosofo Gianni Vattimo, già europarlamentare Ds, oggi vicino al Partito comunista —. Io, a differenza di Scamarcio e Gerini, sono invece molto contro la linea Salvini...». «Riccardo Scamarcio è pure un amico e non mi va adesso di fare una polemica — taglia corto Gino Strada, il fondatore di Emergency —. Quello che penso l’abbiamo scritto sul nostro sito». Già: «Negare i diritti degli altri non servirà a difendere i nostri — ecco il pensiero di Emergency —. Chiediamo che la politica smetta di produrre slogan e affronti i veri temi della povertà e del disagio sociale».
Due mondi, che non sembrano più sulla stessa lunghezza d’onda: «Le ideologie in questo Paese sono tramontate — diceva ieri la Gerini in radio —. Bene coloro che fanno qualcosa per gli italiani...».

il manifesto 22.6.18
Cassazione: la «contenzione» è sequestro di persona
Sentenza storica sul caso di Francesco Mastrogiovanni. Il maestro elementare morì nel 2009 durante un Tso di 87 ore. Condanne per medici e infermieri dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno
di Giuseppe Galzerano

ROMA La contenzione dei pazienti negli ospedali e delle persone in altri luoghi è sequestro di persona e chi vi ricorre commette reato. E’ quanto ha stabilito la V Sezione della Corte di Cassazione, presieduta dal Consigliere Dr. Maurizio Fumo, il 20 giugno 2018 nella sentenza su sei medici e undici infermieri dell’ospedale San Luca di Vallo della Lucania, in provincia di Salerno, responsabili della lunga e illegittima contenzione di Francesco Mastrogiovanni, il maestro elementare morto dopo aver subito incredibilmente 87 ore di illegittima contenzione, tenuto legato senza alcuna interruzione ai quattro arti in un luogo di cura, senza un sorso d’acqua e un pezzo di pane.
La sentenza arriva dopo un giorno dal lungo dibattito in aula, nel corso del quale il Procuratore Generale, Luigi Orsi, nella sua lunga requisitoria di due ore, ha demolito l’impianto accusatorio, chiedendo l’annullamento senza rinvio della condanna degli infermieri e per i medici la conferma delle pene per falso ideologico e sequestro di persona, in quanto il reato di morte come conseguenza di altro reato (art. 586) era andato prescritto nel mese di marzo.
Per i sei medici, la Cassazione rigetta i ricorsi e ridetermina le pene condannando Rocco Barone (responsabile di aver disposto la contenzione) e Raffaele Basso ad un anno e tre mesi; Amerigo Mazza e Anna Angela Ruberto a 10 mesi. La Ruberto era di servizio la notte in cui Mastrogiovanni muore e ne scopre la morte sei ore dopo ch’era avvenuta. Per Michele Di Genio – primario del reparto – è annullata la condanna per reato di falsità ideologica (art. 479 c.p.) in concorso, con rinvio per un nuovo esame alla Corte d’Appello di Napoli, ma è confermata la condanna per concorso di reato (art. 110) e sequestro di persona (art. 605) a un anno e un mese. Rigetta il ricorso (senza rinvio) di Michele Della Pepa e conferma la condanna ad un anno e un mese.
Degli infermieri – assolti in primo grado, condannati dalla Corte d’Appello di Salerno il 15 novembre 2016 – è annullata la sentenza contro Antonio Luongo per avvenuta morte, mentre Giuseppe Forino, Alfredo Gaudio, Nicola Oricchio e Massimo Scarano sono condannati a 8 mesi; Antonio De Vita, Maria D’Agostino Cirillo, Maria Carmela Cortazzo, Massimo Minghetti, Raffaele Russo e Antonio Tardio a 7 mesi di reclusione.
Per il risarcimento civile la sentenza della Cassazione rinvia alla decisione del giudice civile in Corte d’Appello.
In primo grado i medici erano stati condannati a pene variabili da due a quattro anni di reclusione, pene ridotte alla metà dalla Corte d’Appello di Salerno, che aveva condannato gli infermieri.
La sentenza della Cassazione ha colto di sorpresa i tanti difensori degli imputati che contavano sull’assoluzione dei loro clienti e hanno continuato a denigrare Mastrogiovanni definendolo – in maniera infondata – violento, drogato, asociale, abbandonato dalla famiglia (solo un avvocato lo ha sempre definito correttamente «il professore Mastrogiovanni»); arrivando finanche a chiedere nel processo di primo grado l’incriminazione dei familiari per lite temeraria e sostenendo che la contenzione è una pratica terapeutica.
Francesco Mastrogiovanni il 31 luglio 2009 venne sottoposto ad un Tso (Trattamento Sanitario Obbligatorio) illegittimo e illegale ordinato non dai medici come prescrive la norma, ma dall’allora sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, che per eseguirlo fece sconfinare i suoi vigili in un campeggio del comune di San Mauro Cilento, dove Mastrogiovanni trascorre tranquillamente le vacanze. La sera prima sarebbe entrato con la macchina nell’isola pedonale di Acciaroli e – secondo l’accusa, che si ha ragione di ritenere veritiera – ne sarebbe uscito a folle velocità, senza causare un graffio a nessuno. Inseguito e braccato alla stregua di una belva e di un pericoloso criminale, la mattina successiva entra nel mare di Acciaroli, che abbandona dopo due ore.
Solo allora un medico, capovolgendo la norma, assecondando la richiesta del sindaco, chiede il Tso e una dottoressa, specializzata in medicina dello sport, lo conferma. Mastrogiovanni – come ha testimoniato Licia Musto, proprietaria del campeggio – prima di salire sull’ambulanza, supplica profetico: «Non mi fate portare all’ospedale di Vallo della Lucania, perché là mi ammazzano», ma nessuno dà peso alle sue parole. All’ospedale, nonostante sia intestato a San Luca, comincia il suo tragico calvario. Anche se è tranquillo e saluta i medici, dopo mezz’ora viene – mentre dorme – contenuto contemporaneamente con lacci di plastica ai polsi delle mani e ai piedi. Resterà ininterrottamente legato per ottantotto ore. Per quattro lunghi e caldi giorni non gli danno né da mangiare né da bere. Anzi la contenzione supera la vita e da morto resta legato per altre sei ore, prima che la mattina del 4 agosto 2009 i medici si accorgano che il suo cuore – nell’indifferenza, nella barbarie e nella disumanità – ha cessato di battere a causa di un edema polmonare, dal quale poteva essere salvato.
Sua nipote, Grazia Serra, va a trovarlo, ma un medico non la fa entrare dicendole che lo zio si agiterebbe. La ragazza si meraviglia e torna a casa. La mattina dopo il sindaco di Castelnuovo Cilento, non l’ospedale, telefona alla sorella per dirle: «Franco non è più con noi», e quando chiede se è scappato apprende che è deceduto. Prima l’ospedale aveva telefonato alla moglie di un altro paziente, Giuseppe Mancoletti, anch’egli legato ai polsi, per dirle di portare i panni perché il marito era morto.
La tragica e incredibile morte di Mastrogiovanni è documentata in un lungo e inoppugnabile video disponibile su internet e nel documentario «87 ore» di Costanza Quattriglio trasmesso da Rai 3, che documentano minuto dopo minuto le atrocità alle quali è stato sottoposto.
Mastrogiovanni, alto un metro e 94, era un maestro pacifico e non violento, anarchico e di grande umanità e sensibilità, e i suoi gli alunni lo avevano affettuosamente definito nei loro disegni «il maestro più alto del mondo».
Dopo questa importante e storica sentenza, dovuta al sacrificio di Francesco Mastrogiovanni, non sarà più possibile contenere i pazienti.
Occorre infine sottolineare che nessuno dei medici coinvolti ha subito un giorno di carcere, né sono stati sospesi dal lavoro e uno di loro è indagato per altre due morte sospette sempre per Tso, avvenute recentemente nel reparto dell’ospedale dove lavora.
(Alcune associazioni, tra cui il Comitato d’iniziativa Antipichiatrica di Messina, il Movimento per la Giustizia Robin Hood-Avvocati Senza Frontiere di Milano, Telefono Viola e Unisam di Roma, si erano costituite parte civile nel processo).

La Stampa 22.6.18
“Assurdo vietare a noi medici i due lavori”
Ai camici bianchi non è piaciuta la proposta della Grillo per ridurre le liste d’attesa in ospedale
di Flavia Amabile

qui

La Stampa 22.6.18
Tra Siena e Pisa un fronte popolare per salvare le roccaforti rosse
di Fabio Martini

Si è fatta sera in piazzetta dell’Indipendenza, scenario medioevale per uno spettacolo oramai desueto: un faccia a faccia tra due candidati contrapposti, genere oramai cancellato nei talk show televisivi, dove i Rodomonte di governo e di opposizione concionano, a patto di non doversi confrontare tra di loro. Davanti ai cinquecento senesi accorsi nel dopo-cena, ecco il sindaco uscente Bruno Valentini del Pd e Luigi De Mossi, grintoso avvocato presentato dal centro-destra, in vista del ballottaggio di domenica. E’ subito chiaro il copione, interessante perché allude ad un nuovo trend nazionale. Il giornalista chiede del decoro urbano e l’oppositore parla d’altro: «Il decoro è soprattutto comportamento politico coerente: è immorale l’apparentamento col “commissario politico”!». Non c’entra nulla, ma l’allusione al recentissimo patto tra il sindaco pd e l’ex sindaco Pierluigi Piccini (già Pci, da anni battitore liberissimo) suscita un boato rabbioso nella claque di centrodestra. Il sindaco Valentini, che è un signore distinto, non si sgualcisce: «Non riuscirete a farmi arrabbiare…». E parla di cassonetti, turni di raccolta e delle novità realizzate e in cantiere della sua amministrazione.
A prima vista potrebbe sembrare la replica delle elezioni Politiche di marzo, con un Pd di governo che si compiace del suo consuntivo ed un’opposizione che mena fendenti. E invece a Siena - ma anche a Pisa e Massa, le altre due roccaforti rosse a rischio – a sinistra lo schema è cambiato: a menar le danze è un sindaco uscente che somiglia più a Paolo Gentiloni che a Matteo Renzi, che in questo turno elettorale non è stato invitato da nessuno. Quasi fosse uno scaccia-voti. Ma soprattutto è finita la guerra a sinistra tra Pd e Leu: attorno ai candidati sindaci del Pd si sono ricostituite coalizioni da “Fronte popolare”, che nel caso di Siena somiglia più ad un “Cnl”, visto che comprende anche l’influente Piccini, uno che ha trattato con Forza Italia ma che ieri sera aveva organizzato un convegno con Tomaso Montanari
Quel che resta della sinistra toscana è chiamata a Siena (ma anche a Pisa e a Massa) a verificare se esistano le condizioni per una ripresa, o se la disaffezione abbia bruciato anche le radici. Siena è da decenni città simbolo di tante cose. Anzitutto di quel rapporto tra sinistra Pci-Pds-Pd, massoneria, Monte dei Paschi e Fondazione, che il Gran Maestro della Massoneria Stefano Bisi deliziosamente definisce «groviglio armonioso». Certo la Fondazione, la grande mamma che ha partorito quasi tutti i sindaci cittadini, è una mamma che via via ha perso influenza e tuttavia ha ancora una sua significativa resilienza.
Ma anche città simbolo dell’epifania e della caduta renziana. Nel 2012 Matteo chiuse qui il tour delle Primarie contro Pier Luigi Bersani, perché Siena, con tutti gli affanni di Mps era il simbolo del rapporto malato tra finanza e sinistra. A Siena, alle Politiche di marzo, Renzi schierò il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, rassicurante testimonianza del salvataggio di Stato di Mps. Ma ora, in questa campagna decisiva, a Renzi hanno preferito Gentiloni e Veltroni.
A Siena la destra ha una gran voglia di vincere all’insegna dell’«ora o mai più», Matteo Salvini è venuto e tornerà stamani. Chi la spunterà? «C’è davvero una grande incertezza perché si confrontano due debolezze», dice un vecchio saggio come l’ex Provveditore Enzo Martinelli. E i Cinque Stelle? Non pervenuti al primo turno: i rigorosi referenti locali tempo fa sollevarono veli sulla moralità di alcuni notabili pentastellati e questo è bastato perché da Roma (e dalla Casaleggio Associati) non si concedesse l’autorizzazione a presentare il simbolo.
Gli elettori Cinque Stelle potrebbero invece pesare a Pisa, dove al primo turno il loro candidato ha raggranellato un modesto 9% che ora però potrebbe spalmarsi in modo decisivo su uno dei due sfidanti: l’ex assessore Andrea Serfogli (Pd) e Michele Conti, ex An. Ma a Pisa è accaduto qualcosa politicamente e sociologicamente epocale: alle Politiche la Lega è diventato il primo partito, con un boom particolare nel quartiere popolare del Cep, un tempo oasi rossa per Pci, Psi, ma anche Pd. La sicurezza pesa e negli ultimi giorni due carabinieri sono stati aggrediti da venditori abusivi e il titolare di un pub è stato preso a bottigliate da uno spacciatore immigrato. Da queste parti il personaggio di riferimento è la sindaca di Cascina, la leghista Susanna Ceccardi, destinata ad un grande futuro, che posta: «Alla gente non frega assolutamente niente dell’antifascismo. Basta buonismo». Stasera chiusura in piazza per Salvini. Avverte il professor Stefano Ceccanti, deputato Pd: «Pisa non è mai stata Siena o Bologna: per anni centro e destra sono stati socialmente forti e politicamente deboli. Anche stavolta l’esito finale sarà determinato da uno spostamento minimo».

La Stampa 22.6.18
“Una conclusione forzata, no ai divieti
La quantità di sostanza attiva è bassa”
pa. ru.


Il parere del Consiglio superiore di Sanità che chiede di vietare la vendita della cannabis light? «Una conclusione un po’ forte visto che si tratta di un principio di precauzione e comunque di una quantità di sostanza attiva molto bassa». Il neo ministro della Salute, la pentastellata Giulia Grillo, getta acqua sul fuoco acceso «da un organo comunque consultivo, dato che poi le decisioni le prende il Governo». E tra queste al momento «non c’è la chiusura dei canapa shop, casomai una loro regolamentazione», assicura. Tranquillizzando anche i consumatori di «fumo» light: non ci sono dati allarmanti.
Senza mostrare prove di nocività il Css raccomanda di vietare la vendita di cannabis light. Non è un po’ forte come richiesta?
«Rileggendo bene le carte del parere risulta che sui numerosi campioni testati nei laboratori solo in sei casi sono risultati valori in combinazione di Thc compresi tra lo 0,2 e lo 0,6%, che sono comunque limiti consentiti dalla legge. Per il resto il parere è tutto un se e un “bisogna valutare”. Diciamo che sono stati molto più cauti di quanto alcuni titoli sulle testate on line non abbiano fatto pensare. Sinceramente la conclusione di chiedere il divieto di vendita sarà tutta da valutare alla luce di reali prove di nocività. Agli italiani che ieri hanno letto un po’ di notizie allarmistiche dico comunque di stare tranquilli».
Quindi niente divieti di vendita in vista?
«Non c’è alcuna emergenza che lo giustifichi. Questa del resto è un’istruttoria iniziata nel 2017 e il 17 aprile è stato chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che a sua volta deve ascoltare i numerosi ministeri competenti in materia e la Presidenza del consiglio. E anch’io vorrò sentire la valutazione scientifica dell’Istituto superiore di sanità. Comunque quello del Css è il parere di un organo consultivo, poi le decisioni le prende il governo e il divieto non è in discussione. Casomai sarà necessaria una regolamentazione del settore. Lo dico anche ai tanti cittadini che mi hanno inviato mail allarmate e che dopo aver investito in un’attività dichiarata legale da una legge del 2016 non possono ora pagare il prezzo per una mancata regolamentazione».
Regolamentazione che potrebbe essere favorita anche dall’ingresso dei monopoli di Stato in questo mercato?
«Potrà essere una questione all’ordine del giorno, della quale però dovranno occuparsi soprattutto i ministeri dell’Economia e dello Sviluppo economico».
Intanto però mancano regole anche elementari, come quella del divieto di vendita di cannabis light ai minori…
«Questo sarà sicuramente un punto da regolamentare, come è stato fatto per alcol e fumo di sigarette. Qualche regola in più ci sarà, ma prima dobbiamo fare chiarezza su un problema che ha diverse sfaccettature».
C’è anche quello di chi in questi negozietti vende marijuana che light non è…
«I controlli sono fondamentali se non si vogliono poi generare atteggiamenti di censura e chiusura. Penso di potenziare il corpo specializzato dei Nas per creare una task force dedicata al controllo dei punti vendita».
E sull’uso ricreativo della cannabis, quella vera, cosa ne pensa?
«Non è nel contratto di Governo. Sarà oggetto di dibattito parlamentare».
Mentre si discute di uso ludico manca la cannabis a uso terapeutico. In molte regioni continua a essere introvabile…
«Questa è una delle tante pratiche aperte che ho ereditato e che per me rappresenta sicuramente una priorità. Al più presto cercherò di capire quale può essere la reale capacità produttiva dell’Istituto militare di Firenze, per rimuovere in caso di difficoltà gli ostacoli che ancora oggi si frappongono all’importazione di sostanze che sono un diritto per molti pazienti».

Corriere 22.6.18
Perché si chiama canapa «leggera» Come si usa e i suoi effetti
di Margherita De Bac


1 Che cos’è la canapa light?
È una qualità di canapa, nome tecnico cannabis sativa, coltivata soprattutto per uso industriale per farne combustibile, tele, cosmetici. Contiene una minima quantità di un principio attivo, il tetraidrocannabinolo (THC) una delle tante sostanze che compongono la cannabis, i cannabinoidi. La concentrazione di THC è inferiore allo 0,2 per cento in milligrammi ed è per questo che si dice «light». Con questi limiti ciò che viene ottenuto dalla pianta non viene considerato stupefacente e non compare nell’elenco delle sostanze psicoattive della legge unica sulla droga.
2 Quale parte della pianta è sotto esame?
Le infiorescenze, inizialmente scartate dagli agricoltori, hanno trovato una connotazione ludica, vendute liberamente sotto forma di infuso, olio ed estratti non solo in appositi shop e alcune tabaccherie ma soprattutto online. Il THC contenuto nei fiori può essere inalato e fumato. Il nuovo mercato ha avuto in poco tempo un’esplosione al di sopra delle previsioni e procede al ritmo di un’apertura di negozio ogni tre giorni.
5 È un settore regolamentato?
La produzione florovivaistica della canapa sativa è stata regolamentata dall’ex ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina con una legge entrata in vigore all’inizio del 2017 che non prevede la richiesta di autorizzazione per creare le serre. Successivamente si è aggiunta una circolare di chiarimento: riguarda proprio le inflorescenze, un tempo eliminate dagli agricoltori, stabilendo i limiti del contenuto del principio attivo a 0,2 per cento. Anche se la pianta arriva a contenerne 0,6 per cento, il produttore non rischia penalmente. L’iniziativa però non è bastata a ridurre il margine di discrezionalità nell’interpretazione delle norme e questo ha favorito la nascita di un migliaia di negozi specializzati in almeno 16 città italiane, sulla scia di un fenomeno già avviato nella vicina Svizzera. Dunque il commercio della cannabis leggera è legale.
4 La Cannabis leggera provoca danni alla salute e dipendenza?
Il THC ha effetti stupefacenti almeno 40 volte inferiori alla cannabis e nelle infiorescenze è presente in quantità infinitesimali. Non sono mai stati condotti studi specifici per cui la sicurezza di questa sostanza è solo ipotizzabile. Non risultano casi di intossicazione. L’esplosione del mercato e il giro di affari hanno però indotto le autorità ad andare a fondo, partendo dal presupposto che eventuali effetti dannosi dipendono dalle dosi consumate, dalla sensibilità individuale e dalle modalità d’uso. L’effetto di piacevolezza legato al fumo della canapa leggera è dato probabilmente da un’altra sostanza, il cannabidiolo, un rilassante. Negli Stati Uniti è stata appena autorizzata la vendita di acqua con cannabidiolo.
5 Cosa succede adesso, dopo il parere del Consiglio superiore di sanità?
Gli esperti hanno mantenuto nel documento consegnato al ministro della Salute un atteggiamento precauzionale e suggeriscono una valutazione specifica. Il ministero ha inviato il parere all’avvocatura di Stato per ricevere indicazioni su quale strumento utilizzare per intervenire: un’ordinanza, una legge? Sulla questione si dovranno esprimere altri ministeri. Un precedente è il giro di vite sulle sigarette elettroniche nel 2013, inizialmente distribuite senza paletti, poi ridimensionate nell’uso con divieto ai minorenni.

Repubblica 22.6.18
Uno degli esercizi aperti di recente
E in negozio sfuma il business “Qui rischiamo di perdere tutto”
di Paolo G. Brera


ROMA Eravamo quattro amici al bar — racconta Pietro Cives, 38enne titolare del marchio “Grace” e del “box 19” al mercato di Ponte Milvio, a Roma — con l’idea di far qualcosa insieme. In quattro mesi siamo diventati un network di undici negozi affiliati in tutta Italia». Con il massimo comun divisore della cannabis light, sugli scaffali c’è di tutto: la crema antipsoriasi e le piadine alla farina di canapa, la pastasciutta con ricetta per farsi una “carbonara di Grace” e il pane carasau. Ci sono anche le uova «prodotte da galline alimentate con semi di canapa, curcuma e zenzero: hanno più proteine e meno grassi, bassissimo colesterolo e il triplo di Omega 3 e Omega 6», assicura Giorgia Graglia, responsabile del negozio di Ponte Milvio.
Il telefono squilla in continuazione. Da poche ore è uscita la notizia che il Consiglio superiore di sanità ha consigliato al ministero un passo indietro sulla liberalizzazione della canapa light, dello spinello che non sballa e, forse, anche dei suoi affiliati alimentari e cosmetici. I confini esatti, le future ricadute concrete del parere inviato al ministero non sono ancora valutabili, ma a Pietro è andata di traverso la colazione e ora è nervoso come mai.
«La verità è che nessuno ci pensa, a un ragazzo che ha investito tempo e denaro. Io vendo infiorescenze come altre persone vendono magliette, cosa c’è di strano? Non sono un appassionato né un ex tossico, nemmeno fumo», dice indeciso se continuare l’intervista o interromperla subito, per il timore comprensibile che non passi l’immagine che vorrebbe dare del suo “business”: «A differenza degli altri — assicura — noi non abbiamo solo le erbe. Alle infiorescenze abbiamo affiancato le uova e la pasta, la birra e i cosmetici: abbiamo un target più alto», dice. Una clientela «di persone in maggioranza tra i trenta e i cinquant’anni — spiega — che non hanno niente a che vedere con il tipo di cliente che potete immaginare, non sono in cerca di qualcosa di strano. C’è chi ha risolto l’insonnia o la cervicale, e c’è anche chi ha risolto patologie più importanti ma noi chiariamo subito di non essere medici né farmacisti, anche se ci avvaliamo di professionisti che ci indirizzano». Sul bancone, in una teca che costituisce il bancone stesso, ecco «il core business dell’attività», come lo definisce Cives: le infiorescenze di canapa a basso contenuto di Thc, il principio attivo dello sballo, esposte per tipo e per prezzo.
Ci puoi fare le tisane, puoi aromatizzare l’aria o puoi fumarle come fossero spinelli light, roba che ti rilassa senza stordirti, che ti fa dormire sereno senza farti viaggiare chissà dove. Alle spalle, sul bancone, se vuoi puoi farti una “canapera” (no, niente di eversivo, è solo una purea di pere e canapa). E dunque che succederà adesso?
«Non sappiamo, è troppo presto per capirlo. Per quello che abbiamo capito fino a ora, il Consiglio superiore di sanità ha sollecitato una maggiore accortezza per le donne incinte e per gli anziani, per i quali parlano di controllarle la vendita». Giusto o sbagliato? «Non so, sono ancora confuso, è troppo presto».
In un’ora trascorsa nel negozio non è entrato nessun cliente. Ma il telefono è squillato eccome: «Ma no, non ha detto che non possiamo più vendere, per ora è solo un parere e il ministero non ha deciso nulla: il negozio è aperto», risponde Giorgia.

il manifesto 22.6.18
La Russia è l’unico argomento di attrito tra i quattro di Visegrad
Visegrad e Mosca. L’ostilità polacca verso la Russia è tale da far perdere di vista i suoi stessi interessi economici, di tutt'altro avviso l'approccio della Slovacchia
di Yurii Colombo


MOSCA Se esiste un argomento su cui il Gruppo di Visegrad è profondamente diviso, questo è il rapporto da tenere con la Russia di Putin. Il Gruppo di Visegrad o V4 nacque nel 1991 con l’obbiettivo di costruire un’alleanza con un’ispirazione mitteleuropea in funzione anti-russa. Tuttavia nel corso di un quarto di secolo i paesi aderenti (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) hanno sviluppato proprie specifiche linee di faglia di politica estera, che hanno portato i singoli paesi ad avere relazioni in certi casi diametralmente opposte rispetto alla Russia.
VARSAVIA, come è noto, resta lontanissima da Mosca. La Polonia è una colonia russa e nel 1939 subì una tragica sparizione seguita ai protocolli Ribentropp-Molotov. Sono vicende difficili da dimenticare. Anche per questo la Polonia è il paese più anti-russo di tutta l’Ue. Dal 2017 ha iniziato un programma di «decomunistizzazione» che ha condotto all’abbattimento di 469 statue che ricordavano il passato comunista.
E NELL’EUROPA ORIENTALE, con la Romania, è il paese che non solo ha dato semaforo verde a qualsiasi insediamento della Nato ma persino quello diretto dell’esercito Usa. Solo qualche settimana fa la Polonia si è impegnata a finanziare con 2 miliardi di dollari il dispiegamento di una brigata corazzata statunitense sul proprio territorio. L’ostilità polacca verso la Russia è tale da far perdere di vista i suoi stessi interessi economici: malgrado la Polonia sia ancora il 12esimo partner commerciale della Russia, l’interscambio tra i due paesi si riduce ogni anno e le sanzioni hanno fatto perdere a Varsavia oltre un miliardo di dollari di contratti. Di tutt’altro segno l’approccio alla Russia della Slovacchia. Il piccolo paese del centro Europa malgrado si sia sempre allineata alle decisioni dell’Ue contro la Russia in seguito alla crisi Ucraina, non si è mai appiattito sui pasdaran anti-Putin: nel 2016 l’ex premier slovacco sostenne che «l’Ucraina sta facendo assai meno della Russia per implementare gli accordi di Minsk».
L’OPINIONE PUBBLICA del paese del resto è l’unica tra quelle dell’alleanza ad avere preferenza per i russi rispetto agli americani (33% contro 22%). «Tradizionalmente gli slovacchi hanno una relativa maggiore affinità con i russi che con qualsiasi altro popolo confinante» hanno scritto i sociologi Grigorij Mesežnikov e Olga Gyárfášová. I governi cechi sono tradizionalmente anti-russi sin dalla «rivoluzione di velluto» ponendosi con la Polonia, come uno dei paesi sostenitori della «mano pesante» con Mosca, ma anche qui negli ultimi anni le cose sono iniziate a cambiare soprattutto da quando il Cermlino ha trovato nel presidente ceco Milos Zeman un inaspettato alleato.
ZEMAN HA AFFERMATO più volte che le sanzioni contro Mosca «danneggiano l’economia ceca» e ha destato grande scandalo in Europa con l’assist fornito al Cremlino sul «caso Skripal» quando ha confermato che anche il suo paese aveva testato l’agente chimico «Noviciok». Il sodalizio tra Orbán e Putin dura da 10 anni ma è tutto incentrato su dosi da cavallo di pragmatismo. «Non è un rapporto basato su un comune sentire: Mosca non ha dimenticato che Orbán dal 1988 al 2009 è stato il politico più anti-russo del continente» afferma András Rácz, professore all’Università Cattolica di Budapest. Non è un mistero che l’Ungheria, la quale dipende per il 38% del suo fabbisogno energetico dal gas naturale, ottenga dalla Russia forniture a prezzi di favore in cambio di una politica estera in favore della normalizzazione dei rapporti tra Ue e Russia.
DEL RESTO LA PARTITA energetica può essere vista anche come una delle cartine tornasole per valutare la vicinanza o lontananza da Mosca dei paesi del V4: a una Polonia che si oppone con tutte le sue forze al nuovo gasdotto North Stream-2 perché dipendente solo per il 15% dal gas, fanno da contraltare le politiche di apertura di Repubblica Ceca e Slovacchia che dal gas dipendono quasi il doppio rispetto a Varsavia.

il manifesto 22.6.18
Sarah Netanyahu incriminata per frode, il premier israeliano trema
Israele. Accusata di aver speso quasi 100mila dollari dello Stato in pasti preparati da ristoranti a cinque stelle, la first lady rischia di trascinare nel baratro il marito anch'egli sotto inchiesta
di Michele Giorgio


GERUSALEMME A Sarah Netanyahu proprio non piacevano le pietanze preparate dal cuoco, pagato ‎dallo Stato, impiegato presso la residenza ufficiale di suo marito e primo ministro ‎di Israele, Benyamin Netanyahu. E per questa ragione, per diverso tempo, pur ‎avendo uno chef a disposizione ha ordinato pasti in ristoranti stellati spendendo ‎quasi 100mila euro del contribuente israeliano. Ci sono voluti anni per arrivarci e ‎alla fine i giudici hanno deciso di incriminarla per frode. Ora Sarah Netanyahu ‎rischia il carcere ma può raggiungere un accordo con la magistratura se si ‎dichiarerà colpevole e indennizzerà lo Stato restituendo la cifra indicata nell’atto ‎di accusa. Tuttavia l’ammissione di colpa avrebbe riflessi politici immediati per il ‎marito, coinvolto in indagini per truffa, che ha sempre sostenuto di non aver mai ‎violato la legge e di essere vittima, assieme alla moglie, di una campagna mediatica ‎orchestrata dall’opposizione e dai suoi rivali per costringerlo a farsi da parte. ‎
 La moglie di Netanyahu, nota per impulsività ed arroganza nei confronti del ‎personale di servizio, è stata più volte accusata di ricercare a tutti i costi uno stile ‎di vita sontuoso con il denaro dei contribuenti e di intromettersi in affari di stato. ‎In passato però è sempre uscita indenne dalle indagini. Questa volta no e le ‎conseguenze del passo fatto dai giudici potrebbero rivelarsi pesanti. Assieme a lei ‎è stato stato incriminato Ezra Saidof, un alto funzionario dell’ufficio del primo ‎ministro addetto alla contabilità. Nell’atto di accusa, lungo una ventina di pagine, ‎si afferma che entrambi hanno agito per addossare allo Stato spese di gestione ‎della residenza del premier a Gerusalemme e di quella privata di Cesarea che non ‎erano previste dai regolamenti. Le casse statali avrebbero perciò finanziato uscite ‎non autorizzate. ‎«Accuse assurde e deliranti‎» replicano gli avvocati della first ‎lady. ‎«È la prima volta al mondo che la moglie di un leader viene processata per ‎cibo offerto su vassoi usa-e-getta‎», ironizzano, sostenendo che la maggior parte ‎dei pasti non fu consumata dalla famiglia Netanyahu ma durante cene ‎diplomatiche. Aggiungono che la moglie del premier ‎«non è una dipendente ‎statale e non conosceva le procedure‎» per la gestione della residenza ufficiale del ‎primo ministro. Forse. Ma non tutto, insiste la procura, si è svolto in buona fede ‎come vorrebbero far credere gli avvocati. La first lady e Seidof, riferiva ieri sera il ‎sito del quotidiano Haaretz, hanno fatto in modo da far apparire nei documenti ‎ufficiali il cuoco poco gradito come un operaio addetto alla manutenzione e non ‎uno chef, proprio per aggirare l’accusa di spendere inutilmente soldi pubblici per ‎acquistare pasti nei ristoranti.‎
Quello che è certo in queste ore è la preoccupazione di Benyamin Netanyahu, ‎sui carboni ardenti per una vicenda che potrebbe travolgerlo poiché egli stesso è ‎sotto la lente d’ingradimento di polizia e magistratura. ‎

La Stampa 22.6.18
Cene e lussi
Sara Netanyahu incriminata per frode
di Giordano Stabile


Sara Netanyahu viene incriminata per frode e si stringe l’assedio dei magistrati attorno al premier Benjamin Netanyahu, al centro a sua volta di tre inchieste giudiziarie. La moglie del primo ministro dovrà rispondere anche di abuso di potere per le «spese pazze» sostenute nella residenza ufficiale a Gerusalemme, costate ai contribuenti 350 mila shekel, pari a 80 mila euro. La First Lady avrebbe sfruttato la sua posizione per concedersi lussi di ogni tipo negli anni tra il 2010 e il 2013. L’accusa principale è quella di aver ordinato pasti in ristoranti gourmet nonostante avesse già a disposizione un cuoco e fosse proibito dal regolamento.
Assieme a Sarah Netanyahu è finito nei guai anche Ezra Saidoff, ex vice direttore generale dell’ufficio del premier, sospettato anche di aver falsificato fatture. A nulla son valsi i tentativi di trovare una soluzione extragiudiziale, Sarah Netanyahu si sarebbe infatti rifiutata di restituire le spese e di ammettere gli addebiti. Questa posizione si è rivelata alla fine un grave errore ma gli avvocati della First Lady israeliana ribattono che le accuse sono «bizzarre e infondate». I magistrati però imputano a Sara Netanyahu e Saidoff di aver nascosto la presenza del cuoco, fatto passare per un addetto alle manutenzioni con un falso amministrativo che avrebbe coinvolto anche il capo dello staff, Meni Naftali.
Tutti nomi ormai noti al pubblico israeliano. L’incriminazione è un colpo al premier, al centro di altre inchieste che lo accusano di aver offerto favori pubblici a un tycoon dell’informazione in cambio di articoli «amichevoli» e di una gestione opaca del contratto d’acquisto di sottomarini dalla Germania. Gli affondi giudiziari complicano la corsa del premier alle elezioni, previste per l’anno prossimo, ma prima Netanyahu vuole raggiungere un altro successo internazionale con l’aiuto del presidente americano Donald Trump.
Dopo aver incassato il trasferimento dell’ambasciata americana a Gerusalemme, aver contribuito al ritiro della Casa Bianca dall’accordo nucleare con l’Iran, Netanyahu si prepara all’annuncio del piano di pace americano, «l’accordo del secolo» di Trump. Gli inviati Jared Kushner e Jason Greenblatt sono impegnati in un tour de force diplomatico, con tappe ad Amman, Riad, Il Cairo. Lo stesso Netnayahu ha incontrato Re Abdullah di Giordania per convincerlo a dire sì. Il consenso del sovrano hashemita è decisivo e Trump lo ha invitato a Washington lunedì, per un ultimo pressing, anche perché è scontato il no dei palestinesi.

il manifesto 22.6.18
Hamas, l’Idf e la guerra degli aquiloni a Gaza
Al confine - I palestinesi usano anche palloncini e condom pieni di elio per incendiare i campi, il partito dei coloni chiede uccisioni mirate
di Fabio Scuto


Da oltre due mesi, i palestinesi nella Striscia di Gaza stanno facendo volare aquiloni, palloncini di compleanno e preservativi in lattice gonfiati di elio verso Israele, facendo affidamento sulla dolce brezza costiera del Mediterraneo per spingerli oltre la Barriera al confine. Per quanto possano sembrare banali, queste armi non sono uno scherzo. E stanno per innescare un’escalation dagli esiti imprevedibili: la “guerra degli aquiloni” potrebbe portare rapidamente a un conflitto vero.
La maggior parte di questi “velivoli” trasporta buste di rete metallica che contengono un pezzo di carbone bruciato o stracci imbevuti di olio, che hanno acceso centinaia di incendi nel sud di Israele, distruggendo migliaia di ettari di terra e provocando danni per milioni di shekel. Gli aquiloni sono di diverse dimensioni e quasi tutti fatti a mano. Tre pezzi di legno che si intersecano, legati al centro con un pezzo di filo, formano una cornice esagonale, che è coperta da un pezzo di plastica. I palloncini sono invece disponibili in due varietà principali: quelli di compleanno e preservativi in lattice gonfiati con l’elio. “I love you”, c’era scritto su un pallone a cui è stato attaccato un piccolo contenitore esplosivo che è atterrato su un’autostrada nel sud di Israele la scorsa settimana. Il traffico è stato bloccato fino a quando un poliziotto non l’ha fatto esplodere in condizioni controllate.
L’uso dei preservativi in lattice gonfiati con l’elio solleva anche un’altra questione. Da dove provengono? I condom a Gaza sono stati generalmente forniti da organizzazioni locali palestinesi o attraverso programmi internazionali. L’Oms – ha voluto precisare un suo portavoce – non fornisce né distribuisce preservativi nella Striscia.
Il danno psicologico causato dagli incendi, ben visibili lungo il confine della Striscia, è peggiore di qualsiasi danno reale fatto. La vista deprimente dei raccolti bruciati spinge l’opinione pubblica israeliana a premere sul governo di Benjamin Netanyahu – ieri la moglie del premier, Sara, è stata rinviata a giudizio per frode – perché faccia qualcosa. Ma Hamas avverte, se colpite chi lancia aquiloni, torneremo a sparare missili. Come avvenuto lunedì notte quando sono stati sparati 45 missili in poche ore.
I militari contro i kite-bomb hanno usato droni e altre soluzioni hi-tech, con qualche effetto positivo, ma in ogni caso di aquiloni – lanciati dall’interno della Striscia, al di là della portata dei cecchini israeliani – ne arrivano a decine ogni giorno. Alcuni ministri hanno suggerito come deterrente di riprendere le “uccisioni mirate” dei leader di Hamas. Ma l’Idf ritiene che questa misura, che implicherebbe attacchi aerei – con caccia, droni o elicotteri – sarebbe sproporzionata. Hamas reagirebbe con i suoi missili e la “guerra degli aquiloni” diventerebbe una guerra vera come quella del 2014.
Nonostante il via libera della Corte Suprema che ha definito i “lanciatori di aquiloni” un obiettivo militare legittimo, l’Idf dice che non si può uccidere un gruppo di persone bombardando dal cielo solo perché qualcuno coinvolto lancio di kite-bomb può essere tra la folla.
Nel frattempo i politici israeliani hanno iniziato a discutere pubblicamente sulla legalità nel colpire i “lanciatori”, piuttosto che sparare colpi di avvertimento. L’ex comandante del Fronte Sud, il generale Yoav Galant – oggi deputato del partito centrista Kulanu – dice che “sarebbe un errore molto grave sparare in modo deliberato a un bambino di 8 anni”. Gli ha replicato il ministro dell’Istruzione Naftali Bennett, capo del partito dei coloni: “Se qualcuno spara alla tua famiglia gli spari, se qualcuno manda palloni incendiari gli spari”. “È così, ovvio – conclude Bennett –, che non c’è nemmeno bisogno di spiegarlo”.

Il Fatto 21.6.18
Diritti umani Onu, Usa lascia organismo: plauso d’Israele

Israele ha ringraziato il presidente Trump “per la coraggiosa decisione contro l’ipocrisia e le bugie del cosiddetto Consiglio dei diritti umani dell’Onu”. Il premier Benyamin Netanyahu plaude alla decisione americana di lasciare l’organismo, poi arrivano le critiche. L’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley (nella foto) aveva detto: “Prendiamo questa decisione perché il nostro impegno non ci permette di fare più parte di un organismo ipocrita e asservito ai propri interessi, che fa dei diritti umani oggetto di beffa”.
Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International; “Ancora una volta il presidente Trump mostra il suo completo disprezzo per i diritti e le libertà fondamentali che il suo paese pretende di sostenere”. Aggiunge la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova: “Gli Stati Uniti hanno inferto un duro colpo alla loro reputazione di difensori dei diritti umani”. La decisione dell’amministrazione Trump non è una novità; dodici anni fa fu il presidente repubblicano George W. Bush a boicottare l’organismo. Gli Stati Uniti rientrarono con il democratico Barack Obama.

La Stampa 22.6.18
A New York nel centro segreto del governo tra i bimbi strappati ai genitori migranti
Ad Harlem vengono inviati i figli degli irregolari arrestati. Per riportarli nella struttura, dopo essere stati a scuola, gli nascondono il volto
di Paolo Mastrolilli

inviato a Harlem (New York)
qui

Repubblica 22.3.18
La tolleranza zero di Trump
Quei bimbi perduti al confine della vergogna
A El Paso tra le tende dei baby migranti divisi dai genitori: viaggio alla frontiera Usa-Messico
di Federico Rampini


EL PASO ( TEXAS) È qui che la tolleranza zero di Donald Trump sugli immigrati clandestini ha subito la sua prima disfatta. Gli avversari l’hanno chiamata la sua Guantanamo dei bambini. Oppure la Katrina di Trump, nel ricordo dell’uragano che devastò la Louisiana, la vergogna che macchiò l’Amministrazione Bush per la sua indifferenza di fronte alla tragedia. A queste tende “invisibili” che imprigionano bambini tuttora separati dai genitori, si arriva viaggiando lungo il confine Texas-Messico, quaranta minuti di autostrada da El Paso. Si costeggia quella recinzione fortificata a perdita d’occhio che è già una barriera insormontabile, ancor prima che Trump ci costruisca (se mai ci riuscirà) il Muro dei suoi sogni. Si lascia l’autostrada I-10 all’ultimo MacDonald con hamburger al guacamole, si esce a Fabens, si raggiunge Turnillo dove c’è uno dei ponti internazionali di passaggio verso Ciudad Juarez in Messico.
Le bandiere a stelle e strisce qui sono affiancate dall’orgoglioso vessillo texano, la stella unica, Lone Star. La temperatura oggi tocca i 42 gradi all’ombra. Siamo praticamente nel deserto. Se volevano nascondere il campo dei bambini, hanno scelto bene. In quest’area desolata e sperduta ora lo scandalo ha attratto il mondo dei media, incontro altri reporter e fotografi venuti da Miami, dal New Mexico, dalla Germania. Ma le tende della vergogna restano comunque inaccessibili, centinaia di metri di deserto e tante barriere recintate ci separano. Gli agenti della Border Patrol hanno ordini severi, ci circondano e ripetono inflessibili: «Non potete avvicinarvi, niente foto né video da qui».
Di rincalzo agli agenti federali ogni tanto veniamo avvicinati da vigilantes privati con strane divise — il business della lotta all’immigrazione clandestina ha la sua galassia dei subappalti — anche loro impegnati a sorvegliarci. I colleghi delle ricche tv americane hanno rubato immagini aeree grazie a elicotteri e droni (720 dollari di affitto per mezz’ora di ripresa). È solo sfuggendo nei cieli alla Border Patrol che si sono ottenute dall’alto le foto di quei bimbi in fila, all’ingresso dalle tende. Poi un visitatore segreto ha registrato e passato alla ong ProPublica i pianti e i singhiozzi, per la separazione brutale dai genitori arrestati e deportati altrove.
L’attenzione dei media ha aiutato almeno Rubén García, fondatore e direttore dell’Annunciation House. La sede di questa istituzione la visito nel centro di El Paso, è una decrepita palazzina di mattoni rossi, un piccolo porto di transito dove incontro migranti dal Sudamerica, dall’Asia e dall’Africa: salvo i bambini, tutti hanno il braccialetto elettronico ai polsi o alle caviglie. Arriva perfino — scortato da un’altra polizia privata dalla sigla misteriosa — un gruppo di brasiliani del Minas Gerais, nel loro lungo e tortuoso itinerario hanno scelto di tentare la fortuna con una domanda di asilo qui al confine di El Paso.
Annunciation House fu creata nel 1976 da cattolici ispanici, ammiratori di Martin Luther King. Offre assistenza e consulenza legale ai migranti, li ospita mentre sono in transito verso tribunali e centri d’accoglienza, mantiene fitti rapporti con associazioni umanitarie dei paesi d’origine.
Oggi Rubén García accompagna due famiglie di migranti nella traversata del ponte da Ciudad Juarez a El Paso, scortato dai giornalisti e ripreso dalle telecamere. I genitori portano dei cartelli. «Siamo richiedenti asilo.
Fuggiamo dal nostro Paese per la paura e il pericolo». «Così è trasparente — dice García — stanno seguendo le regole, rispettano la legge degli Stati Uniti, vogliono entrare secondo le procedure per l’esame delle richieste d’asilo».
Fino a pochi giorni fa, prima dello scandalo, prima dell’arrivo dei media, non c’erano garanzie di sfuggire all’arresto, né di evitare la separazione tra genitori e figli.
«Non avevo mai visto nulla di simile — dice García — in quarant’anni e sotto Amministrazioni di ogni colore, erano state tutte un po’ migliori di questa».
Ora non si respira affatto un’atmosfera di vittoria, malgrado la clamorosa retromarcia di Trump. Qui sul terreno, nel punto di transito Messico-Usa più controverso per via delle tende dei bambini, nessuno sembra sicuro che ci sia stata una vera svolta.
Certo il presidente è stato sorpreso e sopraffatto dalla forza delle condanne, in America e nel mondo. Ha dovuto rinnegare se stesso, ha firmato un decreto esecutivo che impone di tenere unite le famiglie anche in caso di arresto. Ma la formulazione dell’editto è piena di ambiguità, che non sfuggono agli esperti di diritto né ai volontari dell’assistenza umanitaria. Trump ribadisce tolleranza zero, quindi l’arresto senza eccezioni per l’immigrazione clandestina.
Promette di non separare più genitori e figli, ma non dice quale sarà il destino dei 2.300 minori già strappati dai genitori e reclusi in centri di detenzione come le tende di Turnillo. Trump non ha affatto promesso che non metterà più i bambini in gabbia: ha solo annunciato che in futuro saranno nelle stesse gabbie dei genitori.
Ma esistono poche carceri attrezzate per ospitare famiglie intere. E la legge — finché non viene riformata dal Congresso — stabilisce che i minori non possano essere trattenuti oltre i primi 20 giorni. Dove finiranno, se l’esame preliminare sui genitori dura più a lungo?
Il clima politico qui a El Paso — isola democratica dentro un Texas repubblicano — non è quello di New York o Los Angeles. Ieri sono venuti a manifestare sindaci progressisti da tante città americane, incluso il newyorchese Bill de Blasio. Anche loro tenuti a debita distanza dalla Border Patrol, con divieto di avvicinarsi alle tende dei bambini. Ma la “progressista” El Paso ha bocciato in un referendum la costruzione di un nuovo ponte verso il Messico, perché pensa che ce ne siano già fin troppi. La mia autista Uber, Belinda, è ispanica ma da 23 anni non osa varcare la frontiera «perché di là c’è troppa violenza, hanno dovuto perfino chiudere il Luna Park di Ciudad Juarez per le sparatorie». Sul tema dei minori strappati ai genitori alterna l’affetto («me ne prenderei qualcuno io») e la diffidenza: «Se non vogliono che i loro figli finiscano in un carcere americano, non devono attraversare la frontiera illegalmente, punto e basta».
Di certo la tolleranza zero non ha avuto il risultato principale che sperava Trump, quello su cui puntavano i suoi collaboratori John Kelly (Chief of Staff), Jeff Sessions (ministro della Giustizia), Kirstjen Nielsen (capa della Homeland Security). Doveva esserci secondo loro un potente effetto-annuncio: il messaggio da far pervenire ai Paesi d’origine, per dissuadere chi vuole tentare il viaggio della speranza. Gli ultimi dati dell’Onu sono usciti proprio ieri: gli Stati Uniti tra il 2016 e il 2017 cioè in piena Amministrazione Trump hanno visto aumentare del 27% le richieste di asilo. Con 331.700 richiedenti, sono di gran lunga il paese numero uno, molto davanti alla Germania (198.300). E se fin qui a El Paso sono arrivati perfino dei brasiliani dal Minas Gerais, vuol dire che le filiere sono ben organizzate.
Il ruolo delle ong umanitarie sembra impallidire di fronte a gruppi privati che sul business dell’accoglienza hanno creato dei piccoli imperi. La Southwest Key di Juan Sánchez domina gli appalti per i centri di accoglienza, grazie agli ottimi rapporti con la destra repubblicana che governa il Texas. Il giro d’affari di tutti questi business privati è stato stimato a 1,5 miliardi l’anno. Vi rientra anche il centro di accoglienza per minorenni Shiloh Residential Treatment a Manvel, Texas, oggetto di una dettagliata denuncia per l’abuso di psicofarmaci, imposti ad alcuni minori senza assistenza medica.
La denuncia è stata presentata ad aprile ma i fatti cominciano nel periodo 2011-2014, durante l’Amministrazione Obama.

Corriere 22.6.18
Turchia
Meral «la lupa» sfida Erdogan «Vincerò, per le donne»
Parla la candidata dell’opposizione «Voglio proteggere la democrazia»
di Monica Ricci Sargentini


Sull’autobus elettorale il volto sorridente di Meral Aksener, 61 anni, risplende sopra una giacca rossa che richiama la bandiera turca sullo sfondo. I capelli corti, gli orecchini di perle e quel filo di trucco le danno quel tocco di femminilità che lei rivendica con orgoglio. I suoi sostenitori la chiamano mamma Meral o Asena, la lupa blu che, secondo la mitologia, diede vita agli antenati dei Göktürk, i primi turchi. Di sicuro ha coraggio da vendere. Ministra dell’Interno tra il 1996 e il 1997, fino al «golpe postmoderno», è stata lei la prima a sfidare Recep Tayyip Erdogan alle presidenziali che si terranno domenica prossima. «Sono in politica da 25 anni e non ho mai visto un momento violento come questo — dice in quest’intervista al Corriere della Sera —. Sento la responsabilità di sfidare questo mondo dominato dagli uomini per rappresentare le istanze di donne e bambini».
Lei è fuoriuscita dal partito nazionalista che è alleato con Erdogan, il suo partito Iyi (Buono) ha solo 9 mesi di vita. Eppure l’ultimo sondaggio la dà all’11,4% e c’è chi dice che se arrivasse al ballottaggio batterebbe il presidente. È possibile?
«Questo è un momento buio per il nostro Paese, per questo stiamo lottando così strenuamente. Naturalmente penso che arriverò al ballottaggio e che vincerò ma in questo momento la cosa più importante è proteggere la democrazia».
Si riferisce all’alleanza firmata con i secolaristi del Chp e altri partiti di opposizione per votare chiunque arrivi al ballottaggio?
«L’ho detto dall’inizio: voterò e voteremo qualunque candidato dell’opposizione».
Per vincere servono i voti dei curdi. Sia in Parlamento, dove l’Hdp dovrebbe superare la soglia del 10%, sia al ballottaggio. Lei è stata ministra dell’Interno in un momento di conflitto duro con i separatisti. Non è improbabile che chi sostiene la causa curda la voti?
«Io la chiamerei piuttosto causa del terrore. E le prime vittime sono state proprio i miei fratelli e le mie sorelle curde. Un anno fa ho affittato una casa ad Ahlat, nella provincia di Bitlis, durante il bairam (una festa musulmana ndr) mi sono seduta allo stesso tavolo con i curdi e con i musulmani. Ecco il Paese modello che voglio creare. Nessuno in Turchia dovrebbe avere un trattamento diverso perché è alevita, sunnita, secolare, conservatore, turco, curdo. Siamo tutti uguali».
La svalutazione della lira turca, l’inflazione crescente e l’esposizione debitoria del Paese fanno temere per il futuro. Questo tema avrà un peso nelle urne domenica?
«L’economia è un fattore chiave di queste elezioni. I cittadini sono preoccupati dall’atteggiamento irresponsabile del governo. La gente sa che la crisi sta arrivando e che ci colpirà soprattutto perché chi era al potere non ha fatto nulla».
Questa campagna non è stata giocata ad armi pari. A maggio Erdogan è apparso in tv per 68 ore, Ince per 7 ore e lei per 13 minuti. È come avere le mani legate. «Sì è così. Noi non esistiamo nel 90% delle televisioni e dei giornali che negli ultimi anni sono stati comprati da amici di Erdogan. Ma usiamo canali alternativi e ci facciamo sentire ugualmente».
Lei è una musulmana praticante ma anche una sostenitrice dello Stato secolare fondato da Atatürk. È noto che durante i comizi a volte si copre il capo con un velo e che molte donne le regalano dei veli. Come mai?
«Nella tradizione turca le donne buttano un velo a terra per far smettere gli uomini di litigare. Se sarò eletta esporrò quei veli nell’ex palazzo presidenziale Cankaya ad Ankara a testimonianza della nostra lotta per la democrazia». Perché mamma Meral l’ha messo subito in chiaro: lei nel lussuoso palazzo presidenziale dalle mille stanze di Bestepe, inaugurato da Erdogan nel 2016, non metterà mai piede.
(Ha collaborato Dilek Gul)

Repubblica 22.6.18
Sentenza a Pamplona
Liberi i cinque stupratori della “Manada” nelle piazze spagnole l’ira anti-machismo
di Alessandro Oppes


Seimila euro di cauzione a testa, e saranno tutti liberi. Torna a sconvolgere e scandalizzare la Spagna la vicenda giudiziaria della “Manada”, il branco di cinque ragazzi di Siviglia condannati per gli abusi sessuali commessi su una giovane di Madrid l’estate di due anni fa a Pamplona, durante la festa di San Fermín. Già la sentenza, pronunciata nell’aprile scorso dal tribunale del capoluogo della Navarra, aveva scatenato polemiche e proteste: i giudici si limitarono infatti a catalogare il comportamento dei giovani come semplice “abuso” escludendo lo stupro. Da qui le condanne a 9 anni di reclusione, molto più basse rispetto alla richiesta del pubblico ministero.
Ma ora, ad appena due mesi da quel verdetto, arriva la decisione della libertà provvsoria per i cinque ragazzi che sono in cella dal 7 luglio del 2016. Secondo i magistrati della seconda sezione della Audiencia Provincial di Pamplona «non esistono le circostanze del rischio di fuga né di reiterazione del delitto».
Dunque potranno tornare a casa in attesa che i giudici si pronuncino sul ricorso presentato dai loro avvocati contro la condanna.
La notizia ha provocato l’immediata reazione di partiti, organizzazioni sociali, movimenti femministi che già ieri sera hanno convocato manifestazioni di protesta in tutte le principali città spagnole. «Come possiamo convincere le donne a presentare denunce per gli abusi subiti», si chiede Yolanda Basteiro, presidente della Federación de Mujeres Progresistas. «La decisione manda un messaggio di sfiducia alle donne verso quelle istituzioni che dovrebbero proteggerle», dichiara Bárbara Tardón, ricercatrice esperta di violenza machista. E l’avvocata dell’associazione Women’s Link, Elena Laporta, insiste sul fatto che «c’è un problema strutturale quando nei casi di violenza sessuale non si garantisce una giustizia senza discriminazioni». Migliaia di persone hanno manifestato ieri sera all’insegna dello slogan “no es abuso, es violación” (non è abuso, è stupro), da Pamplona a Barcellona, da Bilbao a Palma di Maiorca e Siviglia.
Immediata la reazione del governo socialista di Pedro Sánchez, il primo nella storia di Spagna in cui il numero di ministre è superiore a quello di ministri. Secondo la titolare della Giustizia, Dolores Delgado, nella magistratura spagnola «c’è necessità di riforme mentali». E la segretaria di Stato per l’Uguaglianza, Soledad Murillo, pur precisando che «come governo non possiamo valutare questa decisione giudiziaria», richiama «l’allarme sociale» provocato dalla messa in libertà dei cinque giovani andalusi.
I ragazzi della “Manada” (erano loro stessi ad autodefinirsi così, come un “branco”, nei messaggi che si scambiavano su Whatsapp) potranno subito tornare in libertà, sempre che paghino la cauzione. Ma il tribunale ha imposto loro alcune condizioni: dovranno presentarsi tre volte la settimana dal giudice di sorveglianza, non potranno andare nella regione di Madrid (dove risiede la vittima). E a tutti sarà ritirato il passaporto fino alla sentenza definitiva.

Il Fatto 22.6.18
Leggende fondative: come fu che Romolo stracciò il contratto con Remo e fece Roma
Corsi e ricorsi - L’Italia non è rivoluzionaria perché al parricidio preferisce il fratricidio (U. Saba)
di Salvatore Settis


Come mostrano tutte le statistiche e quotazioni di Borsa, le sfere di cristallo e altri articoli e congegni mirati al vaticinio vanno forte sui mercati. E gli analisti concordano: come, se non mediante aruspici e veggenti, prevedere la sorte e gli esiti del governo uno e trino Salvini-Conte-Di Maio?
Nelle aree più arretrate del Paese, anziani negromanti scrutano i fondi di caffè, con risultanze spesso discordi.
Intanto si affannano i formulatori di formule, gli arrotondatori di tavole, i contatori di Repubbliche (1, 2, 3, 4… and counting), i giustificatori di scusanti, gli elogiatori di incompetenze ed altri acrobati. Oppure, ed è l’alternativa preferita dagli intellettuali (populisti e non), si ricorre a sudatissime ricerche d’archivio per rispolverare oscuri e dimenticati testi profetici. Tra i quali emerge il seguente:
“Vi siete mai chiesti perché l’Italia non ha avuto, in tutta la sua storia – da Roma ad oggi – una sola vera rivoluzione? La risposta – chiave che apre molte porte – è forse la storia d’Italia in poche righe. Gli italiani non sono parricidi; sono fratricidi. Romolo e Remo, Ferruccio e Maramaldo, Mussolini e i socialisti, Badoglio e Graziani. ‘Combatteremo – fece stampare quest’ultimo in un suo manifesto – fratelli contro fratelli’. Favorito, non determinato, dalle circostanze, fu un grido del cuore, il grido di uno che – diventato chiaro a se stesso – finalmente si sfoghi. Gli italiani sono l’unico popolo, credo, che abbiano, alla base della loro storia, o della loro leggenda, un fratricidio. Ed è solo col parricidio, con l’uccisione del vecchio, che si inizia una rivoluzione. Gli italiani vogliono darsi al padre, ed avere da lui, in cambio, il permesso di uccidere gli altri fratelli” (Umberto Saba, Scorciatoie e raccontini, 1946).
E infatti, raccontano gli storici, i due fratelli Romolo e Remo, dopo aver stipulato fra loro un contratto per la fondazione di Roma, non riuscirono a mettersi d’accordo su chi dovesse esserne il re, e decisero che avrebbe vinto chi vedesse più rapaci dall’alto di un colle.
Remo, dall’Aventino, ne vide sei, e poco dopo Romolo, sul Palatino, ne vide dodici. Il partito di Romolo lo voleva re, perché aveva avuto più “voti”, quello di Remo obiettava che i suoi voti erano meno ma valevano di più perché arrivati prima (Tito Livio).
Invano tentarono una mediazione attraverso uno sconosciuto scelto a caso tra i passanti. Allora Romolo decise di passare all’azione: tracciò con l’aratro il perimetro delle mura di Roma, e al grido di #Prima i Romani! vietò agli stranieri di entrarvi.
E il povero Remo, che magari avrebbe voluto ammettervi qualche migrante dai paraggi, senza tanti complimenti fu ucciso dal fratello (Plutarco). Risultato: Romolo re di Roma, Remo sepolto, il contratto stracciato, il mediatore rispedito a casa nonostante il curriculum. Perché, allora come ora, “è l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende” (B. Mussolini, 1934).

Il Fatto 22.6.18
Andrée Ruth Shammah: “Essere se stessi è difficile, oggi ci si muove in mandrie”
di Cam. Ta.


Lunedì Andrée Ruth Shammah compirà 70 anni, di cui 50 di teatro, di cui quasi tutti al Salone di via Pier Lombardo a Milano, da lei fondato nel 1972 insieme con Franco Parenti, Giovanni Testori, Dante Isella e Gian Maurizio Fercioni.
C’è di che far festa, anche perché il Parenti “vive un momento di grazia, non solo sul palco ma nel rapporto col pubblico. Benché nessun politico ne parli mai, il teatro resta una nicchia di qualità. A teatro non si fa solo teatro: si fanno dibattiti, si presentano libri, si discute di musica”. Voi avete anche i Bagni Misteriosi… “Stiamo cercando in tutti i modi di fare ‘tuffo e spettacolo’, ma ancora non siamo riusciti a mischiare il pubblico”.
Pur non sentendosi – “per niente” – la donna più influente del teatro italiano, Shammah è una delle pochissime a ricoprire ruoli dirigenziali, su e giù dal palco. Esiste disparità di genere tra teatranti? “Io non so più nemmeno se sono una donna, non so più cosa significhi. Una volta dicevo che una regista, una direttrice, ha senso dell’accoglienza, sa tenere la gente insieme, tratta il teatro come una casa. Lo penso ancora, però mi sembra un discorso vuoto. Io ho fatto molta fatica: se fossi stata un uomo ne avrei fatta meno? Non lo so. Forse è la libertà che si paga, più che il sesso: una persona che vuole essere se stessa, senza soggiacere a schieramenti o identificazioni, fa fatica perché oggi ci si muove a mandrie: si è tutti di qua o di là; tutti contro o pro qualcuno”.
Le stagioni teatrali sono sempre più lunghe: la creatività sta traslocando dai festival alla città? “Il Parenti è stato il primo a proporre una rassegna estiva dentro il teatro. Ora lo stanno facendo in tanti perché gli enti pubblici non organizzano più nulla… Poi, la differenza tra ricerca e classici non regge: anche il teatro pubblico ora fa ricerca. Forse oggi è più originale mettere in scena Cechov come l’ha scritto Cechov”.