Repubblica 26.5.18
Andrea Camilleri “Ora sono cieco e tutto mi è chiaro”
“Ho scritto un testo su Tiresia e lo porto in scena dando voce all’eroe omerico non vedente
Il mio è un ritorno al teatro e anche il nuovo Montalbano ha un’ambientazione teatrale”
“Conversazione
su Tiresia” di e con Andrea Camilleri, regia di Roberto Andò, va in
scena l’11 giugno al Festival del teatro greco di Siracusa. Di Camilleri
esce inoltre “Il metodo Catalanotti”.
intervista di Raffaella De Santis
«Chiamatemi Tiresia».
Andrea Camilleri a 92 anni non ha paura di rimettersi in gioco. «È una sfida», dice.
Generoso,
coraggioso, ironico, lo scrittore salirà sul palco del teatro greco di
Siracusa e sarà Tiresia, l’indovino tebano cieco che compare già
nell’Odissea per indicare a Ulisse la via del ritorno.
«Da un po’ di tempo non vedo più niente, diciamo che ho scelto Tiresia per affinità elettiva».
Sembra una maledizione dei grandi raccontatori di storie. Da Omero a Borges condannati a cavare fuori le parole dal buio.
Camilleri
è un narratore totale, non c’è spunto che in lui non si trasformi in
una storia. Anche al telefono non resiste, ogni stimolo è l’occasione di
un aneddoto, la molla per un ricordo. Inevitabile che perfino la sua
cecità diventasse materia letteraria. L’11 giugno, invitato dall’Inda,
l’Istituto nazionale del dramma antico, Camilleri darà voce a Tiresia di
fronte a 13 mila spettatori: «A novantadue anni si è un po’ vecchietti.
Avevo voglia di vedere se ancora ce la facevo».
Conversazione su Tiresia è un’opera drammaturgica scritta da Camilleri e da lui interpretata.
La
regia è di Roberto Andò. È un viaggio nelle metamorfosi letterarie,
poetiche e filosofiche del mito attraverso le epoche affidato alla voce
pastosa e pacata dello scrittore.
È il ritorno al teatro, un suo antico amore?
«Una fiammata di teatro. La coincidenza divertente è che anche
Il metodo Catalanotti, il nuovo Montalbano, ha un’ambientazione teatrale».
Non deve essere stato semplice orientarsi nella mole di fonti su Tiresia.
«Non
c’è stato secolo che scrittori di qualsiasi tipo non si siano
interessati a Tiresia. Mi sono trovato di fronte a un diluvio di testi.
Per evitare però che la storia diventasse una sorta di lezione
universitaria, l’ho trasformata in un racconto».
Attraverso Tiresia ha voluto parlare di sé?
«L’idea
è di parlare di Tiresia come se io fossi Tiresia. Chiamatemi Tiresia,
per dirla con l’incipit di Melville ( Moby Dick inizia con la frase
“Chiamatemi Ismaele”, ndr) ».
La cecità fa vedere meglio?
«Stimola
l’intuizione, è un’apertura. E poi quando si è ciechi avviene una cosa
strana: tutti gli altri sensi corrono in soccorso del senso mancante.
Fumando da sempre come un turco avevo perso gli odori e i sapori, invece
ora si sono rafforzati».
E il rapporto con le parole è cambiato?
«Le
parole hanno attorno un alone sfumato, una nebbia continua. La stessa
nebbia che mi circonda. Ma in questa nebbia in cui sono immerso quello
che vedo è estremamente chiaro. Forse la vista mi distraeva dal
pensiero».
È cambiato il suo modo di organizzare il lavoro?
«Ormai
da tre anni non vedo più ma il processo è stato progressivo, dunque ho
avuto modo di creare una difesa strategica. Ho dovuto imparare a dettare
a Valentina. Lo posso fare perché lei mi conosce e mi affianca da 16
anni (Valentina Alferj, assistente di Camilleri, è anche agente
letterario, ndr).
Lavoriamo ogni mattina almeno tre ore. C’è da
dire che anche prima, da vedente, avevo l’abitudine di rileggere la
pagina ad alta voce per fare le correzioni. Mi ha aiutato molto,
altrimenti le parole rischiano di perdersi nel vuoto».
Torniamo quindi al teatro, all’oralità.
«Per
me è qualcosa d’innato. Ho insegnato in passato all’Accademia e al
Centro sperimentale di cinematografia. Sono stati miei allievi Emma
Dante e Marco Bellocchio. In Il metodo Catalanotti, prendo però un po’
in giro i sistemi alla Grotowski e le avanguardie tipo il Living
theatre».
E il suo metodo d’insegnamento com’era?
«Maieutico:
scoperta un’idea originale nell’allievo gli davo tutta la corda che
voleva per impiccarsi a quella sua idea. Cercavo di scoprire
l’originalità che ciascuno aveva dentro, tentavo di tirargliela fuori.
Le storie nascono sempre dal buio?
Una
volta scrissi che i poeti greci si accecavano per diventare veri poeti (
sorride)… Ricordo che quando ero bambino in Sicilia si usava accecare i
merli e i cardellini per farli cantare meglio. Era un’abitudine crudele
che mi faceva piangere».
Esistono però cecità diverse.
Quella di Tiresia ed Edipo non si somigliano affatto.
«A
differenza di Tiresia, Edipo vede solo la condizione punitiva della
cecità, non sa andare oltre. L’unica sua preoccupazione è non perdere la
ragione nello stato in cui si è venuto a trovare».
Nel mito, Tiresia è reso cieco da Giunone.
«Un
giorno Zeus e Era stanno discutendo intorno a una domanda: nell’atto
sessuale chi prova più piacere l’uomo o la donna? Non sapendo
rispondere, chiamano Tiresia, il quale è un esperto di entrambi i sessi,
perché, secondo il mito, da maschio era diventato femmina e poi di
nuovo uomo.
Insomma era considerato un tecnico».
E Tiresia risponde che gode più la donna.
«No, lui risponde che nell’atto sessuale esistono dieci gradi di piacere. La donna ne gode nove, l’uomo appena uno».
E per questo viene punito?
«Giunone lo punisce quando scopre che i gradi del piacere sono nove.
Solo
allora si rende conto che con Zeus non ha mai raggiunto questi nove
gradi. Da qui la reazione di ira nei riguardi del rivelatore. Ma è una
mia supposizione ( ride) ».
Il suo è un viaggio nelle varie facce di Tiresia di epoca in epoca.
«Tiresia
sembra fatto di pongo. Ogni autore lo ha modellato a suo piacimento.
Perfino gli scrittori proto-cristiani hanno cercato di appropriarsene».
Una delle trasformazioni che l’hanno più colpita?
«Quella
di un commentatore di Dante, un anonimo fiorentino del Trecento.
Sostiene che Tiresia era un ermafrodita e che per godere si
autopossedeva. La cosa mi ha fatto sghignazzare. Nemmeno un
contorsionista da circo equestre riuscirebbe in questo tipo di
amplesso».
È la prima volta che scrive una drammaturgia?
«Ho
fatto molte riduzioni per il teatro, da raccolte di Pirandello e da
miei stessi racconti, ma un testo originale non l’avevo mai scritto.
Anzi ne avevo scritto uno nel 1947.
Un atto unico, aveva vinto il premio Faber, ma l’ho buttato fuori dal finestrino mentre tornavo in Sicilia».
Perché?
«Non mi piaceva. Erano i tempi di A porte chiuse di Sartre. La mia mi sembrò una scopiazzatura e me ne liberai».
Lo fa ancora? Butta via le pagine che non le piacciono?
«Non
lascio tracce delle pagine preparatorie di un libro né delle prime
stesure. Distruggo tutto, sono un vero assassino. Deve restare solo il
libro pubblicato».
Sa che Philip Roth ha dato disposizione di distruggere il suo archivio personale?
«Non lo sapevo. Io lo faccio in vita, così sono più sicuro».
Le piaceva Roth?
«Mi piaceva da matti. Ho sempre maledetto i membri dell’Accademia svedese. Avrebbero dovuto dargli il premio Nobel da anni».