venerdì 18 maggio 2018

Il Fatto 18.5.18
I troppi ritardi della politica pagati dai più giovani
di Marina Mastropierro


Il Rapporto Istat 2018 ci consegna la fotografia di un’Italia vecchia, impoverita, immobile. Lavori sotto qualificati sempre più diffusi. Un saldo demografico sempre più drammatico. E, soprattutto, una famiglia sempre più funzionante da “agenzia di collocamento” per le giovani generazioni. Quando si parla di giovani, nel dibattito pubblico italiano, lo si fa quasi sempre con linguaggi e strumenti paternalistici, emergenziali o strumentali. I giovani italiani sono neet, choosy, bamboccioni. Insomma, “in ritardo”. Senza incanalare il dibattito in una diatriba “giovani-vecchi”, che rischia di produrre distorsioni, a giudicare anche dai dati appena pubblicati ci troviamo dentro uno scenario caratterizzato da scarsissima mobilità sociale e un forte livello di disuguaglianze intra e inter generazionali. Il tasso di trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza in Italia, il “coefficiente beta”, è pari al 50%. Questo significa che metà delle differenze di reddito da lavoro che sussistono tra genitori vengono trasmesse ai figli. L’economista Maurizio Franzini, a tale proposito, aveva già parlato di “disuguaglianze inaccettabili”, per declinare il fenomeno tutto italiano nel quale i maggiori sponsor economici e sociali dei giovani sono le famiglie e il capitale sociale ed economico di cui sono dotate. Guardando i dati Istat, è chiaro che questo scenario si sta aggravando. La nascita è sempre più una grande lotteria sociale e la politica ha abdicato al suo ruolo, cioè quello di ridurre il divario esistente nelle condizioni socio-economiche di partenza tra ricchi e poveri.
Oltre alla piramide demografica rovesciata, un altro dato della condizione giovanile in Italia colpisce. Rispetto alla media europea, infatti, i giovani italiani della fascia 25-34 che vivono con i loro genitori sono quasi il doppio della media europea. Questo ha concesso alla politica di parlare di “ritardo” delle giovani generazioni. Ma ad essere in ritardo sono i giovani o le politiche pubbliche? È tempo di analizzare le responsabilità che riguardano gli orientamenti e le scelte di policies degli ultimi decenni. Politiche abitative tra le più basse d’Europa: 0,1% del Pil, rispetto al 2,1 di Germania, al 2,6 di Francia e al 5,2 di Regno Unito. Politiche del lavoro inadeguate: dalla seconda metà degli anni Novanta, riforme interamente mirate alla contrazione simultanea di stabilità di reddito, contratto, diritti, tutele. Politiche pensionistiche inique: dalle baby pensioni degli anni Settanta alle riforme del 1992 e del 1995, caricate in larga misura sulle spalle delle giovani generazioni. La letteratura americana parla di youthanasia, cioé distruzione fiscale ed economica delle giovani generazioni compiuta nella maggior parte dei paesi a economia avanzata. In Italia la tendenza è drammatica: le politiche pubbliche hanno compiuto scelte in controtendenza rispetto al sostegno all’autonomia delle giovani generazioni, concentrandosi sulla conservazione degli interessi già consolidati. La politica non si è mai occupata in termini strutturali di giovani generazioni, ma si è sempre dotata di dispositivi emergenziali o imitativi del welfare di paesi europei dove i sistemi di sicurezza e protezione sociale funzionano (Garanzia Giovani ne è un esempio). È necessario che la politica torni a riscoprire il suo ruolo di mediazione sociale, mirando a costruire le condizioni affinché le aspirazioni di tutti i giovani possano trovare concrete possibilità di realizzazione. Intervenire sui fattori che riproducono le disuguaglianze tra e dentro le generazioni ponendo il tema di quali politiche sono necessarie all’autonomia economica e sociale dei giovani non è più rinviabile.

il maniifesto 18.5.18
Porti chiusi alle navi che fanno i salvataggi
di C. L.


Una riforma del regolamento di Dublino che preveda la distribuzione obbligatoria dei richiedenti asilo tra gli Stati membri della Ue è una dei pochi punti condivisi fin da subito con il M5S. Per il resto il capitolo del programma che riguarda l’immigrazione si basa tutto sulle proposte della Lega che puntano a fermare senza troppi complimenti gli sbarchi e aumentare i rimpatri dei migranti irregolari e sulle quali i grillini , consenzienti o meno, si sono allineati.
Il punto più pericoloso si trova forse alla nona riga, dove si sottolinea la necessità di arrivare a una «verifica» delle missioni europee nel Mediterraneo, che grillini e leghisti giudicano penalizzanti per «le clausole che prevedono l’approdo» nei porti italiani delle navi che hanno tratto in salvo dei migranti. In realtà le clausole di cui si parla di fatto non esistono più da mesi, cancellate dall’Agenzia europea Frontex con l’avvio della missione Themis che esclude un simile automatismo, sostituito con l’ordine alle navi di dirigersi verso «il porto sicuro più vicino».
Questo significa che, senza ricorrere al più volte sbandierato blocco navale (impossibile da attuare e che provocherebbe l’accusa all’Italia da parte di Bruxelles di mettere in atto dei respingimenti vietati dal diritto internazionale) a chi domani siederà al Viminale potrebbe essere sufficiente non autorizzare alle navi cariche di migranti l’ingresso in un nostro porto per evitare nuovi sbarchi. Come in parte è successo nelle scorse settimane con la navi delle Ong Open Arms e Sos Mediterranée, salvo una successiva retromarcia da parte del ministero degli Interni.
Altro punto di pura propaganda riguarda il rimpatrio forzato di «circa 500 mila» migranti irregolari tante volte promesso dalla Lega. Difficile che venga messo in pratica, visto che farlo richiederebbe due miliardi di euro e almeno una trentina di anni. Più realistica la realizzazione di centri di identificazione ed espulsione in ogni Regione dove rinchiudere i migranti fino a 18 mesi, invece degli attuali tre.

il maniifesto 18.5.18
Quando in Parlamento si parlava anche la lingua delle donne
Quarant'anni fa. L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare. In Commissione Sanità eravamo oppresse da deputati-medici maschi che cercavano di assumere il controllo del problema
di Luciana Castellina


L’aborto è stato il mio battesimo parlamentare. L’argomento si impose infatti dal primo giorno nella VII legislatura (quella che aveva portato lo sparuto drappello della nuova sinistra alla Camera dei Deputati, sei “onorevoli”, uno di Lotta Continua, due di Avanguardia operaia, tre del Pdup). La precedente era infatti stata sciolta anzitempo proprio in virtù della grande mobilitazione suscitata dal movimento delle donne che aveva di fatto impedito al Pci di approvare – come aveva precedentemente accettato di fare – un arretratissimo compromesso. Adesso si ricominciava a discutere su un testo più avanzato, ma il confronto mi apparve subito dominato dalla preoccupazione di non incrinare l’ambiguo schieramento che sosteneva il governo della così detta «astensione costruttiva».
In Commissione Sanità, dove si trattava il problema, potei così scoprire quante e quali manovre relative agli equilibri istituzionali si intrecciavano con la IVG, come fu chiamato il progetto di legge sull’«Interruzione Volontaria della Gravidanza», quanto lontana quella discussione fosse dal sentire delle donne. Intervenendo in aula, dove il progetto di legge era finalmente arrivato nel dicembre ’76 ( ma ci volle un altro anno e mezzo per arrivare al voto finale ) iniziai rilevando proprio questa siderale lontananza, che aveva per altro prodotto il paradosso: attivissimo negli anni precedenti, ora che si era arrivati al dunque il movimento risultava assente. «Questa assenza, questo relativo silenzio – dissi ( mi rileggo negli atti parlamentari ) – non sono la conseguenza di una crisi del movimento, che anzi cresce… Il fatto è che il movimento ha preso coscienza dei limiti estremi di questa come di ogni legge, magari migliore di questa.
Perché quel che aveva mosso il movimento sin dall’inizio non era solo l’obiettivo pratico dell’abrogazione delle norme del codice Rocco ma la liberazione delle donne da quel complesso di peccato, di vergogna, di reato che aveva circondato la loro sessualità. Solo chi all’aborto ha pensato negli angusti termini di un diritto civile può meravigliarsi per il fatto che quel primo passo di liberazione sia stato solo il momento iniziale di una riflessione collettiva ben più profonda, una premessa per riappropriarsi della propria sessualità negata; ed anche e soprattutto, della maternità, finalmente trasformata da processo biologico che cresce nel proprio corpo al di fuori della propria volontà, in scelta umana, e perciò libera e responsabile. Questa maternità, e non la vostra maternità deterministica, colleghi democristiani, è quanto oggi appassiona, aggroviglia, turba il movimento delle donne».
E tuttavia, rileggendo a quarant’anni di distanza gli atti di quel dibattito parlamentare, mi sorprendo a trovarvi un confronto per niente banale. (Rispetto all’attuale battibecco, spesso persino volgare, sembra appartenere ad un altro pianeta).
L’aver spostato l’attenzione, come era logico, dall’aborto al senso della maternità, al perché della procreazione, consentì di portare in parlamento l’eco della riflessione femminista (l’on.Maria Eletta Martini, la più sensibile delle deputate Dc, cita persino un convegno di Pestum!).
Per questo occorreva denunciare la pretesa di lasciare nella legge una casistica che la donna doveva rispettare per poter praticare l’aborto così come l’obbligo di sottoporsi al controllo di un medico-magistrato. Misure certo ormai solo formali, e tali, dunque, da lasciar di fatto libera la donna di scegliere. E però proprio per questo tali da rendere anche più evidente il loro significato ideologico: riaffermare che il ruolo coatto della donna è la procreazione, sicché chi decide di sottrarvisi deve esser bollata come deviante.
In qualche modo si riuscì ad imporre al Parlamento una discussione che rese chiaro come tutta l’insistenza nel voler mantenere una serie di ostacoli puramente formali all’interruzione volontaria della gravidanza non avesse alcuna motivazione morale o religiosa, ma solo il timore che sollevava il processo di liberazione della donna. Proprio per questo apparvero così filistei i suggerimenti dei tanti “buonsensai” laici che suggerivano di lasciar perdere ogni opposizione visto che il procedimento imposto alla donna prima di poter accedere all’aborto non le avrebbe nei fatti impedito una libera scelta.
Erano i tempi in cui fra gli slogan ironici e beffardi del movimento delle donne grande spazio aveva «tremate tremate le streghe sono tornate», e quell’arbitrario inserimento autoritario del medico da visitare prima di poter abortire ci ricordava che la medicina aveva storicamente oppresso o ignorato le donne, e che per liberarsene bisognava combattere la mistificazione, proprio dai medici alimentata, secondo cui la dipendenza delle donne sarebbe stata determinata da un dato biologico, e non, come invece è, da un fattore sociale. (In Commissione sanità, dove il progetto di legge è stato a lungo in discussione, eravamo oppresse da una quantità di maschi-medici-deputati che cercavano di assumere il controllo del problema, come se fosse di loro esclusiva competenza).
Votammo comunque «Sì» una prima volta alla Camera, anche per evitare che finisse per prevaler l’ipotesi del Partito radicale: un referendum abrogativo della penalizzazione che lasciava però le donne senza alcuna tutela, soprattutto senza la possibilità di ricorrere al sistema sanitario nazionale per interrompere la gravidanza. Ma all’ultimo voto, nel maggio del 1978, il progetto di legge era stato pesantemente peggiorato, per via di un emendamento Dc (passato grazie all’inattesa astensione del Pci e del Psi, per di più giustificata con il clima di tensione in cui si viveva per via del rapimento Moro), inteso a mettere sotto più pesante tutela le minorenni. Questo era troppo e, sia pure con preoccupazione, decidemmo di dire no a tutto il progetto.
Ci battemmo tuttavia poco tempo dopo in difesa di questa 194 che pure non ci soddisfaceva quando l’ala più clericale della Dc la sottopose al referendum abrogativo. Credo sia stata giusta l’una e l’altra scelta apparentemente contraddittorie: era giusto riaffermare i principi per cui si batteva il movimento delle donne; ma era giusto anche impedire che si perdesse quanto eravamo riuscite a strappare con anni di fatica con questa legge che sul piano pratico risultò una delle più avanzate d’Europa. Anche il Pci, del resto, votò contro lo Statuto dei Lavoratori nel 1970, mentre oggi siamo impegnati a difendere l’articolo18 e non solo. Così noi la 194 minacciata.
Quando dico che è stato giusto votare contro e però poi difendere queste leggi è perché in una democrazia sono necessarie le mediazioni, basta non approvare anche i compromessi perdenti. Oggi la democrazia è così impoverita che non si dà più nemmeno dialogo.

il maniifesto 18.5.18
Storie di clandestinità e passione
Scaffale. «Amori comunisti» di Luciana Castellina, edito da nottetempo. «Per chi si fa coinvolgere dalla Storia fino in fondo, la vita privata e quella pubblica sono così strettamente intrecciate che a volte si confondono»
di Andrea Bajani


Che il pericolo allerti e faccia più acuta la memoria è un fatto ormai assodato. Il divieto di parlare non cauterizza le parole: le rende viceversa forti, anche se acquattate in uno spazio della mente a tentare di non dissolversi, a farsi forza reciprocamente. Tutti i regimi repressivi, tutte le dittature raccontano la stessa storia: l’ordine di tacere rende guerrigliere le parole. Le manda se mai in clandestinità: più agguerrite ancora, cercano una strada per non perdersi. Pretendono di dire, vogliono eludere la sorveglianza.
Senza nulla con cui scrivere, Antonio Gramsci, nella prima fase della detenzione, cerca di imparare a memoria frammenti di testi. Anna Achmatova, Osip Mandel’štam, sono solo alcuni dei tanti salvati dall’intervento mnemonico degli altri: proibiti i loro testi dalla dittatura, gli amici (o loro stessi) li mandano a memoria. Farsi custode e custodia delle parole altrui, questa è una delle forme di resistenza: farsene abitare, diventare corrieri clandestini, verbotrafficanti.
Passare il confine, aprire la bocca, finalmente, come si apre una finestra, per far volare le parole: guardare una frase, una poesia dispiegare le ali, per poi andarsene libera nell’aria. Libera di essere guardata, letta, detta a voce alta.
Il libro di Luciana Castellina, Amori comunisti, pubblicato in questi giorni da Nottetempo (pp.272, euro 16), ha a che fare con tutto questo. Raccoglie tre storie di lotta comunista, di resistenza, di clandestinità e di passione.
«Li ho chiamati ‘amori comunisti’ – scrive nella prefazione – non solo perché questa era la fede dei loro protagonisti, ma perché, per chi si fa coinvolgere dalla Storia fino in fondo, la vita privata e quella pubblica sono così strettamente intrecciate che a volte si confondono. Sono storie che mi hanno meravigliato, appassionato, sconvolto».
IL GRANDE POETA TURCO Nazim Hikmet e Münevver Andaç; i resistenti della guerra civile a Creta Arghirò Polichronaki e Nikos Kokovlìs; l’amore, nell’America flagellata dalla mannaia maccartista, tra Sylvia Berman e il dirigente del partito comunista Robert Thompson. Sono tre storie che raccontano, di fatto una cosa molto semplice: quanto la propria vita acquisti di senso quando si è disposti a lottare insieme a qualcun altro perché il mondo sia migliore. Quanto la sofferenza non sia sinonimo di sconfitta – come ci hanno insegnato decenni di dittatura dell’intimismo – ma un passaggio di stato, uno strumento di lotta. Non c’è rivoluzione, pubblica o privata, in cui la sofferenza, il contrasto, non faccia la sua parte.
L’AVVERBIO insieme, è in fondo, il protagonista di questo libro. Hikmet, il cantore dell’amore e della passione politica, dal carcere scrive alla moglie perché la sua solitudine non lo ammazzi. C’è qualcuno fuori che lo aspetta, e questo è quello che intravede tra le sbarre. Arghirò Polichronaki e Nikos Kokovlìs resistono per anni sulle montagne di Creta insieme ad altre sei persone, a dispetto dell’evidenza dell’imparità dello scontro. Sylvia Berman continuerà a scrivere a Thompson durante gli anni della prigione, e si batterà perché le sue ceneri vengano sepolte nel cimitero di Arlington tra gli eroi degli Stati Uniti, nonostante la fede comunista. Insieme. «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio – scrive don Milani, citato dall’autrice a mo’ di sintesi di questo libro – Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia».
Luciana Castellina si è fatta custode e custodia di queste storie per anni. Ha lasciato che gli uomini e le donne qui raccontati, incontrati in decenni di militanza e di corrispondenza per Paese sera e il manifesto, prendessero spazio dentro di lei. Ha offerto la propria memoria come casa, come rifugio a chi non ce l’aveva. Per decenni quelle storie sono state parte del suo patrimonio interiore e della Storia.
Forse Castellina ha poi dovuto oltrepassare il 1989, e forse persino il Duemila, prima di tirarle fuori e liberarle in aria per lettori e cittadini. È stato necessario tutto questo tempo perché l’amore potesse stare insieme all’aggettivo comunista.
IN FONDO, SI È SEMPRE liquidato il comunismo con verdetti sommari e semplificatori, appellandosi a presunte evidenze della Storia. L’ha fatto chi vi aveva aderito e l’ha fatto chi lo aveva sempre osteggiato. Per farlo, però, si è sempre tenuto fuori l’uomo, si è sempre espunta la passione, quel laccio che tiene insieme la solitudine e la storia, l’amore e la lotta politica. E si è sbandiera la parola felicità come un risultato del tramonto delle ideologie.
A quasi trent’anni dall’89, Amori comunisti si riappropria di quel nodo emotivo che, anche a sinistra, si era tenuto nascosto come una vergogna. Era ora che venisse fuori. Per questo è un libro imprescindibile.

Il Sole 18.5.18
Le riforme a orologeria di Pechino
Mercati globali. tra liberalizzazioni e guerre commerciali
Quando la Cina si aprirà al mondo sarà per assecondare le sue ambizioni di potenza
di Adriana Castagnoli


La Cina non è un’economia normale: per quattro decenni ha conosciuto una crescita record del 10% annuale ed è il primo Paese in via di sviluppo a divenire una grande potenza mondiale. D’altronde, ne è una riprova anche la missione a Pechino della delegazione guidata dal Segretario al Tesoro americano Steven Mnuchin per cercare di allentare le crescenti tensioni ed evitare l’escalation di una guerra commerciale fra le due sponde del Pacifico. Ma le dispute sugli scambi, dopo le dichiarazioni d’impegno del presidente Xi Jinping a nuove liberalizzazioni e aperture del mercato interno, continueranno: poiché la Cina si aprirà al mondo unicamente nel modo e nei tempi che riterrà più convenienti per la sua politica di potenza.
Quando nel 2007 il premier Wen Jiabao definì l’economia cinese «instabile, squilibrata, scoordinata e insostenibile» i vertici del Pcc, anziché aprire alla concorrenza, decisero di rafforzare le imprese di Stato. Da allora la Cina ha continuato a resistere alle pressioni americane di creare condizioni paritarie per gli investitori stranieri “forzando” le aziende estere a firmare joint venture e a cedere tecnologia per accedere al gigantesco mercato domestico. Pechino ha promosso politiche per sostenere, in particolare con “Made in China 2025”, campioni nazionali in settori strategici che includono aerospazio, biomedicina e robotica. È divenuta così uno dei leading global hub per lo sviluppo dell’Intelligenza artificiale (Ai). Possiede le più importanti startup al mondo del settore ed è all’avanguardia nella competizione per il 5G.
In alcuni comparti, come il mercato dell’energia, l’enorme impatto economico cinese nel green può ridisegnare l’ordine mondiale insidiando le strategie espansive dell’amministrazione Trump, che ha puntato invece sulle fonti fossili. Perché più la Cina investe nell’industria dell’energia verde (pannelli solari, batterie, auto elettriche, impianti di cattura e stoccaggio del carbonio) più i prezzi di queste produzioni crollano facilitando la strategia di penetrazione cinese e costringendo gli altri ad adeguarsi.
D’altronde, il Fondo monetario internazionale prevede una crescita del Pil cinese al 6,6% nel 2018, mentre sono aumentati i salari, le riserve in valuta straniera e il renminbi si è rafforzato. Anche il riequilibrio dell’economia verso i consumi è iniziato tanto che, nel 2017, il consumo finale ha contribuito al 59% del Pil.
Il punto è che per lo Stato cinese economia e politica sono due facce della stessa medaglia. L’autoritarismo di Pechino nel XXI secolo, oltre a stringenti controlli per la cybersecurity, include anche un piano per il “social credit” che combinando big data, Ai e software di riconoscimento facciale rende possibile localizzare in pochi minuti una persona fisica e premiare o punire i cittadini per il loro comportamento. Sulla scena mondiale, coerente a questa idea di Stato autoritario, Pechino fa scudo a regimi non democratici (come Sudan, Siria, Venezuela, Zimbabwe e altri), insieme alla Russia, ostacolando le sanzioni internazionali e impedendo azioni d’intervento in sede Onu.
Per giunta la Cina si propone come un nuovo modello economico. La sua influenza politica passa anche attraverso questa sua capacità di penetrazione nel business globale. Tanto più che Pechino differenzia il suo approccio negli aiuti ai Paesi in via di sviluppo rimarcando come, rispetto agli Stati Uniti e alle potenze europee, essa non chieda loro di riformare la governance in cambio dei suoi sussidi. La stessa politica di ritorsioni contro i dazi di Trump potrebbe finire per rafforzare la presenza cinese nel subcontinente americano dove Argentina e Brasile sono pronti a fornire la soia prima importata dagli Usa.
Nei confronti dell’America sinora la Cina ha cercato di divenire più competitiva senza essere conflittuale. Contemporaneamente la sua dipendenza dal commercio estero e, in particolare, dal surplus con gli Usa si è costantemente ridotta, tuttavia c’è ancora. Per questo nella disputa sui dazi la strategia cinese punta a isolare gli Stati Uniti dagli alleati poiché una guerra commerciale sarebbe negativa, nell’attuale fase di riequilibrio dell’economia sui consumi interni, anche per Pechino.
Nondimeno vi sono fondati motivi per ritenere che le riforme in corso e le aperture annunciate da Pechino siano soltanto un’ulteriore messa a punto del modello di socialismo di mercato. Xi Jinping ha reso esplicita l’intenzione di rafforzare le aziende di Stato e lo sviluppo di tecnologia domestica. La Cina si aprirà ai capitali esteri gradualmente e nel modo che il governo riterrà più confacente alle sue ambizioni di potenza globale. D’altronde, un potere centralizzato e autocratico può permettersi interventi per correggere il corso delle cose che sono, naturalmente, impossibili in una democrazia.

Il Sole 18.5.18
I rapporti con il Dragone. Per attrarre i traffici necessari investimenti sulla rete portuale, ma cautela verso eccessive aperture
Strategia paziente verso la Via della Seta
di Pino Musolino


Nel prossimo futuro l’Italia è chiamata a tenere in considerazione almeno due fattori per garantire crescita e sviluppo del comparto marittimo-portuale e dell’intero sistema Paese.
Il primo è l’implementazione della strategia della Via della Seta, un progetto ambizioso che, stando alle parole del presidente cinese Xi Jinping, è volto a costruire una «comunità dal destino condiviso». Concetti alti che nell’immediato rispondono più alle ambizioni del colosso asiatico che agli interessi italiani ed europei. La Cina infatti immagina la strategia della Via della Seta come risposta a esigenze interne: dare sfogo a una sovra-produzione industriale, controllare le linee di approvvigionamento (soprattutto energetico) influenzando le politiche dei suoi competitor e dare corpo a una proiezione geopolitica su scala planetaria.
Il secondo fattore riguarda la ridefinizione della politica europea relativa alle reti di trasporto Transeuropee TEN-T che scivola, nella sua declinazione più operativa - il programma Connecting Europe Facility -, verso una definizione più politica che tecnica, volta a privilegiare i sistemi portuali-logistici del Northern Range.
È indubbio che Rotterdam, Anversa e Amburgo sono incomparabili con i porti italiani per numeri assoluti e per dimensioni delle infrastrutture ma, proprio per favorire un riequilibrio logistico continentale imposto dalla “migrazione” del baricentro commerciale Europa-mondo dall’Oceano Atlantico all’Oceano Indiano, sarebbe necessario accelerare sugli investimenti portuali in Italia, anziché rafforzare ulteriormente le catene portuali e logistiche nord europee. Non si spiega quindi, se non assumendo miopi posizioni di rendita, perché nel periodo 2014-2020, il 73% dei fondi europei del programma Cef è stato assegnato al settore ferroviario: si tratta di 15,7 miliardi di euro, contro 0,9 miliardi assegnati al settore marittimo, una sproporzione imbarazzante.
Quali decisioni dovrebbe prendere l’Italia rispetto alla strategia della Via della Seta e all’implementazione “sbilanciata” della politica europea dei trasporti?
Per quanto riguarda il colosso asiatico, la prima decisione - sbagliata - può essere quella di spalancare sic et simpliciter le porte agli investimenti cinesi, con il rischio di fare la fine della Grecia, dove i porti strategici sono ormai completamente assoggettati al controllo cinese. La seconda invece è quella di interloquire pazientemente con la Cina, facendo pesare la qualità produttiva e manifatturiera europea (italiana in primis), le potenzialità di innovazione logistica basata anche sulla digitalizzazione, l’accrescimento del know-how tecnologico nel settore dei trasporti. E tutto questo non per ottenere finanziamenti ma accordi di natura commerciale; non per elemosinare facili accessi a strumenti finanziari ma per sviluppare e ottimizzare le nostre catene logistiche; non per chiudere i mercati ma per aprirli a condizioni di reciprocità.
Quanto alla necessità di assestare rapidamente le decisioni assunte in materia di reti transeuropee di trasporto, è necessario agire immediatamente sugli strumenti di finanziamento della portualità europea, in primis sulla ripartizione dei fondi definiti nel programma Central Europe Facility, nonostante sia palese al momento come il cluster marittimo portuale nazionale non riesca a incidere sulle decisioni di Bruxelles.
Per uscire dall’impasse della scarsa rappresentanza, i porti dell’Alto Adriatico hanno dato vita all’associazione Napa, che conta fra i propri membri i porti di Ravenna, Venezia, Trieste, Koper (Capodistria) e Rijeka (Fiume). Un soggetto che, al netto delle difficoltà iniziali, si può considerare oggi uno strumento efficace per raggiungere obiettivi comuni di sviluppo portuale, incentrando la propria strategia sulla coopetition: collaborare, in Europa e nel mondo, per raggiungere risultati comuni e competere localmente per attrarre i traffici.
Una strategia che, in termini di finanziamenti europei, sta già pagando, visto che nel solo 2017 il Porto di Venezia ha ottenuto da Bruxelles oltre 21 milioni di euro tra grants e finanziamenti e che, ne sono certo, potrà dare risposte positive anche sull’impatto sui traffici generato dalla Bri e sul ribilanciamento della rete di trasporto della Ue per rafforzare i Paesi del Sud e i loro porti. Una strategia che, mai come ora, ha bisogno del sostegno e dell’attenzione nazionale per poter produrre il miglior risultato possibile, un risultato che condizionerà lo sviluppo del Paese per i prossimi decenni.
Presidente dell’Autorità di sistema portuale del Mare Adriatico settentrionale

Il Fatto 18.5.18
L’abisso del ’68 di Faber. Il figlio: “Dipinto da eversivo, per le simpatie anarchiche”    
di Stefano Mannucci


Era seduto sull’orlo di un abisso chiamato Sessantotto. Lui, Faber, seguace di Bakunin, amante delle puttane di via Pré e di quelle uccise sulla riva dell’Olona, sognatore perduto nelle allegorie di una Madonna troppo umana, boicottatore poetico di un Potere dalle mille teste. Cinquant’anni fa De André studiava il suo tempo per trasfigurarlo nell’arte visionaria, e poi costringerci ad ammettere che stava decifrando proprio il mondo attorno. Quell’anno pubblicò due album antitetici: un concept ambizioso sull’agonia dell’anima, Tutti morimmo a stento, e un Volume III che riproponeva la forma canzone senza un fil-rouge a unire i 45 giri che raccontavano vicende da lui già cantate, l’atroce fine di Marinella e il soldato Piero, ma anche traduzioni da Brassens e incastonature musicali da Cecco Angiolieri. Il Sessantotto di Faber durò almeno cinque anni: giù giù per i long-playing a tema, dischi sontuosi come La Buona Novella dei Vangeli apocrifi, la Spoon River pivaniana di Non al denaro non all’amore né al cielo e quello che nel ‘73 fu accolto con la critica che arricciava il naso (pure Gaber parlò di “linguaggio di un liceale fermatosi a Dante”), la Storia di un impiegato senza nome che racchiudeva la protesta bombarola di un trentenne intrappolato nel lato oscuro dell’utopia.  Un disco incompreso: ora il figlio di Faber, Cristiano, lo porterà in tour dal 5 luglio a Roma (poi Milano, Genova, Venezia e via andare) dopo averlo trasformato in un’opera rock dagli arrangiamenti tutti nuovi. “Prima di morire mio padre mi affidò una sorta di eredità, chiedendomi di far rivivere le sue cose: così stavolta affronto Storia di un impiegato: quel personaggio siamo tutti noi, interrogati da un giudice che è il Potere stesso, da combattere con la Poesia. Quello di Fabrizio era il sogno libertario dell’anarchia, nel segno del pacifismo e della convivenza tra simili. Una visione attuale più che mai, in questo 2018 dove ci troviamo a isolare i presunti diversi, in una finta democrazia che non avrà luogo finché, come suggeriva Camus, ‘non ci sentiremo tutti colpevoli’. Decenni di berlusconismo hanno demolito il pensiero in cui si riconosceva papà. Al suo tempo, assurdamente, le simpatie anarchiche lo fecero dipingere come un eversivo: ne insinuarono un coinvolgimento in Piazza Fontana, Cossiga e i servizi sospettavano che la casa di Tempio Pausania fosse un rifugio per brigatisti. Ma sarebbe bastato riascoltare le sue vecchie cose, La guerra di Piero con il soldato che si rifiuta di sparare e viene ucciso dall’altro, che invece non coltiva dubbi”.  Il De André sull’orlo dell’abisso lo conobbe bene Franz Di Cioccio: “Ero nei Quelli, e Gian Piero Reverberi mi chiamò per convincere Fabrizio a usare la band nella Buona Novella. Noi eravamo ragazzi scapestrati, lui un elitario frequentatore di salotti”, ricorda il batterista della Pfm dall’Inghilterra, nuova tappa del tour di “Emotional Tattoos” dopo i trionfali live americani. “Era un cantautore immensamente evocativo, capace di riportare i morti nel mondo dei vivi, e sempre più tentato dall’avventura degli album concept: il bagno nelle acque del prog-rock lo travolse inesorabilmente. La narrazione delle vicende terrene di Maria e Gesù gli servì per simboleggiare la dolorosa rivoluzione del ‘68: accettò i nostri colori per arricchire i suoi versi. Nel ‘78 ci ritrovammo in modo più stretto. Con la Premiata avevamo un concerto a Nuoro, lui non aveva la patente e si fece accompagnare da un contadino. Ci invitò a casa e preparò un’insalata di funghi: gli dissi che non volevo morire avvelenato. Ci sfidammo: ‘Se mangi tu lo faccio anch’io’, era un segno di fiducia reciproca. Gli proposi l’idea folle di andare sul palco insieme. Il nostro rock estroverso e il suo intimismo lirico, davanti a due pubblici di opposte predilezioni. Funzionò, le sue canzoni trovarono nuova luce con la Pfm. Un anno dopo, d’estate, eravamo pronti per un secondo tour e un altro disco con lui, ma De André nicchiò: voleva badare alle vacche nella sua tenuta dell’Agnata. Una sera noi della Pfm ci preparavamo a esibirci alla Festa dell’Unità di Ravenna, nello stesso giorno in cui D’Alema fu scelto come segretario della Fgci. Arrivò la notizia che Fabrizio era stato rapito. Ci riabbracciammo solo anni più tardi, i nostri piani erano saltati per sempre”.  Ma De André ha lasciato una traccia anche nei cantautori delle nuove generazioni. Per Diodato (che riprende il tour il 15 giugno da Pistoia) Faber è “un maestro, lontanissimo dalla mia indole urgente, eppure necessario, inevitabile. Mi ha insegnato il potere dell’italiano nelle canzoni, mi ha mostrato come si può trattare la politica anche narrando d’amore, e nessuno come lui mi ha fatto sentire che stavo parlando di me stesso interpretando una sua cosa. Accadde con la mia cover di Amore che vieni amore che vai: un giorno mi misi a suonarla, senza precise intenzioni. Cambiai tonalità, la stravolsi. Ma la sua grandezza avvolse la mia anima, una volta per tutte”.

Corriere 18.5.18
Insegnare Shakespeare a Gaza
Il docente: aiuto a capire gli israeliani
di Davide Frattini


Gli studenti che seguono i suoi corsi di letteratura inglese non hanno quasi mai incontrato un israeliano, neppure in divisa. All’inizio del semestre, seduti timidi tra i banchi, restano turbati da questo giovane professore che apre «Il mercante di Venezia» e legge di Shylock non per condannarlo, per usarlo come bersaglio. Anzi sembra volerlo difendere. «Provano a obiettare: è un usuraio ebreo, anche William Shakespeare lo presenta come il cattivo della storia».
Così cominciano i mesi di studio con Rifaat Al Areer all’Università islamica, diversi da qualunque esperienza abbiano avuto a Gaza, da qualunque discorso abbiano ascoltato, diversi perché questa volta anche loro possono parlare, devono parlare, altrimenti non superano l’esame. «I giovani in questa società chiusa non riescono ad avere una voce», commenta Rifaat che di anni ne ha 38. Con il progetto «We are not numbers» (Non siamo numeri) prova anche a insegnare loro come avere «una voce in un buon inglese»: «Fuori dall’ateneo teniamo dei corsi di scrittura creativa con la speranza che aiutino i ragazzi e le ragazze (stanno diventando la maggioranza) a trovare un lavoro».
Racconta di aver scelto di affrontare la raffigurazione degli ebrei — un altro capitolo è dedicato al Fagin di Oliver Twist — «dopo aver subito un torto culturale ed educativo quando ero io lo studente. Il docente faceva l’opposto, sfruttava questi personaggi per dimostrare che gli israeliani in quanto ebrei sono malvagi: lo ha scritto Shakespeare, lo ha ripetuto Charles Dickens. Non è così, dico ai miei ragazzi, che restano ancora più scioccati se recito loro le poesie d’amore di Yehuda Amichai, voglio che capiscano come un israeliano prova gli stessi sentimenti: la passione, la rabbia, la gelosia. Solo in questo modo possono riuscire a umanizzare l’altro, che per loro in queste settimane di proteste è solo un cecchino appostato sui terrapieni».
Nell’episodio in cui Fagin sceglie di non spedire Oliver a saccheggiare l’ennesimo appartamento — «Non ora. Domani. Domani» — questa frase letta da Rifaat non suona più sadica e ironica «ma pronunciata da un uomo con un cuore»: «Gli studenti e le studentesse aprono la mente e gli occhi, lo vedono per la prima volta come il prodotto di una società che odia i diversi, per la pelle di un certo colore o perché appartengono a una determinata razza».
Durante i quasi sessanta giorni di guerra tra luglio e agosto del 2014 il suo ufficio all’università è stato devastato dai missili, anche la piccola biblioteca è andata distrutta e qui i libri stranieri sono impossibili da trovare. «Dopo l’attacco i portavoce dell’esercito hanno dichiarato di aver colpito un centro per la preparazione di armi chimiche — ha scritto Rifaat in quei giorni — e adesso i miei studenti non smetteranno di prendermi i giro: “Professore, sta fabbricando Poemi di distruzione di massa”».
Le sue parole cercano di distruggere gli stereotipi, i pregiudizi, di spingerli a pensare fuori da questa scatola di sabbia intrappolata tra Israele, l’Egitto, i fondamentalisti di Hamas e il Mediterraneo. Nel bombardamento sono bruciati anche gli esami finali di quell’anno, contenevano una domanda all’apparenza semplice — «preferite Otello o Shylock» — che permette al professore di capire se le sue lezioni sono servite, oltre a imparare i versi o le date a memoria. «All’inizio del corso tutti gli studenti scelgono Otello: “È un moro, un musulmano convertito, un palestinese come noi”, si entusiasmano. Pian piano provo a convincerli che Shylock è il più prossimo: vittima alla quale viene tolta pure la rivalsa, diffamato, umiliato, eppure continua a resistere. Mi dispiace aver perso i manoscritti, avrei voluto pubblicarli in un libro. Alla fine la maggior parte sceglie di stare dalla parte dell’ebreo Shylock».

Corriere 18.5.18
Guida al rebus dei figli mutanti
Come evitare che nella terra di mezzo dell’adolescenza si perdano anche i genitori
Nel libro edito da Solferino la psicoterapeuta Sofia Bignamini affronta i nodi emotivi e pedagogici di un’età difficile
di Elisabetta Soglio


Partiamo dalla fine. Questo libro ha un duplice effetto benefico su di noi, disarmati genitori di confusi preadolescenti: ci aiuta a capire i nostri figli, quelli che è troppo facile liquidare con il (fintamente) liberatorio «Non ti riconosco più». E ci dice che non siamo soli in questo cammino difficile ma pur sempre affascinante. Non soli e neppure «sbagliati»: imperfetti certo. Ma, come ci spiega Sofia Bignamini, autrice de I mutanti. Come cambia un figlio preadolescente (Solferino), se sapremo metterci in posizione di ascolto potremmo addirittura scoprire che alla fine del percorso saremo cresciuti anche noi con loro. Più forti e più consapevoli.
Bignamini è una psicoterapeuta e socia di quell’associazione Minotauro fondata a Milano da Gustavo Pietropolli Charmet, dove sono passati tantissimi ragazzi alle prese con la fatica di vivere, di capirsi e di farsi capire. Questo libro è il frutto di tanti anni di esperienza e passa attraverso le storie di Claudia, Francesco, Luca, Federica, Marco e del papà di Stefano, la mamma di Emma, i genitori di Ettore e tanti altri protagonisti di fatiche, incomprensioni, cadute e risalite. Storie con un punto fermo: «Tutto passa e tutto ha un senso nel presente in cui accade». Come ricorda Charmet nella sua introduzione, Bignamini conosce «l’intensità delle passioni del mutante, il suo dolore muto, la rabbia e il desiderio di vendetta, ma non credo ritenga che contribuire a patologizzare il suo temporaneo modo di sentire e di pensare sia aiutarlo a crescere».
I Mutanti sono le ragazze e i ragazzi delle scuole medie, che cambiano pelle, espressioni, aspetto e umore. Quelli che, come dimostrano le statistiche dell’Osservatorio nazionale sulla salute dell’infanzia, hanno anticipato la trasformazione biologica e di pari passo hanno anticipato l’età di accesso a fumo, alcol e sostanze stupefacenti. Sono instancabili navigatori del web, ma spesso poco preparati «di fronte al rischio di diventare vittime delle proprie stesse pagine di Facebook e dei commenti efferati dei compagni di turno». Il passaggio della pubertà li trova spesso impreparati, spaventati, facili prede di sindromi ansiose o depressive, alla ricerca di regole che difficilmente arrivano dai genitori in una fase in cui il crollo delle ideologie crea anche ai più piccoli uno stato di insicurezza, confusione, disorientamento.
Il libro è un viaggio per scoprire se stessi, mettersi in discussione, ricavare suggerimenti. Bignamini ci aiuta non solo usando un linguaggio facilmente comprensibile (dimenticate i trattati di psicologia su cui ci siamo addormentati perché troppo poco aderenti alla realtà e ai nostri bisogni di genitori), ma anche utilizzando il meccanismo delle tabelle: lì troviamo schematizzati i comportamenti in decaloghi in cui sicuramente troverete traccia dei vostri/nostri ragazzi. E soprattutto l’esperta riesce in maniera efficace a raggrupparli in 4 tipologie: «I maschi che accelerano, cavalcando come su una moto che impenna le nuove forze della pubertà, e le femmine che vestono precocemente i panni di donne seduttive e trasgressive; chi sceglie di rallentare, nella declinazione maschile del rifiuto indignati dei coetanei grezzi e impulsivi, e in quella al femminile delle ragazze che coltivano una mente già adulta dentro un corpo che resta infantile».
Dopo che siamo stati aiutati a capire meglio cosa sta accadendo a questi Mutanti e cosa sta dietro ai loro atteggiamenti, comincia la descrizione degli errori più comuni commessi dagli educatori: che siano insegnanti impegnati soltanto a rispettare il programma ministeriale incuranti delle trasformazioni in atto nei loro studenti, o che siano genitori convinti di agire «per il bene di mio figlio» e poco propensi ad accettare aiuti. Ma quale può essere, in questi casi, l’aiuto dell’esperto? Per quanto riguarda i ragazzi che cominciano questi percorsi di dialogo, Bignamini ci rimanda alla definizione di una sua giovane paziente: «Io ho un gran casino nella mente. Tu il casino lo trasformi in frasi». E forse lo stesso vale per gli adulti, che il casino fanno più fatica ad ammetterlo a se stessi.
Un libro che ci illumina e conforta, dunque. E che ci ricorda quale è il principale motivo di disagio, più o meno dichiarato, dei Mutanti: «La sofferenza più acuta dei nostri ragazzi non ha tanto a che vedere con il loro passato, per quanto possa essere stato attraversato da eventi dolorosi. Ma con l’assenza di un futuro, cioè con l’impossibilità di intravedere un orizzonte verso il quale puntare e in cui realizzare sogni, desideri, progetti». Quale genitore non vorrebbe difendere per il proprio figlio il diritto di sognare e guardare al domani con ottimismo?

Impegno costante contro il disagio
L’Istituto Minotauro di Milano, fondato nel 1985 da Gustavo Pietropolli Charmet, si occupa di disagio nell’adolescenza e nelle diverse fasi della vita, utilizzando modelli di intervento psicoterapeutico rivolto sia agli adolescenti in crisi che ai loro genitori. All’Istituto è legata anche l’attività di una Cooperativa che promuove progetti di prevenzione, ricerca, analisi istituzionale e di una Fondazione, oggi presieduta da Matteo Lancini, con Scuola di specializzazione e ricerca e master.

Corriere 18.5.18
Il mosaico che unisce le religioni
Premio al Centro di conservazione archeologica di Roma per il recupero dell’opera nel Monastero ai piedi del Sinai «Salvato grazie alla tolleranza»
di Paolo Conti


«La tolleranza tra le diverse culture per una volta ha permesso di salvare in tempo un grande capolavoro non solo della religione cristiana ma dell’umanità intera. E non di perderlo per sempre».
L’archeologo Roberto Nardi dirige il Centro di conservazione archeologica di Roma, società privata che opera su commissione pubblica con esperti formati nell’Istituto Superiore per la conservazione e il restauro. Il centro ha vinto il premio 2018 di «Europa Nostra» — federazione paneuropea di organizzazioni che difendono il Patrimonio culturale — per il restauro dello sfolgorante mosaico absidale della Trasfigurazione nella Basilica del Monastero di Santa Caterina nel Sinai del VI secolo. La giuria ha spiegato che «documentazione e qualità del lavoro sono eccezionali». Il premio sarà consegnato il 22 giugno a Berlino. Il Centro di Conservazione Archeologica, negli anni, ha operato per esempio nella città romana di Zeugma e anche a Roma per l’Arco di Settimio Severo nel Foro.
Nel 1995 la Basilica del Monastero, voluto dall’imperatore Giustiniano, venne danneggiata da un terremoto. Nel 2000 la Getty Foundation decise di finanziare l’ispezione dei danni e poi il restauro con 250.000 dollari, suggerendo il centro diretto da Nardi all’ufficio tecnico del Monastero greco-ortodosso che ha sede ad Atene. Dopo si sono aggiunti altri 500.000 dollari dell’allora emiro del Qatar, Sceicco Hamad bin Khalifa al Thani. Quindi la lunga vicenda del restauro. I tecnici hanno dapprima consolidato la struttura: la parte centrale con la raffigurazione del Cristo rischiava infatti di crollare. Conclusa nel 2011 la messa in sicurezza delle murature e del tetto dell’abside, c’è stato l’intervento di pulizia e di ripristino delle circa 500.000 tessere esistenti con l’aggiunta di altre 20.000 per integrare quelle mancanti: sono di pasta vitrea, colorate o in foglia d’oro e in foglia d’argento, e di marmo. Un lavoro minuzioso che ha richiesto tempo e conoscenza scientifica. Ciascun pezzo nuovo è stato documentato in scala 1:1, cioè in dimensioni reali, per poter essere individuato in futuro. L’inaugurazione del restauro è del 2017.
Molti i simboli di questa storia: la triangolazione Italia-Grecia-Egitto per la salvaguardia di un bene unico al mondo, un Monastero sacro per la cristianità realizzato ai piedi del Sinai, infatti il Pozzo di Mosè è di fronte alla Basilica, quindi il legame con l’ebraismo. E la convivenza con il mondo musulmano, in particolare con la comunità di beduini, discendenti delle legioni inviate da Giustiniano, che vivono anche dell’economia legata al Monastero. Infine la stretta collaborazione con le autorità egiziane. Grazie anche all’Italia, il dialogo e la cultura hanno vinto, sconfiggendo ostilità e divisioni.

Repubblica 18.5.18
Nicola Gardini
“Il liceo classico? È il curriculum di chi sta alla City”
di Raffaella De Santis


Prima la provocazione di Condello sulla “ scuola per questi tempi” Poi la risposta di Bettini, sostenitore della sua funzione “antropologica” Ora Nicola Gardini: “È una nostra eccellenza, ma si può rendere più ludica”
Nicola Gardini guarda al dibattito italiano sul liceo classico dalla cattedra di Oxford dove insegna all’università letteratura del Rinascimento. «Credo che il liceo classico sia un patrimonio unico, importante quanto la Via Lattea o la deriva dei continenti», dice. Ma nell’ottica del professore approdato al mondo accademico anglosassone qualcosa è migliorabile: «Il liceo dovrebbe diventare più giocoso, più partecipato. Mettere gli studenti al centro, farli diventare protagonisti. In Inghilterra, dove il classico non esiste, i ragazzi forse conoscono meno cose, ma sono più attivi, più coinvolti nelle lezioni. Bisognerebbe stimolarli anche sfruttando internet». Parole accalorate che segnano il terzo tempo della querelle tra classicisti iniziata sulle pagine di Repubblica. Un dibattito che ha infiammato i social network e che ha messo sul campo idee diverse, mostrando che la questione del liceo classico è viva più che mai.
Ha iniziato due giorni fa il filologo Federico Condello, difendendo il classico dalle accuse di chi ne vorrebbe fare una scuola poco adatta ai tempi moderni: «Al contrario – ha detto Condello – è la scuola che lascia più liberi nelle scelte universitarie successive e che garantisce ottimi successi anche nelle materie scientifiche». Ma è sui metodi d’insegnamento, e soprattutto sull’amata e vituperata traduzione, che le posizioni divergono. Da una parte Condello, fedele all’idea della traduzione come viatico alla conoscenza dei testi, dall’altra la posizione di Maurizio Bettini, professore di filologia classica a Siena e a Berkeley, sostenitore di un approccio antropologico più ampio allo studio delle lingue classiche: «I ragazzi vivono immersi nella Rete, bisogna trovare nuovi modi per stimolarli».
Più volte evocato dai suoi colleghi, ora a parlare è Nicola Gardini, latinista e scrittore, con alle spalle una serie di fortunati saggi, l’ultimo dei quali è appena arrivato in libreria: Le 10 parole latine che raccontano il nostro
mondo (Garzanti), un affascinante viaggio intorno alla metamorfosi di alcuni lemmi dall’antichità a oggi, da “ars” a “rete”.
Come mai il liceo classico viene da molti percepito come scuola poco in linea con la società attuale?
«All’estero ce lo invidiano. Il liceo classico italiano è un unicum, una scuola che permette un corso di studi che fuori dai nostri confini viene decantato. Se vai alla City di Londra mostrando un curriculum che attesta quel tipo di preparazione classica hai una corsia preferenziale».
Ai suoi interlocutori non convince però la sua esaltazione del latino come lingua bella perché “inutile”.
«Condello mi ha dato del tardo ottocentesco, lo trovo disonesto.
Ho usato l’aggettivo chiaramente in senso antifrastico, per sostenere il contrario di quello che affermavo, per dire che non bisogna calcolare l’efficacia di uno studio sull’immediato ma in termini di conoscenza. E poi anche questa è una storia antica, già Aristotele distingueva tra saperi applicabili e puramente speculativi».
Che tipo di conoscenza si apprende frequentando il classico?
«Non vorrei sembrare un classicista chiuso nel suo bozzolo, ma credo che si tratti di un modello di studi che deve preservare la sua specificità, cioè la centralità dello studio linguistico e storico della letteratura antica».
Questo significa che non bisogna toccare niente?
«No, affatto. Andrebbe introdotto il gioco. La traduzione non dovrebbe più essere concepita come una verifica astratta ma come un’esplorazione del lessico antico. Un lavoro di gruppo, simile a un esercizio collettivo di esegesi biblica».
Ma in questo gruppo di studio, il professore che ruolo avrebbe?
«Quello di un regista che lascia ai ragazzi la scena, permettendogli di costruire percorsi personali e di sviluppare i propri talenti individuali. Il latino e il greco insegnati in questa maniera sarebbero più giocosi. Inoltre oggi ci sono strumenti elettronici che facilitano percorsi del genere».
Può fare degli esempi?
«Penso al sito della Latin Library o a quello della Perseus Digital Library, che facilitano lo studio sulle ricorrenze linguistiche. Si potrebbero coinvolgere i ragazzi spingendoli a indagare ad esempio come le parole siano usate in modi diversi dai vari autori. Seguendo i cambiamenti lessicali nella letteratura antica, gli studenti potrebbero così creare proprie costellazioni semantiche.
Sarebbe sicuramente un modo per ridare dinamicità agli studi classici».
E sul fatto che il liceo classico alleni la mente alle materie scientifiche?
«Non mi convince. Anche lo studio del cinese può predisporre a certe abilità logiche. Al di là di queste considerazioni, che mi lasciano perplesso, il liceo classico è un esperimento di istruzione unico al mondo, un patrimonio tutt’oggi vivo. È stata la nostra prima scuola nazionale, la scuola dell’Italia unita, sarebbe un peccato buttarla al macero».