lunedì 8 gennaio 2018

Il Fatto 8.1.18
“Emma è una radicale da salotto, soprammobile di Renzi e Scalfari”
Giovanni Negri - L’ex discepolo prediletto di Pannella, oggi scrittore e produttore di vini, stronca l’accordo radical-dc di Bonino e Tabacci
di Fabrizio d’Esposito


Non è solo per il nome di battesimo, che Giovanni Negri detto Giovannino dà la sensazione di essere rimasto l’Apostolo prediletto del Maestro buonanima Marco Pannella. Non suoni blasfemo. In fondo, Negri a sessant’anni tondi ha custodito intatto il suo credo radicale, a differenza di altri compagni della genìa pannelliana (si pensi a Rutelli, Giachetti, Quagliariello, giusto per citarne alcuni) convertitisi ad altri fedi partitiche. Non è un caso, allora, che Negri appelli Pannella come Maestro o nonostante le polemiche a volte feroci gli abbia dedicato un libro intitolato L’Illuminato, appunto, e abbia fondato un’associazione con il simbolo della rivoluzione francese, la Marianna, icona radicale delle origini di mezzo secolo fa. Oggi, l’Apostolo Giovanni dei radicali coltiva la passione della politica a una distanza di sicurezza da Roma, produce vino nelle Langhe e gira il mondo.
Un dc, Tabacci, che aiuta Bonino con il logo del Centro democratico. E un ex radicale diventato centrista, Rutelli, che nega il simbolo della Margherita a Lorenzin.
Per carità, tutto legittimo. Lo immagino Francesco che dice: “Questo simbolo è mio e non si tocca, non fatemi incazzare” (Negri cambia tono della voce e tenta di imitare di Rutelli, ndr). Da molti anni è diventato un perfetto uomo di potere, frequenta palazzi e si sposa in Chiesa. No, a naso non mi è sembrato il sindaco Nathan. (Negri ricambia tono della voce, ndr). “Io sono Rutelli e sono stato candidato premier, sindaco di Roma, questa Lorenzin come osa?”.
Bonino ha osato, eccome.
Mah… a suo tempo il Maestro ci disse di andare in partibus infidelium.
Nelle terre degli infedeli degli altri partiti.
Ci raccomandò: insediatevi, moltiplicatevi, contaminate gli altri, questo è il transpartito, vi invio e vi mando.
Contaminare Tabacci è la frontiera estrema.
Ma no, è una vicenda che fa sorridere. Quando finisce una storia può accadere anche questo: credi di lavorare a +Europa e dopo un po’ scopri che lavori a +Tabacci. Una fra le tante controprove che certifica la fine di una storia politica. E vorrei fosse chiaro, il mio non è giudizio morale, è meramente tecnico.
Una certificato tecnico, diciamo. Pannella secondo lei cosa ne avrebbe detto?
Penso che avrebbe riso e basta.
Addirittura.
Non credo l’episodio meriti di più. La cosa assai meno accettabile è che Emma per giustificare questa scelta si sia proclamata la depositaria di 50 anni di storia radicale, si sia autonominata Zia d’Italia, sia stata beatificata da Scalfari erede dell’azionismo dei fratelli Rosselli. Al vecchio Eugenio i radicali sono sempre stati sulle palle: ridurli a un gruppo di indipendenti di sinistra placa la sua coscienza. Ma gli andrà storta anche questa volta.
Non è poca roba.
Quella storia è ormai morta e sepolta: che male c’è ad ammetterlo? I partiti nascono e muoiono, è fisiologico. Dovremmo prenderne atto tutti. Rivendicare continuità con mezzo secolo di storia, lanciare appelli epocali in nome della suprema democrazia per poi fare entrare in scena i tabagisti…
Tabagisti come seguaci di Tabacci.
Se preferisce può anche chiamarli Sali e Tabacci. Fa più vintage.
Insisto: il Maestro si sarebbe incazzato?
Non sono il depositario di un Pannella postumo: quando era in vita gliene dissi di tutti i colori. Diciamo che dal mio punto di vista il Pannella migliore, quello che cambia l’Italia, è il leader che da un lato preserva la durezza e l’identità dei Radicali, e dall’altro conduce le più grandi battaglie liberali e popolari di questo Paese. È tabagista per le sigarette, non per altro.
Bonino si è confusa con il centrosinistra da anni. Ora c’è il renzismo.
Bonino ha fatto una Lista che Piace alla Gente che Piace. E pretende che quella roba rappresenti l’eredità del Partito dello Scandalo .
Scandalo vero.
Eravamo il partito delle mani nella merda, dei pubblicani, dei ladri, delle puttane, o dei normali, dei ragionieri, delle nonne che s’incazzano.
Il contrario dei radical-chic.
Quello è il radicale da salotto, un soprammobile utile al potere.
Perché secondo lei hanno rifiutato l’offerta dei socialisti di Nencini e dei Verdi ?
In effetti era più logica del Tabagismo.
E allora perché no?
A esser cattivelli viene il sospetto. Forse Renzi vuole solo liste fra l’1 e il 3 per cento, così voti ed eletti vanno solo a lui. Non che lo capisca, eh. Ne ha tanto bisogno. Mai vista qui al nord un’onda anomala di queste proporzioni.
Oppure alla fine l’obiettivo sono i collegi sicuri nel Pd?
Nel caso, Tabacci avrebbe vinto un terno al lotto.
E Della Vedova, altro ex radicale?
Benedetto devo dire che sul fine vita piuttosto che su altre battaglie è stato coerente al di là della casacca di turno. Di lui capisco tutto salvo il cognome.
Come?
Non è vedovo proprio di nessuno perché non si è mai accasato. Va da Pannella ma non lo sposa, poi da Berlusconi e niente cerimonia, poi Fini e manco con quello, poi Monti ma non se ne parla, infine Renzi ma anche lì niente matrimonio e ora, per ora, Tabacci. Definitivo: è Benedetto Della Nubile.
E Scalfari esulta.
Pensa che gli eredi del Pci si siano messi in tasca quelli che lui nomina gli utili eredi dell’azionismo e dei radicali. Non sarebbe la prima volta che confonde la storia con gli interessi suoi, del suo editore e di un piccolo, assistito, malato capitalismo italiano.
Lei, Negri, invece ha fondato la Marianna.
Io non mi rassegno a vedere il Paese che mi circonda condannato a questo declino e a questa non-classe dirigente. Sì, la Marianna è una ragazza giovanissima. Più ascolto i grillini, più leggo gli slogan di destra, più assisto con qualche choc a una sinistra che ha perso ogni bussola e più me ne convinco. La ragazza ha solo duecento anni ma è la più giovane di tutti.
I lumi della ragione, non del tabagismo.
No, la ragazza non fuma. Sorride.
A proposito, è vero che si candida con Parisi in Energie per l’Italia?
Vedremo. Se il centrodestra volesse davvero fare la rivoluzione della giustizia, senza la quale l’Italia sprofonda, potrebbe avere un senso. Se invece cerca solo compromessi per farsi i fatti suoi, molto meglio non perdere tempo. O la politica è vera, oppure non ho alcun bisogno di far finta di fare politica.

La Stampa 8.1.18
La promessa di Grasso e LeU
“Aboliremo le tasse universitarie”
di Andrea Carugati


«Aboliremo le tasse universitarie». Pietro Grasso lancia del palco dell’Ergife di Roma una delle proposte clou del programma di Liberi e Uguali. Cita anche il costo dell’operazione, 1,6 miliardi, «un decimo dei sussidi fiscali che lo Stato ora concede ad attività dannose per l’ambiente». La platea applaude il suo “caposquadra” che si lancia in una promessa ancora più impegnativa: «Aboliremo il precariato». Come? Con una proposta di legge che introduce un nuovo contratto a tutele crescenti, che prevede dopo tre anni «le piene tutele dell’articolo 18», insieme ad un piano per «disboscare le tante forme di lavoro precarie oggi esistenti», spiega Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, che apre la convention. E annuncia un piano di riduzione Irpef per i redditi sotto i 35 mila euro, che si accompagna ad una partimoniale che porterà i più ricchi a pagare anche l’Imu per la prima casa. Una ricetta «progressiva», spiega Pier Luigi Bersani, «chi ha di più dovrà pagare di più», e del resto lo slogan della giornata «Per i molti, non per i pochi» è mutuato direttamente dal leader laburista britannico Jeremy Corbyn, faro della nuova sinistra italiana. Grasso indica in 50 miliardi l’obiettivo della lotta all’evasione fiscale. «Un quarto del totale, mi pare un obiettivo ragionevole», spiega Bersani. «Noi le ricette le abbiamo…». Nelle prime file l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco che si mostra tiepido sulla proposta di abolire le tasse universitarie tout court: «Penso sia una metafora per dire diritto allo studio. Da noi non sono molto alte, è un tema marginale».
Intanto dal palco una storica combattente di sinistra come Luciana Castellina avverte i compagni su un rischio: «Dobbiamo tenere conto della diffidenza dei giovani verso i partiti e la politica». E infatti sono i delegati più giovani a chiedere «più radicalità nelle proposte». «Proposte serie e concrete» che Grasso contrappone alle «favole irrealizzabili» degli altri partiti. Come lo stop al canone Rai voluto da Renzi: «Oggi dice di abolirlo, ma pochi mesi fa l’ha messo in bolletta…». Il presidente del Senato ne ha anche per Berlusconi, Salvini e i 5 stelle che «cambiano idea secondo convenienza su tutti i temi, dall’Europa alla cittadinanza». Sull’Europa dentro Leu la linea è «rivedere i trattati». Nessuno spazio all’euroscetticismo, ma Grasso ribadisce che «bisogna chiudere con le politiche di austerità».
L’ex pm antimafia fissa anche rigidi paletti per le candidature: ci sarà un tetto per chi ha già fatto due mandati (con deroghe previste per big come Bersani e D’Alema) e un codice etico che supera gli stessi paletti della legge Severino: niente posto in lista per chi ha inchieste e processi anche in corso per mafia, terrorismo, reati sessuali e contro l’ambiente.
Al debutto sul palco di Leu Laura Boldrini, che annuncia «non faremo una campagna contro qualcuno», ma poi bacchetta la sinistra che «ha smesso di essere se stessa e ha perso i suoi valori». E il Pd che «con grande miopia ha tradito gli 800mila ragazzi che aspettavano la legge sulla cittadinanza». Sulle alleanze nessuno si sbilancia.
Bersani spiega che«parleremo con tutti tranne la destra», e ironizza sugli establishment che «ora riabilitano Berlusconi per fermare i barbari 5 stelle». «Se non si capisce e interpreta il disagio popolare i barbari vinceranno. Gli establishment che pensano alle ammucchiate contro qualcuno finiranno a sbattere contro il muro…».

La Stampa 8.1.18
Ecco i razzisti della porta accanto
Aggressioni e violenze sui social un italiano su due giustifica l’odio
Migranti e rom nel mirino, dilagano antisemitismo e omofobia
di Mattia Feltri


Dei 55 italiani su cento che, rispondendo a un sondaggio di Swg (15 novembre 2017), hanno giustificato il razzismo, la gran parte probabilmente escluderebbe di essere razzista. La domanda era diretta: «Determinate forme di razzismo e discriminazione possono essere giustificate?». Per il 45 per cento è «no mai». Per il 29 «dipende dalle situazioni». Per il 16 «solo in pochi specifici casi». Per il 7 «nella maggior parte dei casi». Per il 3 «sempre». Se la domanda fosse stata «lei è razzista?» è presumibile che avrebbe risposto sì il 3 per cento per cui il razzismo è giustificabile sempre, e forse alcuni del 7 per cento per cui è accettabile nella maggior parte dei casi. Il razzismo è una malattia insidiosa, dà sintomi vaghi, talvolta deboli o indecifrabili: non si prende il razzismo come un’influenza, dall’oggi al domani.
Matteo Salvini esclude di essere razzista (in buonissima fede, si deve presumere) eppure il primo gennaio ha scritto un tweet che, nella sua apparente innocuità (fra centinaia ben più aggressivi scritti dal capo leghista), spiega bene la noncuranza del pensiero e del linguaggio: «Vado a Messa a Bormio, e sento dire dal prete che bisogna “accogliere tutti i migranti”. Penso ai milioni di italiani senza casa e senza lavoro, al milione di bambini che in Italia vivono in povertà, e prego per loro». Naturalmente è legittimo e per niente illogico ritenere che non si possano accogliere tutti i migranti, ma pregare per i poveri italiani sembra una trasposizione un po’ temeraria del sovranismo nella fede: è complicato pensare a un Dio che accolga preghiere in base al passaporto o al colore della pelle, ed è stupefacente intuire tanti cristiani disinvoltamente immemori della vocazione universalistica ed ecumenica del cristianesimo, costituzionalmente antirazzista.
Il linguaggio della politica
Anche Massimo Corsaro, deputato di centrodestra, ogni volta trasecola. Dopo il derby della settimana scorsa, ha dato dello zingaro all’ex allenatore del Torino, Sinisa Mihajlovic. Così come si era rivolto al collega ebreo, Emanuele Fiano, dicendo che portava le sopracciglia folte per nascondere i segni della circoncisione. In entrambi i casi, Corsaro ha ammesso una certa intemperanza linguistica, dovuta alla foga, ma nessun cedimento al razzismo. La novità evidente è che certe cose, fino a pochi anni fa, un uomo delle istituzioni non si sarebbe nemmeno sognato di dirle e tantomeno l’avrebbe fatta franca.
La violenza quotidiana
Un’inchiesta dell’associazione Lunaria, presentata a Montecitorio lo scorso ottobre, ha registrato 1483 casi «di violenza razzista e discriminazione» tra il primo gennaio 2015 e il 31 maggio 2017. Da gennaio 2007 ad aprile 2009, la stessa Lunaria ne aveva registrati 319. Di questi 1483 casi, 1197 vanno alla voce violenza verbale, e non bisogna per questo pensare che siano meno gravi: un anno fa Pateh Sabally, ventiduenne gambiano, decise di suicidarsi buttandosi nel Canal Grande a Venezia; da un vaporetto lo videro dimenarsi, nessuno si lanciò per salvarlo, alcuni gli fecero un video mentre affogava, qualcuno rideva e diceva «ueh Africa», qualcuno gli diceva «scemo», «negro». Lo scorso giugno, in un centro estivo del riminese, una bambina cadde mentre giocava e due coetanei le dissero «ti sta bene che sei caduta, a terra devono stare i negri» e «io vicino a una negra non ci sto». Lo scorso novembre, in provincia di Padova, in una partita fra quattordicenni un ragazzo nigeriano si sentì dire due volte «stai zitto negro» da un avversario che poi gli rifilò un pugno, e quando il nigeriano reagì fu espulso dall’arbitro. Sono episodi pescati alla rinfusa fra centinaia. Se ne sono citati due consumati fra bambini o ragazzini per rendere l’idea dell’aria che tira.
Le istituzioni contagiate
L’aspetto più stupefacente del lavoro di Lunaria è che il maggior numero dei casi (615) ha per protagonisti «attori istituzionali». Hanno spesso a che fare coi sindaci e le loro ordinanze teoricamente a tutela dell’ordine pubblico. Nell’agosto 2016 il sindaco dem di Ventimiglia vietò la distribuzione di cibo ai migranti in attesa alla frontiera; nello stesso periodo la sindaca di Codigoro, Ferrara, (sempre Pd) propose tasse più alte per chi affittava appartamenti ai richiedenti asilo; nel settembre 2017 il sindaco leghista di Pontida, Bergamo, decise di riservare i parcheggi soltanto a donne comunitarie ed etero. Sindaci di sinistra e di destra, tutti accomunati dallo stupore del giorno dopo, e dalla spiegazione che no, mica si trattava di razzismo. Poi, naturalmente, ci sono anche le violenze fisiche: 84. Un solo esempio, notissimo: nel luglio 2016 Emmanuel Chidi Namdi, trentaseienne nigeriano, fuggito dalle persecuzioni d’estremismo islamico di Boko Haram, passeggiava per Fermo con Chinyery, la fidanzata ventiseienne, quando due del posto hanno preso a chiamarla «scimmia»; Emmanuel provò a difenderla e fu aggredito con una spranga e, caduto a terra, massacrato a calci e a pugni.
L’intolleranza via social
Fin qui si tratta di fatti di cronaca, ma poi c’è una frenetica attività di razzismo quotidiano. L’associazione Vox, in collaborazione con l’Università degli Studi di Milano e La Sapienza di Roma, ha monitorato il social Twitter nel periodo che va dall’agosto 2015 al febbraio 2016, e ha trovato 412 mila tweet misogini, razzisti o omofobi. Circa 42 mila tweet erano contro i migranti in quanto tali, soprattutto se musulmani. Secondo il Pew Research Center (Think Tank di Washington) il 68 per cento degli italiani è ostile ai musulmani, e del resto un’indagine di Ipsos evidenzia che in Italia la maggioranza è convinta che gli immigrati di religione musulmana siano oltre il 20 per cento della popolazione, quando invece la percentuale balla fra il 2,5 e il 3,5 per cento (secondo varie fonti, che tengono più o meno conto dell’immigrazione clandestina). Così, per tornare all’inizio, al sondaggio di Swg, si scopre che tendenzialmente gli italiani preferiscono per vicino di casa un ebreo piuttosto che un musulmano, ma preferiscono un altro italiano piuttosto che un ebreo, qualsiasi cosa voglia dire, visto che gli ebrei in Italia sono quasi tutti italiani.
Cresce l’antisemitismo
E qui arriviamo all’ultimo studio, proposto dalla Anti Defamation League - Osservatorio antisemitismo Italia. Nel 2016 i casi di antisemitismo in Italia sono stati 130, almeno quelli di cui si è venuti a conoscenza; dieci anni prima, nel 2006, erano stati 45. «Dalla Palestina alla Patagonia... Gli avvoltoi giudei alla conquista del pianeta», «sionisti cancro dell’umanità», «semiti assassini rituali» si legge su vari profili Facebook dedicati alla riemergente lotta all’ebreo; nei dintorni dell’antico ghetto di Ferrara, poche settimane fa, via Voltapaletto è stata trasformata a vernice in via Hitler; all’ingresso del liceo Seneca di Roma, a ottobre è apparsa la scritta «ingresso ebrei».
Anche qui si potrebbe andare avanti per pagine, resta giusto lo spazio per dire che - sempre secondo l’Anti Defamation League - nel 2014 il 20 per cento degli italiani aveva sentimenti o pregiudizi antiebraici (come, per esempio, «gli ebrei muovono l’economia mondiale contro gli altri popoli»), e nel 2015 erano saliti al 29. E per ricordare la manifestazione filopalestinese del 29 dicembre a Milano, piazza Cavour, dove immigrati musulmani hanno scandito un coro tradizionale: «Ebrei tremate, l’armata di Maometto ritornerà». Per sottolineare l’ovvio: nelle società dove il razzismo cresce, chi lo subisce spesso poi lo alimenta, in un clima facilone, crudele ed epidemico in cui tutti hanno conquistato il diritto alla spudoratezza.

Repubblica 8.1.18
L’inchiesta
Scandalo in cantiere
Tutte le ombre sulle casette per i terremotati
Operai fantasma: reclutati dai caporali in Romania e sottopagati
Rischio infiltrazioni mafiose: alcune ditte non sono nelle white list Indaga l’Autorità Anticorruzione E molti impianti già cadono a pezzi
di Giuliano Foschini Fabio Tonacci


Nel cantiere di Stato più grande d’Italia stanno calpestando i diritti, facendo lavorare ditte prive del certificato antimafia e operai senza contratto né professionalità, trattati dai caporali come schiavi. E infatti le casette antisismiche che stanno costruendo già cadono a pezzi.
È l’ultimo scandalo di una ricostruzione post terremoto che a distanza di sedici mesi dalla scossa del 24 agosto ancora non parte, soffocata da tonnellate di macerie non rimosse e dalla lentezza della macchina burocratica.
L’Autorità Anticorruzione di Raffaele Cantone e due procure, Perugia e Macerata, hanno aperto indagini sulla realizzazione delle Sae, i moduli abitativi che sono l’unica speranza per gli sfollati di tornare in tempi brevi a vivere nei loro paesi. Nonostante il mega appalto unico Consip dovesse garantire qualità, legalità e trasparenza, la gestione fa acqua da tutte le parti.
Sconosciuti al lavoro
La prima ad annusare che qualcosa puzza nella frenetica corsa alla consegna (in ritardo) delle casette è stata l’Anac. Il 22 agosto scorso Cantone ha inviato i finanzieri del Nucleo anticorruzione in due cantieri di Norcia, ad Ancarano e a Campi, per controllare chi stesse lavorando e come. Le anomalie sono venute subito a galla.
Sul posto c’erano aziende del cui coinvolgimento le autorità niente sapevano, perché non avevano presentato la notifica preliminare di subappalto, cioè il documento che ne permette la tracciabilità.
Ad Ancarano la Essegi Linoleum stendeva la pavimentazione delle casette, e non figurava; la Extra srl montava arredi e mobili, e non figurava; la Autotrasporti Martinelli trasportava infissi, e non figurava. A Campi lavoravano le “invisibili” Società Edilizia Campoluongo di San Cipriano d’Aversa, la Decoop, la Calcestruzzi Cipiccia, la Passeri.
Nomi finiti nell’informativa che l’Anac ha girato alla procura di Perugia per approfondimenti. Ma a quale titolo quelle ditte erano lì? Davanti ai finanzieri, i responsabili hanno risposto di essere “personale distaccato”: alcuni presso l’impresa esecutrice Kineo, altri presso le subappaltatrici di quest’ultima.
Come se ciò bastasse a giustificare il fatto che a Campi e Ancarano non ci fosse neanche un operaio della Kineo Energy Facility, la consorziata alla quale il consorzio Cns (vincitore della gara Consip) ha affidato la realizzazione delle casette in Umbria. Non solo. A una successiva verifica, gli inquirenti hanno scoperto che la metà dei manovali non aveva un rapporto lavorativo con la ditta a cui dichiaravano di appartenere.
Erano fantasmi, quindi. Mandati da chissà chi. Abusivi.
Trattati come schiavi
Pare di vedere un film già visto, intitolato “Dirty job”: si chiama così l’operazione della Guardia di finanza che all’Aquila ha portato all’arresto di sette imprenditori accusati di prendere maestranze a basso costo dai Casalesi. Può accadere di nuovo e vediamo perché.
Nel Maceratese, dove ci sono 72 cantieri Sae aperti, la Cgil ha scoperto che gli operai impiegati a Visso e Ussita sono in gran parte romeni, reclutati attraverso il caporalato direttamente in Romania: senza tutele, sottopagati (alcuni anche meno di 500 euro al mese), sottoposti a turni di 12 ore al giorno sette giorni su sette. Il contratto che hanno in tasca è un fogliaccio scritto a penna, con una foto scattata col cellulare e incollata. A denunciare tutto è stato un romeno che all’inizio di dicembre si è distorto una caviglia mentre montava un pannello. Per nove ore l’hanno tenuto nascosto in cantiere senza fare niente e solo grazie all’intervento di un funzionario della Cgil è arrivato in ospedale.
La gabola del contratto di rete
Il compito di fornire le casette nelle Marche è del Consorzio stabile Arcale, secondo classificato nell’appalto Consip e finito sui giornali nei mesi scorsi perché ritenuto vicino a Renzi: tra i soci c’è la Sistem Costruzioni il cui amministratore è un renziano della prima ora, e di Arcale in qualche modo si interessò, come dimostrano le intercettazioni dell’inchiesta Consip, anche il presidente della Fondazione Open che fa capo al segretario del Pd.
Arcale si serve di molti subappaltatori per costruire le casette antisismiche, tra cui il Consorzio Gips di Trento. La ditta dell’operaio romeno che per primo ha parlato, scoperchiando il pentolone dello sfruttamento e incoraggiando altri lavoratori a ribellarsi, è la Europa Srl, e fa parte appunto del Gips.
Ma tra i subappaltatori dichiarati di Arcale figura anche la InTech di Roma. Il 20 novembre scorso la InTech ha registrato un “contratto di rete”, cioè una scrittura privata con altre undici ditte fornitrici che possono lavorare nei cantieri Sae.
Nelle visure camerali il loro nome non appare, figurano solo col codice fiscale. «Due di esse non risultano iscritte all’anagrafe nazionale antimafia», spiega Daniel Taddei, segretario maceratese della Cgil, autore di un dossier realizzato insieme alla Fillea ed acquisito dai magistrati.
Altre due ditte fuori dalle white list antimafia sono spuntate in un altro contratto di rete. «Queste scritture tra privati dovrebbero essere l’eccezione, perché rendono difficile il monitoraggio del denaro pubblico, e invece sono diventate la regola. Cosa può succedere quando partirà la vera ricostruzione e nelle Marche si apriranno 50mila cantieri?».
Il sistema Consip
È una domanda a cui nessuno sa rispondere. L’impiego di manodopera poco qualificata pare essere la causa dei disagi segnalati da alcune famiglie. I sindaci girano nei nuovi villaggi Sae fotografando tubi che sporgono dai muri, boiler dell’acqua congelati e fili elettrici negli scarichi dell’acqua (Visso), oppure moduli allagati, sporchi e con impianti malfunzionanti ancor prima di essere abitati (Sarnano).
«Il villaggio di Cesare Battisti 2 è stata l’ultima presa in giro», racconta Giuliano Pazzaglini, primo cittadino di Visso. «Doveva essere pronto per il 24 dicembre, poi il 28, poi il 2 gennaio: ma si continua a rinviare. Scriverò alla Protezione civile e alla Regione perché con questa farsa non voglio più avere a che fare».
Di casette antisismiche in tutto il cratere ne hanno consegnate ai sindaci 2.149, ne mancano ancora 1.513.
Non doveva andare così.
Avrebbero dovuto essere fatte prima, e meglio. Il sistema pareva blindato: un bando di gara Consip da 1,1 miliardi di euro per casette da mettere a disposizione della Protezione Civile, i primi tre classificati (Cns, Consorzio Arcale e una Rti guidata da Modulcasa) a dividersi l’onere della fornitura. La pletora di subappalti e contratti di rete stipulati dopo dimostra in realtà che chi ha vinto il bando non poteva realizzarle senza affidarsi a soggetti esterni. Con il risultato che adesso non sappiamo più chi sta montando pareti in cartongesso, caldaie e impianti elettrici nei cantieri del terremoto.

Repubblica Roma 8.1.17
Beni culturali
Palazzo Nardini Rinascimento all’asta
Lo storico edificio di via del Governo vecchio è nella lista degli immobili già proposti per la vendita ai privati
La destinazione rischia di essere quella di albergo a cinque stelle oppure condominio di lusso
di Vittorio Emiliani


Da anni e anni il centralissimo Palazzo del cardinal Stefano Nardini, primo governatore di Roma per incarico di Sisto IV, raro esempio di architettura fine ‘ 400, che ha dato il nome alla strada di Via del Governo Vecchio, mostra ad abitanti, passanti e turisti una facciata degradata dai mancati restauri, con l’intonaco intriso di acqua piovana sotto le caditoie tagliate a metà, col bel portale che si sfalda per smog e piogge acide, con le finestre aperte alle intemperie. Da oltre dieci anni è di proprietà della Regione Lazio che, ai tempi della Giunta Marrazzo, grazie alla brava Giulia Rodano assessore alla Cultura, ha investito oltre 6 milioni di euro nell’indispensabile rifacimento dei tetti ormai crollanti salvando così l’edificio storico. In quel periodo si appassionò a Palazzo Nardini anche il soprintendente, architetto Roberto Di Paola, il quale vi scoprì un fascione di affreschi di scene conviviali di fine ‘400. Poi, più nulla. L’ultimo assessore alla Cultura, la scrittrice Lidia Ravera, ha risposto alle denunce sostenendo laconicamente che era competenza dei Lavori Pubblici...
Sede fino al ‘ 700 del Governatorato, indi abbandonato, recuperato come Pretura, poi storica Casa delle donne e da metà degli anni ‘80 (anche perché la proprietà era incerta) abbandonato a se stesso, rappresenta un autentico scandalo a due passi da piazza Navona. Si pensava che fosse del Comune e il sindaco Ugo Vetere fece approntare un interessante progetto all’architetto Paolo Marconi, grande esperto di restauro, per una sede aggiuntiva del vicino e saturo Archivio Capitolino. I successori non ne fecero nulla. Ma il progetto esiste.
Ora si scopre che, esteso su un’area di 6500 mq., figura fra i beni culturali di tutta Italia inclusi nell’elenco degli immobili già proposti per la vendita a privati da una società che si occupa di aste quale albergo di lusso, oppure per appartamenti per ricconi. “ L’ingresso principale, carrabile e pedonale, avviene dal portone in Via del Governo Vecchio, mediante il quale si accede all’edificio e ad un secondo cortile, più ampio ( 900 m ² complessivi), che è possibile adibire a parcheggio scoperto. L’immobile è articolato su 2 piani ammezzati ed un livello interrato, con un torrino che si eleva per ulteriori due piani (...) è stato quasi interamente restaurato e rimangono da completare la pavimentazione interna, gli infissi e le finiture”.
Ora, non è vero che esso sia “ interamente restaurato”. La facciata è marcia e fatiscente e abbisogna di lavori urgenti. L’interno sta meglio, anche se le vetrate sono tutte da rifare e anche altro. Le strutture sono sane.
Viene da chiedersi: possibile che, con tutte le esigenze culturali insoddisfatte che presenta la capitale, Palazzo Nardini non possa essere utilizzato se non come resort o tramezzato per farne appartamenti di lusso? Possibile che non possa essere usato per scopi culturali importanti restituendo così dignità ad un rione sempre più involgarito dal turismo di massa?

La Stampa 8.1.18
Minori impiccati e torture di Stato il dramma dei diritti umani nella Repubblica islamica
Il rapporto Onu: oltre 530 esecuzioni capitali in un anno
di Paolo Mastrolilli


«La Special Rapporteur si rammarica del fatto che le informazioni ricevute non rivelano alcun miglioramento significativo riguardo la situazione dei diritti umani nel Paese». Basta arrivare al quarto paragrafo nell’introduzione del rapporto presentato il 17 marzo scorso da Asma Jahangir allo Human Rights Council dell’Onu, per trovare questa bocciatura netta dell’Iran.
Molti denunciano le violazioni dei diritti umani nella Repubblica islamica, da Amnesty International a Human Rights Watch. Ad esempio si stima che tra il gennaio del 1980 e il giugno del 1981, quando era caduto Banisadr, 906 oppositori erano stati giustiziati, contro i circa 8.000 uccisi nei quattro anni successivi. La Freedom House oggi giudica «non libera» la stampa iraniana, mentre su questo punto Reporters Without Borders ha messo il Paese al 174° posto su 179 nazioni. La giurista pakistana Jahangir ha però un ruolo sopra le parti, essendo stata nominata Special Rapporteur sulla situazione dei diritti umani nella Repubblica islamica dallo Human Rights Council dell’Onu, e quindi la sua analisi aiuta a capire in maniera obiettiva lo stato delle cose: «Il governo non ha ancora accettato le richieste fatte dal 2002 sull’indipendenza di avvocati e giudici; le esecuzioni extragiudiziali, sommarie e arbitrarie; le questioni delle minoranze; la promozione e la protezione del diritto alla libertà di opinione ed espressione; la discriminazione contro le donne; le sparizioni forzate e involontarie; le detenzioni arbitrarie». Jahangir nota gli sforzi fatti dal presidente Rohani, ma sottolinea che su 291 raccomandazioni ricevute nel 2014, Teheran ne ha accettate 131, parzialmente sostenute 59 e bocciate 101.
Tra i diritti civili e politici, il primo ad essere minacciato è quello alla vita. Nel 2016 in Iran ci sono state almeno 530 esecuzioni, che lo mettono al secondo posto nella classifica mondiale dopo la Cina, e spesso le garanzie basilari del processo sono ignorate. «Nell’ultimo decennio la Repubblica islamica ha giustiziato il maggior numero di minorenni al mondo. Nonostante il divieto assoluto in base alle leggi internazionali, il Codice Penale Islamico ancora prevede la pena di morte per i ragazzi con 15 anni lunari d’età e le ragazze di 9 anni». Almeno 5 esecuzioni di minorenni sono avvenute e 3 erano imminenti, con oltre 78 condannati in attesa di essere giustiziati. Il governo, poi, «non ha accettato alcuna delle 20 raccomandazioni sulla tortura, o altre punizioni crudeli, disumane o degradanti». Le confessioni forzate proseguono, mentre la legge islamica giustifica pene come le frustate, le amputazioni o l’accecamento, inflitto ad esempio ad un condannato curdo identificato come Mohammad Reza: «Il governo rifiuta di considerarle torture e le ritiene efficaci per la deterrenza della criminalità». In almeno 18 casi ha negato anche le cure mediche in carcere.
«La professione legale non è indipendente», e meno ancora quella giudiziaria, che ha il diritto di negare la licenza agli avvocati. Almeno 50 di essi sono stati processati «per aver rappresentato prigionieri di coscienza, detenuti politici, e di “sicurezza nazionale”». Il diritto ad un processo giusto è aleatorio, anche perché le leggi sono spesso vaghe e i reati in contrasto con le norme internazionali, come ad esempio «i crimini contro Dio, insultare il Santo Profeta, le relazioni consensuali etero ed omosessuali tra adulti, seminare la corruzione e l’apostasia». Convertirsi dall’islam ad un’altra religione è un reato.
La libertà di espressione, opinione e accesso all’informazione è negata. Nel dicembre del 2016 «almeno 24 giornalisti erano in prigione per attività pacifiche», mentre Mohammad Fathi era stato condannato a 459 frustate per aver criticato le autorità della sua città. La libertà di associazione è minacciata, e «diversi difensori dei diritti umani sono stati imprigionati», come Golrokh Ebrahimi, Arash Sadeghi, Ali Shariati e Saeed Shiraz. Il governo poi «ha rigettato le raccomandazioni volte ad assicurare pari diritti ed opportunità a donne e ragazze». I matrimoni dei bambini restano legali, 13 anni per le ragazze e 15 per i ragazzi, mentre «le leggi che richiedono alle donne di osservare il codice islamico dell’abbigliamento, hijab, continuano ad essere applicate da agenti e cittadini. Le minoranze etniche e religiose, come Baha’i, sufi, cristiani e curdi, restano perseguitate.

Corriere 8.1.18
«Se l’Europa resterà in silenzio, i ragazzi spariranno nelle carceri»
Nasrin Sotoudeh, avvocata dei diritti umani: ci impediscono di difenderli
di Viviana Mazza


L’ Italia e l’Europa possono fare qualcosa di concreto per gli iraniani: difendere i manifestanti arrestati e i loro avvocati, dice da Teheran Nasrin Sotoudeh al Corriere . «Penso che l’Europa e l’Italia abbiano adottato un approccio formale corretto: hanno sospeso i viaggi di alcuni leader europei in Iran, e la lettera ufficiale di protesta dell’Ue era buona. Ma per gli avvocati è quasi impossibile rappresentare i manifestanti nei Tribunali rivoluzionari, il che contribuisce alla loro situazione preoccupante. Speriamo che questo venga discusso, come pure la liberazione incondizionata dei legali detenuti e la fine delle pressioni e dei processi contro di loro».
Nasrin Sotoudeh è una dei pochi avvocati rimasti in Iran a difendere i diritti umani, nonostante sia stata in carcere per tre anni per aver fatto il suo lavoro, rappresentando dissidenti e attivisti. Graziata nel 2013, solo dopo un lungo sit-in ha ottenuto di tornare a praticare legge. Ora con cinque colleghi (Shirin Ebadi, Abdolkarim Lahiji, Mohammad Olyaeifard dall’estero; Mohammad Seifzadeh e Mahmoud Esfahani in patria), Sotoudeh ha pubblicato un comunicato per rivendicare il diritto sancito dalla Costituzione iraniana alle proteste pacifiche: politici sia conservatori che riformisti le hanno definite illegali, ma per legge non è necessario alcun permesso. Chiede anche l’immediata liberazione dei manifestanti e l’arresto di chi ha ordinato la repressione.
Quali sono le vostre maggiori preoccupazioni riguardo alle proteste?
«Date le esperienze avute in passato con le operazioni di intelligence e di sicurezza, siamo preoccupati per il trattamento dei manifestanti: saranno processati nei Tribunali rivoluzionari e rischiano pesanti condanne. Otto anni fa i servizi segreti reagirono alle proteste con estrema durezza. Ci sono persone ancora in prigione da allora, tra cui il mio collega Abdolfattah Soltani, condannato a 10 anni e da 7 in carcere solo per aver svolto il suo lavoro di avvocato. La nostra più grande preoccupazione è che i diritti dei manifestanti vengano calpestati, usando violenza contro le proteste pacifiche ed emettendo sentenze durissime».
Lei difenderà in tribunale alcuni degli arrestati?
«Se me lo chiedono dovrò affidarli ai miei colleghi, perché se presentano me come avvocato verranno minacciati e le loro chance durante il processo peggioreranno. I Tribunali Rivoluzionari dicono agli imputati che prendere un legale nuocerà alla loro situazione e che invece se si affidano alle autorità tutto andrà bene: lieti di queste promesse, spesso non scelgono un avvocato difensore».
Rouhani aveva promesso di aiutare i prigionieri politici. Oggi però come nel 2009 ci sono arresti di massa e il rischio della pena di morte. Cosa è cambiato?
«La situazione dei Tribunali rivoluzionari non è cambiata dal 2009, anzi in alcuni casi è peggiorata. Molti avvocati vengono sconfitti in aula; la settimana scorsa hanno detto a un mio collega che non poteva rappresentare l’imputato; i legali sono sempre più esposti a minacce, alcune delle quali vengono messe in atto. Il Centro dei difensori dei diritti umani, la più importante fondazione in difesa dei manifestanti, è stato chiuso: il suo capo (Shirin Ebadi, ndr ) ha dovuto lasciare il Paese e tutti i membri sono in prigione o da poco liberati. Parlare di giustizia in assenza di avvocati indipendenti non ha senso».
È vero che queste proteste coinvolgono soprattutto i poveri? Sono state violente?
«È da tempo che la gente soffre per problemi economici. Ogni giorno vediamo lavoratori minorenni nelle strade, donne e giovani senza mezzi di sostentamento, vediamo la corruzione economica e giudiziaria. Tutti questi problemi hanno reso la situazione soffocante, spingendo il popolo a protestare. Pensiamo a istituzioni finanziarie come la Caspian che hanno perso tutti i risparmi della gente. L’evidente ondata di ingiustizie ha ferito la coscienza pubblica. Le storie delle prigioni negli anni ’80 e l’uccisione di dissidenti, l’apartheid verso le minoranze religiose non musulmane, i diritti delle donne (in particolare l’obbligo e le difficoltà legate alll’hijab), i diritti dei lavoratori non pagati, le violenze contro gli studenti nel 1999 e nel 2009: tutto questo era fuoco sotto la cenere, e si è riacceso partendo dai più deboli nella società. Le manifestazioni in generale sono state pacifiche, anche se ci sono stati episodi violenti. È nostro dovere chiedere a tutti di agire nel rispetto della legge» .
( Ha collaborato Sabri Najafi )

Il Fatto 8.1.18
No sesso, sì bambole. Il Giappone invecchia
È in corso il più potente calo demografico per cause naturali nella storia dell’umanità: un esempio di cosa potrebbe accadere in Italia senza l’immigrazione
di Andrea Valdambrini


Con una donna reale finisce che devi pensare anche al matrimonio. Con una in 3d, no”. Nene e Rinko sono due ragazze dagli gli occhi grandi e ammiccanti e i vestiti delle sexy teenager asiatiche che anche noi in occidente siamo stati abituati a vedere nei cartoni. Da diversi anni, sono fidanzate di due quasi quarantenni di Tokyo, appassionati di fumetti e di tecnologia. Il problema non è tanto che le flessuose e sempre disponibili Nene e Rinko – protagoniste di un videogioco Nintendo chiamato Love+ – stabiliscano appuntamenti o scadenze della giornata con il loro cavalieri dallo schermo di una console. Quando una giornalista chiede ai due uomini: “le considerate le vostre ragazze?”, uno dei due risponde: “Certo, perché a lei piaccio comunque”. E pur rendendosi conto che la sua fidanzata non esiste in carne e ossa, alla domanda su chi sceglierebbe tra Rinko e sua moglie, replica imbarazzato: “Farei di tutto per non trovarmi mai in una situazione del genere”.
La scena appena descritta rappresenta uno dei passaggi chiave di No sex please, we are Japanese documentario Bbc che già nel 2013 esplorava le conseguenze economiche e sociali della crisi demografica nel Paese del Sol Levante. Il Giappone è un arcipelago popolato da 127 milioni di abitanti, dove però oggi l’indice di fertilità femminile si attesta intorno a 1,3 figli, mentre tra gli Anni 50 e 70 raggiungeva o superava i 2 figli per famiglia. Di questo passo, i demografi stimano che entro 50 anni la popolazione declinerà del 30%, attestandosi così poco al di sotto dei 90 milioni di abitanti: il più potente calo demografico per cause naturali nella storia dell’umanità. Le ricadute economiche non sono certo marginali. A lungo terza economia mondiale, ormai superata dalla Cina, il Paese è in stagnazione da oltre 20 anni ed ha accumulato un debito pubblico pari a oltre 10.000 miliardi di dollari che corrisponde a oltre il 200% nel rapporto con il Pil. In Italia, solo per fare un paragone, il debito ammonta a 2.200 miliardi, 132% sul Pil.
L’invecchiamento massiccio della popolazione significa compressione della forza lavoro e diminuzione delle entrate per lo Stato, costretto a destinare sempre più risorse a come sanità, previdenza e assistenza per i bisogni degli anziani. Sempre tra 50 anni, ha stimato il National Institute of Population di Tokyo, quasi il 40% dei giapponesi sarà over 65. Oltretutto, il Sol levante è anche il Paese dove si vive più a lungo: secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, un bambino nipponico nato in questi anni ha con 83,7 anni la maggior aspettativa di vita nel globo.
Un senso di incombente decadenza pervade l’opinione pubblica – come ha indicato l’ex ministro Hiroyo Masuda che nel suo apocalittico Local Extinction del 2014, prevede la scomparsa di molte aree del Paese. Già adesso, negli ospedali di molte province i reparti di maternità sono vuoti, le scuole deserte, paesi e città più piccole si spopolano.
Le ragioni del calo demografico sono profondamente radicate nel tessuto sociale. Da anni ormai, la tendenza in Giappone è a sposarsi sempre meno, a fare sempre meno figli – anche perché solo il 2% dei bambini nascono fuori dal matrimonio. Ma soprattutto, sembra diventato difficile per i giovani perfino incontrarsi per iniziare una relazione. Colpa probabilmente del forte individualismo, alimentato dall’uso pervasivo della tecnologia che si traduce in una serie di fenomeni sociali. Ci sono ad esempio le tribù di Otaku, gli appassionati di manga (fumetti), anime (cartoni animati) e videogiochi, mentre gli hikkikomori sono ragazzi che si isolano dalla società, sostituendo i rapporti umani con quelli mediati da internet. In tutte e due i casi, l’amore, anche quando c’è (magari via social), non solo non si traduce in contatto fisico, ma neppure in rapporto umano. Figuriamoci poi nella generazione di figli.
Se la difficoltà nell’approccio con l’altro sesso sembra essere un problema tutto giapponese, l’Italia condivide comunque con il Sol levante sia la denatalità che l’alto tasso di invecchiamento. “Cause diverse ma comportamenti simili”, sintetizza Alessandro Rosina, docente di Demografia alla Cattolica di Milano. “In mancanza di immigrazione per colmare lo squilibrio demografico, il Giappone ha promosso innovazione e tecnologia come mezzo per ridurre la non autosufficienza degli anziani, mntre però le cause della denatalità lì sono culturali, da noi dipendono piuttosto dalla mancanza di adeguate politiche per la di sostegno famiglia”.
“Insomma, perché i giapponesi non sembrano più interessati a conoscere le donne, a sposarsi, a fare figli?” chiede sbigottita la giornalista della Bbc Anita Rani a Roland, americano espetto di manga e anime trapiantato in Giappone: “I ragazzi qui si domandano: vale la pena infilarsi in una relazione reale che può essere complicata, difficile e impegnativa, se puoi avere lo stesso restando nel mio mondo virtuale?”.
Quello in cui la teenager idealizzata e disponibile non delude mai le aspettative. Il sesso con una persona vera invece, lasciamolo proprio stare. Grazie per la proposta, direbbe l’otaku di turno, ma noi non siamo come gli altri: siamo giapponesi.

Il Fatto 8.1.18
Rapporto speciale: Trump e Abe
“La sfida è alla Cina, il calo delle nascite non è un dramma”
di And. Val.


Raffaele Marchetti è docente di Relazioni Inernazionali Luiss di Roma. Nel 2014 è stato visiting professor all’ateneo Waseda, uno dei più importanti della capitale giapponese.
Con Shinzo Abe, premier dal 2012, il Giappone ha ritrovato protagonismo politico e militare dopo decenni di basso profilo. A cosa è dovuto il cambiamento?
La Cina è una minaccia diretta, la sfida principale dei prossimi anni. La competizione con Pechino giustifica l’amento della spesa militare: finché il Sol levante si era sentito leader incontrastato dell’Estremo oriente, non c’era necessità di armarsi, ma la situazione è cambiata. Come la Germania che si sente sfidata dalla Russia: non a caso le due potenze che sono state smilitarizzate a forza nel Dopoguerra.
Il dittatore nordcoreano Kim Jong-un rappresenta per Tokyo una minaccia reale oppure un’opportunità di ritornare sulla scena regionale da protagonista?
Al contrario di quello cinese, il pericolo Corea del Nord è solo contingente, non esiste la seria volontà di arrivare fino in fondo da parte di Pyongyang. I missili puntati contro sono un utile pretesto per riarmarsi: aiutano Abe soprattutto a forzare il cambiamento di mentalità di un’opinione pubblica per decenni strenuamente pacifista. La mutazione culturale in atto è, per molti aspetti, sorprendente.
IIl Giappone è un alleato storico degli Usa. Il rapporto rimane invariato con l’arrivo di Trump?
Abe è stato il primo leader a essere ricevuto da Trump alla Casa Bianca. Gli Usa hanno ancora bisogno del Giappone, alleato chiave contro la Cina. Nel lungo periodo l’America è destinata però a ritirarsi. Si porrà così per Tokyo il tema del “ritorno in Asia”, non in termini geografici naturalmente, ma economici e politici. La dimensione insulare ha plasmato la specificità culturale del Giappone.
La crisi demografica è una spia dell’“eccezione nipponica”?
Il Giappone è un Paese piccolo e sovrappopolato, il calo delle nascite non sarebbe di per sé una tragedia. Fa riflettere piuttosto la chiusura culturale all’immigrazione: i giapponesi si sentono “puri” e diversi dagli altri, asiatici e non. I pochi immigrati sono tutti illegali e clandestini per via delle leggi molto restrittive. Questa crisi riguarda quindi soprattutto la società, l’anima del Giappone.

Repubblica 8.1.18
Scrittori e popolo
La lezione di Fortini senza la poesia cos’altro resta?
di Alberto Asor Rosa

Era, insieme a Calvino e Pasolini, l’ultimo dei nostri classici Come loro credeva che non esistono cultura e letteratura senza un passato da conoscere e reinventare. Ora una sua antologia critica ce lo fa riscoprire
Appare presso l’editore Donzelli un’antologia de I poeti italiani del Novecento, di Franco Fortini, riproduzione del capitolo a tale soggetto da lui dedicato nella grande sintesi La letteratura italiana. Storia e testi,
diretta da Carlo Muscetta per l’editore Laterza (1977). Anche il saggio introduttivo di Pier Vincenzo Mengaldo, il critico e saggista con cui Fortini ebbe intensi rapporti, è coevo (1979).
Attuale è invece l’acuta postfazione di Donatello Santarone. Prima di dire qualcosa sulle scelte che costituiscono le premesse e i criteri guida dell’oggetto di questo nostro discorso, vorrei però richiamare qualche nozione e considerazione sull’autore. Franco Fortini è un autore attualmente troppo dimenticato (non a caso, forse: rappresenta un’altra stagione, a cui siamo diventati lentamente estranei). Anche recentemente ho scritto, nei miei tentativi di ricostruzione storico-letteraria del Novecento italiano, che una fase della nostra attuale evoluzione letteraria si chiude sostanzialmente — nel senso letterale del termine — con la presenza e l’opera di tre nostri scrittori e/o poeti, che io definirei appunto gli ultimi classici, e sono Pier Paolo Pasolini, Italo Calvino e Franco Fortini. In che senso “classici”? In un duplice senso.
Innanzi tutto perché i tre coltivano ancora l’idea che l’operazione letteraria e, più specificamente ancora, quella poetica, non può non riallacciarsi continuamente, anche criticamente, s’intende, ma sempre creativamente, a tutto ciò che l’ha preceduta: è quel che comunemente si definisce la questione della “tradizione”. In secondo luogo, perché, come tutti i classici che si rispettano, essi pensano che l’operazione letteraria rappresenti uno strumento formidabile di azione sul mondo, agisca sulle coscienze, ne muti i connotati, riesca a diventare un’opzione fra le più decisive di “qualificazione” della vita umana. Di tutto ciò, io penso, oggi non c’è più traccia: il che costituisce un motivo di distanziamento forte nei confronti dei tre “classici”, al di là di alcune mentite apparenze.
I tre, s’intende, hanno poi praticato i due sensi in modi profondamente diversi.
Fortini, in quanto saggista, ha esplorato con tenacia la modalità con cui un’ideologia generale di conoscenza e interpretazione del mondo — nel caso suo il marxismo — avrebbe potuto infondere nuova linfa nel tessuto ormai troppo logoro e precario dei meccanismi intellettuali e culturali odierni.
Come dimenticare a questo proposito un libro straordinario come Verifica dei poteri (1965)? Ad onta di certe pungenti riserve, manifestate con estremistica e giovanile presunzione quando il libro apparve, non esiterei a dire oggi che l’esperimento, sul piano storico, forse non ha eguali.
Ma ormai da molti anni, anche prima che morisse, non ho più nutrito dubbi che il vero, grande Fortini, il “classico” appunto, sia il poeta, non a caso collegato, oltre che alla tradizione novecentesca italiana, a molti rami di quella europea, da Bertolt Brecht a Charles Baudelaire a Paul Eluard.
Tra le raccolte sue apparse nel tempo suggerirei oggi Una volta per sempre (1973), un comodo e riassuntivo Versi scelti (che arriva fino del 1989), fino allo straordinario e conclusivo Composita solvantur (1994).
Con questi riferimenti alla sua poesia andiamo avvicinandoci anche al Fortini curatore dell’antologia da cui abbiamo preso le mosse. In Fortini la poesia rappresenta il tentativo di trovare una “lingua comune”, però a partire da una esperienza fortemente personale, anzi quasi unica.
Non è sempre così che fa la poesia? Sì, certo. Solo che Fortini applica la formula universale, tentando di rendere più percepibili — a un lettore contemporaneo, incerto, deluso e per usare una vecchia formula adeguata al caso, alienato — i due termini della questione. Il ragionamento sull’antologia donzelliana parte da qui.
L’esposizione storica, l’interpretazione dei testi, i raggruppamenti storici degli autori sono impeccabili e chiarissimi. Se si trattasse invece d’indicare le linee fondamentali delle sue preferenze e delle sue scelte, direi che Fortini è lontano dal punto supremo raggiunto, secondo l’opinione comune, dalla poesia italiana del Novecento e cioè l’algida perfezione di Eugenio Montale, e dei suoi seguaci (con qualche non insignificante apertura, però, nei confronti di Mario Luzi). Per capire rapidamente la posizione di Fortini, interprete e antologista, io citerei due nomi, l’uno all’inizio, l’altro alla fine del suo percorso: Clemente Rebora e Andrea Zanzotto. Chi era Clemente Rebora? Ligure, nato laico e morto nelle vesti di tormentato sacerdote cattolico, lasciò una mole non consistente di versi, in cui cercò di conciliare la sua vena lirica profonda con un’esposizione di verità sapienziali, di volta in volta religiose, sociali o etico-psicologiche. Ora un ricordo personale che può servire sinteticamente a far capire molte cose. Quando io elaborai il progetto, che doveva dar vita alla sezione delle Opere della Letteratura italiana Einaudi, interpellai Franco Fortini per la poesia italiana del Novecento, lasciandolo libero di scegliere un autore e un testo: Fortini senza esitazioni scelse i Frammenti lirici di Clemente Rebora. Scelta non da poco, mi pare.
Andrea Zanzotto, il grande poeta veneto, anche lui appartato e, come dire, reclino su se stesso, piuttosto che aperto indiscriminatamente verso il mondo, chiude nel senso letterale del termine l’esposizione antologica fortiniana, e non solo, io penso, per motivi cronologici.
Anche lui, infatti, come scrive Fortini nelle pagine di commento ai testi, ma forse pensando a se stesso, «la poesia… è poesia di riflessione filosofico-esistenziale e autobiografica», però «vibrata nei modi del sarcasmo intellettuale».
Il poeta cioè anche in questo caso vuol dire la sostanza; ma con l’illusione, e la ricerca, di dirla «seguendo una linea media fra coscienza e incoscienza». Siamo nell’iperuranio di una scommessa linguistico-storica, a cui anche Franco Fortini ha ampiamente attinto.

Il Sole Domenica 7.1.18
Sraffa e Gramsci, la cifra della lealtà
Il saggio smantella la tesi secondo cui l’economista sarebbe stato una spia dell’Urss e del «duplice» Togliatti per controllare l’intellettuale
di Mauro Campus


L’amicizia fra due intellettuali della grandezza di Antonio Gramsci e Piero Sraffa coinvolge un tale spettro di temi e copre una tale quantità di quadranti da essere – di per sé – più che degna di attenzione. Si tratta di un rapporto i cui contorni iniziarono a emergere pubblicamente con la seconda edizione (1965) delle Lettere dal carcere e che fu poi meglio definito nel Colloquio con Piero Sraffa pubblicato da Paolo Spriano su «Rinascita» nel 1967.
I lavori che da allora hanno descritto l’intensità del rapporto tra i due non hanno trascurato di mostrare quanto il loro sodalizio fosse segnato da una peculiare tensione etica e da una condivisione di idealità civili amplificate e rese dolorose dalla prigionia di Gramsci. Né le ricostruzioni hanno tralasciato di descrivere l’influenza intellettuale che l’uno ebbe sull’altro. Ma se queste caratteristiche appaiono perfettamente immaginabili considerata la luminosità dei due, è lo sfondo politico dei vent’anni nei quali maturò la loro frequentazione (1919-1937) ad aver generato spiegazioni avventate, spesso costruite su ambiguità linguistiche, parole approssimativamente decontestualizzate, torsioni ideologiche che sono divenute pratica storiografica.
Il libro che Giancarlo de Vivo dedica ora a due giganti del pensiero del XX secolo, con una riflessione sugli innesti delle idee gramsciane nel lavoro di Sraffa, è anche un atto di filologica pietas. Per farlo, l’autore ricorre all’evidenza ricavabile dalle carte che Sraffa donò al Trinity College di Cambridge. Si tratta – nota de Vivo – di documenti mai usati sistematicamente per leggere le circostanze del rapporto Gramsci-Sraffa. Un rapporto nato a Torino nel 1919 all’ombra della collaborazione del ventunenne Sraffa all’«Ordine Nuovo» di Gramsci e che non conobbe poi soluzioni di continuità. L’amicizia fu dapprima composta di frequentazioni continue tra Torino e Roma, e quindi mediata da uno scambio epistolare diretto o per il tramite di Tatiana Schucht, cognata del fondatore del partito comunista, che trascriveva per Sraffa le lettere ricevute dal carcere e viceversa. Fu Sraffa – almeno fino al 1932 – il collegamento fra il prigioniero e il Pci, poiché a lui era affidato il compito di recapitare al centro del partito a Parigi le copie delle lettere di Gramsci a Tatiana. E fu Sraffa il consigliere legale che aiutò a predisporre le istanze presentate al governo fascista, motivate dalle declinanti condizioni di salute del leader sardo. Tra esse anche la domanda di espatrio in Unione Sovietica, presentata quando Gramsci era in vista della liberazione.
Il principale equivoco analitico che questo lavoro contribuisce a smantellare (in questo confermando quanto si legge nella bellissima biografia che Angelo d’Orsi ha recentemente dedicato a Gramsci) deve la sua fortuna alla supposta collaborazione che Sraffa avrebbe intrattenuto con i servizi segreti sovietici. Un certo seguito ha, infatti, ricevuto l’interpretazione secondo la quale il grande economista sarebbe stato una spia usata dai sovietici e dal “duplice” Togliatti per controllare il geniale ma eterodosso intellettuale comunista. Lo sfondo ideologico su cui quest’ipotesi inconsistente ha attecchito affonda il suo credito nell’idea che l’indipendenza politica e culturale che Gramsci maturò rispetto al gruppo dirigente del Pci potesse essere così fastidiosa per il Pcus e per Togliatti da alimentare il tradimento dell’amicizia da parte di Sraffa, il quale, dunque, sarebbe stato manipolato fino a diventare una sorta di controllore delle attività di Gramsci per conto di Mosca.
Le idee di Gramsci si svilupparono e cambiarono significativamente già nei primi anni di prigionia, ma se ciò motivò un disallineamento del partito dal suo fondatore in cattività, non causò invece alcun distacco (né tantomeno il tradimento della fiducia) tra Sraffa e l’amico. De Vivo spiega con passione le vicende editoriali della pubblicazione delle Lettere di Gramsci: una storia conosciuta, ma mai affrontata dall’angolazione dell’economista voluto a Cambridge da Keynes. Una storia dalla quale si possono ricavare utili spunti su quanto sia stata (e sia) faticosa la ricostruzione filologica di quell’opera, ma che – come questo libro spiega con intelligenza – difficilmente può essere utilizzata per piegare il ruolo di Sraffa, o fraintendere la sua lealtà.
Giancarlo de Vivo, Nella bufera del Novecento. Antonio Gramsci e Piero Sraffa tra lotta politica e teorica critica , Castelvecchi, Roma, pagg. 188, € 22

Il Sole Domenica 7.1.18
L’ossessione per i documenti
Le lettere di Sraffa all’editore torinese
di Raffaele Liucci


«Una miniera dalla quale riuscii a cavare metallo prezioso». Così Ludwig Wittgenstein dipinse Piero Sraffa, suo sparring partner intellettuale a Cambridge durante la stesura delle Ricerche filosofiche, uscite postume nel 1953. E quante pepite rinveniamo ora dalle Lettere editoriali (1947-1975) dell’economista torinese, curate da Tommaso Munari! Dopo le Lettere a Tania per Gramsci (Editori Riuniti, 1991), è questa solo la seconda silloge epistolare di Sraffa pubblicata a suo nome, nonostante numerosi archivi (Borgese, Kaldor, Keynes, Salvemini e soprattutto Mattioli) conservino lettere bellissime.
Siamo all’indomani della Seconda guerra mondiale. Nell’ovattata specola del Trinity College, Sraffa prosegue il lavoro della vita, ossia «edit the collected works of Ricardo», come aveva preannunciato il 19 febbraio 1930 all’amico fraterno Raffaele Mattioli. Nello stesso tempo, vigila sulle opere di Gramsci in corso di pubblicazione presso Einaudi. Ad aprire la raccolta è appunto una lettera a Felice Platone, il curatore designato, nella quale Sraffa compie un certosino esame delle bozze del Materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, il primo volume dei Quaderni del carcere ad essere pubblicato. Traspira, da questa lunga missiva, un’acribia editoriale impensabile ai nostri giorni.
Sraffa non si limita ad amministrare l’eredità di Gramsci e a diffonderne il pensiero (bussando, senza successo, alle porte di ben sei case editrici inglesi), ma diventa presto «consulente onorario» di Einaudi, soprattutto per i «Classici dell’economia» e per la «Biblioteca di cultura economica». I pareri di lettura che manda a Giulio Einaudi riflettono il suo marxismo ferrigno, nonché l’idiosincrasia per certi colleghi, come «il convertito al cattolicesimo» Werner Stark, il «reazionario antidiluviano» Ludwig von Mises, l’«ultrareazionario» Friedrich von Hayek e Giovanni Demaria («non ti posso dare un giudizio, ma solo un pregiudizio»).
Le lettere di Sraffa all’editore torinese sono concise, taglienti, tutto arrosto e niente fumo, così come un modello di concisione è il suo capolavoro, Produzione di merci a mezzo di merci, edito in contemporanea nel 1960 dalla Cambridge University Press e dall’Einaudi. Il fatto che Sraffa si fosse deciso a pubblicare il suo primo e unico libro alla bella età di quasi 62 anni spiega da solo quale perfezionismo lo animasse. Un afflato ora documentato anche dalle missive a Mattioli, qui riprodotte, dove possiamo seguire la spossante preparazione del volume, sino agli ultimi convulsi giri di bozze.
Spicca, infine, un’epistola metodologicamente esemplare di Sraffa ad Elsa Fubini (4 maggio 1965), che stava curando con Sergio Caprioglio una nuova edizione delle Lettere dal carcere di Gramsci: «Il miglior consiglio che le posso dare è di non fidarsi dei ricordi (né miei, né di altri) che non siano confermati da documenti: possono solo servire come indizi, che mettano sulla strada di una verifica documentaria». Con buona pace degli storici che pontificano senza mettere piede in archivio, prestando soverchia fede alle fonti orali!
Piero Sraffa, Lettere editoriali (1947-1975) , a cura di Tommaso Munari, Einaudi, Torino, pagg. XIX-188, edito in 2.000 copie non venali

Il Sole Domenica 7.1.18
Jacques Attali
Per una nuova etica pubblica
di Valerio Castronovo


Al volgere del Novecento era opinione largamente diffusa che la democrazia e il capitalismo, l’una in quanto sempre più partecipata, e l’altro in quanto riformato dai suoi animal spirits più rapaci e aggressivi, avrebbero proceduto nel loro cammino senza più ostacoli né antagonisti temibili. D’altronde si riteneva che la Cina, sebbene fosse sopravvissuta al cataclisma del comunismo puntando sull’economia di mercato, sarebbe giunta prima o poi a ripudiare anche il suo codice politico genetico. Si dava dunque per scontato che si fossero dischiuse le porte di una nuova era, profondamente diversa da quella del passato intossicata da un radicalismo ideologico totalizzante e aggressivo, nel corso della quale la crescita dell’economia, sostenuta dalla rivoluzione informatica, l’espansione degli scambi e delle comunicazioni, e l’aspirazione collettiva a un miglioramento delle condizioni di vita, avrebbe favorito lo sviluppo dei rapporti di cooperazione fra i diversi Stati e la progressiva democratizzazione degli ordinamenti politici là dove non aveva ancora avuto modo di affermarsi.
Senonché, fin dall’esordio del XXI secolo, a smentire questa prognosi così abbagliante e avvincente sopraggiunsero la rinascita dei nazionalismi e di forti tensioni internazionali, la reviviscenza del fanatismo religioso e l’irruzione sulla scena del terrorismo islamista, la propagazione di nuovi conflitti etnici e di movimenti xenofobi, la diffusione di armamenti sempre più sofisticati e distruttivi, il riemergere di malattie che si credevano debellate, il peggioramento delle condizioni ambientali, oltre allo scoppio di una crisi economica analoga, se non peggiore, a quella degli anni fra le due guerre. È perciò fondata la lucida diagnosi che Jacques Attali ha tracciato nel suo ultimo saggio sui mali endemici e le minacce che sovrastano la realtà in cui viviamo e sui gravi pericoli che stiamo correndo, qualora non vengano adottati per tempo antidoti efficaci e consistenti. Poiché altrimenti scivoleremo lungo una deriva ineluttabile, verso una «fase d’implosione distruttiva», segnata dall’erosione delle libertà individuali e dei diritti sociali, dal declino dei regimi democratici e dalla comparsa di nuove forme di potere totalizzanti, come quelle derivanti dal sopravvento del capitalismo finanziario su quello produttivo e da una concezione autoreferenziale della tecnoscienza, nonché dall’estensione degli inquinamenti ecologici e dalla moltiplicazione di calamità naturali.
È dunque una visione estremamente pessimistica del prossimo avvenire quella di un economista come Attali, stretto collaboratore di Mitterrand negli anni Ottanta e docente all’École Polytechnique, autore di vari libri tradotti in numerosi Paesi. Tuttavia egli non si limita a stendere un “cahier de doléances” puntuale sulle contraddizioni e le imprevidenze del nostro tempo e a lanciare perciò un grido d’allarme. S’impegna anche a indicare quali potrebbero essere le soluzioni più appropriate per costruire una “cabina di pilotaggio” che valga a orientare la nostra società verso un approdo positivo, tale da evitare un salto nel buio e da assicurare uno sviluppo costante e un equilibrio stabile di fronte alle sempre più complesse sfide planetarie. Sono una decina le proposte formulate da Attali che dovrebbero essere recepite e poste in atto, cominciando dal suo Paese come egli auspica. Partendo, a ogni modo, da una precondizione indispensabile: ossia, che ciascuno di noi acquisisca un’adeguata consapevolezza dell’esigenza sia di un cambiamento di mentalità e di organizzazione sia di una nuova cultura sociale e di un’etica pubblica «esigente e liberatoria», per diventare «padroni della nostra vita» e rendere il mondo «vivibile alle future generazioni».
C’è naturalmente da chiedersi se quello di Attali sia in fondo un programma utopico o comunque troppo radicale e quindi alla fin fine illusorio. A giudicare da alcune sue petizioni sembra invece che non manchino di valenze pragmatiche e realistiche: come quelle di «aumentare massicciamente il tasso di scolarizzazione» nelle materne e nelle primarie dei quartieri, per garantire il «miglior risultato possibile» ai fini di un’integrazione laica; di trasformare il sistema d’insegnamento in un processo continuo che duri tutta la vita e consenta «l’apprendimento di tecniche, saperi, filosofie ed etiche diverse»; di equiparare le condizioni di fine carriera di tutti, per far sì che la pensione rappresenti «l’inizio di una seconda vita attiva al servizio degli altri», e di «completare lo stato di diritto europeo» attraverso la creazione di una polizia della frontiera e di un corpo di difesa comune, di un salario minimo e una politica sociale comune, nonché di ridurre sensibilmente il debito pubblico perché non costituisca un peso per le future generazioni.
Jacques Attali, Finalmente dopodomani. Breve storia dei prossimi vent’anni , Ponte alle grazie, Milano, pagg. 172, € 14,50

Repubblica 7.1.18
A tavola per Hitler
di Benedetta Tobagi

Cosa accade agli esseri umani che vivono in una macchina totalitaria? Ce lo svelano le donne che assaggiavano il cibo del dittatore nazista descritte da Rosella Postorino. E così ci interrogano anche sul tempo presente
“La capacità di adattamento è la maggiore risorsa degli esseri umani, ma più mi adattavo e meno mi sentivo umana”: è nascosta in queste frasi la chiave de Le assaggiatrici (Fetrinelli), il filo di ragno che ti resta addosso e rende tanto perturbante (e avvincente) la lettura del nuovo romanzo di Rosella Postorino. Un caso letterario ancor prima della pubblicazione: acquistato da vari editori stranieri, ha conquistato un ricco anticipo anche negli Usa, dove è stato salutato come il nuovo The Reader.
Lo sfondo, infatti, è ancora una volta il nazismo: il romanzo rielabora letterariamente la storia, vera, di Margot Wölk, qui trasfigurata nella giovane ex segretaria berlinese Rosa Sauer, una delle nove assaggiatrici assunte per testare i cibi destinati a Hitler nella cosiddetta Wolfsschanze, la Tana del Lupo, uno dei quartier generali del Führer, la cittadella-bunker mimetizzata tra i boschi della Prussia orientale (oggi Polonia), dall’autunno del 1943 alla fine del ’44.
A conquistare gli editori al Buchmesse di Francoforte è stata soprattutto l’originalità della voce narrante, capace di schiudere una prospettiva inedita su uno degli scorci di storia più frequentati dalla letteratura e dal cinema. Il crepuscolo di Hitler è scandagliato dal microcosmo che si aggrega attorno a una tavola imbandita sull’orlo dell’abisso, un mondo in cui la normalità si riproduce ostinata, nonostante tutto, tra piccinerie e leggerezza: infatuazioni, invidie reciproche, pettegolezzi, scoperte, tradimenti, e il Führer è un vegetariano nevrotico con cui la protagonista condivide l’intimità della peristalsi e l’urina che puzza di asparagi.
La lingua è corposa, esatta. La narrazione, costruita con maestria, scansa a ogni snodo la prevedibilità e gli esiti consolatori, fino alla sorpresa finale, pur lasciando, a posteriori, la sensazione di un percorso ineluttabile. Diventa assaggiatrice per caso, Rosa. Quando Gregor, il marito, l’ingegnere che era stato il suo capo, si arruola, la fa trasferire nel villaggio rurale dei propri genitori, a due passi dalla Tana del Lupo, e “la berlinese”, com’è apostrofata dagli autoctoni per gli abiti sofisticati da cittadina, è tra le donne selezionate per l’ingrato compito. Perché? Non si sa.
La vita di Rosa è un vuoto a perdere tra tanti, un tubo digerente a disposizione del Grande Capo. Dire di no è impossibile, e poi nella miseria dello sforzo bellico quei pasti sopraffini valgono il rischio del veleno. Non è nazista, Rosa.
Pensa spesso al padre, morto d’infarto a guerra appena iniziata, che da bravo cattolico elettore del Zentrum riteneva il regime un’aberrazione.
Ma nemmeno si oppone. Si fa scegliere, scivola attraverso la vita. Non è amorale: distingue giusto e sbagliato, riconosce crudeltà, vacuità, coraggio. E però, da anni, ogni eroismo le sembra assurdo, ogni forma di slancio, qualunque fede, la imbarazza. Non incarna il male banale dei burocrati, né una dei “volenterosi carnefici” di Goldhagen (come invece le due colleghe che chiama “le invasate”).
Rosa è solo una delle milioni di persone ingolfate nella palude del regime, intimamente corrose da un clima di coercizione e ambiguità morale che tutto avvelena. A livello profondo, con Le assaggiatrici Postorino continua l’indagine letteraria del precedente romanzo,
Il corpo docile: cosa accade agli esseri umani dentro una macchina totalitaria. Là il carcere, inteso alla maniera di Foucault, qui il nazismo.
Di nuovo, lo sguardo è quello di un soggetto fragile, marginale. Una giovane donna qualunque, sola, in balia degli eventi, che non biasima nessuno perché non è nella posizione di farlo, e lo sa, e per questo regala al romanzo uno sguardo scevro di giudizio, spaesato e insieme penetrante. Postorino esplora i labirinti grigi del senso di colpa, della vergogna, del senso d’indegnità.
I monologhi interiori di Rosa si infrangono contro il silenzio: non dire per non essere giudicata, o, semplicemente, perché nulla è più facile da capire, da etichettare (è una fatua egoista, la nobildonna che la invita castello per distrarsi, o la scaltra complice di un complotto contro Hitler?).
Dall’infanzia alla caserma dove assaggia prelibatezze potenzialmente letali, Rosa osserva molto e parla poco, cova segreti che, infangandola davanti agli oggetti d’amore, possano attutire il trauma della perdita, del distacco. I grumi di non detto paralizzano la sua esistenza. Rosa sopravvive, e basta.
C’è l’amore come luogo della vulnerabilità (“una bocca che non morde”), il bisogno di essere desiderata per esistere, in cui scivolano (come troppe donne, da sempre), in modo diverso, la protagonista, la giovane Leni, la matura Heike, l’ottusità dell’amore fisico sans issue, senza uscita, come cantava Gainsbourg, la tenerezza da bambino avido di una SS, l’ambigua attrazione tra Rosa e la fiera, spigolosa Elfriede, uno scatto di ribellione incatenato al senso di colpa del sopravvissuto, più che al coraggio… Postorino è cruda e insieme pietosa, nel sondare il cuore dei personaggi. Tanto a fondo si cala in questo paesaggio umano e psicologico, che, leggendo, ti ritrovi a specchiarti, a immedesimarti.
Perché, sebbene non viviamo in un mondo totalitario, a farci caso si avverte anche troppo bene, ancora oggi, un sentore di dissoluzione, intorno. Ci si abitua a tutto, senza accorgersene.
La normalità piega. Ti scopri a interrogarti su quale sia, nel tuo mondo, la soglia dove l’adattamento sconfina nell’ipocrisia, la quiescenza in complicità. Le assaggiatrici
ti resta addosso, a lungo.

Corriere La Lettura 7.1.18
Allah conquista il mondo
Boualem Sansal: «Tutte le correnti islamiste sono d’accordo, diffondere la fede a ogni costo è un obbligo. E ci stanno riuscendo L’Occidente arretra. Solo i giovani e la scuola ci salveranno»
di Paolo Salom


Caos e paradossi. Per lo scrittore algerino Boualem Sansal, 68 anni, l’islam contemporaneo è un universo di scuole e dogmi in contraddizione tra loro, un mondo frammentato dove si «raggiunge l’unità soltanto nella contrapposizione all’Occidente, nel desiderio originario di convertire tutti, senza eccezioni, alla fede di Allah».
Autore di romanzi introspettivi come Il villaggio del tedesco (Einaudi, 2009), coraggioso nel suo legare il nazismo morente all’islamismo nascente, o 2084. La fine del mondo (Neri Pozza, 2016), ricostruzione distopica di un prossimo futuro dove l’intera umanità è sottomessa alla volontà di Yölah e al suo profeta Abi (metafora voluta del trionfo globale dell’islamismo tanto quanto La fattoria degli animali di George Orwell lo era del comunismo), Boualem Sansal rivendica il diritto di esprimersi senza reticenze dall’interno della propria realtà.
Dichiaratamente laico, Sansal ora pubblica un saggio che a partire dal titolo, Nel nome di Allah. Origine e storia del totalitarismo islamista (in uscita per Neri Pozza giovedì 18 gennaio), promette un’analisi spassionata del fenomeno dominante in questo inizio di terzo millennio, partendo da una premessa: «Islam e islamismo non sono coincidenti, il primo termine rappresenta la religione, legittima e apprezzabile come tutte le altre; il secondo la sua estensione, politicizzata e problematica, nelle attività umane».
In Italia quest’ultimo volume esce a due anni di distanza da 2084 , quasi fosse un’analisi documentata di un’intuizione letteraria. In realtà, Sansal ha scritto prima il saggio e poi il romanzo: dunque è la finzione che ha preso spunto da un’accurata disamina storica.
Lei sostiene che islam e islamismo non siano la stessa cosa. Ci può aiutare a capire qual è la differenza?
«Dalla morte del profeta Maometto nell’anno 632 fino ai nostri giorni, e a causa della mancanza di un “Vaticano islamico” con autorità unica sull’interpretazione del Corano e sull’applicazione delle sue prescrizioni, i musulmani hanno moltiplicato le letture del Libro Sacro, letture spesso così divergenti da provocare scismi e guerre fratricide che continuano tutt’oggi. È così che sono nati diversi islam, ciascuno convinto di essere l’unico legittimo e dunque pronto a condannare tutti gli altri per eresia. Possiamo classificare questi islam in due categorie: quelli che si sono imposti in più Paesi, divenendone la religione ufficiale (per esempio, l’islam sunnita, che è osservato in tutto il Nord Africa e in parti del Medio e dell’Estremo Oriente, e l’islam sciita, prevalente in Iran, Bahrein e Iraq), e quelli rimasti ai margini, che per sopravvivere hanno sviluppato strategie specifiche basate su propaganda e azione rivoluzionaria, restando sempre pronti a guadagnare adepti e ottenere legittimità nell’universo islamico. Ecco, sono questi islam marginali ma ambiziosi che noi raggruppiamo nel termine “islamismo”. Queste correnti rivoluzionarie (jihadisti dell’Isis, Al Qaeda, Boko Haram, o attivisti come i Fratelli musulmani) a loro volta sono impegnate in una lotta per unificare prima l’islam e poi il mondo intero sotto la propria denominazione».
Da noi in Occidente, tuttavia, prevale un’idea superficiale dell’islam, visto come un blocco unico e aggressivo. In effetti, una certa coerenza, nella contrapposizione all’Occidente, esiste...
«L’universo musulmano è, sì, molto frammentato e piuttosto aggressivo. Ma resta un dogma sul quale tutte le correnti dottrinarie senza eccezioni si trovano d’accordo: l’obbligo di diffondere il messaggio di Allah in ogni angolo del pianeta, utilizzando tutte le modalità indicate dal Corano. Quali? Predicazione ( da’wa ), insegnamento, finzione ( takiya ), guerra santa ( jihad ). Il mondo musulmano si ritrova attualmente in una fase di “rinascita” e, dopo la riconquistata indipendenza dai colonizzatori occidentali, sogna un’espansione simile a quella del VII secolo, quando nessuno riusciva a opporsi ai cavalieri di Allah. In maniera conscia o inconscia, tutti i popoli arabi e musulmani si rifanno a questa idea. Il confronto ci sarà, ma la vera domanda è: in che modo? Pacificamente, politicamente ed economicamente, o attraverso invasione e jihad?».
Eppure il fondamentalismo moderno è emerso all’inizio del XX secolo come reazione all’occidentalizzazione delle società musulmane. Un fenomeno che abbiamo osservato in Egitto, Afghanistan, Iraq: alle minigonne si sono sostituiti a forza chador e burqa. La storia che torna indietro, invece di avere un percorso lineare come è concepita nel mondo giudaico-cristiano. Come trovare una via mediana tra le due visioni?
«Non ci sarà soluzione fino a che continuerà l’evoluzione negativa, da una parte, del mondo occidentale (invecchiamento della popolazione, dipendenza drammatica dalle fonti di energia, indebolimento di valori come democrazia, laicità, cultura) e, dall’altra, del mondo arabo musulmano (povertà, dittature, sovrappopolazione, tradizioni arcaiche e peso eccessivo della religione). Siamo impegnati in un processo lungo che tuttavia giustappone due mondi differenti in tutto, la cui attuale trasformazione non fa che aggravare questa antinomia».
Nel suo saggio lei affronta un paradosso: più l’islam in Occidente è concepito come «malvagio», più è «ammirato» e capace di conquistare seguaci. Come è possibile?
«Il potere d’attrazione dell’islam è molto forte. È capace di sedurre in tutte le categorie sociali, i giovani, gli anziani, la gente comune e le élite. Questo dipende senza dubbio dal fatto che l’Occidente ha perso vitalità, non produce più senso per il mondo, anzi, è alla ricerca del suo paradiso perduto. Disincanto e confusione sono molto più profondi di quanto si immagini: il punto di rottura è ormai prossimo e l’islam appare come un’avventura esaltante».
Nel suo romanzo distopico «2084. La fine del mondo», lei immagina l’umanità sottomessa a una religione universale. Pensa davvero che ci attenda il confronto con un islam che vuole conquistarci tutti?
«Convertire il mondo all’islam è un comandamento religioso, un obbligo per i musulmani, è nel Corano e il Corano è la parola di Dio. Nessun territorio, nessun uomo può sfuggire alla sua giurisdizione, perché sarebbe come ammettere che Allah non è il più grande, l’onnipotente. Il solo pensarlo, per un musulmano, è un crimine. Ora, dopo secoli di marginalizzazione, l’islam è in espansione, si installa in Occidente, ma non solo nelle periferie dove è la religione degli operai e della manodopera al servizio degli occidentali: adesso arriva in forma di élite che conquista sicurezza e potere, che converte grazie a queste nuove realtà, che impone la propria visione e il proprio modo di vita a una società ormai priva di energie, di risposte, avendo essa perduto il monopolio della produzione di idee e di significato che era la sua forza dalla fine del Medioevo in Europa. Il mondo che ho immaginato in 2084 sta per realizzarsi qua e là, nei Paesi musulmani e in talune enclave in Occidente. Credo che sia il momento di guardare in faccia la realtà e agire prima che sia troppo tardi. Possiamo e dobbiamo lavorare sui giovani, sulla scuola».

Corriere La Lettura 7.1.18
La ricetta di Miliband
Ex enfant prodige del blairismo, ex ministro degli Esteri, David ha lasciato la politica per guidare una Ong
«L’Europa ha sbagliato sugli immigrati»
di Marilisa Palumbo


La decisione di trasferirsi dall’altra parte dell’Atlantico nel 2013 per occuparsi di rifugiati è stata un piano B per l’uomo che a 32 anni era il capo della «policy unit» del primo governo Blair, a 42 ministro degli Esteri e a 48 lasciava la politica dopo aver perso tre anni prima la leadership del Partito laburista nello scontro con il fratello «Ed il rosso». Ma per David Miliband aver ottenuto la presidenza dell’International Rescue Committee è stato anche il modo di chiudere un cerchio, personale. O ripagare un debito, per dirla con le sue parole. Entrambi i genitori, ebrei, scapparono a Londra per sfuggire alle persecuzioni antisemite. «Quando sono arrivato al mio colloquio di lavoro a New York ho detto che c’erano tre ragioni per cui volevo questo posto. Una è l’urgenza della crisi dei rifugiati; l’altra che vedevo l’Irc come un gigante dormiente con grandi potenzialità, e infine che la mia storia familiare è la prova che tutti abbiamo un debito di riconoscenza da onorare e fare questo lavoro sarebbe stato un modo per ripagare una parte di quel debito nei confronti delle persone che avevano aiutato i miei genitori».
Miliband ha da poco pubblicato un libro, Rescue. Refugees and the Political Crisis of Our Time, un manifesto contro i sentimenti anti rifugiati che percorrono l’Europa, un appello all’azione in nome della nostra storia e del nostro futuro.
L’Europa ignora le lezioni del passato?
«Temo di sì, e non solo rispetto all’impegno che dovremmo avere nei confronti dei rifugiati. Sembriamo aver dimenticato anche che, se non affronti un problema, si ripresenterà aggravato. Mentre il Papa da Lampedusa nel 2013 parlava di “globalizzazione dell’indifferenza”, l’Europa era concentrata sul conflitto ucraino e la crisi dell’euro, e ha finto di non vedere che la questione rifugiati stava esplodendo. Non si tratta solo di dove deve essere il nostro cuore, ma anche la nostra testa. Perché l’Europa è davanti a una scelta non tra avere o non avere rifugiati, ma tra arrivi legali, documentati e organizzati e arrivi illegali, disorganizzati e caotici».
Nel 2015 la crisi è esplosa, e la cancelleria tedesca Angela Merkel, che si è mossa ricordando alla Ue i suoi valori, sembra aver pagato anche per questo un prezzo nelle urne.
«Vediamo come si chiuderanno le consultazioni per la formazione del nuovo governo a Berlino, intanto mi colpisce in positivo che anche i partner di coalizione di centrodestra si siano impegnati ad aiutare 200 mila rifugiati l’anno nei prossimi quattro. La Germania ha portato su di sé una grande parte del carico, è molto importante che il resto dell’Europa faccia la sua parte, come l’Italia chiede da molto tempo. Bisogna sviluppare un meccanismo di condivisione delle responsabilità che sostituisca lo schema dei ricollocamenti. E c’è bisogno di un cambiamento di lungo periodo con Turchia e Paesi del Nord Africa per gestire nel modo più efficace possibile il flusso di migranti».
Inoltre, secondo lei, è necessario modificare il modo in cui vengono distribuiti gli aiuti nei Paesi di origine .
«Dobbiamo garantire ai Paesi ospitanti sostegno macroeconomico, ma esigere che ai rifugiati sia consentito di lavorare; affrontare la cronica mancanza di fondi per l’istruzione; spostare il concetto di assistenza dalla fornitura di tende e cibo a quella di contante: per responsabilizzare i migranti e sostenere l’economia locale».
Il suo libro è anche un manifesto sulla forza e sulla responsabilità morale dell’Occidente. Può essere ancora il perno dell’ordine globale?
«L’Occidente è un concetto politico, non solo geografico. Nel libro cito Joschka Fischer ( ex ministro degli Esteri tedesco, ndr ) : il certificato di nascita dell’Occidente è la carta Atlantica del 1941. Quella costruzione politica oggi è sotto assalto come mai prima. Lo è dall’esterno, a causa di come stanno cambiando i rapporti di forza economici, e lo è sul fronte interno a causa dei movimenti di estrema destra che ne rinnegano i valori, e di un presidente americano, Donald Trump, che ne sfida le istituzioni, la Nato e l’Unione Europea. In un momento in cui peraltro i regimi autoritari, vedi la Cina, sul lungo periodo sembrano avere una migliore visione strategica delle democrazie, più che mai è vitale ricordarsi perché l’Occidente è importante. Non come nuovo impero, ma come entità in grado di stabilire l’agenda e le priorità. E anche, ne sono convinto, come forza e autorità morale, perché sono state le democrazie liberali occidentali a inaugurare l’impegno internazionale nei confronti dei diritti umani individuali. E resta preziosa l’intuizione strategica alla base del costrutto occidentale: un mondo interdipendente ha bisogno che la cooperazione internazionale sia istituzionalizzata e sia una soluzione vantaggiosa per tutti, non un gioco a somma zero».
L’America però è ripiegata su se stessa, e l’Europa, oltre che con la Brexit, deve fare i conti con la faglia apertasi tra Est e Ovest.
«L’Europa dell’Est ha beneficiato enormemente dell’ingresso nella Ue e non vedo movimenti “secessionisti” da Bruxelles, ma come sta scoprendo la Gran Bretagna, non puoi godere dei privilegi di un club senza rispettarne le regole. La Commissione ha il compito molto delicato di tracciare una linea tra il sostegno ai valori europei e il rispetto delle decisione nazionali. In generale, l’Europa sta ancora soffrendo le conseguenze della crisi finanziaria: la politica dell’austerity è stata un freno per la crescita e la fiacchezza dell’economia è stata benzina per il populismo di destra. E rincorrerlo sul tema rifugiati non ha aiutato. Nel 2018 però la crescita dovrebbe migliorare e mi pare ci sia un nuovo slancio nelle politiche sui migranti. In un momento in cui l’America manda segnali negativi, demonizzando i rifugiati, è ancora più importante che l’Europa faccia sentire la propria voce e guidi l’Occidente».
Non è facile però cambiare la narrativa sull’immigrazione, l’immagine di una «invasione»…
«L’Europa ha più del 20% del reddito mondiale e l’11% dei rifugiati, mentre i primi 10 Paesi per numero di rifugiati hanno il 2,5% del reddito mondiale. Detto questo, è molto importante che gli antipopulisti, di centrodestra e di centrosinistra, sappiano rispondere alla legittima richiesta di sicurezza dei cittadini. Ma senza inseguire l’estrema destra, ché se la insegui si fa solo più estrema».
Oggi che gestisce una Ong globale, pensa che con soldi e riconoscibilità si possano ottenere più risultati fuori che dentro la politica?
«No, non è così. Fuori dalla politica si hanno meno ostacoli, è vero, ma anche meno potere. Non bisogna sottovalutare gli strumenti e l’impatto del governo».
E le manca, la politica?
( esita qualche secondo ) «Naturalmente!».
Il suo Paese vive un momento delicato. È un’illusione dei più ferventi europeisti pensare che la Brexit possa ancora essere fermata?
«Purtroppo credo che alla fine usciremo, ma fino a quel momento non dobbiamo rinunciare nemmeno per un secondo a ripetere che la Gran Bretagna sta molto meglio dentro la Ue che fuori, che questa decisione è una follia».

Corriere La Lettura 7.1.18
Pregiudizi Non bastano le condanne ritualiL’Europa cova rancori da non sottovalutare
Lampi razzisti dalla Germania profonda

di Donatella Di Cesare

I libri sul razzismo, sull’antisemitismo, sull’odio verso l’altro, si chiudono in genere con un happy end : la convinzione che questa brutta storia sia conclusa, l’auspicio che sia almeno agli sgoccioli. Nel discorso pubblico si parla perciò, con una certa disinvoltura, di «rigurgiti del passato». Sennonché lo scenario attuale smentisce drasticamente questa visione ottimistica.
Il progresso scandisce l’accelerazione delle scoperte scientifiche, ma non detta il battito delle vicende umane. Inutile, dunque, attendere con bonaria fiducia che la storia faccia il suo corso cancellando definitivamente le tracce di un’epoca oscura. Meglio aprire gli occhi e cambiare linguaggio.
Condannato universalmente dopo Norimberga, destituito di fondamento scientifico, sanzionato dalla storia, il razzismo non avrebbe più dovuto esistere. Eppure, al contrario, dilaga. Né ha senso crogiolarsi nell’idea rassicurante che si tratti solo di sparuti gruppi folcloristici, di pochi nostalgici, di qualche testa calda. A meno di non essere in malafede. Certo il nuovo razzista è una specie non prevista nel nuovo millennio, che si immaginava un’era indenne da intolleranza, rifiuto, risentimento. Anche l’ottimista più convinto non può però non ricredersi dinanzi all’acuirsi del fenomeno, al diffondersi della violenza.
I filamenti neri di questa visualizzazione, che disegnano i crimini di odio compiuti nel 2016 in 37 Paesi — molti europei — non lasciano alcun dubbio in proposito. E oltre ad allarmare, dovrebbero far riflettere non solo chi ha responsabilità di governo, ma tutti i cittadini che tengono alla democrazia. Perché è evidente che, di fronte a questi risultati, sbagliate sono sia le analisi, sia le strategie politiche e culturali. L’errore più grande è stato quello di aver ridotto l’antirazzismo a un compito di mera denuncia, compito ingrato perché, ogni volta che sembra concluso, deve ricominciare.
Nella mappa aggiornata dei crimini d’odio colpiscono in particolare alcuni filamenti. Anzitutto quello al centro che s’innalza in un’iperbole per indicare l’antisemitismo in Germania — il Paese in cui le aggressioni contro gli ebrei superano quelle perpetrate altrove. Com’è possibile? Forse il dato sarà opera di giudici zelanti e di una legislazione severa. Resta, però, in tutta la sua gravità, l’esito angosciante: il Paese del Terzo Reich è quello che vanta il più alto numero di attacchi antisemiti. Il che non sorprende chi conosce la Germania profonda — non Berlino, ma la provincia della Baviera, o quella del Baden, e le regioni orientali tra il territorio di Dresda e il Mar Baltico. La Germania non ha elaborato il passato meglio di altre nazioni. Il Memoriale dell’Olocausto, nel cuore della capitale, ha avuto sin dall’inizio un ruolo ambivalente e ha funzionato come pietra tombale per compensare l’incapacità del lutto e per sopire le colpe tedesche.
Con la riunificazione, perno ipercelebrato intorno a cui si è andata ricostruendo la nuova immacolata identità tedesca, la Germania ha voltato pagina. Il passato della Shoah è divenuto fastidioso e sgradevole, come gli ebrei (ormai oltre 200 mila) che lo rievocano. Né va dimenticata quella campagna diffamatoria contro la religione e i tre monoteismi, di cui hanno fatto le spese soprattutto ebraismo e islam. Le posizioni ufficiali non hanno seguito. Non si spiegherebbe altrimenti il consenso goduto non solo dai neohitleriani, ma anche da partiti populisti come Alternative für Deutschland.
Molto si potrebbe dire anche sull’antisemitismo negli Usa, in Austria, in Belgio, in Francia, in Gran Bretagna, in Ungheria, in Romania, in Ucraina, persino in Danimarca e in Spagna (dove gli ebrei vivono solo da qualche anno). Rinfocolato dal negazionismo, l’odio assume forme inedite, dal rimprovero di voler monopolizzare la sofferenza alla dottrina che predica il «business della Shoah», per cui gli ebrei avrebbero fatto dello sterminio un’industria. Dal Mein Kampf di Hitler a oggi la delegittimazione di Israele è arrivata a vertici inusitati.E per quanto si possa criticarne l’ottuso governo di destra, resta inaccettabile mettere in questione l’intera storia del popolo ebraico e la sua esistenza politica.
Fa vergogna il filamento nero che segna, nell’Italia odierna, i crimini d’odio contro Rom e Sinti, i cosiddetti «zingari». Portano la responsabilità non pochi capi politici e molti media che hanno contribuito a stigmatizzare la figura del «nomade» malvagio e scellerato, delinquente inveterato e irrecuperabile.
Ma la lista continua con l’esiziale islamofobia diffusa nell’Europa dell’ovest, in quella dell’est, nonché oltreoceano. Non mancano gli attacchi agli omosessuali, proprio dove il livello di attenzione è alto, e le aggressioni contro i disabili addirittura nella civile Svizzera. Il filamento della xenofobia campeggia ovunque, raggiungendo veri e propri vertici in Russia, in Polonia, in Italia, in Irlanda, in Grecia, in Croazia e in Bosnia.
Il razzismo, passione identitaria che non si limita a detestare l’alterità, ma ha orrore di riconoscerla in sé, interdetto nello spazio pubblico, ha preso la via del web, dove ha potuto facilmente insediarsi affrancandosi da ogni tabù. Certo il neorazzista è spesso un criptorazzista che si dissimula ricorrendo a sotterfugi, a volteggi lessicali, giocando sull’equivoco, nel tentativo di aggirare la censura. Equipara l’immigrazione a una «invasione»; sostiene che i migranti portano il contagio; asseconda teorie complottiste. Ma razzista resta, perché aizza contro il diverso, il migrante, il povero. Lo fa con quel gesto di discriminazione che separa i «noi» dai «non-noi», uno iato che non divide necessariamente razze, ma può distinguere anche due civiltà, due religioni, cristallizzate in schemi rigidi. L’esclusione diventa permanente, collocando al centro il proprio sé e respingendo in un pericoloso margine l’altro.
Non basta però la denuncia di questo gesto discriminatorio. I rituali antirazzisti, i cerimoniali della memoria, sempre più svuotati di contenuti, ridotti persino a eventi semisportivi, sono ormai il palliativo periodico della buona coscienza. Paradossalmente ottengono l’effetto opposto. Questo è davvero il grande problema. Occorrono piuttosto lo studio e la riflessione; perché si deve conoscere per essere in grado di riconoscere il fascismo, il nazismo, l’hitlerismo — e per non ripetere gli errori del passato.

Corriere La Lettura 1.7.18
Scontro tra luce e buio al tempo dell’elettroshock

di Roberto Galaverni

Non accade spesso che in un narratore di riconosciuto valore si nasconda un poeta di qualità. È questo il caso di Thomas Hardy, ad esempio, o più vicino a noi di Raymond Carver. Ma è anche il caso, con le dovute proporzioni, di Janet Frame, la scrittrice neozelandese conosciuta nel mondo quasi esclusivamente per i romanzi e i racconti. La sua opera poetica, pressoché ignorata al di fuori del Paese d’origine, sorprende infatti non solo per la maturità e la consapevolezza espressive, ma anche e soprattutto per il suo carattere per nulla accessorio o complementare. Al contrario, si tratta di una poesia a tutto tondo, che aspira quasi sempre a definire qualcosa che riguarda la natura e il destino dell’uomo nella loro assolutezza.
Come detto, la fama, i riconoscimenti, i premi, sono legati all’attività narrativa, e in particolare alla fortunatissima trilogia autobiografica, nota complessivamente col titolo di Un angelo alla mia tavola , alla cui diffusione ha contribuito ulteriormente la bella trasposizione cinematografica di Jane Campion, che nel 1990 ha vinto il Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia. È vero però che la poesia l’ha accompagnata e assistita per tutta la vita, da quando era bambina e dichiarava di voler diventare a ogni costo una poetessa, fino agli anni più tardi. Non a dosi massicce o meccanicamente, però, non secondo un programma, ma con discrezione e severità, sempre in modo essenziale e necessario: 170 poesie e due sole raccolte di versi, la prima pubblicata nel 1967, la seconda uscita postuma nel 2006 (la scrittrice è mancata nel 2004 a Dunedin, la sua città natale, dov’era nata settantanove anni prima).
Da questo non esiguo ma certo poco ingombrante corpus poetico, sono tratti ora i testi che compongono il primo volume antologico interamente dedicato alla Frame in traduzione italiana: Parleranno le tempeste , ben curato e tradotto per Gabriele Capelli Editore da Eleonora Bello e Francesca Benocci (peccato solo per l’assenza del testo originale in inglese, che si fa sentire). Contrariamente a quanto le vicissitudini della vita potrebbero forse far supporre (i tanti anni d’internamento in manicomio per schizofrenia, i continui trattamenti di elettroshock), queste poesie colpiscono per la chiarezza, il controllo, la precisione con cui riescono a definire questo o quell’aspetto dell’animo, della psiche, del comportamento umano: «Non siamo feriti da/ una spina velenosa sconosciuta/ ma da una/ che è in noi, cresce in noi/ la punta del nostro cuore e centro». Dunque non si tratta soltanto di conoscenza del mondo interiore, di cui la scrittrice sicuramente dà prova (come nei romanzi, del resto), ma della capacità di metterlo a fuoco con esattezza e piena responsabilità, con una padronanza talora sorprendente delle configurazioni metaforiche, che sono costantemente intese a chiarire, a definire, a illuminare, in sostanza, a mettere direttamente gli occhi o il dito sulla cosa, anziché a sfumarla, a prolungarla al di là di se stessa o a sfuggirla.
In genere non sono questi componimenti scritti per l’occasione, o in ogni caso la circostanza particolare quasi sempre costituisce un trampolino di lancio per considerazioni di ordine più ampio. La poesia arriva dopo una lunga osservazione, con sicurezza di analisi e di giudizio, eppure senza enfasi o pretesa alcuna, ma anzi con un gesto poetico di grande naturalezza. Le immagini e le metafore della Frame nascono al modo di constatazioni. In una poesia l’esistenza è lo stare in una vasca da bagno in cui a poco a poco si sporca l’acqua della vita. In un’altra la comprensione del suicidio viene descritta come il tentativo di entrare in una stanza inaccessibile. In un’altra ancora la differenza tra l’infanzia e la maturità viene figurata come un voltare in modo diverso le pagine di uno stesso libro (il corso della vita). In un componimento la vicenda dei ghiaccioli duri e inscalfibili che finiscono per sciogliersi diventa l’emblema del nostro stesso destino, mentre in un altro il compasso viene preso come l’allegoria dei due diversi caratteri o anime dell’uomo («se/ dovessi scegliere, vorresti essere/ l’ago o il piede del compasso?»).
Lo scenario che più spesso ritorna, diciamo pure il principale termine di misurazione della realtà impiegato dalla Frame, è però quello di uno scontro costante, quotidiano, tra la luce e il buio, tra «il gradito consiglio della luce» e «la nuda/ grotta della notte».
«Sono invisibile./ Sono sempre stata invisibile/ come la povertà in un paese ricco», confessa, anche se «l’elenco dell’invisibilità è infinito/ e, dicono, non fa buona poesia». Eppure sembra essere accaduto il contrario. Discreta quanto affilata, cordiale quanto risoluta, questa poesia sembra avere trovato la giusta collocazione, il che significa anche il proprio impegno e la propria libertà, all’ombra del romanzo e della scena pubblica, lì dove non c’era più nulla da ottenere o dimostrare, dove non c’era niente da difendere che non fosse il credito concesso all’esistenza dell’uomo, «il penny cesellato della luce/ che la nascita gli ha messo in mano».

Corriere La Lettura 7.1.18
Vocazione Il nuovo volume di Alfonso Guida rievoca la malattia e l’iniziazione poetica
Piovono sassi nell’ospedale psichiatrico

La sorte di un poeta è unica, irrimediabile. Così è per Alfonso Guida, maturato a una lingua erratica, febbrile, dentro una biografia tormentosa. Il suo ultimo libro, meno sovrabbondante e incontrollato di altri, esibisce già nel titolo il senso di un’impronta definitiva. Il titolo è Luogo del sigillo (Fallone Editore, con una doppia prefazione di Michelangelo Zizzi) e rimanda a uno spazio reale e insieme immaginoso: Torremozza, come la chiama il poeta, in realtà l’ospedale psichiatrico di Policoro. È lì, nel posto dello scoronamento, della derelizione, che il poeta riceve, appunto, il sigillo della propria vocazione.
Non si può non pensare ad Alda Merini, ai sacri recessi della follia, ai luoghi dove la terra santa sembra avverarsi nel dolore e nella perdita. Così è forse anche per Guida, lucano nato nel 1973, passato per l’esperienza di un lungo ricovero, sebbene il modello da lui evocato sia in primo luogo Amelia Rosselli. Un Sud favoloso e inquieto è al fondo dei versi del poeta, che seguono leggi millimetriche e assolute, pur nella loro fluvialità. Ciò che questa poesia ci mette davanti è infatti l’incontro tra esattezza ed energia espressiva. Così la cinetica delle immagini, simili a visioni, deve adattarsi alla misura dei versi, piegarsi e piegarli, trovandovi un innesto: «Mi proteggo la testa perché i sassi/ che la pioggia lascia cadere sono/ pesanti. Lanugini che ricoprono/ le piante fino a ingrigirle, candele/ spettrali appese al muro, la maldestra/ meditazione sul tempo e sull’uomo/ che scuote lo spazio — sono dettagli/ di un mattino di marzo (...)».
L’immaginario del poeta è ispirato a un senso di fatale irrimediabilità. La musica sorda del verso nasce da questa soggezione. Quando si comincia a scrivere, la perdita è avvenuta, si è consumato il dissidio con il mondo. Esso, il mondo, va continuamente reinventato dentro la parola, con una fiducia assoluta e dolente nella nominazione (da cui un lessico a tratti ricercato). Perciò le immagini vantano, pur se a volte ribollenti, una loro forza di coesione: «(...) e non c’è silenzio, ma solo/ povertà, e un cielo secondo che atterra/ nel prato, laggiù tra la cenere e quel/ mezzo torrente che a sé unisce cori/ di foglie, eserciti di stelle e malve». Tutto è insieme smisurato e chiuso entro confini. Così l’endecasillabo (verso già di riferimento in Poesie per Tiziana , 2015), anche sghembo, slogato, risorge sempre, è la misura di una necessità: non sonora, né ritmica, ma piuttosto di respiro, di durata.
Certo si danno anche casi di versi eccedenti, ma una gabbia per lo più costante condensa il discorso, che solo a tratti rischia di debordare per ingorgo di associazioni. Dopo aver perso il bene e il lume, essere entrate nel luogo intimo e segreto di una lingua elegiaca, assoluta, le ombre fraterne di Torremozza, un tempo compagne del poeta, si ritrovano, lasciando tracce regali e poverissime del loro passaggio: «Cercando qualcosa, un corpo, un’assenza».