lunedì 15 gennaio 2018

Il Fatto 15.1.18
Università, Londra insegna perché deve essere gratis
Abolire le tasse non aiuta i ricchi. In Inghilterra le introdusse Blair con grandi propositi. Risultato? Sono esplose e le iscrizioni calate insieme al finanziamento statale: scaricare i costi sugli studenti offre l’alibi per sottrarre risorse agli atenei
di Mirko Canevaro


Il Rapporto Eurydice della Commissione Europea ci dice quello che sapevamo già: le rette universitarie più alte d’Europa si pagano in Inghilterra, ad oggi 9.250 sterline l’anno per la triennale. Secondo il Rapporto Ocse Education at a Glance 2017, le rette universitarie inglesi sono persino più alte della media americana. Vent’anni fa, in Gran Bretagna, l’educazione universitaria era completamente gratuita. È facile liquidare, dall’Italia, il modello inglese come un modello alieno – le cifre che pagano gli studenti da noi non sono neppure paragonabili (in realtà, in Europa, a parte in Inghilterra, solo in Olanda e Spagna si paga più che da noi).
Ma le reazioni suscitate dalla proposta di Pietro Grasso di abolire le “tasse” universitarie suggeriscono che sarebbe utile riguardarselo il dibattito inglese di vent’anni fa: i temi sono analoghi, le buone (o cattive) intenzioni sono le stesse e – sorpresa – anche allora la questione nasceva tutta da sinistra. Perché le rette universitarie in Inghilterra le introdusse il primo governo laburista di Tony Blair – inizialmente progressive e basate sul reddito, con borse di studio per chi ne avesse bisogno; un paio di anni e le borse scomparvero, sostituite da prestiti statali da ripagare (con gli interessi) non appena il laureato avesse raggiunto un reddito di 10.000 sterline. Nel 2006 la progressività andò a farsi benedire, e le rette passarono a circa 3.000 sterline; da 3.225 nel 2009-2010, con i Tories balzarono a 9.000 – e con quel balzo è arrivata una flessione delle immatricolazioni, soprattutto tra le fasce sociali più deboli.
Il dibattito sulle proposte di Grasso, si diceva, è tutto da sinistra. Da un lato c’è chi nota (giustamente) che il sistema universitario italiano è compromesso da anni di definanziamento – servono almeno 1,2 miliardi (la cifra varia) per riparare al danno fatto, da aggiungere a quei 1,6 (pare) necessari per abolire le rette. E se c’è da scegliere, forse, rifinanziare il sistema universitario è più pressante. Dall’altro si parla di progressività: alcuni sostengono che abolire le rette sarebbe regressivo. Ma rispetto a cosa? Certo non alla minuscola progressività delle rette correnti; magari rispetto a un immaginario sistema di rette super progressive che davvero tracciasse il gradiente dei redditi, ma non mi pare sia nel programma di nessuno.
Altri, più seri, notano che le diseguaglianze nell’accesso all’università – vere, dolorose, drammatiche – non hanno tanto, o solo, a che fare con le rette, ma piuttosto con l’assenza di borse, di studentati, di misure attive volte a garantire il diritto allo studio. Se vogliamo investire 1,6 miliardi, la priorità è lì.
Le stesse preoccupazioni furono vent’anni fa alla base dell’introduzione delle rette in Inghilterra. Il ragionamento non fu (da destra) che l’istruzione universitaria non è un diritto, ma un servizio che va pagato. Al contrario (da sinistra), il National Committee of Inquiry into Higher Education spiegò che le considerazioni a favore dell’introduzione delle rette avevano a che fare coi temi dell’“equità tra gruppi sociali, dell’allargamento del pubblico universitario… e dell’identificazione di una nuova fonte di finanziamento che possa essere destinata esclusivamente all’educazione universitaria”. Insomma, un nuovo modello più solido per il finanziamento del sistema, che ne garantisse l’espansione, e che potesse supportare maggiore progressività, misure forti per l’inclusione e l’allargamento del diritto allo studio. Abbiamo visto come è andata a finire.
Ci sono due lezioni in questa storia. Primo, un miglior livello di finanziamento al sistema universitario e l’introduzione della gratuità possono sembrare priorità alternative ma sono in realtà una questione sola. Una volta introdotte, le rette crescono sempre di più, perché esiste infine un’alternativa al contributo pubblico – c’è un altro modo di finanziare il sistema che non pesa sul bilancio. In Inghilterra, all’introduzione delle rette è seguito un progressivo e inesorabile definanziamento degli atenei, e soprattutto dell’insegnamento; borse, studentati agevolati e misure di diritto allo studio sono state le prime a saltare. In ultima analisi, la prospettiva di un rifinanziamento pubblico (anche parziale), tanto del sistema nel suo complesso, quanto del diritto allo studio, è irrealistica finché scaricare parte dei costi sugli studenti resta un’opzione.
La seconda lezione è che il discrimine tra rette (anche minime e progressive) e non rette non è di grado, ma assoluto – sono due modelli diversi e alternativi. Le considerazioni economiche – anche quando legate a preoccupazioni di giustizia sociale, di redistribuzione e di progressività fiscale – non devono farci dimenticare che esiste un piano simbolico e di legittimità legato a doppio filo ai problemi dell’istruzione, ad ogni livello. Se si vuole rilanciare la credibilità dello Stato, il suo ruolo come attore economico centrale e legittimo, e soprattutto come manifestazione di nuovo rappresentativa del popolo italiano, è indispensabile riconoscere aree e servizi fondamentali, gratuiti e garantiti a prescindere a tutti (poveri ma anche ricchi). Serve a creare un capitale vero di legittimità, che si possa spendere in misure veramente redistributive. Sanità, istruzione, sicurezza, da sinistra, devono essere gratuite e garantite – la progressività è meglio costruirla altrove, nella tassazione diretta del reddito e della ricchezza.