sabato 4 novembre 2017

La Stampa TuttoLibri 4.11.17
Se vuoi goderti Pollock e Mondrian va’ al museo con il neuroscienziato
Un saggio esplora i rapporti tra pittura e meccanismi del cervello per capire come funzionano creatività e percezione del bello
di Gabriele Beccaria

La prossima volta che entrate in un museo e scrutate un quadro pensate a una persona che, apparentemente, non c’entra nulla con l’arte e con l’ingombrante universo delle interpretazioni estetiche e filosofiche: il signore si chiama Eric Kandel ed è uno dei neuroscienziati più celebri al mondo, oltre che premio Nobel per la Medicina.
Potrebbe essere lui ad accendere una scintilla e a schiudervi i segreti dell’arte astratta, rivelandovi perché Matisse vi attrae e Pollock un po’ meno. È questione di processi neuronali specifici, che, attivandosi, oltrepassano le logiche visive standard, spiega lui. Adesso, a 87 anni, li esplora in un territorio di confine, proibito ai più, dove i colleghi scienziati non si azzardano e dal quale i curatori d’arte preferiscono stare alla larga, e svela come l’ambiguità dell’arte basata sui concetti invece che sulle figure metta sottosopra i meccanismi biologici-base: ci costringe a una faticosa - ma anche liberatoria - attività di interpretazione. E, così, a una creazione individuale che va oltre la creazione pittorica. Prendete il suo ultimo saggio, Arte e Neuroscienze, pubblicato da Raffaello Cortina, e fate un respiro: è possibile che a fine lettura colori, forme e correnti pittoriche vi appaiano un po’ diversi da prima.
Kandell vive a New York, è professore alla Columbia University e la sua attrazione per cose apparentemente incongrue è contagiosa. Ecco perché, dopo uno scambio di saluti, la tentazione è troppo forte per non chiedergli subito di lui, di Henri Matisse e di una lumachina.
Professore, grazie alla Aplysia, un mollusco di mare, lei ha sondato i meccanismi della memoria, mentre uno dei più celebri artisti del XX secolo ha evidenziato i processi visivi con un collage del 1953, intitolato, appunto, «La Lumaca». Quando ha scoperto questa coincidenza apparentemente impossibile?
«Non più di otto anni fa, mentre alla mia Aplysia ci lavoro ormai da oltre mezzo secolo».
Lei ricorre a una frase di Matisse, semplice ed enigmatica: «Ci avviciniamo di più a una serenità gioiosa se semplifichiamo pensieri e figure. È solo questo che facciamo». Così giustifica i vostri percorsi paralleli in nome del «riduzionismo», nell’arte e nella biologia. Ma non è un termine impopolare in tempi di multidisciplinarità spinta?
«È vero e infatti uno storico come Ernst Gombrich non amava molto l’arte astratta. Lui, però, rappresentava un’altra generazione. Adesso la percezione è diversa».
Gombrich sosteneva anche che la percezione è un atto creativo che si svolge nella testa di chi guarda e gli esperimenti che lei ha condotto lo confermano: Gombrich, quindi, è stato un suo precursore?
«Lui, in realtà, aveva già capito tutto, teorizzando il ruolo dello spettatore! È stato straordinario. Non è un caso che fosse convinto dell’importanza di studiare le scienze del cervello e la psicologia cognitiva».
Oggi, oltre mezzo secolo dopo il saggio «Arte e Illusione», lei spiega che nella nostra testa avviene un processo «bottom up»: in che cosa consiste?
«È un processo geneticamente determinato, che si evidenzia proprio nell’arte astratta, dove molto del lavoro creativo è nel cervello di chi osserva. Il percorso opposto, invece, quello “top down”, è legato alle esperienze: ognuno di noi vede la stessa donna in modo diverso. Così, a me, le italiane sembrano tutte bellissime!».
Eppure l’arte astratta, che scatena tanta libertà interpretativa, è anche intimidente: come spiega il paradosso?
«Nell’arte figurativa molte informazioni sono già disponibili, mentre in quella astratta c’è più lavoro cognitivo: lì si svelano con maggiore evidenza i processi neuronali di ciò che avviene quando guardiamo e mettiamo insieme idee diverse».
Ambiguità significa anche maggiore piacere?
«Il piacere è legato al livello di partecipazione e quindi al coinvolgimento».
Matisse a parte, lei si è concentrato sulla scuola newyorchese dell’Espressionismo astratto: perché questa scelta?
«Ma per sciovinismo, naturalmente... Perché mi piace New York. Forse avrei dovuto scegliere Firenze? Di sicuro quei pittori, da de Koonig a Pollock, hanno generato un’influenza enorme e hanno sperimentato un percorso comune, dal figurativo all’astratto: così si può seguirne l’evoluzione. E c’è un altro motivo».
Quale?
«Quegli artisti, tra gli Anni 40 e 50 del secolo scorso, furono al centro della migrazione culturale da Parigi a New York: il resto del mondo, che aveva ignorato New York, iniziò a guardare là. E là c’era la follia».
Quale follia?
«Quella di Pollock, per esempio: folle da staccare una tela dal muro e buttarla per terra».
Sbarazzandosi di ogni forma.
«Sì, fu la sua grande idea».
Ora le neuroscienze fanno qualcosa di simile con le idee sul cervello: lei si sente un Pollock della sua disciplina?
«Diciamo che anche le neuroscienze stanno ideando nuove forme. E una nuova estetica».
Pensa che contribuirà a cambiare l’idea stessa di cosa è l’arte?
«No. Stiamo raccogliendo una serie di dati su che cosa succede nel cervello quando entra in contatto con l’arte e come elabora un processo creativo».
Lei ha scritto anche il saggio «L’Età dell’Inconscio», tour intellettuale nella Vienna «fin de siècle», quando emersero idee rivoluzionarie sulla mente, cambiando per sempre la psicologia, la letteratura e l’arte: qual è il filo che lega i due libri?
«Quel libro coinvolgeva la mia prima vita, di ebreo a Vienna. Ora il nuovo riguarda la mia seconda vita, di ebreo a New York. E devo dire che quest’ultima è molto meglio! L’unico posto migliore, rispetto a Vienna e New York, è Torino: me lo raccontò una mia amica. Era Rita Levi Montalcini».