Repubblica 18.10.17
1917 - 2017
Russia l’ultimo atto il massacro dei Romanov
di Ezio Mauro
Sceglie
di stare con l’Imperatore: «È lui adesso che ha più bisogno di me»,
dice a monsieur Gilliard affidandogli il ragazzo. «In due saremo più
forti». Arriveranno a Tjumen – Nikolaj, Alix e la figlia Marija – dopo
la partenza alle 5, il fiume Tobol attraversato a piedi su assi
pericolanti, quattro cambi di cavalli. Il penultimo nel villaggio di
Pokrovskoe dov’è nato Rasputin, con tutta la famiglia del Santo Diavolo
che guarda la coppia reale dalla finestra con quegli stessi occhi,
mentre Alix ricorda la profezia: «Infine vedrete la mia casa e la mia
gente». Lo starez li assiste, ne è sempre più convinta. In realtà
attorno agli ex sovrani non si muovono fantasmi, ma una partita politica
sui corpi imperiali, con Mosca che vuole lo Zar per un processo
all’assolutismo (Trotzkij si candida al ruolo di grande accusatore) e i
bolscevichi degli Urali pronti a un colpo di mano sulle rotaie per
impadronirsi del trofeo più simbolico della rivoluzione. Finché il
Cremlino capisce che conviene cedere, e guidare da Mosca la mano dei
carcerieri locali.
Dopo che un anno prima il governo inglese aveva
ritirato la proposta di asilo ai Romanov, adesso è Cristiano X re di
Danimarca che chiede al Kaiser di aiutarli, firmata la pace. «Non posso
rifiutare la mia compassione », è la risposta, «ma un aiuto diretto mi è
impossibile». Quando entra nella “Casa a destinazione speciale” a
Ekaterinburg Nikolaj è dunque abbandonato dal mondo, solo di fronte al
suo destino. Misura subito le quattro stanze a disposizione della sua
famiglia, ancora divisa. Le trova belle, pulite, sia la camera d’angolo
col grande letto che la sala da pranzo con le finestre, e il salotto
arcuato senza le porte.
Ma dovrà accorgersi subito che il regime
carcerario si è fatto più pesante. Prima che vengano disfatti i bagagli,
il commissario e l’ufficiale di guardia procedono a un’ispezione
minuziosa. Hanno visto che nelle lettere la Zarina e le figlie insistono
sulle “medicine”, capiscono che è un codice familiare per alludere ai
gioielli, temono che sotto i loro occhi si camuffi il mitico tesoro
della Corona. Quando aprono anche i flaconi della farmacia portatile di
Alix, lo Zar sbotta: «Finora abbiamo avuto a che fare con gente onesta e
beneducata, smettetela». Gli risponde Boris Didkovskij, uno dei capi
del Soviet: «Vi ricordo che siete sotto inchiesta e in stato d’arresto.
Voi non date più ordini a nessuno ».
Un mese dopo anche lo zarevic
e le tre sorelle rispondono al comando del destino ed entrano nella
casa Ipatev per l’ultimo atto. Ma Aleksej si fa male al ginocchio già la
prima sera, subito torna l’angoscia. E Olga, Marija, Tatjana e
Anastasija si accorgono che al loro stesso piano vivono 19 soldati delle
officine Zlokazov, c’è una guardia fissa davanti all’unico bagno, la
porta della loro camera non si può chiudere, la tavola non ha tovaglie,
ci sono in tutto cinque cucchiai, con l’intendente Adveev che prende
bocconi di cibo dai loro piatti con le mani. La sera, anche tardi, le
costringe a suonare per i soldati il pianoforte a coda Bekter che oggi
trovo nel Patriarcato, perfettamente accordato, dopo che ha attraversato
il caos del 1917 arrivando fin qui, non si sa come ma in tempo per
l’ultima musica prigioniera.
Della Corte sono rimasti soltanto in
cinque nella casa del destino. È una vita rarefatta, per sottrazione. Si
può uscire in giardino, tra i tigli, solo per un quarto d’ora e una
volta al giorno. È vietato ogni esercizio fisico. Un vecchio imbianchino
entra nelle stanze dei Romanov con secchiello e pennello e passa una
mano di calce sui vetri di tutte le finestre. Adesso anche la luce è
prigioniera. Alix taglia i capelli a Nikolaj per l’ultima volta, cenano
alla luce di una candela perché salta l’elettricità, con tutti i fili
volanti dei campanelli per l’allarme che finiscono nella stanza del
comandante.
Ma è al Cremlino – dove Lenin si è spostato
col suo governo a marzo del 1918 – che si decide la fine. Tra due mesi
il Soviet decreterà il Terrore, «rispondendo col terrore rosso di massa
alla borghesia e ai suoi agenti». La prima fiammata si accende qui, a
Ekaterinburg. Il commissario militare degli Urali va a incontrare a
Mosca Jakov Sverdlov, intimo di Lenin e presidente del Comitato
esecutivo. La bande “bianche” cecoslovacche si avvicinano alla città:
anche se non hanno nessun piano di restaurazione monarchica, sono
un’occasione da sfruttare per coprire il massacro. Il partito degli
Urali si assumerà la responsabilità materiale dello sterminio dei
Romanov, col comando del Cremlino. La decisione è presa.
Mosca
vuole solo uomini esperti sul campo dell’azione. L’intendente Adveev è
sostituito col telegramma numero 4.558, al suo posto arriva il
commissario della Ceka Jurovskij, con dieci cekisti scelti tra i
prigionieri di guerra tedeschi e ungheresi: parlano poco il russo, non
rispondono ai prigionieri che tra loro li chiamano “lettoni”. Aprono una
finestra nella casa, quasi per spingere la famiglia alla fuga, pensando
a un’imboscata. Per due giorni la Zarina trova un messaggio in un
francese incerto, nascosto nel tappo del latte che arriva ogni mattina
col burro e la panna dal monastero di Santa Caterina: la firma è di “un
ufficiale” che annuncia «l’ora della liberazione vicina». L’imperatrice
dubita, spera, sospetta. Lo Zar si smarrisce nell’attesa, al punto da
descriverla nel diario giovedì 27 giugno: «Notte inquieta, abbiamo
vegliato vestiti, perché abbiamo ricevuto due lettere che ci dicevano di
prepararci a essere rapiti da persone a noi fedeli. Ma i giorni
passavano, e non succedeva niente».
La spiegazione è chiusa nel
monastero di Santa Caterina, raccolta cent’anni fa da suor Magdalina la
veggente, da Avgustine nelle cucine, tramandata da una madre superiora
all’altra fino a Evstafija Morozova, che oggi me la racconta. Le due
novizie di 19 e 29 anni, Antonina e Marija, che erano ammesse ogni
mattina in abiti borghesi alla “Casa a destinazione speciale” col cibo
per i reali, dovevano lasciare il cesto nell’anticamera ai cekisti. Non
c’era nessun “ufficiale”, nessun francese. Quei falsi messaggi erano
stati scritti da Petr Vojkov, dirigente del Soviet, coi ricordi del
francese di Ginevra, all’Università. Nessun altro si era mai avvicinato
al cibo, il compito delle suore era sempre uguale, salvo una notte
quando dalla casa chiedono del rum per lo zarevic raffreddato e il
mattino prima della fine, quando il comandante ordina al convento 50
uova e 5 litri di latte, perché gli uomini dopo il massacro avranno
fame.
Tutto precipita, tutto è pronto, anche la fabbricazione del
falso complotto. Siamo alle ultime ore. Mentre Aleksej fa il primo
bagno, ancora con il ginocchio gonfio, Vojkov manda i suoi uomini in
farmacia e all’emporio con l’ordine di requisire 175 chili di acido
solforico e 300 litri di benzina. Il comandante Jurovskij è ossessionato
dalle “medicine” e ordina alla Zarina di sigillare i gioielli in un
cofanetto. L’ultimo giovedì tre operai portano in casa una grata
pesante, la saldano all’unica finestra aperta, sbarrando le ore finali
dei Romanov dietro un’inferriata. Infine, il segnale conclusivo: lo
sguattero di cucina Leonid Sednev, che è un ragazzo, viene allontanato
dalla casa.
Cosa capiscono i reali? Non sanno che l’ordine di
uccidere tutti i Romanov è eseguito in quelle ore dovunque si trovino.
La notte del 25 giugno a Perm il fratello dello Zar, Mikhail, viene
prelevato col suo segretario Johnson all’albergo Korolev da tre uomini
che lo portano in “destinazione sconosciuta”, dove verrà giustiziato
come altri Granduchi, come la granduchessa Elizaveta Fedorovna, sorella
dell’Imperatrice. Nella casa Ipatev la famiglia dello Zar non ha notizie
ma avverte che tutto sta infine per compiersi. «Lo sposo si avvicina»,
scrive Alix. L’ultima lettera del dottor Botkin è senza illusioni e
senza rimpianti: «In sostanza io sono morto, ma non ancora sepolto. O
meglio, sepolto vivo».
Arriva quella notte, martedì 16, quando
Jurovskij fa portare nel seminterrato 14 pistole nuove, testate due
giorni prima. Ha ordinato di sgombrare la stanza con la volta bassa,
un’unica finestrella sul cortile, la carta da parati con piccoli
quadrati scoloriti. Nello stanzone di fianco adesso entrano i dieci
“lettoni” che con il Comandante avranno un bersaglio ciascuno da
abbattere, la raccomandazione è di mirare al cuore. Nel cortile
l’autista Serghej Lukjanov ha accostato un camion Fiat all’ingresso, con
l’ordine di soffocare col motore il rumore degli spari. Sopra, al primo
piano, come se fosse una sera qualunque lo Zar gioca l’ultima partita a
carte col dottore, Aleksej è stanco ed è già sdraiato in camera.
Tatjana legge alla madre il libro del profeta Amos che parla di chi «ha
bruciato le ossa del re/ per ridurle in calce». Alle 10 e mezza si
spengono le luci nella “Casa a destinazione speciale”. Ci sono 15 gradi
nel buio, e nell’eco di fucilate lontane.
È mezzanotte quando
Konstantin Dobrinin, la guardia, bussa dicendo ai prigionieri che c’è
pericolo di un assalto, devono alzarsi subito. La famiglia scende la
scala, seguita da ciò che resta della Corte, quattro persone, il dottor
Botkin, la cameriera della Zarina Anna Demidova che porta con sé due
cuscini, il cuoco Ivan Kharitonov, il lacché Aleksej Trupp. Nikolaj
tiene in braccio Aleksej, padre e figlio hanno il cappello militare con
la visiera, le ragazze – Anastasija porta con sé lo spaniel Joy – lunghe
sottane nere con i corpetti di seta bianca, Alix ha cucito i gioielli
dovunque, nascondendoli sotto i bottoni, nelle stecche dei corsetti,
dentro i colletti delle giacche: adesso chiede una sedia, ne portano
tre. Jurovskij, che ha fatto il fotografo in gioventù, li dispone a
ventaglio, in modo che non si sovrappongano.
Esce, rientra con gli
uomini, ha un foglietto: «Nikolaj Aleksandrovic, i vostri hanno tentato
di liberarvi, e per questo motivo dobbiamo fucilarvi tutti ». Lo Zar
sembra non intendere: «Come? Come?» sono le sue ultime parole. Mentre
Alix e Tatjana si fanno un segno della croce, Jurovskij punta la Nagant
addosso a Nikolaj, lo colpisce alla carotide poi lo finisce da un passo,
quindi spara alla testa di Aleksej gettandolo a terra. Intorno la
carneficina impazza: Alix crolla sul dorso, Anastasija si muove carponi e
viene finita a colpi di baionetta, come la Demidova che si è riparata
dietro i cuscini, mentre Trupp il lacché cade in ginocchio, Olga a
Marija muoiono subito, Botkin è colpito al cuore, Tatjana alla nuca, il
cuoco riesce a lanciare un’ultima maledizione. Un colpo col calcio della
pistola spezza il cranio del cane.
Fumo, sangue, il camion Fiat
che ansima davanti alla finestra nel cortile. Adesso hanno fretta,
devono avvolgere gli 11 corpi nelle coperte strappate ai letti di casa,
caricarli sul camion. Ma prima c’è la caccia ai gioielli, orologi
strappati dal polso, anelli dal dito, braccialetti, brillanti nascosti
negli abiti, una piccola icona da tasca. In piena notte il camion col
suo carico di cadaveri appare nel vicolo Voznesenskij, accende i fari,
va verso la foresta, attraversa la linea di separazione tra l’Asia e
l’Europa (dove oggi c’è un cippo) e arriva a Ganina Jama. Qui, nei
“buchi della terra” come dice il nome, tagliano a pezzi i corpi alla
luce delle lanterne gialle, li sfigurano con l’acido sui volti, poi li
bruciano.
Cent’anni dopo 5 gigli bianchi crescono a fatica nella
fossa, circondata dal legno del monastero dei Santi Martiri Reali, con 7
chiese per i 7 Romanov uccisi a Ekaterinburg. Pochi chilometri più in
là, c’è il luogo dove hanno sotterrato le ossa e le ceneri. Una pedana
di legno con le traversine del treno e una croce per Lo Zar, Alix, Olga,
Tatjana e Anastasija. A pochi metri un quadrato di terra in pieno
bosco, con due rose bianche e pochi mughetti segna la sepoltura di
Marija e di Aleksej, lo zarevic infelice. Non c’è un turista, nemmeno un
curioso. D’altra parte il vero monumento al massacro, la “Casa a
destinazione speciale”, non esiste. Ripulita in fretta dai soldati,
riconsegnata a Nikolaj Ipatev il 21 luglio, è stata distrutta nel 1977 e
al suo posto adesso c’è la “Cattedrale sul sangue”, con il secondo
altare che cresce proprio sopra la stanza maledetta, il pozzo originario
intatto, brandelli sparsi dalla scena del delitto: la carta annonaria
di Nikolaj, un pezzo del mancorrente della scala, la maniglia d’ottone
della stufa, un dente da latte di Aleksej, che Alix conservava in un
anello.
Qui tutti per cent’anni sapevano dov’erano i corpi reali,
da quando il 20 luglio del 1918 il Presidium del Soviet degli Urali
aveva affisso un manifesto ai muri di Ekaterinburg: «Poiché le truppe
cecoslovacche minacciano la città e il boia coronato può sfuggire al
tribunale del popolo (un complotto di guardie bianche per rapire tutta
la famiglia Romanov è appena stato scoperto) è stata decisa la
fucilazione dell’ex Zar, e la decisione è stata eseguita la notte tra il
16 e il 17 luglio. La famiglia Romanov è stata trasferita in un luogo
più sicuro».
Nessuno parlava. Finché, caduto il comunismo,
riemergono dal sacrario del bosco le poche ossa che hanno consentito un
riscontro con il Dna, per arrivare prima alla certezza che i resti erano
dei Romanov e poi alla loro canonizzazione come “martiri imperiali
portatori di passione”, infine – il 17 luglio ’98 – ai funerali di Stato
nella cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, che ospita i sarcofaghi
storici degli Zar. Sono entrato nella cappella, dove finisce questo
lungo viaggio nella Russia delle due rivoluzioni. Non ci sono candele,
nemmeno un cero, e le donne che lucidano il marmo delle cripte con i
cinque resti – Nikolaj, Alix, Olga, Tatjana, Anastasija – spiegano che
per la luce e la fiamma si attende che arrivino qui finalmente anche
Marija e Aleksej, adesso che il Dna li ha riconosciuti togliendoli dal
nulla e dalle leggende: che per anni facevano vivere nella foresta
l’erede scampato al massacro, oppure a Grudzionka, o nel castello di un
conte polacco, infine a Omsk dove un generale lo mostrò al vecchio
precettore Gilliard, che lo interrogò inutilmente in francese, mentre la
gente intorno offriva pane e sale.
Davanti alle tombe imperiali
le vecchie aspettano: i resti o l’apparizione. Non è forse stata
recuperata la croce dei Romanov, che all’interno ha le reliquie di 40
santi? Tutto è possibile. E non è tornata al suo posto l’icona della
Madonna del Nord, che faceva ricrescere le mani mozzate? Tutto può
ancora accadere. Mentre i ragazzi intorno scattano le foto col
telefonino come a un concerto, indifferenti, loro ripetono che passerà
il tempo finché lo Zar potrà ancora mostrarsi alla sua gente. E allora
dalle terre lontane dell’Oriente l’imperatore verrà, uscirà dal bosco e
dal mistero, giungerà fin qui con la sposa fedele davanti all’acqua
della Neva.
La storia sembra finire e ricominciare qui, dove si è
generata la grande epoca, in una città mobile come l’acqua che
l’attraversa, dentro una fortezza, davanti a un altare, in un sepolcro.
Ma basta uscire nell’aria chiara di San Pietroburgo per ritrovare gli
altri spettri di quell’anno implacabile e crudele. Stalin e Kerenskij,
Trotzkij in piedi davanti alla mappa della capitale che sta per
conquistare, Rasputin che si muove di notte, mesi prima, tra gli zingari
e i canali per raggiungere la sua fine nel palazzo del principe. Poi le
case fantasma dove cent’anni fa scrivevano Blok e l’Akhmatova, da dove
partivano per sempre Nabokov e la Berberova, dove Zinaida Gippius
guardava dalla finestra la rivoluzione. Infine un’altra sepoltura, al
centro della piazza Rossa a Mosca, con Lenin da quasi un secolo
trasformato in mummia nella pretesa di imprigionare il passato e il
futuro nell’eternità della rivoluzione, dilatando all’infinito il ’17.
Cent’anni dopo quell’eternità è infranta, l’infinito è rientrato nel secolo. La mummia si è fatta uomo.
12. Fine