La Stampa 6.10.17
Il vento anti migranti che soffia dall’Est contagia anche Vienna
L’obiettivo comune è frenare le spinte per una maggiore integrazione
di Marco Bresolin
Lo
spettro Visegrad che da tempo si aggira per l’Europa mette la quinta.
Già, perché ora c’è una spina in più nel fianco (destro) dell’Ue, dove
le rigidità e muri del quartetto dell’Est hanno un nuovo e potente
alleato: l’Austria appena uscita dalle urne. Repubblica Ceca,
Slovacchia, Polonia e Ungheria sono pronte ad accogliere Vienna nel loro
club, dando vita a un nucleo duro di cinque Paesi che ha una parola
d’ordine - sovranismo - e un obiettivo dichiarato: frenare le spinte
verso una maggiore integrazione a dodici stelle. A partire dalla
cancellazione del termine solidarietà dal vocabolario delle politiche
migratorie.
L’unica strada percorribile, per loro, è la blindatura
dei confini. Quelli esterni, ma anche quelli interni: una soluzione per
«farla pagare» agli Stati considerati troppo morbidi o inefficienti nei
controlli, lasciandoli soli al loro destino (ogni riferimento
all’Italia e alla frontiera del Brennero non è affatto casuale).
Soltanto meno di un anno fa Bruxelles aveva tirato un sospiro di
sollievo con la sconfitta di Norbert Hofer alle presidenziali e oggi
rischia di trovarsi l’estrema destra al governo. Ma attenzione: anche se
ciò non accadesse, ci sarebbe poco da stare sereni.
Da mesi gli
analisti osservano una «preoccupante» svolta a destra nelle politiche e
negli atteggiamenti dei governi Ue, una virata che segue il trend
elettorale. Anche senza entrare nelle coalizioni di maggioranza, i
partiti estremisti sono comunque riusciti a incidere sulle agende di
governo. È successo in Olanda, dove Mark Rutte - pur conservando la sua
fama di europeista - ha fermato l’avanzata di Geert Wilders proponendo
ricette dagli ingredienti molto simili. E ora che ha messo insieme una
coalizione di centro-centrodestra non ha certo intenzione di ammorbidire
la sua linea. Lo stesso potrebbe capitare a Berlino, dove la nuova
maggioranza che sosterrà Angela Merkel rischia di portarla su posizioni
che mal si conciliano con il concetto di solidarietà, in campo economico
e migratorio.
È su questo binario che si muove da tempo Sebastian
Kurz, vincitore indiscusso delle elezioni austriache. È lui che - da
ministro degli Esteri - ha trascinato il governo di Kern su posizioni
più dure. È lui che ora vuole parlare direttamente al quartetto di
Visegrad per costruire un asse a cui guardano con attenzione anche Stati
come Slovenia e Croazia. Nel club V4 i «duri e puri» restano Polonia e
Ungheria, mentre i due Paesi dell’ex Cecoslovacchia fanno la parte dei
poliziotti buoni. Almeno per una settimana ancora, visto che domenica si
voterà in Repubblica Ceca e i socialdemocratici del premier uscente
Bohuslav Sobotka sono dati al terzo posto.
Con tutta probabilità
vincerà la formazione euroscettica «Ano 2011», guidata dall’imprenditore
populista Andrej Babiš, ribattezzato dalla rivista Foreign Policy
«Babisconi» per via delle tante analogie con il leader di Forza Italia.
Il
ritorno alle urne di Praga è dovuto proprio alla crisi sfociata in
primavera tra le due principali anime della coalizione e i
socialdemocratici sono destinati a uscire dalla stanza dei bottoni.
Sarebbe il quinto governo perso dai partiti della famiglia socialista
europea, che fino a pochi mesi fa avevano il piede nelle maggioranze di
dieci Stati Ue. Il 2017 elettorale li ha dimezzati. Repubblica Ceca e
Austria (salvo improbabile grande coalizione), si aggiungerebbero così a
Germania, Francia e Olanda. A sventolare la bandierina rossastra sui
palazzi di governo restano soltanto Italia, Portogallo, Malta, Svezia e
Repubblica Slovacca, gli unici cinque Paesi che possono ancora vantare
un premier socialdemocratico.
Un bel tema su cui avranno da
riflettere, da mercoledì, gli esponenti del Pse che si ritroveranno a
Bruxelles per una due giorni dedicata proprio al futuro della
socialdemocrazia europea. Giovedì mattina, nel consueto vertice prima
del Consiglio europeo, toccherà poi ai leader definire le strategie
immediate.
A partire dal rebus Eurogruppo, per mantenerne la guida
anche dopo la partenza di Jeroen Dijsselbloem. Ma con sole 5 poltrone
al Consiglio (su 28) e nemmeno una delle tre principali presidenze delle
istituzioni Ue, il rischio marginalizzazione è reale.