domenica 22 ottobre 2017

Corriere 22.10.17
Anche tra i giovani crescono le fratture
Le infinite vie della disuguaglianza
di Antonio Polito

In questi anni difficili e confusi, Dario Di Vico è stato tra noi (e non solo al «Corriere») quello che ci ha visto più lungo; trasformandosi in una specie di Censis del giornalismo di inchiesta sociale, capace di comprendere i mutamenti in corso ma anche di raccontarli, e ancor più di definirli. A lui si devono intuizioni che sono rimaste nel lessico della crisi italiana, come gli affanni della «quarta settimana», che nel 2006 anticipavano i segni di un impoverimento dei ceti medi. O come, nel 2010, la rivolta dei «piccoli», miriade di imprese e individui senza protezione colpiti dagli choc del cambiamento in corso nell’economia globale, prodromi dell’esplosione di rabbia che di lì a qualche anno avrebbe gonfiato le vele del «neo populismo».
Per riuscire nella sua impresa Di Vico ha dovuto nel tempo diventare intollerante nei confronti di generalizzazioni e semplificazioni, sviluppare una sempre maggiore acribia per distinguere e separare, specificare e precisare; il che ne ha fatto uno storico del presente molto eccentrico rispetto all’opinionismo da talk show.
La sua ultima indagine, per esempio, riguarda un fenomeno che oggi è tanto dibattuto nei convegni e in tv quanto poco compreso: la disuguaglianza. Ormai è diventata una di quelle formule magiche con cui si spiega tutto, sofferenza sociale, disperazione individuale, comportamenti politici. Il pregio di Nel Paese dei disuguali (Egea) sta proprio nel farci scoprire che «le vie che ha preso la disuguaglianza sono infinite, e se si vuole veramente fare i conti con essa bisogna percorrerle. Tutte. E non una sola, magari scelta perché si presta a confezionare una slide sfiziosa». Scopriamo così, percorrendo quelle vie, cose che non sapevamo e che spesso contraddicono senso comune e pregiudizi politici, e che somigliano molto alle «persone che incontriamo per strada», spesso dall’autore direttamente interpellate nella sua inchiesta. Per esempio che sono due le Cine che convivono nel nostro Paese, quella che è considerata un problema a Prato ma anche quella che è diventata una soluzione a Milano. Oppure che la classe operaia si è scomposta in tre, dagli operai «cognitivi», gente che controlla macchine da 300 milioni per 1.500 euro al mese, al proletariato dei servizi, per lo più «facchini della logistica», e che tutte e tre hanno divorziato dalla sinistra. O che sono quattro le tribù dei Neet, i ragazzi che non lavorano, non studiano e non sono in training, ma non sempre sono «inattivi totali», bensì volontari, o sportivi, o baby-sitter e camerieri in nero. E così via. Non voglio rovinare al lettore la sorpresa (spesso si tratta di vere e proprie sorprese, tipo la ricerca che spiega perché nella vita chi arriva terzo di solito è più appagato di chi arriva secondo, si chiama «deprivazione relativa»; oppure il grafico di Milanovic che assomiglia a un elefante, e spiega perché la nostra disuguaglianza significa più uguaglianza per i poveri del mondo).
Ciò che colpisce è però il solco che si è scavato nel tessuto sociale e morale dell’Italia di oggi. Nel Paese dove diminuiscono le nascite aumentano infatti i bambini in povertà assoluta e relativa (1,3 milioni i primi, uno su quattro i secondi). Nel Paese dove domina la retorica ugualitaria dei sindacati e della sinistra, il welfare ha accentuato le differenze sociali invece che ridurle. Nel Paese dove è nato l’indice della disuguaglianza, che prende il nome dallo statistico italiano Corrado Gini, non siamo capaci di uscire dal determinismo economico del Pil e capire che le differenze di reddito non spiegano tutto: per esempio il fatto che il vero «zoccolo duro» dell’ingiustizia sociale in Italia è il «fossato che si è aperto tra le generazioni».
Le nuove disuguaglianze sono infatti sempre più sottili per il setaccio dei misuratori classici. Prendete il cambiamento epocale che sta avvenendo nell’alimentazione, col pessimismo gastronomico dei giovani urbanizzati del Nord Italia (oltre un quinto dei Millennial compra solo prodotti biologici) e, al contrario, i tassi sorprendenti di obesità e sovrappeso riscontrabili al Sud, spesso connessi con un basso grado di istruzione (un massimo del 37,4% in Campania, contro il 19,5% del Nord Ovest).
Come avviene nella fisica quantistica con le particelle, il movimento sociale delle nuove generazioni è impossibile da misurare, se ne fotografi la velocità ti sfugge la posizione, e viceversa. È il caso dei coinquilini forzati, ragazzi che dividono l’appartamento, fenomeno in crescita e che convive con il record dei «bamboccioni» che restano in famiglia. Oppure dei ciclisti di Foodora che fanno ammattire i giuslavoristi (sono lavoratori autonomi, dipendenti, partite Iva?).
Tutta l’attrezzatura concettuale, contrattuale, sindacale, legislativa, del nostro Paese, appare insomma invecchiata, incapace di capire, prima ancora che di combattere, la nuova disuguaglianza. L’ascensore sociale non sale più perché mancano i piani alti, e lo sviluppo italiano non è sufficiente a crearne di nuovi. «Conoscere per deliberare», scriveva Luigi Einaudi nella sue Prediche inutili . Il libro di Di Vico è prezioso per conoscere. Auguriamoci che non sia inutile per chi deve deliberare .