martedì 26 settembre 2017

Repubblica 24.10.17
Prenderla con filosofia
Da Socrate a Platone, da Montaigne a Kant: le idee dei grandi pensatori escono dalle aule accademiche per aiutarci a vivere meglio. È la via della consulenza filosofica, una disciplina sempre più diffusa. Ecco come si pratica e cosa la distingue dalla psicoterapia
di Donata Romizi

Illustrazioni di Olimpia Zagnoli di Donata Romizi Nel 1981 il giovane filosofo tedesco Gerd Achenbach, terminato il dottorato in Filosofia, decise di non proseguire sulla via della carriera accademica, ma di aprire uno studio da filosofo: il primo di questo genere. Uno studio (in tedesco, Praxis) in cui si inaugurava una pratica (in tedesco, Praxis): la Pratica filosofica.
L’intenzione di Achenbach era di rendere la filosofia fruibile al di fuori dell’ambito accademico e scolastico, fare del filosofo un interlocutore possibile per singoli, coppie, gruppi, ma anche aziende, cliniche, istituzioni e organizzazioni pubbliche e private di ogni genere: per qualsiasi pubblico interessato a discutere con un filosofo questioni importanti per la vita del singolo e della società. La filosofia ha una tradizione millenaria di domande, prospettive, possibili risposte, teorie e idee sui problemi più scottanti dell’esistenza — singola e collettiva: quale senso dare a questa esistenza? A quali valori orientarsi? Come vivere secondo giustizia? Qual è il migliore sistema politico? Che senso ha il dolore? Come rapportarsi alla morte? Cosa significa amare? Che senso ha il lavoro? Queste e moltissime altre questioni che sgorgano naturalmente dalla vita stessa sono da sempre al centro dell’indagine filosofica. Perché non andare a discuterle con un filosofo?
La parte più innovativa della Philosophische Praxis inaugurata da Achenbach, e anche quella al centro delle sue elaborazioni teoriche, è anche quella più conosciuta in Italia: la consulenza filosofica. Nel senso più originario del termine si tratta di un dialogo libero ( che non segue, cioè, metodi standard né si pone obiettivi terapeutici o di problem solving) tra il filosofo e l’“ ospite” ( secondo la terminologia achenbachiana) che lo consulta — generalmente perché pressato da domande come quelle già citate, o da qualsiasi altra domanda o problema, ché non c’è virtualmente limite alle questioni che possono essere oggetto di un’indagine filosofica. Raramente queste domande verranno discusse solo nella forma generale già citata: in genere, l’ospite pone al filosofo una questione concreta e individuale. Questa sarà non tanto: cos’è la giustizia? Piuttosto: come posso comportarmi in modo giusto in questa situazione? Non tanto: cos’è l’amore? Piuttosto: posso dire di essere amato, o di amare, nella mia relazione? Non tanto: che senso ha il dolore? Quanto: come posso sopportare questa malattia? La competenza filosofica del consulente lo renderà in grado di far oscillare il dialogo tra le idee e le teorie generali e il caso individuale e concreto: usarle per illuminarlo, rivederlo sotto prospettive diverse, capire le assunzioni implicite che vi si nascondono, le implicazioni che una certa prospettiva genera. Così, per esempio, la filosofa Lydia Amir è riuscita con Aristotele ad aprire prospettive nuove a un ospite deluso dall’amicizia. La filosofa Shlomit Schuster ha reso i pensieri di Kierkegaard sul perdono fruttuosi per un ospite tormentato dal pessimo rapporto con i genitori defunti. Lou Marinoff ha calmato con la filosofia stoica il senso di ingiustizia ingenerato in un ospite dagli ordini del suo capo al lavoro. Quasi mai però, in una consulenza filosofica, i filosofi e le loro teorie vengono citati o letti: piuttosto, la familiarità del filosofo con l’indagine filosofica gli permetterà di accompagnare l’ospite in movimenti del pensiero altrimenti inconsueti, di aprirgli prospettive nuove, di mettere i suoi pensieri in ordine, o in un nuovo ordine, di scardinare certezze nocive, di notare contraddizioni. Il dialogo filosofico non consiste tanto nell’applicazione di teorie filosofiche note, quanto nella elaborazione comune di nuove teorie sul mondo e su sé stessi.
La classica domanda che si pone a proposito della consulenza filosofica è: in cosa si differenzia dalla psicoterapia? È una domanda la cui risposta richiede cautela. Il confine non può essere sempre tracciato con nettezza: da una parte, esistono orientamenti psicoterapeutici con una significativa componente filosofica; dall’altra, ci sono molti consulenti filosofici che integrano l’approccio filosofico con componenti psicoterapeutiche. Il rapporto è ancora oggetto di accese dispute tra filosofi pratici. Il disaccordo su questo punto li ha portati talora addirittura a spaccarsi nettamente in due comunità distinte, una di “ puristi” e una di “ eclettici” ( in Italia, la spaccatura corre tra Phronesis e SICoF — oggi Sscf; negli Stati Uniti tra Appa e Npca).
Lasciando da parte il — pur interessante e in parte anche fondato — Kulturkampf contro le psicoterapie e/o la psichiatria lanciato da filosofi pratici come Achenbach, Schuster e Raabe, si possono individuare alcune differenze, almeno di tendenza, tra un dialogo filosofico e uno di tipo psicoterapeutico. Al centro di quest’ultimo sta il paziente, con il suo stato psico- emotivo: ciò che questi dice viene spesso interpretato, per risalire alla sua condizione psico-emotiva e possibilmente migliorarla. Al centro del dialogo filosofico stanno il problema, la domanda, i concetti su cui l’ospite interpella il filosofo, e su cui viene condotta un’indagine comune di tipo prevalentemente razionale. Di fronte a una persona che pone la domanda su quale sia il senso della vita, uno psicoterapeuta tenderà a chiedersi — per esempio — se questa domanda sia il sintomo di una depressione o di uno stato di malessere interiore o di difficoltà in qualche ambito relazionale; il filosofo prenderà la domanda “ sul serio” e cercherà di elaborare una riflessione e una risposta insieme al suo ospite.
Il fine primario del dialogo filosofico è quello di approfondire, migliorare, allargare la comprensione del problema — nel senso filosofico classico: cercare insieme la verità. Spesso questo porta con sé anche un miglioramento della condizione psico- emotiva dell’ospite, ma ciò non è il fine principale dell’indagine filosofica. Il filosofo non lavora sulla persona, ma con la persona sui pensieri, le domande, i concetti che le premono. Il filosofo si interrogherà meno sulle cause dei pensieri del suo interlocutore (“Perché pensa questo?”), mentre più spesso analizzerà con il suo “ospite” le ragioni a sostegno di un certo modo di pensare (“È giustificato pensare così?”). Ove le ragioni si rivelassero deboli, esse potranno anche essere sottoposte a critica, mentre è caso raro che uno psicoterapeuta critichi ciò che dice un paziente.
Il rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie non è il solo tema su cui i filosofi pratici sono in disaccordo: anche il rapporto tra Pratica filosofica e filosofia accademica divide gli animi, così come il ruolo dell’università nella formazione dei filosofi pratici.
L’Italia è forse l’unico Paese al mondo in cui addirittura più di un’università offre un intero percorso di studi sulla Pratica filosofica, in genere centrato sulla consulenza. Sul tema hanno scritto sia filosofi pratici che filosofi accademici ( Neri Pollastri, Davide Miccione, Moreno Montanari, Umberto Galimberti, Luigi Vero Tarca, Romano Madera, Pier Aldo Rovatti — per citare i piú noti). Nell’area di lingua tedesca, ove la Pratica filosofica è nata, il rapporto della Philosophische Praxis con la filosofia accademica è invece molto debole. Pochissimi i filosofi accademici che abbiano mostrato interesse per essa, nessuno che abbia scritto un libro sul tema. Solo in Austria l’Università di Vienna offre dal 2014 un master in Pratiche filosofiche. In molti paesi del mondo sono solo associazioni di filosofi pratici a formare i filosofi pratici, e sono in molti a ritenere che l’università non si debba “immischiare” in questa professione.
In Italia il profilo professionale del filosofo pratico si concentra prevalentemente sulla consulenza o sul lavoro filosofico con gruppi e in team in contesti aziendali o in istituzioni pubbliche di vario tipo (ospedali, cliniche psichiatriche, prigioni, scuole). Diverso è lo scenario nell’area di lingua tedesca. Qui la consulenza filosofica è ancora concepita e praticata principalmente come dialogo a due nello studio privato del filosofo. Tuttavia, nessun filosofo pratico al mondo vive di sola consulenza filosofica. Per questo la gran parte di loro integra l’offerta proponendo altre modalità di Pratica: viaggi, passeggiate, colazioni, serate a tema, filosofia nei caffè, filosofia con i bambini, e altro ancora. Anche in questi casi il filosofo lavora al di fuori di un contesto accademico o scolastico e non insegna; piuttosto, mette la propria competenza al servizio delle domande e dell’elaborazione del pensiero altrui. Anche in quest’ambito fervono accese discussioni su quali pratiche considerare legittimamente filosofiche e quali no.
A più di trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis il bilancio è ambivalente. Da una parte, la Pratica filosofica è diffusa in tutto il mondo: ci sono associazioni di filosofi pratici in quasi ogni Paese, congressi internazionali a intervalli regolari, riviste specializzate, scuole di pensiero, pubblicazioni e un sito internet in sette lingue ( The Philo- Practice Agora). D’altra parte, però non si può dire che la professione in quanto tale si sia affermata: al mondo sono pochissimi i filosofi pratici che riescano a vivere di questo. Il che, alla luce di quanto detto, poco stupisce: non esiste a tutt’oggi un profilo professionale definito e condiviso, non c’è un percorso formativo anche solo tendenzialmente omogeneo, non c’è consenso sugli standard di qualità, non c’è nemmeno consenso su cosa sia — in definitiva — la Pratica filosofica!
L’agire nel mondo richiede un certo grado di dogmatismo, e l’esistenza di una professione presuppone una certa omogeneità di pensiero tra chi la pratica: cose che riescono tipicamente difficili ai filosofi. A più di duemilacinquecento anni dalla famosa caduta di Talete nella buca l’evoluzione della Pratica filosofica sembra confermare il cliché del filosofo inetto a muoversi sul piano mondano: i filosofi escono dalla torre d’avorio accademica per andare nel mondo, ma non sanno poi giocare seguendone le regole. L’idea della filosofia come libera professione getta la filosofia in un campo magnetico contraddittorio di attrazione- repulsione verso il mondo. Qualche filosofo la chiamerebbe “dialettica”, e se ne aspetterebbe buoni frutti. Un imprenditore la chiamerebbe “ confusione” e prospetterebbe un esito fallimentare. Il futuro è aperto. ?

Repubblica 24.10.17
Il bene e il male davanti al semaforo
Passare con il rosso di notte? È uno dei tanti quesiti che pongono un tema universale. Di questo si occupa la nuova disciplina: l’obiettivo non è guarire l’individuo ma offrirgli una prospettiva diversa
di Federico Capitoni

L’associazione della filosofia alla parola “pratica” ancora sorprende molti, abituati a pensare che la madre di tutte le discipline riguardi la pura speculazione, l’accademia e — nel peggiore dei casi — un mondo teorico, ideale, che non trova alcuna applicazione nella realtà. Quando si parla di pratiche filosofiche è dunque naturale essere pronti a spiegare cosa si intende, non solo in termini concettuali, ma anche professionali, visto che quello del filosofo pratico, per quanto ancora poco diffuso, è un mestiere a tutti gli effetti.
Le pratiche filosofiche sono molteplici, ma possono dividersi in due grandi tronconi: quelle individuali e quelle collettive. Nel primo caso si parla prevalentemente di consulenza filosofica, un dialogo tra un consultante (colui il quale espone un suo problema) e un consulente (il filosofo) che ha l’obiettivo di fare luce sulla questione, senza intenzioni risolutive. Può considerarsi una pratica alternativa, ma non affine, alla psicoterapia, sebbene non vengano messi in campo strumenti o modelli psicologici e non si miri alla soluzione del problema, ma soltanto a escogitare nuovi punti di vista per guardarlo e affrontarlo. Non c’è alcuno scopo terapeutico e non esiste la figura del paziente ( tanto meno del malato). Se c’è invece un riferimento filosofico, esso non è una scuola, ma una modalità: quella socratica delle continue interrogazioni e messa in discussione di ogni proposizione. Cogliere in fallo logico l’interlocutore spesso tradisce un suo errato posizionamento rispetto alla questione.
Lo stesso approccio socratico, argomentativo, è alla base anche delle pratiche collettive, un mondo più ampio, fatto di tante attività — caffè filosofici, Philosophy for Children, Philosophy for Community, dialoghi in stile filosofico — tutte accomunate però dal medesimo processo, controllato — non diretto! — dal filosofo professionista che assume il ruolo di facilitatore. Normalmente disposti in circolo, per eliminare ogni gerarchia e per fare in modo che lo spazio vuoto creato al centro sia il luogo neutro delle argomentazioni, i partecipanti — facilitatore incluso — iniziano un dialogo che normalmente scaturisce dalla lettura di un testo non filosofico. Più raramente il tema è già deciso prima di iniziare il dibattito, si preferisce utilizzare un testo perché è interessante anche il processo grazie al quale si arriva all’argomento. I partecipanti fanno osservazioni non sul testo, bensì a partire da questo, il che consente di vedere come in un brano, che pure possiede una tematica centrale, la comunità possa individuare un argomento laterale o non palesemente emergente. E ciò mostra l’inevitabile collegamento di temi anche apparentemente lontani. Il testo serve dunque a scatenare, accendere, la riflessione, che prende corpo attraverso la libera circolazione delle opinioni.
Quel che c’è di filosofico sono la pratica dialettica, l’argomentazione e un processo di astrazione che esercita la mente: si parte sempre da casi particolari per arrivare all’universalizzazione del concetto, per quanto il tempo (raramente si superano le due ore) lo consenta. Nessuno, quando si comincia, lo sa, ma è esattamente quello che succede: è naturale che dall’esperienza di vita del singolo, se sia il caso o meno di passare col semaforo rosso anche alle tre di notte quando non c’è nessuno (e magari neanche le telecamere che controllano, cosa che fa spesso la differenza), si giunga a una riflessione più generale prima sulle regole e poi sul rapporto bene/ male. Se il dialogo naviga da solo, il facilitatore quasi non interviene; è chiamato invece a rilanciare il dialogo e a spostare l’asse su cui il pensiero si è disposto se la discussione si arena.
La pratica non è soltanto nel processo dialogico, ma anche nel coinvolgimento esistenziale. Il tema deve essere sentito, la filosofia diventa pratica se ci riguarda. Se nella consulenza ancora resiste un dualismo (il consultante va dal filosofo e non sa di fare filosofia), nelle pratiche collettive, il partecipante diventa subito filosofo egli stesso, anche perché può affrontare una questione che lo concerne senza però che per lui costituisca un problema da risolvere e che lo fa soffrire. Così si può parlare di giustizia, di identità, di regole, di creatività: parole dalle quali sviscerare i contenuti e le manifestazioni nella vita di tutti i giorni. Nulla impedisce di alzare il livello, se il facilitatore lo ritiene opportuno. Nel caso di una discussione sul rapporto tra egoismo e altruismo, per esempio, normalmente vi sono due opposte fazioni: chi crede nell’altruismo vero, assoluto, e chi pensa che questo si fondi comunque sull’egoismo (impossibilità del dono puro: il dare procura comunque soddisfazione e contentezza). Si possono introdurre allora gli ultimi risultati delle ricerche neuroscientifiche secondo cui quello che chiamiamo egoismo non è altro che uno strumento biologico umano per la salvaguardia della specie e di cui siamo naturalmente dotati. Altrimenti dovremmo sentirci in colpa ogni volta che troviamo parcheggio, dacché lo abbiamo sottratto a chi arriva un secondo dopo di noi... E se ognuno cedesse il parcheggio all’altro, quel posto rimarrebbe sempre libero.
Questo filosofare concerne appunto la vita e non ha alcuna ambizione di addivenire a una qualche verità. E benché viga un atteggiamento logico, non c’è una guerra tra tesi opposte, se ne accettano anche di mediane; non esiste la formale polarizzazione di A e B e il tertium, una volta tanto, è possibile. Chi ha voluto argomentare sulla necessità del vaccino obbligatorio dicendo che chi non si vaccina è un pericolo per gli altri, si è ovviamente visto rispondere, logicamente, che chi è vaccinato è protetto, mentre chi non lo è la pensa esattamente come “l’untore”; dunque l’argomentazione cade. Ma poi la realtà ci dice che ci sono bambini che si vorrebbe vaccinare ma che appartengono a una piccola percentuale di individui clinicamente non vaccinabili e si conviene che l’eccezione va tutelata. Eccezione che in un sistema rigorosamente logico non dovrebbe esistere. La filosofia esce così dall’università e entra nell’esistenza di ognuno. Ciò che conta sono le “ buone ragioni”, purché sempre argomentate, più che la logica infallibile. E soprattutto che si pensi e si parli non per sentito dire, per studi o per dogmi di pensiero, bensì con la propria testa. È anche il motivo per cui gli incontri funzionano meglio se svolti tra non studiosi: quelli finirebbero altrimenti per citare le teorie dei grandi pensatori e il dialogo assumerebbe le fattezze del convegno universitario.
Invece l’attività, allenamento del pensiero, trova grande successo tra i normali cittadini, nelle scuole, nelle aziende e anche nelle carceri (un libro di recente uscita per Mursia, Filosofia dentro, racconta di esperienze nei penitenziari), cioè tra persone che senza saperlo sollevano i grandi temi della storia della filosofia: una volta, parlando di pregiudizio, è stato detto da un bambino di undici anni che “ per non avere pregiudizio bisognerebbe disporre di un giudizio ‘puro’, senza un’idea che lo precede”, che è esattamente la questione fenomenologica di Cartesio prima e di Husserl poi.
I partecipanti colgono altresì con gioia anche l’aspetto comunitario e sociale degli incontri. La maggior parte di loro confessano che le occasioni per confrontarsi civilmente e mantenere una conversazione a un livello che non sia quello superficiale della chiacchiera sono normalmente scarse. E che si torna a casa stimolati, magari — e per fortuna — con meno certezze, ma con un processo di riflessione ormai innescato che non può far altro che alimentare ulteriori ragionamenti e dialoghi: il motore filosofico è partito.
La filosofia diventa cura, ma non intesa come terapia, bensì come cura di sé, palestra per la mente. Per prendersi cura di sé si può andare a pilates, al cinema, in gelateria e — perché no? — a un dialogo filosofico. ?

Repubblica 24.10.17
Piccola guida ai metodi
Da soli o con gli altri una modalità per ogni esigenza
1
CONSULENZA FILOSOFICA
È un incontro a due che vede il consulente ( il filosofo) e il consultante ( il cliente).
Si dialoga a partire da un problema che il consultante espone al filosofo e si cerca di far luce sui diversi aspetti senza la pretesa di trovare la soluzione.
A differenza del counseling, non fa leva su metodi, modelli o insegnamenti psicologici
2
P4C
( philosophy for children/ community)
Si tratta di dialoghi filosofici collettivi orientati alla formazione di una comunità di ricerca.
I partecipanti, incluso un facilitatore ( il filosofo professionista), si dispongono in cerchio e affrontano un tema che può essere deciso prima dell’incontro o scaturire da una lettura iniziale collettiva
3
DIALOGO SOCRATICO
Ispirato al metodo pensato dal filosofo e matematico tedesco Leonard Nelson, è un tipo di dialogo con alte ambizioni. Un piccolo gruppo di persone si riunisce, anche per alcuni giorni, nel tentativo di arrivare — attraverso un processo particolarmente strutturato — a una definizione condivisa di un concetto
4
FILOSOFO AZIENDALE
Il filosofo in azienda può avere a che fare con diverse figure, dal manager ai dipendenti.
Spesso, nel primo caso si tratta di consulenze individuali, nel secondo di esperienze collettive che assumono la forma del coaching. L’obiettivo è normalmente quello di migliorare il rapporto con il lavoro o fissare meglio gli obiettivi professionali
5
CAFFÈ FILOSOFICO
E anche passeggiate filosofiche, aperitivi filosofici: sono libere discussioni in stile filosofico.
Possono essere svolte come dialogo collettivo puro — nello stile della P4C — o in forma di dibattito dopo la presentazione di un tema o la lettura di un testo, anche appartenente alla letteratura filosofica

Repubblica 24.10.17
Piccola guida ai gruppi
Le associazioni alle quali ci si può rivolgere

1
CRIF
( centro di ricerca sull’indagine filosofica)
Fondata nel 1991, l’associazione promuove pratiche filosofiche di comunità, con adulti e bambini, quali Philosophy for Children e Philosophy for Community sul modello operativo elaborato da Matthew Lipman.
www. filosofare. org crif@ filosofare. org Via C. Denina 72 — Roma
2
PHRONESIS
( associazione italiana per la consulenza filosofica)
Nasce nel 2003 e si occupa di consulenza filosofica individuale, a partire dalla sistematizzazione teorica di Gerd Achenbach, offrendo un servizio rivolto a chi cerca un aiuto di tipo riflessivo.
I vari consulenti filosofici operano su tutto il territorio nazionale.
www. phronesis- cf. com segreteria@ phronesis- cf. com Via A. Gallonio 18 — Roma
3
SSCF
( scuola superiore di counseling filosofico)
La scuola ( ex SICoF — Società italiana di Consulenza filosofica) dal 2000 propone il “ counseling”, ossia una pratica individuale che, diversamente dalla consulenza filosofica, utilizza elementi e riferimenti psicologici mescolandoli al metodo filosofico.
www. sscf. it segreteria@ sscf. it Corso Fiume 16 — Torino
4
PRAGMA
( società professionisti pratiche filosofiche)
Neocostituita, raccoglie diversi professionisti delle pratiche, tra consulenti, coach aziendali e organizzatori di dialoghi filosofici. Si impegna nella ricerca e fa circolare il più possibile le attività coinvolgendo istituzioni e aziende.
www. pragmasociety. org segreteria. pragma@ gmail. com Viale Monte Santo 5 — Milano
Le associazioni che promuovono servizi di pratiche filosofiche collettive o individuali, con adulti o bambini, offrono anche corsi di formazione per diventare consulenti o facilitatori nel dialogo filosofico Tutti i testi delle piccole guide sono a cura di Federico Capitoni

Repubblica 24.10.17
Quando soffro uso il pensiero
Nei momenti difficili, come le malattie e i lutti, ho imparato ad “ abitare la distanza”: così l’esercizio filosofico accompagna la mia vita
di Pier Aldo Rovatti

Che filosofia e vita vissuta in prima persona possano procedere assieme l’ho imparato subito, al mio primo anno di università a Milano (1961), da un maestro d’eccezione, il fenomenologo Enzo Paci. Non so quanto lui riuscisse ad applicare a sé stesso il suo insegnamento, conosco però bene gli effetti che ebbe su di me. Ero infatti abbastanza lontano dal pensare che la filosofia fosse innanzi tutto uno stile di vita, al di là e al di fuori di qualunque intellettualismo libresco. In seguito ho cercato di entrare in questa dimensione, diciamo, “pratica”; non era così ovvio né così semplice passare dai libri alla vita quotidiana per poi ritornare magari ai libri con uno spirito diverso, imparare a “leggerli” così e farmi un’idea di quali fossero davvero da leggere e quali meno. Mi illudo di esserci in parte riuscito, comunque non ne sono tanto sicuro, come non sono certo di avere fatto buon uso della prestigiosa rivista ( aut aut intendo) che Paci mi lasciò in eredità.
Quello che ho imparato direi che consiste in primo luogo in un tipo di narrazione e quindi in un modo di scrivere e descrivere i fatti: sto cercando, in questo preciso momento, di darne una pallida idea a chi mi sta leggendo. E cioè: niente presupposti schematici, niente concessioni alla retorica, nessuna sbandierata certezza, piuttosto una pratica del dubbio elevata a esigenza fondamentale. Facile da dire, quasi impossibile da realizzare. Ma ho anche imparato, facendo le prove su me stesso (anche a mio danno) che la parola “impossibile” è una delle parole più importanti in filosofia. Occorre precisare: in una “certa” filosofia, quella che si presta a incrociarsi con l’esperienza concreta, il che significa lasciare fuori tante altre filosofie nelle quali alla fine prevale il rapporto di potere tra alto e basso.
Se mi sento di fare qualche esempio autobiografico? La filosofia mi ha aiutato a prendere distanza, anzi ad “abitare la distanza” come ho avuto modo di dire in ciò che ho pubblicato. Forse ci sono riuscito poco e male, ma ho sempre avuto in mente che questo era l’obiettivo da tenere fermo nei momenti difficili della vita, quando mi sembrava che tutto mi crollasse addosso. Provo un certo pudore a scendere nei particolari ma questi momenti sono in genere quelli che tagliano l’esistenza di ciascuno con dolori che sembrano insopportabili; le malattie, i lutti soprattutto.
I miei genitori sono morti in rapida sequenza durante gli anni Ottanta, mia madre non ha retto alla morte del suo compagno. Ricordo che intorno a me, presso i miei quattro fratelli, si produsse una frenesia del fare qualcosa, del rendersi operosi e utili, mentre io mi sforzai di starmene a lato, in silenzio, facendo appello ai consigli filosofici che avevo interiorizzato. Ci riuscii solo in parte, però guadagnai — proprio in quei momenti — una lucidità strana, un modo di stare vicino agli altri e al tempo stesso di vivere in profondità la perdita, il buco che si era scavato dentro di me, che mi permise di non crollare pur restando con gli occhi fissi, per dir così, sul tragico evento.
Venivo guardato, dai miei fratelli (più grandi di me) che si affaticavano per non dover pensarci troppo, con un sentimento di relativa sorpresa perché già si erano abituati ad associare il mio occuparmi di filosofia con l’idea che io fossi un tipo un po’ bizzarro. Forse pensavano anche che volessi disinteressarmi all’evento luttuoso, e magari avevano buone ragioni per stigmatizzare la mia apparente estraneità. In realtà io vivevo un’esperienza opposta, di fortissima intensità.
Quella distanza che allora avevo tentato di procurarmi (e che poi in altre contingenze meno drammatiche della vita ho cercato di riprodurre) era in effetti il mio modo per avere un’esperienza della prossimità più “vera” (termine difficile!), senza essere completamente sommerso dai flutti di un’emotività eccessiva.
Potrei aggiungere altri esempi di episodi salienti, come quando mi sono trovato disarmato dentro una pesante cappa depressiva e, non volendo ricorrere a medici della mente, ho fatto appello alle mie risorse filosofiche per risalire infine alla superficie. In quel caso dovevo distanziarmi almeno un poco da me stesso.
Ma, al di là dei singoli episodi, nella “normalità” (diciamo così) di ogni giorno ho fatto continuamente un lavoro terapeutico su me stesso al quale non saprei che nome dare, se non quello roboante di esercizio filosofico. Attraverso di esso mi sono tolto parecchi tic mentali (altri, ahimè, sono rimasti) che mi portavo dietro fin dall’adolescenza: credo di avere ammansito un poco la mia impulsiva reattività con iniezioni costanti di spirito ironico. Ecco, l’ironia è una meravigliosa risorsa filosofica: è possibile alimentarla e anche comunicarla ad altri ( ho tentato di farne il sale del rapporto educativo con i miei figli). Tuttavia non è priva di effetti indesiderati poiché ha sempre due facce, una amichevole e una ostile ( almeno all’apparenza), per cui chi ti sta vicino ti vive spesso come un provocatore. Ma è la filosofia stessa, come già sapeva Platone, ad avere una doppia faccia e a renderti la vita sempre un po’ difficile. Non è certo un comodo lasciapassare per la felicità ( sempre che esista).

Repubblica 24.10.17
Per migliorare il mondo basta un po’ di logica
Da Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano l’importanza della filosofia nelle nostre scelte
di Timothy Williamson

La disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione, morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto. Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale. Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la certezza è impossibile, riterrà anche che la verità è impossibile. È impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale, questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale. Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo, al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo, prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di distruzione di massa. L’affer-mazione si rivelò presto falsa. In un discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata, dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano. ?

Repubblica 24.10.17
Metti Parmenide alle elementari
“Se l’anima dopo la morte va in un altro corpo, quanto dura il passaggio?”
Parlare di filosofia ai bambini è possibile. Difficile è rispondere
di Nicola Zippel

“Ma Parmenide si divertiva a infiammare la testa delle persone?”. La domanda di Antonio, nove anni, arriva, diretta, schietta, essenziale. E la risposta dev’essere altrettanto diretta, schietta, essenziale: “Voleva far riflettere le persone, e questo probabilmente lo divertiva pure”. Se c’è una cosa, tra le tante, tantissime, che ho imparato insegnando filosofia ai bambini è quella di evitare i giri di parole o le risposte evasive. Questo è uno dei tanti punti di incontro tra la filosofia e i bambini che sono emersi dalla mia esperienza, ormai più che decennale, di didattica filosofica nella scuola elementare. Né la filosofia né i bambini amano perdersi in formalismi, perché il tempo è prezioso quando si sta cercando di capire il senso delle cose.
Quando entro in una classe per la prima volta, so bene che ho i minuti contati, perché l’attenzione di un bambino è totale per ciò che è sconosciuto, quanto impietosa per ciò che è noioso o poco interessante. Se in quei primi minuti riesco a presentare la filosofia per quello che già è, ossia per nulla noiosa e molto interessante, allora quell’attenzione si trasforma in curiosità e possiamo iniziare, insieme, il viaggio nella conoscenza. Per suscitare interesse non si può che cominciare con delle domande: “Sapete che cos’è la filosofia?”, “L’avete mai sentita nominare, prima d’ora?”, “Secondo voi, con quale delle materie che fate a scuola ha a che fare la filosofia?”. “Io ho sentito una volta mamma che diceva la parola filosofia”, “mio fratello studia filosofia al liceo”, “io una volta ho sentito in televisione che parlavano della filosofia”; “per me la filosofia ha a che fare con matematica”, “per me con storia”, “per me con storia e scienze”. Anche solo parlarne in modo generico e irriflesso permette ai bambini di entare in rapporto con la filosofia. I bambini dicono subito quello che pensano, dicono molte cose, ma non dicono mai tutto; anche loro, pur essendo così ricchi di immaginazione, lasciano sempre qualcosa in ombra, di impensato. “E la filosofia non può avere a che fare anche con la ginnastica?”, “...sì, forse sì”; “ e con il tempo libero?”, “... nooo”; “... e con la mensa?”, “...ma nooo!”. Ecco che si è aperto uno spiraglio di riflessione a cui molti di loro, se non tutti, non avevano ancora pensato: “E invece sì, la filosofia ha a che fare anche con il tempo libero e la mensa, così come ha a che fare con tanti altri momenti della vostra giornata fuori da scuola”. Se sei riuscito a sorprenderli una volta, susciti ammirazione, rispetto e, cosa ancora più importante, fiducia. Quando capiscono che la filosofia non solo è un oggetto misterioso, ma anche imprevedibile — esattamente come ognuno di loro — , allora i bambini vogliono conoscerla per davvero.
Quindi arriva il loro turno di fare le domande. Domande insidiose, profonde, filosofiche. Alice Amina, nove anni, a cui ho spiegato che per Anassimandro la terra sta sospesa al centro dell’universo, così da poter reggersi da sola: “ Se tanto l’universo ha la forma di un cerchio, non ha comunque una parte sotto dove la terra potrebbe poggiare?”; Luca, otto anni, ascoltando il mito platonico della caverna: “Se i prigionieri nella caverna non hanno mai visto le cose vere, come fanno a dire che un’ombra indica una nave e un’altra un leone?”; Lucia, dieci anni, mentre parliamo della metempsicosi: “Se Pitagora pensa che l’anima dopo la morte passa a un altro corpo, quanto dura il passaggio? Magari tre secondi? E dove sta, l’anima, durante il passaggio?”. Domande dettate da una logica coerente quanto spontanea, che solo un bambino può avere. Domande ultime, perché vanno al cuore del problema e risvegliano i concetti filosofici fondamentali. Ad Alice Amina rispondo che Anassimandro voleva immaginare comunque un modo per cui la terra poteva restare sospesa da sola, senza qualcosa sotto che la tenesse in piedi; a Luca rispondo che, in qualche modo, quei prigionieri avevano già quelle conoscenze dentro di sé; a Lucia rispondo che non lo so quanto dura il passaggio da un corpo all’altro, né dove se ne sta l’anima durante il passaggio, e che magari Pitagora lo sapeva, ma non ce l’ha mai detto. Risposta, quest’ultima, che suscita un po’ di delusione in Lucia, che credeva che i filosofi avessero tutte le risposte; ma, insieme, le dà forse anche una sensazione di piacere, perché sente che ha posto un problema a cui nessuno prima aveva pensato.
Spesso si afferma che la filosofia serve ai bambini per aiutarli a sviluppare un pensiero critico. Sono d’accordo, ma fino a un certo punto, non fosse altro perché i bambini ne hanno già tanto di pensiero critico, a volte troppo. Credo che la filosofia serva ai bambini per imparare a gestire questo innato e prezioso pensiero critico, a organizzarlo, articolarlo in modo più ordinato e consapevole.
Proprio come i primi greci, i bambini spesso sono già filosofi senza saperlo; conoscere la filosofia, allora, può aiutarli a conoscere meglio sé stessi e a rivolgere la loro curiosità verso di sé, come Michele, nove anni: “ Perché faccio tante domande?”