mercoledì 5 luglio 2017

SULLA STAMPA DI MERCOLEDI 5 LUGLIO

Corriere 5.7.17
Cuba, riaprono le case dell’amore Motel a ore per tutte le tasche
di Sara Gandolfi

Le «posadas» statali torneranno a regalare un po’ di privacy alle coppie
Cuba, si sa, è terra di passioni. A volte, però, l’amore costa davvero caro. Cinque dollari per tre ore: l’equivalente di un sesto del salario medio, ossia 29,60 dollari (anche se poi si arrotonda sempre, inventandosi qualcosa sul mercato nero). Non è il prezzo di una prostituta o dell’ingresso ad un postribolo, ma la tariffa delle case d’amore private, o «particular», dove le coppie che di norma condividono l’abitazione con almeno tre generazioni di parenti possono finalmente trovare una pur fugace intimità. Un salasso. Per questo l’Empresa provincial de Alojamiento dell’Avana, praticamente il nostro ente statale per le case popolari, ha deciso di riaprire le «posadas» dell’amore, motel che affittano le stanze ad ore, con tariffe alla portata di tutte le tasche.
Non è una novità. Il quotidiano del regime Trabajadores , organo del sindacato di Stato, spiega che la prima posada della capitale — «Carabanchel» — fu aperta alla fine del XIX secolo nel centro storico della città, poi seguirono decine di stabilimenti, anche dopo l’avvento della rivoluzione castrista. Negli anni Novanta, però, «a causa della crisi economica», quasi tutti furono trasformati in abitazioni d’emergenza per le vittime degli uragani. I pochi che restarono aperti, «con il tempo soffrirono della mancata manutenzione e quindi di un notevole deterioramento, fino alla lenta scomparsa».
Ma cinque dollari per tre ore di privacy amorosa sono davvero troppi, avverte il quotidiano dei lavoratori cubani. Anche se i privati, aggiunge, offrono «aria condizionata, frigorifero, acqua fredda e calda, e un comfort adeguato». Non alcol, però. Quello si paga a parte, «una bottiglia di rum ha prezzi stratosferici», assicura il foglio di regime.
Il problema, ammette il quotidiano, è che oggi chi non può permettersi la stanza ad ore si ingegna con alternative «poco consone» come gli ospedali, i parchi, le scale buie, la spiaggia e perfino il celebre Malecón, il lungomare dell’Avana.
Per il momento, lo Stato riaprirà una sola posada, l’hotel Vento. Ma all’Avana sono in progetto altre quattro posadas: La Monumental, Edén Arriba, Edén Abajo e l’hotel Ocho Vías. «Perché — sostiene Trabajadores — diversificare le opzioni per fare l’amore è una necessità che deve raggiungere tutti e non può trasformarsi in un lusso». D’altra parte, qualcuno ai piani alti deve aver capito che si tratta pure di un mercato piuttosto redditizio. I clienti possibili sono amanti clandestini, ma anche coppie sposate in fuga dal trambusto del clan e i divorziati costretti a continuare a convivere con l’ex, per mancanza di alloggi alternativi. Tutti i cubani sopra i trent’anni, ricorda il giornale, hanno qualche ricordo nostalgico di «quel primo bacio indimenticabile e del portiere che a un certo punto bussava per dire che il tempo del loro amore era finito».

Il Fatto 5.7.17
Inps, Boeri: “Chiudere frontiere agli immigrati? Costa 38 miliardi e distrugge nostro sistema di protezione sociale”
Il presidente dell'istituto di previdenza, nella relazione annuale al Parlamento, sottolinea l'urgenza di un salario minimo. E chiude al possibile stop nel 2019 dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia: "Non è una misura a favore dei giovani", i costi si "scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli"
qui
https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/07/04/inps-boeri-chiudere-frontiere-agli-extracomunitari-costa-38-miliardi-e-si-distrugge-il-nostro-sistema-di-protezione-sociale/3705407/

il manifesto 5.7.17
Inps: «Immigrati essenziali per il nostro Stato sociale»
Il rapporto annuale . Il presidente Boeri dice no alla chiusura delle frontiere: creerebbe un buco di 38 miliardi. Sì al salario minimo fissato dalla legge. Cambiare i contratti a termine, squilibrati a favore dell’impresa
di Antonio Sciotto

«Chiudere le frontiere potrebbe costare un saldo netto negativo di 38 miliardi per le casse dell’Inps. Insomma una manovrina in più da fare ogni anno per tenere i conti sotto controllo». Conti alla mano, il presidente dell’Inps Tito Boeri ieri – in occasione della relazione annuale sull’attività dell’istituto – ha fornito nuovi numeri su un tema che sta dividendo il Paese. E ha invitato a non alzare muri: «Non abbiamo bisogno di chiudere le frontiere – ha spiegato – Al contrario, è proprio chiudendo le frontiere che rischiamo di distruggere il nostro sistema di protezione sociale».
«GLI IMMIGRATI – ha concluso sul punto Boeri – offrono un contributo molto importante al finanziamento del nostro sistema di protezione sociale e questa loro funzione è destinata a crescere nei prossimi decenni man mano che le generazioni di lavoratori autoctoni che entrano nel mercato del lavoro diventeranno più piccole».
Ma la relazione è stata l’occasione per il presidente Inps di dire la sua su molti altri temi, in alcuni casi appoggiando le politiche del governo – con un elogio del Jobs Act, contro l’articolo 18 – in altri attaccando di petto i sindacati, facendo intendere che i dati diffusi dalle stesse organizzazioni sulla loro rappresentanza siano gonfiati. Ancora: Boeri ha auspicato l’istituzione di un minimo salariale fissato dalla legge – sulla scorta dei nuovi voucher, che già fissano una paga oraria sganciata dai contratti – e ha chiesto di modificare i contratti a termine, oggi troppo sbilanciati a favore degli imprenditori e a danno dei lavoratori.
PRIMA DEI NODI politici, uno sguardo ai dati del rapporto Inps: nel 2016 i pensionati con un reddito mensile sotto i mille euro sono stati 5,8 milioni, il 37,5% del totale dei pensionati italiani (15,5 milioni). Erano stati il 38% nel 2015: più alta la percentuale di donne sotto i mille euro – il 46,8% sul totale delle pensionate – a fronte del 27,1% degli uomini. Sono invece 1,06 milioni i pensionati sopra i 3 mila euro al mese e 1,68 milioni (il 10,8%) quelli che restano sotto i 500 euro al mese.
Nel 2016 l’Inps ha chiuso con un bilancio di esercizio negativo per 6,046 miliardi, in miglioramento rispetto ai 16,2 miliardi di rosso del 2015. Il patrimonio netto si è ridotto alla cifra di 254 milioni di euro. Il contributo degli immigrati è evidente: tanto più se si considera che per il momento è più alto il valore dei contributi incassati rispetto a quello delle prestazioni erogate.
IL PRESIDENTE BOERI è entrato quindi nel dibattito sull’adeguamento automatico dell’età, pronunciandosi sul possibile stop nel 2019: il blocco dell’adeguamento all’aspettativa di vita per la pensione di vecchiaia «non è una misura a favore dei giovani – ha spiegato – perché i costi si scaricherebbero sui nostri figli e sui figli dei nostri figli». «Sarebbe meglio – ha quindi aggiunto – fiscalizzare una parte dei contributi all’inizio della carriera lavorativa per chi viene assunto con un contratto stabile».
Elogio poi per la cancellazione dell’articolo 18: «Ha rimosso il tappo alla crescita delle imprese sopra la soglia dei 15 dipendenti». «I nostri studi – ha spiegato – dimostrano che c’è stata un’impennata nel numero di imprese private che superano la soglia dei 15 addetti: dalle 8 mila al mese di fine 2014 siamo passati alle 12 mila dopo l’introduzione del contratto a tutele crescenti».
ANCORA, BOERI nega che vi siano legami tra la rimozione dell’articolo 18 e il boom dei licenziamenti disciplinari: «Avrebbe dovuto caratterizzare essenzialmente le imprese con oltre 15 dipendenti, ma in realtà – ha spiegato – la crescita del tasso di licenziamento è stata più rilevante nelle piccole imprese, sostanzialmente estranee a tali riforme».
Altro nodo toccato, i contratti a termine: Boeri nota che dopo la fine dei ricchi incentivi a quelli a tutele crescenti (da inizio 2016) sono tornati ad aumentare, cannibalizzando le assunzioni stabili. Sarebbe perciò «opportuno riconsiderare il regime dei contratti a tempo determinato, che trasferiscono troppa parte del rischio di impresa sul lavoratore, potendo essere rinnovati ben cinque volte nell’arco di tre anni».
OK AL SALARIO minimo fissato dalla legge: «Avrebbe il duplice vantaggio di un decentramento della contrattazione e di uno zoccolo retributivo minimo per quel crescente numero di lavoratori che sfugge alle maglie della contrattazione», e dalla paga fissata dai nuovi voucher (9 euro al netto dei contributi sociali) «il passo è breve».
Bene il Rei, il nuovo reddito di inclusione sociale, ma la platea è ancora troppo ristretta e le somme erogate sono ancora troppo basse: «Manca ancora in Italia uno strumento universalistico a sostegno della disoccupazione e dell’indigenza».

il manifesto 5.7.17
Per i migranti l’alternativa c’è
di Luigi Manconi

Tra le molte insidie della discussione pubblica sul tema dell’asilo e dell’immigrazione, c’è quella – velenosissima – che porta a raffigurare la situazione come uno scenario nichilista senza salvezza, senza rimedio e senza via d’uscita.
Non è affatto così. In questa materia, politiche razionali e intelligenti, pur ardue e faticose, sono possibili e previste tra le pieghe dalle normative e delle convenzioni europee; e alcune di esse sono state già sperimentate e diffusamente applicate con un certo successo.
Nel 2013, all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre, avanzammo una serie di proposte molto concrete per affrontare la crisi umanitaria nel Mediterraneo. L’obiettivo era quello di evitare la lunga e dolente teoria delle morti in mare e l’intenzione quella di indurre l’Unione europea a farsi carico della questione migratoria adottando meccanismi di condivisione e solidarietà tra gli Stati.
Innanzitutto fu elaborato un piano di ammissione umanitaria, molto dettagliato e circostanziato, che prevedeva canali legali e sicuri verso l’Europa per i profughi bisognosi di protezione: un piano ancora attuale e sempre più necessario. La seconda proposta riguardava la possibilità che il governo italiano ricorresse alla concessione della protezione temporanea ai profughi sbarcati sulle nostre coste in base a quanto previsto dalla direttiva 55 del 2001. Ed è, questa, una opportunità estremamente importante che va presa in serissima considerazione al più presto. Quella direttiva, infatti, stabilisce standard minimi per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio, nonché la promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che accolgono gli sfollati. La durata della protezione temporanea è di un anno e gli Stati membri sono obbligati a indicare la propria capacità di accoglienza; e a cooperare per il trasferimento della residenza delle persone da uno Stato all’altro.
Nei giorni scorsi ho riproposto in molte sedi l’adozione di questo provvedimento, e così hanno fatto Radicali italiani e Comunità di Sant’Egidio, come alternativa all’idea, difficilmente praticabile e da scongiurare, della chiusura dei porti italiani alle navi dei profughi. A ulteriore sostegno della richiesta sulla protezione temporanea, da avanzare rapidamente in sede Ue, si ritrova nella storia recente del nostro Paese un concreto e istruttivo precedente. Nel 2011 il governo Berlusconi di fronte agli arrivi, già allora consistenti, di profughi provenienti dalla Tunisia, concesse «un permesso di soggiorno per motivi umanitari», della durata di 6 mesi, rinnovati in seguito per un altro anno. Qualora una richiesta analoga del governo italiano al Consiglio europeo non venisse accolta, si potrebbe comunque procedere all’adozione a livello nazionale di un provvedimento simile a quello del 2011. A marzo di quell’anno, alcune migliaia di tunisini entrarono o provarono a entrare in Francia muniti di permesso temporaneo valido per attraversare le frontiere: si aprì un contenzioso con l’Italia e la questione si impose a livello europeo. A maggior ragione oggi, in un contesto molto più delicato, precario e complesso, porre in questi termini la necessità di una presa in carico della gestione dei flussi da parte di tutti gli Stati membri avrebbe un impatto forte, senza mettere a rischio l’incolumità delle persone in fuga.
Velleitario? Poco credibile? Ma davvero qualcuno può pensare che la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari sia meno realistica della cupa distopia della «chiusura dei porti italiani»?


La Stampa 5.7.17
Professori assunti in anticipo, cattedre assegnate in estate
Dopo le polemiche dell’anno scorso l’impegno del ministro Fedeli: “Alla prima campanella tutte le classi avranno i loro insegnanti”
di Flavia Amabile

Ricordate l’anno scorso il balletto dei supplenti e delle materie senza insegnanti fino a gennaio? Quest’anno la ministra dell’Istruzione Fedeli ha promesso che i problemi non si ripeteranno. Tutto l’iter delle assunzioni e della gestione della fase finale dell’avvio dell’anno scolastico seguirà un iter con scadenze prefissate in grado di garantire che tutto si svolgerà nel migliore dei modi.
è una delle promesse più forti che potevano arrivare dal Miur nei confronti di genitori, dirigenti e studenti ancora alle prese con le conseguenze di un anno scolastico che in molti casi ha avuto forti ritardi nella didattica. Se il ministero riuscirà a mantenerla sarà la migliore dimostrazione di una netta svolta nella gestione dell’istruzione rispetto alla ministra precedente, Stefania Giannini. Matteo Renzi da presidente del Consiglio non aveva mai fatto mistero di non aver gradito l’attuazione della riforma della scuola. Dal suo punto di vista avrebbe dovuto essere uno dei fiori all’occhiello del suo mandato: si è rivelato, invece, uno dei punti deboli con un’emorragia di voti in un mondo che era sempre stato fedele al Pd.
Con Gentiloni a Palazzo Chigi e Valeria Fedeli alla guida del Miur, l’atteggiamento del governo nei confronti dei professori è molto cambiato. C’è stato un lungo lavoro di dialogo con i sindacati e di messa a punto in modo concordato di tutte le procedure. «Il Miur - spiega la ministra - lavora da oltre sei mesi per questo obiettivo. È un impegno preso con la scuola, con le ragazze e i ragazzi, con le loro famiglie. Rispetto al 2016/2017 abbiamo operato per concludere ogni attività almeno un mese prima».
Quest’anno saranno 52 mila i posti disponibili per le assunzioni, compresi i 15.100 in più previsti dalla Legge di Bilancio grazie alla trasformazione di una parte dell’organico di fatto in organico di diritto. Le procedure per le assunzioni, si concluderanno «entro il 14 agosto, con decorrenza dei contratti dal primo settembre. Lo scorso anno si chiusero il 15 settembre», promette la ministra. Si riuscirà a definire in tempi più rapidi anche il quadro delle assegnazioni provvisorie dei supplenti che dovranno essere completate entro il 31 agosto mentre l’anno scorso terminarono a ottobre. Per rispettare l’impegno si deve ridurre al minimo il numero di ricorsi, quindi ci saranno maggiori e migliori controlli. «Bisogna combattere gli abusi», è l’avvertimento. «Dobbiamo agire a tutela di chi ha veramente bisogno, per questo oggi scriverò a Inps, Regioni e ministero della Salute affinché sia aperto un tavolo». Grazie alle nuove assunzioni, però, si potranno avere almeno 15 mila supplenti in meno.
Per la mobilità, il ministero ha avuto diversi elementi a rendere meno complicato il quadro in cui operare. Innanzitutto, le cifre: la mobilità avviene sul 30% dei posti, non sulla totalità come lo scorso anno. Ed è su base volontaria, non obbligatoria. «Finora - annuncia la ministra - sono 5200 i docenti, dall’infanzia alla secondaria di primo grado, che cambieranno regione in base alla loro richiesta». In totale ci sono 139.583 richieste di trasferimento.
E’ evidente che questo lavoro non eliminerà i problemi, la ministra ne è consapevole. Ad esempio, avverte: «alcuni posti non saranno coperti con le assunzioni. Mancheranno docenti di matematica, lo sappiamo già ora, sono un numero inferiore dei posti disponibili. Stiamo facendo di tutto per rendere appetibile questo insegnamento».

Repubblica 5.7.17
Massimo Bray, ex ministro della cultura“Troppi errori, la sinistra torni a parlare a chi non le crede più”
Mauro Favale

ROMA. «Si dice spesso che la frammentazione è nel dna della sinistra. Ecco, io punterei a cambiarlo questo dna». Massimo Bray ha 58 anni e di mestiere è direttore generale dell’Enciclopedia Treccani. Tra il 2013 e il 2014 è stato ministro della cultura del governo Letta. Nel febbraio 2015 si è dimesso da deputato; ad aprile di quest’anno è stato nominato presidente della Fondazione per il Libro che organizza il Salone di Torino. Un curriculum di un uomo di sinistra a lungo accostato a Massimo D’Alema (è stato direttore della rivista Italiani/Europei) ma con la tessera del Pd ancora in tasca. Un anno fa il suo nome è circolato per la candidatura a sindaco di Roma alla guida di una coalizione in competizione col Pd. «Ho rifiutato perché non voglio dividere la sinistra. Non serve a nessuno e gli elettori non capirebbero».
Eppure sembra quello l’approdo finale: da una parte il Pd di Matteo Renzi dall’altra la formazione guidata da Giuliano Pisapia. Bisogna rassegnarsi alla frammentazione?
«Sarò un inguaribile ottimista ma io credo che mettendo da parte i personalismi una sintesi sia ancora possibile».
Si iscrive anche lei al partito della coalizione unita?
«Forse è il caso di non parlare più di primarie, secondarie, coalizioni, listoni, leggi elettorali, soglie di sbarramento».
Questo lo dice anche Renzi.
«Sì, ma io voglio una sinistra che ripensi il capitalismo così come si è strutturato in questi decenni, che superi le diseguaglianze, che difenda i beni comuni, che definisca un piano di investimenti pubblici, che dia un futuro al Mezzogiorno e torni a coinvolgere i giovani. La maggioranza degli astenuti alle Comunali arriva da lì, da ragazzi che non pensano alla politica come qualcosa che li appassiona. Sono loro i primi a cui dobbiamo rivolgerci».
A partire da cosa?
«Da alcune priorità: lavoro, scuola, ambiente, cultura, impresa, agricoltura, turismo. Ma per farlo dobbiamo tornare ad ascoltare questo Paese, dire la verità e riconoscere gli errori».
C’è stata troppo poca autocritica nel Pd dopo le Comunali?
«Se potessi dire qualcosa a Renzi gli direi di ripartire dall’entusiasmo con cui nacque il Pd, da quell’idea di tenere insieme i riformismi di questo Paese, dalla costruzione di un soggetto che ripensasse l’idea di partito, un soggetto con il quale la sinistra italiana provava a interpretare le sfide del XXI secolo».
E adesso, invece? Può esistere un centrosinistra senza il Pd?
«Non può esistere un centrosinistra senza quell’idea di Pd».
E allora? Cosa impedisce il riavvicinamento? I personalismi?
«Il personalismo mi pare sia un male che ha colpito non solo la sinistra e non solo il nostro Paese. L’epoca delle leadership è destinata a finire, le scelte non possono essere calate dall’alto, ma condivise, creative e non burocratiche. Mi dispiace sfogliare i giornali e vedere un mondo a cui sono legato sentimentalmente che non riesce a uscire dalla litigiosità e a lanciare un vero progetto per il Paese».

Repubblica 5.7.17
“Caso Alpi, impossibile arrivare alla verità”
La procura di Roma chiede l’archivazione dell’indagine: nessuna prova per risalire a killer e movente La rabbia della madre a 23 anni dall’omicidio della figlia: è una vergogna, non credo più nella giustizia
di Daniele Mastrogiacomo

ROMA. «Sono furibonda. E molto amareggiata», dice la signora Luciana Alpi. «La richiesta d’archiviazione non me l’aspettavo. C’erano tutti gli elementi per riaprire il caso. Ormai sono disillusa. Non credo più nella giustizia. Si è fatto di tutto per perdere tempo: 16 mesi per fare una rogatoria e stabilire che l’unico grande testimone di questa vicenda aveva detto il falso. Una vergogna. Ma non mi arrendo. Fino a quando potrò, inseguirò la verità».
La morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è destinata a restare senza un colpevole. Quell’agguato nella Mogadiscio scossa dai primi lampi di una guerra civile che dura ancora adesso è ancora un buco nero avvolto dai misteri e dalle menzogne. Per la seconda volta in dieci anni, la procura di Roma ha chiesto di archiviare il caso perché è impossibile individuare i killer, i mandanti e il movente del duplice delitto. Con una motivazione di 80 pagine, la pm Elisabetta Ceniccola e il procuratore capo Giuseppe Pignatone spiegano che il tempo (23 anni), le condizioni attuali della Somalia e l’assenza di qualsiasi traccia sui possibili assassini e mandanti, rendono difficile poter riaprire un procedimento che faccia luce su uno dei grandi misteri italiani.
Federazione della Stampa e sindacato Rai (Usigrai) esprimono «rabbia e sconcerto». «Riteniamo — dicono in un comunicato — che la ricerca della verità debba proseguire non solo nei confronti delle vittime ma anche perché in uno stato di diritto non possono essere consentite omissioni e reticenze».
La verità storica è quasi sempre diversa da quella giudiziaria. È raro trovare in sede processuale conferma degli elementi che il tempo e le circostanze offrono nel corso degli anni. Gli indizi non sono prove. Restano dei sospetti. E i sospetti, sebbene coincidenti e ripetuti, non sono sufficienti a formulare un verdetto di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio. I killer di quell’agguato, avvenuto il 20 marzo del 1984 a Mogadiscio, sono stati loro stessi inghiottiti dal buco nero che avvolge tutta questa tragedia. Probabilmente sono morti. Spariti anche i testimoni che hanno assistito alla violentissima sparatoria. Come molte prove. Una tra le tante: alcuni taccuini su cui Ilaria aveva raccolto gli appunti del suo ultimo servizio, quello che l’aveva portata verso l’estremo lembo settentrionale della Somalia, a Bosaso, per intervistare il sultano del posto. Erano nei suoi bagagli, caricati a bordo della nave militare italiana che avrebbe riportato a casa le due salme.
L’agguato a Ilaria e Miran è stato premeditato. Insolito. Unico nel suo genere, sebbene a Mogadiscio nessuno si poteva sentire al sicuro. In guerra muoiono anche i giornalisti. Ma chi ha ucciso i due inviati del Tg3 sapeva dove erano andati, cosa avevano fatto, cosa raccolto, cosa chiesto e visto. Ha teso una trappola a due scomodi testimoni di una verità imbarazzante. Forse un traffico d’armi, forse un traffico di rifiuti. Probabilmente entrambi, organizzati e portati a termine attraverso le navi che la nostra Cooperazione internazionale aveva fornito alla Somalia di Siad Barre. Ipotesi, naturalmente. Ma supportate da una serie di testimonianze poi smentite e riconfermate; smontate infine da due Commissioni parlamentari d’inchiesta e da quattro indagini.
Ed è proprio questo susseguirsi di mezze verità e tante menzogne ad aver sollevato il polverone. Sostenere, come fa adesso la procura, che non ci siano stati depistaggi nella tragedia di Miran e Ilaria lascia interdetti. C’è una sentenza, della Corte d’Appello di Perugia, che afferma esattamente il contrario. È stata emessa il 19 ottobre scorso. Ha stabilito che l’unico condannato, il somalo Hashi Omar Hassan, una pena a 26 anni, era innocente. Il supertestimone che lo indicava tra i killer dei due giornalisti, Ahmed Ali Rage, ha ammesso di aver detto il falso perché «gli italiani avevano fretta di chiudere il caso».
Nessuno, inquirenti in testa, si è mai preoccupato di verificare se il supertestimone avesse detto la verità. Rage, dopo il suo verbale d’accusa, ha potuto espatriare e vivere alla luce del sole prima in Germania e poi in Inghilterra. È stata una giornalista della trasmissione di Rai 3 “Chi l’ha visto?” ad averlo rintracciato. Alla collega ha detto quello che poi ha ripetuto davanti ai giudici: era stato convinto ad accusare il somalo di turno. Ma non è bastato neanche questo a squarciare il velo di menzogne e ipocrisie che ha seppellito definitivamente un crimine ancora scomodo per molti.

La Stampa 5.7.17
L’India guarda a Israele per un patto su sicurezza e nuove tecnologie
Modi primo leader di Delhi nello Stato ebraico
di Giordano Stabile

C’era anche una nuova specie di crisantemo, battezzata «Narendra Modi», ad accogliere il primo ministro dell’India al suo arrivo in Israele. Un omaggio al leader e alla cultura indù, che vede in quel fiore un simbolo di lunga vita e ricchezza. Gli israeliani hanno fatto le cose in grande per la prima visita di un premier indiano in carica: i due Paesi si sono sempre guardati con simpatia, se non altro per i comuni nemici musulmani, ma da due campi diversi, quello occidentale per lo Stato ebraico, quello dei «non allineati» per l’India. L’incontro fra Modi e Benjamin Netanyahu, che ieri pomeriggio si sono abbracciati all’aeroporto Ben Gurion con l’energia di due vecchi amici, è l’occasione per forgiare un’alleanza strategica e il leader indiano è stato accolto con onori riservati solo a Donald Trump.
Modi resterà in Israele per tre giorni, prima di volare in Germania al summit dei G20. Se Israele trova un amico da un miliardo e duecento milioni di abitanti, un mercato che cresce più della Cina, al sette per cento all’anno, il leader nazionalista indù vede nello Stato ebraico un modello di sviluppo tagliato su misura per le esigenze dell’India. I tre giorni serviranno a definire accordi su tre piani: la collaborazione nell’industria informatica e hi-tech, il trasferimento di tecnologie agricole, soprattutto per le coltivazioni nei terreni aridi, la collaborazione militare, specie nel campo missilistico.
La Silicon Wadi vicino a Tel Aviv, e la «Cupertino dell’India», Bangalore, sono i due grandi centri asiatici per le tecnologie del Ventunesimo secolo. L’India è interessata al modello delle start-up, che ha contribuito alla crescita media del sei per cento degli ultimi anni in Israele. Per lo Stato ebraico il mercato indiano offre la possibilità di far fare un salto di dimensioni alle proprie imprese. Alle nuove tecnologie sono anche legate le innovazioni che hanno trasformato il deserto del Negev in un giardino. Tra le eccellenze visitate da Modi, e molto apprezzata, c’è per esempio la Danziger Flower Farm, pioniere nella floricoltura.
L’India ha territori immensi semi-aridi, ed è lì la frontiera per sfamare i 25 milioni di nuovi cittadini che nascono ogni anno. Modi e Netanyahu puntano a triplicare gli scambi commerciali, fermi a meno di 2 miliardi di dollari. Undici ministri del governo israeliano hanno lavorato a progetti in comune, con investimenti per 80 milioni. Israele vuole attirare più turisti, ora sono soltanto 45 mila, puntando anche sulla comunità di 85 mila indiani che ospita. In cinquemila daranno questa sera il benvenuto al loro premier alla Fiera di Tel Aviv. Ma il piatto forte saranno gli accordi nel settore dell’industria militare.
L’India ha una sua industria missilistica avanzata e guarda con estremo interesse al sistema anti-balistico Arrow-3, lo scudo ideale per fermare la minaccia dei missili del Pakistan, potenza nucleare e storico avversario. Tanto più oggi, con Modi che spinge sull’acceleratore del nazionalismo indù anti-islamico. Un accordo in questo campo porterebbe l’alleanza su un quarto livello. Israele ha sempre puntato ad accordi con potenze «alle spalle» del mondo arabo-musulmano. Con l’Etiopia cristiana in Africa, con l’Iran dello Scià, rivale delle potenze arabe, fino al 1979, con la Turchia pilastro della Nato in Medio Oriente. Questo sistema di alleanze è però in gran parte in pezzi. Con l’India, terza potenza economica mondiale, Israele avrebbe una seconda assicurazione sulla vita, dopo quella americana.

La Stampa 5.7.17
Gerusalemme, un museo multimediale per camminare fra le radici del cristianesimo
Aperto al pubblico il primo nucleo presso il Monastero della Flagellazione
di Lea Luzzati

Un museo multimediale fra le mura della Città Vecchia è quasi una contraddizione in termini, certamente una sfida al tempo che le sue mura trattengono, a tutte le possibili declinazioni della fede che qui si incrociano quotidianamente, a volte si scontrano ma non di rado convivono dentro una specie di pace calda, o forse guerra fredda.
Invece, il primo nucleo del nuovo Terra Sancta Museum è stato appena aperto al pubblico presso il Monastero della Flagellazione: costruito in collaborazione con lo Studium Biblicum Franciscanum, la Custodia e l’associazione Pro Terra Sancta, si tratta di un cammino nella storia di Gerusalemme dall’epoca di Gesù al presente.
Progetto tanto ambizioso quanto al passo con i tempi, il Terra Sancta Museum, nel cuore di Gerusalemme, presenta un percorso di visita che si snoda in luoghi diversi della Città Vecchia, nella sua santità ma soprattutto nella sua straordinaria narrativa. Una volta ultimato sarà un grande museo dedicato alla millenaria presenza cristiana nella città santa, un vero e proprio museo diffuso che avrà sede nel Monastero della Flagellazione e nel Convento di San Salvatore, con una sezione archeologica ricca di reperti e una più propriamente storica e didascalica.
Sarà soprattutto un percorso lungo la Via Dolorosa, dentro la pietra dura e luminosa di Gerusalemme, in quel passato così lungo che in fondo sta già tutto nelle brevi e drammatiche ore della Passione, nelle sue stazioni, passo dopo passo verso il Calvario. Sarà una esperienza da vivere più che da visitare per fedeli d’ogni confessione e per chi la fede non ce l’ha, ma a Gerusalemme sente che tira un’aria speciale e il cielo ha una luce che non ha da nessun’altra parte del mondo.
La nuova ala multimediale del museo è dunque ora visitabile nel monastero della Flagellazione, là dove significativamente comincia il percorso della Via Dolorosa (il sito si trova in corrispondenza della seconda stazione): qui il visitatore viene trasportato nella città del tempo di Erode attraverso le immagini, i suoni, la narrazione. Gli effetti speciali delle nuove tecnologie servono non tanto per lasciare a bocca aperta o per far vivere al visitatore un’esperienza «estrema», piuttosto per accompagnarlo nel passato con l’immediatezza che solo i sensi ci permettono. Ma si tratta anche, e soprattutto, di un percorso di conoscenza storica.
E se la tecnica multimediale è ormai entrata nella dotazione dei musei e costituisce un’esperienza di visita comune, averla qui, in questo luogo e dentro questa storia, è qualcosa di speciale. È vero che Gerusalemme è un posto che fa perdere le coordinate del tempo e dello spazio, è vero che questa città è un melting pot dove tutto si incrocia e alla fine riesce a pure a convivere - non senza conflitti, contraddizioni, frustrazioni e ferite aperte, certo. Ma attraversare un’epoca storica e spirituale così profonda e cruciale attraverso una esposizione multimediale così sofisticata e convincente è davvero qualcosa di unico.
L’obiettivo è infatti non solo quello di far esplorare Gerusalemme e la cristianità, ma anche di informare il visitatore su questa millenaria presenza cristiana nella sua vita, nella discrezione di innumerevoli gesti quotidiani. Far sentire questa presenza più vicina e familiare ad ogni visitatore - cristiano, ebreo, musulmano o di qualunque altra confessione, o di nessuna confessione. E non ultimo, favorire il dialogo attraverso la conoscenza di un passato che immancabilmente si rivela più comune di quanto non ci si immaginasse prima di entrare nel vivo di quella storia. Perché Gerusalemme ha quello straordinario talento di rimanere sempre la stessa malgrado i cambiamenti che ha subito, malgrado gli innumerevoli passi che hanno lisciato e lucidato le pietre del selciato, gli innumerevoli sguardi che si sono levati verso il cielo azzurro, fra un muro di pietra e l’altro.

La Stampa 5.7.17
Tanta voglia di imperialismo
Mario Liverani racconta gli esordi della politica di potenza in Assiria Il suo saggio suggerisce il confronto col presente: dagli Usa al Califfato, non si tratta più di dividere ma di unificare e imperare

di Domenico Quirico

È arrivato il momento di riprender in mano la parola: imperialismo. Eppure non sembran proprio tempi adatti: dopo tante conquiste e tanti successi di ogni tipo, l’Occidente comincia a passare di moda. Merita attenzione in quanto è braccato e con le spalle al muro, in quanto affonda sempre più. Altro che imperialismo. Perfino l’ultimo impero aggressivo e invincibile, quello per antonomasia, l’America, ridotta a Trump, se perdura, se lancia ancora missili, è perché non ha la forza di capitolare, si regge sull’automatismo del declino. Gli imperi sembrano intaccati nella sostanza, marci alle radici. Perché più l’uomo acquista potenza più diventa vulnerabile. Sotto l’azione delle appartenenze (nazionali ma non solo) le Unità andavano in frantumi.
E invece torna la voglia di imperi per regolare gli sconquassi inestricabili del mondo, questa frenesia della fine di cui siamo tutti preda. La tolleranza è sentita ormai come un sintomo di debolezza e di dissoluzione, gli imperi rassicurano perché restaurano un passato vissuto come età aurea, sono l’antidoto alla lebbra delle tribù, troppo piccole per confortare paure immense. Vivere in un impero ci rende decisi, ci offre una causa. Ci permette un quarto di nobiltà. Gli imperi, è il loro segreto, non sono costruzioni politiche, sono una condizione.
Una parola infangata
Certo: questa tendenza al dominio con connesso sfruttamento è stata vittima dell’abuso che ne fecero, per infangarla, Lenin e Rosa Luxemburg e, a ruota, i terzomondisti. Fu il profeta dell’Ottobre a coniare una definizione perfino per l’espansionismo rimessiticcio del duce, l’imperialismo dei pezzenti… Morta quella stagione vulcanica di politici e profeti sovvertitori, bravissimi a metter ogni cosa in subbuglio e repentaglio, e a divenire a loro volta imperialisti di successo, circolavano formule più mellifue. Finita insomma la fase guerresca e conquistatrice degli imperi, era l’età, come dire, amministrativa, economica ovvero il governo pacifico e regolare, ordinato e legale che chiamiamo mondializzazione.
Un fecondo, scintillante libro, Assiria, la preistoria dell’imperialismo, saggio di storia antica anzi antichissima di Mario Liverani pubblicato da Laterza, apparentemente dedicato ai bellicosi e indolenti signori di Nimrud e di Ninive, ci suggerisce interessanti contemporanee voragini: a noi che folleggiamo su modernissimi precipizi.
Liverani individua il cuore eterno, obbligatorio della voglia di imperi nella volontà di una «missione imperiale», quella che un tempo si chiamava ideologia. E questa ideocrazia, se si scende all’osso, è il progetto di conquistare tutto il mondo, sulla base di una teoria politica o teleologica: la diffusione della civiltà tra i barbari o la conversione al vero dio ovviamente unico. Raggiungere la fine della Storia in fondo è l’utopia di tutti i sistemi totalitari (le democrazie credono o dovrebbero credere nel virtuoso continuo disfarsi e rifarsi).
Questo principio cosmologico varia nel tempo e si nobilita volentieri dal lato spirituale a quello economico (agli antichi tributi degli Assiri e dei Romani subentrano i privilegi commerciali e finanziari degli imperi moderni e modernissimi), ma è alla base di ogni impero. Come diceva uno dei più grandi imperialisti di tutti i tempi, Cecil Rhodes (che sognava di annettere anche la Luna all’impero britannico!), bisogna «combinare il commercio con l’immaginazione, ovvero creare una immagine altruistica dell’impero».
Il capolavoro inglese
Non si può dire che avesse fallito questa propaganda se la maggior parte degli inglesi era convinta che la guerra boera, pulizia etnica, Lager e massacri compresi, fosse servita a aumentare il prestigio morale del Regno Unito! L’imperialismo inglese: 20 milioni di elettori detenevano il destino di 450 milioni di persone! Un capolavoro.
Le tentazioni comparative che il libro di Liverani solleva sono moltiplicate da consonanze geografiche. Riappaiono le parusie unificatrici, le idolatrie semplificatorie, il dispetto per i confini. Nella Terra tra i due fiumi dove fiorirono le sofisticate strategie assire (misto modernissimo di brutalità guerriera e di comunicazione terroristica) oggi si estende il progetto di un impero in culla, quello islamico. Gli avventurieri del jihad salafita lavorano e uccidono per costruire il Califfato universale: distruggere i piccoli Stati inventati dall’Occidente per dividere gli uomini della vera Fede, un impero di uomini puri. Ecco la scorciatoia per risanare l’islam, tradito dai nazionalismi panarabi, dai socialismi e dagli islamisti tiepidi e pudibondi. Alcune strategie dei jihadisti, terribile a dirsi, sembrano affondare indietro nel tempo degli Assiri: ad esempio lo sgozzamento dei prigionieri, come espediente di guerra psicologica. Sargon e Salmanassar facevano minuziosamente scolpire queste atrocità sui bassorilievi, i boia di Abu Bakr le filmano, stessa necrofilia della guerra. Identico lo scopo, diffondere il sentimento della impossibilità di battersi contro di loro: «… ai superstiti che non avevano colpa né peccato, imposi il pesante giogo della mia signoria...».
La scommessa di Putin
Spezzettati in piccole nazioni fallite, i sunniti sognano dunque questo impero teocratico, il più assoluto. Sul piano teologico replica l’Iran che aspira (con la bomba atomica!) a una ricomposizione «imperiale» unitaria dello spazio sciita, che assorba una parte dell’Iraq, la Siria e il Libano degli Hezbollah. Un contro-impero nel Vicino Oriente. Non più dunque il dividere e imperare degli antichi, ma semmai unificare e imperare.
La scommessa politica di Putin, ad esempio, si basa esplicitamente sulla ricostruzione di uno spazio imperiale ora defunto, quello dell’Urss. La Crimea e il Donbass riconquistati: ma anche la Siria, pedine iniziali della ricomposizione imperiale di uno spazio «sovietico» andato in mille pezzi. Non a caso l’industria degli armamenti e la sua modernizzazione è il settore economico in cui la Russia ha più investito la rendita petrolifera. Strumento di potenza certo, anche se guardando le cifre non è in grado di gareggiare con gli Stati Uniti su un piano globale; ma soprattutto un modo per sedurre e intimidire movimenti e Paesi impegnati in guerre civili o etniche.
E gli Stati Uniti, potenza decadente? Il suo manifesto imperiale, esplicito, restano le novanta pagine del Re-building America’s defenses, settembre del Duemila prima dell’avvento di Bush alla Casa bianca. Manifesto neoconservatore e passaggio appunto dal pragmatismo alla ideologia, invita ad agire affinché la realtà venga uniformata alla idea imperiale: l’egemonia americana deve durare il più a lungo possibile per creare le condizioni di una pace americana. Globale.

La Stampa 5.7.17
“C’è un altro mondo oltre quello noto. Ecco come lo troveremo”
La scoperta del bosone di Higgs è una fine e un inizio Ora si apre l’era avventurosa della “Nuova Fisica”
di Gabriele Beccaria

Se volete far chiacchierare un fisico teorico (e non fare brutte figure), punzecchiatelo sul tema del momento, lo «scenario da incubo». Scoprirete un mondo inatteso.
Dal 2012, da quando fu individuato il celebre bosone di Higgs, la particella che dà la massa a ciò che conosciamo, migliaia di studiosi sono rimasti a mani vuote. Nessuna nuova particella è emersa e la tanto attesa «Nuova Fisica» non si è materializzata. Tanti interrogativi restano aperti, da ciò che compone il nostro Universo su scale cosmologiche a quale sia il contenuto del mondo su scale più piccole di quelle indagate finora. Ecco perché l’incubo. Che significa frustrazione e impazienza. Ma anche ostinazione, come emergerà dalle tante «lectures» previste al mega-meeting di Venezia.
Antonio Riotto, lei è professore di fisica teorica all’Università di Ginevra, ed è uno di questi esploratori della vasta terra incognita: anche lei si sente prigioniero dell’incubo?
«Mi sento ottimisticamente preoccupato: noi fisici teorici abbiamo costruito varie estensioni del Modello Standard basate su varie considerazioni logiche. E siamo fiduciosi che siano corrette, per molte ragioni».
Come fate a essere così sicuri?
«Che ci sia un’altra fisica oltre il Modello Standard è assodato, seppure in maniera indiretta. Per esempio per il fatto che i neutrini abbiano un massa diversa da zero oppure per la presenza della materia oscura, la cui origine è ancora sconosciuta, o, ancora, per la presenza di barioni rispetto agli antibarioni nell’Universo osservato. La questione è ottenere delle evidenze dirette della fisica oltre il Modello Standard e, questa, non si è ancora mostrata. Ma non è detta l’ultima parola».
Che cosa sperate che avvenga?
«Lhc, l’acceleratore di particelle del Cern, sta funzionando e potremmo avere fortuna, mentre ci sono molti esperimenti sulla materia oscura. Tutto potrebbe cambiare da un momento all’altro: chi avrebbe detto, per esempio, che avremmo scoperto le onde gravitazionali così presto?».
Che cosa manca al Modello Standard della fisica attuale?
«È una costruzione stupenda, con l’Higgs che rappresenta l’ultimo tassello. Ma è come una piramide rovesciata, con la punta rappresentata dall’Higgs in basso, e quindi in una posizione instabile».
Incompleta per certe caratteristiche dello stesso Higgs: è così?
«L’Higgs, in effetti, è molto particolare: mentre le altre particelle conosciute hanno una massa non sensibile ai fenomeni quantistici che avvengono su scale microscopiche (in gergo le chiamiamo “correzioni quantistiche”), l’Higgs, non appena si accoppia ad altre più pesanti, tende ad acquistare una massa più grande di quella che al momento misuriamo, vale a dire 126 GeV. Noi chiamiamo questa questione “problema della naturalezza”. Essenzialmente, la massa dell’Higgs tende ad essere destabilizzata, se si accoppia a particelle più pesanti. Conclusione: non è naturale il fatto che l’Higgs sia così leggero e questo è un problema molto dibattuto nella nostra comunità».
Come si può spiegare altrimenti questa anomalia?
«Esistono varie soluzioni teoriche, tra cui la teoria della supersimmetria».
Supersimmetria che punta a dimostrare che cosa?
«Evita proprio che l’Higgs tenda ad avere una massa più grande. In questa teoria, infatti, si amplia lo spettro delle particelle. Per ciascuna del Modello Standard ne esiste una corrispondente supersimmetrica: così, per esempio, a ogni bosone corrisponde un fermione e a ogni particella con spin intero una con spin semi-intero. Queste nuove particelle supersimmetriche evitano che la massa dell’Higgs si destabilizzi. Ma, visto che queste non si sono ancora materializzate, ecco che torna in scena l’incubo: manca ancora l’evidenza sperimentale di un quadro teorico così elegante e matematicamente convincente».
Adesso dove si indirizzano le speranze di una possibile evidenza di fisica oltre il Modello Standard?
«Le speranze sono vive più che mai. Potrebbe manifestarsi con gli esperimenti di Lhc anche se, per esempio, la natura potrebbe aver deciso di far apparire la supersimmetria ad energie più elevate e che al momento non sono a noi accessibili. Un’ulteriore possibilità è legata alla materia oscura e ai tre modi per assegnarle una carta d’identità».
Quali sono?
«Il modo diretto, nel caso questa interagisca con un rivelatore, e il modo indiretto, rilevando i prodotti dell’annichilazione di due ipotetiche particelle di materia oscura nello spazio. E infine tramite lo stesso Lhc: la materia oscura potrebbe essere prodotta e lasciare una traccia attraverso la cosiddetta “missing energy”, l’energia mancante rispetto a quella iniziale delle particelle che collidono. Se questo dovesse avvenire, si aprirebbero scenari incredibili».
Proviamo a evocarli.
«Avremmo finalmente la Nuova Fisica. Per il cosmologo la materia oscura è un fluido che fa evolvere l’Universo secondo certe dinamiche e che è responsabile delle strutture che osserviamo, mentre la determinazione della sua massa e delle sue caratteristiche, a seconda che possa essere ultrapesante o leggera oppure ultraleggera, indicherebbe verso quali estensioni del Modello Standard indirizzarci. E, dal momento che sono in gioco particelle molto difficili da rilevare, proprio la cosmologia potrebbe essere in grado di dare informazioni alternative rispetto a quelle che verrebbero fornite da Lhc. L’Universo diventa quindi un gigantesco Lhc e anche una macchina del tempo».
Che cosa ci rivelerà?
«Nel cosmo sono avvenuti fenomeni ad altissime energie che non potranno mai essere riprodotti in laboratorio sulla Terra e tuttavia questi fenomeni possono avere lasciato una traccia rilevabile: pensiamo alle onde gravitazionali prodotte dalla collisione di buchi neri. C’è, quindi, una relazione sempre più stretta tra le ricerche della fisica delle particelle e quelle della cosmologia. I problemi sono gli stessi e là dove una fallisce l’altra può subentrare. È una competizione creativa che ci riserverà molte sorprese».

La Stampa 5.7.17
I nostri passi nella Terra Incognita della materia oscura e dei neutrini
Gli esperimenti dal Gran Sasso all’Antartide, passando per Chicago “Tanti indizi ci svelano che non tutto finisce con il Modello Standard”
di Nicla Panciera

«La cosa più incomprensibile dell’Universo - ha scritto Albert Einstein - è che sia comprensibile». Prova ne sono le leggi fisiche che ci permettono di prevederne il funzionamento. Oggi, abbiamo due solide teorie - la meccanica quantistica e la Relatività generale - che sono però incompatibili: là dove si incontrano generano divergenze insormontabili e i modelli creati su di loro generano ulteriori problemi. Risolverli, e costruire un’unica teoria capace di spiegare l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grande, è l’obiettivo degli scienziati che, armati di intuizione fisica e abilità matematica, si dedicano a singoli pezzi del puzzle senza sapere ancora se l’incastro perfetto avverrà limando le varie tessere o modificandone la forma.
La conferenza della «European Physical Society» servirà a far incontrare un migliaio di fisici teorici, particellari e cosmologi che, insieme, proveranno a dare un senso ai nuovi risultati dei test in corso. Tra le questioni irrisolte c’è la natura della materia oscura, la «dark matter». Questa costituisce all’incirca il 25% della densità globale dell’Universo, ma, nonostante le indicazioni cosmologiche che ne attestano l’esistenza, «finora nessuno ha visto niente», ammette il fisico Mauro Mezzetto, direttore della sezione dell’Infn di Padova che ha organizzato il meeting e «chair» del congresso. Per rilevare il misterioso elemento, che ha scarsissime interazioni con la materia ordinaria, si prova di tutto. Dalle rilevazione dirette, le più convincenti ma difficili, obiettivo dell’esperimento «Xenon» dell’Infn al Gran Sasso, fino alla ricerca di segnali riconducibili alla sua presenza, come nel test «Ams» sulla Stazione spaziale internazionale, passando per l’utilizzo degli acceleratori di particelle, che consentono interazioni ad alta energia.
Ma il tempo stringe, avverte Mezzetto: «Incrementando di 10 volte la potenza degli strumenti, questi arriveranno ad una sensibilità tale da non poter più distinguere la rilevazione dei neutrini da quella della materia oscura. A quel punto ci dovremo fermare, ripensare la tecnologia e forse anche la teoria stessa». Un’altra grande sfida, d’altra parte, è costituita proprio dai neutrini: l’esistenza di una massa, seppure piccolissima, provata con la scoperta delle loro oscillazioni, contraddice il famoso Modello Standard delle particelle. Tuttavia, di questi elusivi «mattoncini» ancora non conosciamo alcune proprietà fondamentali, come il valore della massa, la loro natura e numero. Scoprirle potrebbe aprire una finestra sulla nuova fisica. E così oggi è diventato «frenetico» il loro studio.
Ai neutrini i ricercatori dell’Infn stanno dando la caccia nel cuore degli Appennini, sotto il Gran Sasso (con i test «Borexino», «Cuore» e «Gerda»), e nelle profondità del Mediterraneo (con «KM3NeT»), ma gli studi avvengono anche altrove, come in Antartide (protagonista è l’esperimento americano «IceCube»). Due tra i più avanzati esperimenti del mondo vedono i fisici italiani in prima fila: uno è il «Tokai to Kamioka - T2K», in corso in Giappone, con un enorme rilevatore di neutrini, il Super-Kamiokande, che vuole capire meglio le differenze di massa tra i tipi di neutrini. E poi il sofisticato «Icarus», ideato dal Nobel Carlo Rubbia in allestimento al FermiLab di Chicago, che dovrà dare la conferma dell’esistenza o meno del quarto tipo di neutrini, quelli «sterili»: sono loro che potrebbero fornire il primo caso di particelle non previste dal Modello Standard.
«Siamo in una fase di fervente esplorazione e ci sono grandi aspettative per i risultati in arrivo», annuncia Mezzetto. Proprio i neutrini potrebbero rivelarci informazioni sugli eventi cosmici catastrofici da cui hanno avuto origine, ma anche sulla nascita dell’Universo e sulla rottura della simmetria tra materia e antimateria. «Potrebbero cambiare gli orizzonti della fisica». E, forse, consegnarci una Teoria del Tutto. Ma, per ora, hic sunt leones.

Corriere 5.7.17
Stephen Hawking:
«Piogge acide, temperature di 250° La Terra diventerà come Venere»
di Giovanni Caprara

«Siamo vicini a un punto di non ritorno oltre il quale il riscaldamento globale diventerà irreversibile. La scelta di Trump potrebbe spingere la Terra oltre questa soglia e farla diventare come Venere, con temperature oltre 250 gradi e piogge di acido solforico».
È Stephen Hawking a tratteggiare la terribile prospettiva. Il grande astrofisico, che ha spiegato gli enigmi dei buchi neri, punta il dito contro il presidente americano e la sua decisione di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sul clima: «Il cambiamento climatico è uno dei grandi pericoli da affrontare — ha detto in un’intervista alla Bbc per i suoi 75 anni —, se vogliamo fermarlo dobbiamo farlo ora».
Venere è il più caldo dei pianeti del sistema solare e a renderlo tale è un effetto serra con nuvole opache e perenni di acido solforico che impediscono la sua visione diretta. L’ambiente è infernale: il termometro lì può salire anche a 450 gradi, mentre la pressione è quasi cento volte più alta della nostra. Eppure è considerato per molti aspetti un pianeta gemello della Terra, simile in origine per poi degradarsi a causa delle emissioni di anidride carbonica.
Oggi Venere è una sorta di laboratorio cosmico nel quale studiare un nostro potenziale destino se la CO2 dovesse continuare a crescere oltre il record delle 400 parti per milione già superato. Dal 1962 lo scandagliano sonde russe, europee e americane. La russa Venera 9 è arrivata al suolo e, sopravvissuta qualche secondo, ha trasmesso l’immagine di un ambiente pietroso e rosso. Altre con i radar hanno «fotografato» i 167 vulcani del pianeta, alcuni ritenuti ancora attivi e responsabili dei numerosi fulmini registrati.
La sorte di Venere, «stella mattino», è segnata. Ma Hawking è pessimista anche verso il nostro «pianeta azzurro». «La Terra ha i giorni contati — dice — per il comportamento degli uomini». E aggiunge: «La migliore speranza per la sopravvivenza della specie umana può essere la costruzione di colonie indipendenti nello spazio».


Repubblica 5.7.17
“Non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria”, sosteneva il poeta
Ecco svelata la sua relazione controversa con i numeri
Leopardi bocciato all esame di matematica
di Piergiorgio Odifreddi

L’unico aspetto degno di nota è l’adesione al sistema copernicano: non scontata in casa sua Nello “Zibaldone” disseminò numerosi fraintendimenti sugli aspetti scientifici

Come i nostri maturandi negli ultimi giorni, anche il giovane Giacomo Leopardi veniva sottoposto a esami pubblici, benché a scuola non ci andasse. A occuparsi dell’educazione sua e dei suoi fratelli ci pensava infatti il loro padre, che era una specie di alter ego di Leopold Mozart. Era lui a scegliere i precettori: preti, visto che disdegnava le scuole pubbliche e laiche delle Marche, da poco uscite dallo Stato della Chiesa. Era lui a redigere personalmente alcuni dei loro libri di testo: ad esempio, l’”Aritmetica semplice e complessa,
scritta da me medesimo Monaldo Leopardi nell’istruire mio figlio Luigi”. Ed era lui a organizzare gli esami semestrali, da tenere in latino, agli inizi e a metà dell’anno solare, di fronte a un pubblico selezionato di parenti e amici della famiglia.
Ci sono rimasti i testi degli scritti: in particolare quelli dell’8 febbraio 1810, quando Giacomo aveva dodici anni. L’esame di matematica, unica prova sostenuta in lingua italiana, consistette di 14 esercizi di aritmetica e 30 di geometria, per nulla banali. Ad esempio, si chiedeva di dimostrare i teoremi di Talete e di Pitagora, e il criterio di uguaglianza di due triangoli aventi due lati e l’angolo compreso uguali: quest’ultimo, ovviamente, con una dimostrazione fasulla, visto che oggi il criterio viene considerato indimostrabile, e si assume semplicemente come assioma.
Giacomo diede il suo ultimo esame il 20 luglio 1812, dopo di che il suo precettore dichiarò che “non aveva più altro da insegnargli”. Da quel momento egli proseguì gli studi per conto proprio, attingendo alla fornita biblioteca di famiglia. L’anno dopo, a quindici anni, scrisse una voluminosa Storia dell’astronomia, che viene spesso citata con ammirazione per la sua erudizione, benché sia solo una pedante e noiosa compilazione dei molti testi di seconda mano che il ragazzo aveva consultato, dimostrando di leggere troppo per la sua età, e male per le sue attitudini. L’unico aspetto degno di nota è l’adesione del giovane al sistema copernicano: posizione allora ormai pacifica fuori dello Stato della Chiesa, ma non scontata dentro casa Leopardi, dove il conte rimaneva invece testardamente fermo a “Ptolomeo”.
In realtà la biblioteca di Recanati conteneva, tra i suoi 20.000 volumi, anche le opere di Galileo e Newton, oltre ad alcune collezioni di articoli originali dei maggiori scienziati, e un’antologia delle voci scientifiche dell’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert, ma nessuna di queste fonti era abbordabile senza una preparazione specifica che né il conte, né i precettori avevano potuto offrire al futuro poeta. E se la sua insufficiente cultura scientifica e matematica gli bastò per alcune delle Operette morali, dal “Dialogo della Terra e della Luna” (1824) al “Copernico” (1827), fu però la causa di molti dei fraintendimenti che egli disseminò nello Zibaldone, “precipitandosi dove gli angeli temono di avventurarsi”.
Il primo di questi fraintendimenti è la supposta contrapposizione tra matematica e poesia. Un Leopardi dai sottotoni razzisti la fa addirittura risalire alla “immaginazione primitiva dei settentrionali, fondata sul pensiero, sulle astrazioni, sulle scienze, sulla cognizione delle cose, sui dati esatti”: tutte cose che avrebbero appunto “piuttosto a che fare colla matematica sublime che con la poesia”, evidente monopolio dei meridionali (276). L’osservazione è non solo balzana, ma anche ignara del fatto che nell’India classica, ad esempio, la matematica non solo era alla base della prosodia sanscrita, ma veniva essa stessa espressa in forma poetica e metrica, rendendo indistinguibili fra loro le due attività.
In ogni caso Ezra Pound, che di queste cose se ne intendeva almeno quanto Leopardi, ha definito nell’ABC del leggere (1934) la poesia come “linguaggio carico di significato al massimo grado”. E, pur con tutto il rispetto per i versi dei poeti, sarebbe difficile immaginare espressioni più dense di significati delle formule dei matematici: ad esempio, la famosa E=mc², che in soli cinque simboli esprime quell’equivalenza tra energia e massa che costituisce una delle maggiori scoperte della fisica del Novecento, e nasconde il segreto dell’energia nucleare pacifica e bellica.
Un secondo fraintendimento di Leopardi è la supposta contrapposizione fra matematica e natura. Secondo lui, infatti, “le circoscrizioni, le esattezze, le strettezze, le sottigliezze, le dialettiche, le matematiche non sono in natura, e non devono entrare nella considerazione dell’ordine naturale, perché la natura effettivamente non le ha seguite” (582). E “dovunque ha luogo la perfezione matematica, ha luogo una discordanza dalla natura e dall’ordine primitivo delle cose” (583). Solo chi non ha mai aperto i libri di Galileo e di Newton che il conte Leopardi teneva inutilmente in biblioteca, può rivelare una tale ignoranza dei loro contenuti. Soprattutto se la ribadisce con affermazioni quali “non c’è cosa più nemica della natura che l’arida geometria: le toglie tutta la grazia, la forza e robustezza ed efficacia” (48).
Eppure, la pagina più famosa di Galileo è forse quella del Saggiatore (1623) che dice: “La filosofia naturale è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi, io dico l’universo, ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua e conoscer i caratteri nei quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola: senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto”.
A questo punto non stupisce che, per esemplificare un suo terzo fraintendimento, sulla supposta contrapposizione fra matematica ed eleganza, Leopardi guardi proprio a Galileo: “La precisione moderna, che è estrema, e che oggi si ricerca sopra tutte le qualità, è assolutamente di sua natura incompatibile con l’eleganza. Bensì è compatibilissima con la purità, come si può vedere in Galileo, che dovunque è preciso e matematico quivi non è mai elegante, ma sempre purissimo” (2013).
In ogni caso Italo Calvino, che conosceva Galileo almeno quanto Leopardi, ha dichiarato nel 1967 che “il più grande scrittore italiano” era proprio lui: Galileo, cioè, non Leopardi! Anche se, vista la citazione precedente, forse si sbagliava quando credette di aver individuato una linea di forza nella letteratura italiana che, partendo dall’Ariosto e passando per Galileo, arrivava appunto a Leopardi. E, aggiungeremmo noi oggi, approdava a Calvino stesso.
Un ultimo fraintendimento di Leopardi riguarda la supposta contrapposizione fra matematica e piacere, perché “la matematica misura quando il piacer nostro non vuol misura, definisce e circoscrive quando il piacer nostro non vuol confini, analizza quando il piacer nostro non vuole analisi: la matematica, dico, dev’essere necessariamente l’opposto del piacere” (247). La stessa cosa avrebbe potuto dire della musica, se gli fosse stata insegnata male come gli fu insegnata matematica: cioè, nella maniera arida, pedante e accademica che troppo spesso ancor oggi caratterizza i conservatori e le scuole, e che fa degli italiani, settentrionali e meridionali che siano, un popolo di analfabeti musicali e matematici.
Che dire infine dell’infinito, al quale il poeta dedicò la sua poesia più famosa? Paradossalmente, per Leopardi è “un’illusione naturale della fantasia” (4292), “un parto della nostra immaginazione, della nostra piccolezza e della nostra superbia” (4177), “un’idea, un sogno, non una realtà”. Addirittura, “solamente quello che non esiste, la negazione dell’essere, il niente, può essere senza limiti, e l’infinito viene in sostanza a esser lo stesso che il nulla” (4178).
Questi non erano fraintendimenti, però, perché dall’antichità all’Ottocento anche i matematici hanno pensato che l’infinito non esistesse. Ma oggi sono anacronismi, perché dalla fine dell’Ottocento viviamo nel “paradiso dell’infinito che Georg Cantor ha creato per noi”. È un paradiso costituito di interminati spazi e sovrumane quantità, ma in esso il cuore del matematico non si spaura. Anzi, in questa infinità si annega il suo pensiero, e il naufragar gli è dolce in questo mare.