giovedì 6 luglio 2017

SULLA STAMPA DI GIOVEDI 6 LUGLIO


il manifesto 6.7.17
Tra Renzi e Recalcati il nodo non si scioglie
Per lo psicoanalista «seducente» Massimo Recalcati, Renzi è un oggetto significante performante di desideri.
di Giovanni De Plato

Per lo psicoanalista «seducente» Massimo Recalcati, Renzi è un oggetto significante performante di desideri.
Per il segretario del Pd Matteo Renzi, Recalcati è un fine dicitore di miti e metafore che colpiscono i cuori e abbagliano le menti. Subito hanno capito che erano fatti l’uno per l’altro. Che potevano costituire una coppia aspirante: l’uno alla presidenza del Consiglio, l’altro a essere il profeta del Padre amor.
Su queste idee poco parallele i due si sono accorti di essere molto convergenti.
Renzi, non ha perso tempo, ha invitato l’immaginifico filosofo alla Leopolda. E Recalcati, grato della beatificazione laica, ha portato in dono al machiavellico leader una sorprendente proposta. Dare vita a una Scuola di formazione quadri, non di psicoterapeuti ma di politici.
Detto, fatto, entrambi per dare prestigio alla loro creatura hanno voluto darle il nome di «Pier Paolo Pasolini». Il poeta-scrittore-regista si è visto così, ancora una volta, strumentalizzato sul disconoscimento del suo essere un combattente e un rivoluzionario. la Scuola ha già ospitato il primo corso, dove il docente Renzi insegna il Riformismo (del giglio magico) e l’accademico Recalcati la Psicologia delle masse (in attesa del padre).
Cosa dire? Della Scuola è meglio lasciare ogni considerazione. Di un qualche interesse, forse, potrebbe essere il problema di come i due affrontano, l’uno come politico e l’altro come psicoanalista, la relazione conflittuale padre-figlio.
Partiamo da Recalcati. A suo dire sono due le chiavi di lettura.
La prima risponde al paradigma freudiano del complesso di Edipo. Dove padre e figlio si sfidano in un rapporto simmetrico. Edipo è destinato a uccidere il padre se vuole emanciparsi e darsi una matura identità sessuale. Laio è destinato, a sua volta, a difendersi a farsi despota per non essere sopraffatto dal figlio sfidante.
La seconda chiave di lettura, sempre a dire di Recalcati, risponde alla parabola evangelica di Luca. Dove in un rapporto, questa volta asimmetrico, il padre dall’alto della sua saggezza concede al figlio la libertà del suo autonomo viaggio e della sua autentica esplorazione.
Arriviamo a Renzi. Il segretario del Pd sa bene che fin da piccolo ha avuto a che fare con un padre che si mostrava una presenza disorientante, tanto da obbligare il figlio adulto a invocare «stai calmo», di fermarsi e di dire se interrogato la verità, quella vera e non quella della recita paesana. Lui, Matteo, è convinto che da piccolo non è stato mai Edipo e suo padre anche a tarda età non sa essere assolutamente Luca.
Il dialogo tra Recalcati e Renzi sulla relazione padre-figlio e le sue implicazioni psicologiche e politiche rimane incomprensibile. Forse, invece di istituire una Scuola quadri per i giovani della sinistra, dovrebbero andare entrambi a scuola in materia di dialogo, d’incontro per riuscire ad apprendere il valore sostanziale e non simbolico delle diverse forme di attaccamento genitore-figlio e di comunicazione (non verbale-empatica-verbale) adulto-bambino.
A questo punto se si vuole dare un minimo di dignità alla collaborazione tra Renzi e Recalcati occorre spostare il discorso sul piano politico.
Qui i due sono più coerenti e in sintonia. Entrambi sono convinti che il problema vero della crisi del Paese è secondo Renzi la mancanza di una moderna leadership politica e secondo Recalcati l’assenza di un Padre auterevole.
Questi due deficit secondo loro generano una massa di adulti immaturi, smarriti, sbandati e incoscienti, che istintivamente sono portati a disaffezione, protesta, all’antipolitica, al rifiuto dell’autorità. Un Padre assente e un leader mancante sono individuati come la causa di quella moltitudine di cittadini accecati dall’individualismo, dissociati dalla reltà, senza valori e privi di orientamento, un popolo di qualunquisti o assenteisti.
A questi mali, Renzi e Recalcati individuano un solo rimedio: occorre una Autorità che per essere forte, come richiede la crisi, deve centralizzare i poteri e un Leader che per essere autorevole deve accorpare i comandi in una persona.
Per nostra fortuna le persone sanno che la crisi è ben altra, è di natura finanziaria, economica e sociale indotta da una globalizzazione senza regole e senza un minimo di governance.
Il Pd se vuole continuare a perdere consenso e credibilità si affidi pure al duo Renzi-Recalcati.

Repubblica 6.7.17
L’intervista. Il giurista Vladimiro Zagrebelsky
Si alla legge, ora la tortura è reato
“Niente da festeggiare il risultato è un pasticcio”
“In norme del genere ogni parola deve avere un peso specifico e in questo caso non è così”
di Annalisa Cuzzocrea

ROMA. Vladimiro Zagrebelsky è stato giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo e dice scorato che no, quello raggiunto ieri in Parlamento non è un traguardo da festeggiare.
Cosa pensa della legge sulla tortura che il Parlamento è finalmente riuscito a varare?
«Ho sentito espressioni di soddisfazione e quasi di orgoglio che ho trovato fuori luogo. Questa legge è stata approvata dopo trent’anni dall’impegno che l’Italia si era assunta ratificando la Convenzione dell’Onu contro la tortura. Nel frattempo, i giudici italiani e quelli internazionali hanno più volte identificato nel nostro Paese delitti di tortura che non sono stati puniti».
Il problema è il ritardo o anche il merito? «Il risultato è un pasticcio. La redazione della norma è tecnicamente criticabile, il che vuol dire che sarà difficile applicarla».
Perché?
«Quando si dice che si ha tortura in presenza di “più condotte”, c’è il primo problema. Ma quell’articolo continua parlando di “trattamento inumano e degradante per la persona”, un elemento alternativo alla pluralità di condotte di cui non si capisce il senso, il che quando si scrive una legge penale è profondamente sbagliato. Possono violenze gravi, crudeltà, acute sofferenze che costituiscono tortura non essere inumane e degradanti?».
Ci sono altri punti controversi?
«Purtroppo sì. Si parla di tortura “quando la vittima è persona privata della libertà personale affidata alla custodia di qualcuno”, ma nel caso del G8 - alla scuola Diaz - le persone torturate non erano private della libertà o affidate alla custodia della polizia. Con il paradosso che questa legge potrebbe risultare inapplicabile proprio per il caso per cui la Corte europea ci ha condannati. E poi c’è un comma che dice che il delitto non si applica quando le sofferenze risultano unicamente dall’esecuzione di “legittime misure privative di diritti”. Ma quali legittime misure possono comportare violenze, crudeltà, acute sofferenze? ».
Perché l’Italia è così in ritardo?
«È difficile dire quali siano le ragioni storiche, ma per questo Parlamento c’era una via molto semplice: riprodurre la definizione che era nella convenzione dell’Onu che si dice di voler attuare».
Si sono fatti troppi compromessi?
«I lavori preparatori che hanno portato a questo testo hanno visto un rimpallo tra Camera e Senato durato anni. A Palazzo Madama per ben due anni non si era trovato l’accordo. Ci sono state resistenze enormi e messaggi lanciati alle basi di riferimento dei vari partiti ».
Il centrodestra rivendica di aver protetto le forze dell’ordine.
«È un’argomentazione assurda dire che con il solo ipotizzare l’esistenza di atti di tortura si offendano le forze dell’ordine. Se questi casi ci sono - e in Italia ce ne sono stati - l’onore delle forze dell’ordine si dovrebbe difendere espellendo i responsabili».
Ilaria Cucchi ha detto che il nostro Paese ha paura di una vera legge sulla tortura.
«Non so se paura sia la parola giusta. So che in Parlamento c’è chi non voleva questa legge e ha lavorato per affossarla, fino a far venire fuori questo pasticcio».
Meglio una cattiva legge che nessuna?
«A livello europeo, come ha rilevato il commissario ai diritti umani del Consiglio d’Europa, questa legge è insufficiente. Bisogna vedere come potrà essere applicata. Le sentenze, nei casi concreti, potranno essere valutate dalla Corte europea dei diritti umani che dirà se l’Italia continui a violare il divieto di tortura ».

Il Fatto 6.7.17
Tortura, passa la legge “salva forze di polizia”
Guanto di velluto - Anche la Corte europea, che aveva condannato l’Italia per la violenza al G8 di Genova, ha criticato le nuove norme
Tortura, passa la legge “salva forze di polizia”
di Gianluca Roselli

Il reato di tortura è ufficialmente inserito nell’ordinamento giuridico italiano. La legge è passata in quarta lettura ieri alla Camera con 198 voti a favore, 35 contrari e 104 astenuti. I numeri della votazione fotografano una norma che non ha convinto molte delle forze presenti in Parlamento. Il testo, infatti, passa per il sì di Pd e Ap, mentre Mdp, partito di maggioranza, si è astenuto insieme a Sc, M5S e Sinistra italiana. L’introduzione del nuovo reato prevede pene severe, con la reclusione da 4 a 10 anni, che aumentano fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un appartenente alle forze dell’ordine (tutti quindi possono essere accusati per questo reato, non solo i soggetti in divisa).
Il cammino della legge è stato assai accidentato e ci sono voluti quattro anni e altrettanti passaggi parlamentari perché il provvedimento vedesse la luce. Il testo è la sintesi di diverse proposte di legge: si è partiti nel luglio 2013 in Senato per arrivare alla Camera nell’aprile 2015, per poi tornare nuovamente a Palazzo Madama, da cui è stato licenziato il 17 maggio scorso, e infine di nuovo a Montecitorio. Un testo controverso cui il suo principale ispiratore, Luigi Manconi (Pd), ha voltato le spalle in corso d’opera perché “è stato completamente stravolto rispetto all’intento iniziale”. La maggiore critica riguarda proprio l’articolo 1 secondo cui “chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà o affidata alla sua custodia (…) è punito con la reclusione da 4 a 10 anni”. I critici da sinistra, come Manconi, sostengono che i traumi psichici possono manifestarsi anche dopo anni, quindi siano difficili da dimostrare. La legge, inoltre, dice che “il fatto deve essere commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona”. L’azione, dunque, deve essere “reiterata”. Ma anche questo suscita perplessità. Il casus belli è il G8 di Genova e l’irruzione alla Diaz nel 2001. Quell’azione, accaduta soltanto quella sera, secondo gli stessi magistrati che hanno seguito il caso, con la nuova norma non si configurerebbe come tortura. “Non è vero”, ha risposto in Aula il piddino Walter Verini, “i fatti di Genova rientrebbero in questa fattispecie di reato e sarebbero severamente puniti. Questa legge è un passo nella direzione giusta”.
Il testo è stato definito “impresentabile” pure da Amnesty International e Antigone. “La norma è inapplicabile. Limitare la tortura ai soli comportamenti reiterati e relativi anche a fatti psichici è assurdo per chiunque abbia conoscenza del fenomeno”, dicono. Aggiungendo che “la volontà di proteggere gli appartenenti delle forze dell’ordine è venuta prima dell’intenzione di fare una buona legge”.
Il cammino del testo nel 2015 si stava quasi arenando e ci è voluta la condanna all’Italia da parte della Corteo europea dei diritti umani di Strasburgo, proprio per i fatti di Genova, a far riprendere il cammino. Ma la stessa Corte negli ultimi giorni ha espresso critiche su questo testo, invitando il Parlamento italiano a modificarlo.
Da destra, invece, le critiche vanno in senso opposto: Lega, Forza Italia e Fdi hanno votato contro perché ritendono questa legge punitiva nei confronti delle forze dell’ordine. “Siamo di fronte a un suicidio assistito delle indagini. C’è il rischio di denunce strumentali nei confronti delle forze dell’ordine”, ha affermato in Aula il forzista Paolo Sisto. “È un’infamia voluta dal Pd per criminalizzare le forze dell’ordine”, afferma Giorgia Meloni. “Dal Parlamento esce un testo gattopardesco”, osserva invece Daniele Farina di Sinistra italiana. “Sono stati messi troppi paletti che renderanno difficile l’accertamento del reato oltre ogni dubbio”, sottolinea Vittorio Ferraresi dei 5 Stelle.
Pur avendo ratificato nel 1989 la convenzione dell’Onu contro la tortura, l’Italia finora non si era mai dotata di una legge specifica, al contrario di altri Paesi europei. Il testo approvato ieri prevede anche che un soggetto non possa essere estradato verso un Paese dove si pratica la tortura, mentre le dichiarazioni estorte con metodi violenti non saranno utilizzabili in un processo.

il manifesto 6.7-17
La tortura c’è
Tortura all’italiana
Giustizia. Finalmente il reato entra nel codice, ma la legge è debole. Con soli i voti di mezzo Pd, la camera approva definitivamente un testo che annacqua i principi della Convenzione Onu e sarà difficile da applicare
di Andrea Fabozzi

ROMA Meno di duecento voti favorevoli (198), vale a dire meno di un terzo della camera dei deputati, sono bastati ieri sera a far entrare con trent’anni di ritardo il reato di tortura nel codice penale italiano. La ragione di tanto scarso entusiasmo è che la legge delude quasi tutte le attese, tanto da essere stata criticata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, dal Consiglio d’Europa, da una lunga schiera di giuristi e persino dai magistrati che hanno portato in tribunale le forze dell’ordine per le violenze del G8 di Genova. La «informe creatura giuridica» approvata ieri (secondo la definizione di uno dei tanti appelli al parlamento perché correggesse la legge, tutti inascoltati) secondo i giudici genovesi non sarebbe stata applicabile neanche alla «macelleria messicana» della scuola Diaz.
Di fronte a un testo del genere, frutto di successivi compromessi al ribasso voluti dal Pd, soprattutto nell’ultimo passaggio al senato durato due anni, i sostenitori dell’introduzione del reato di tortura fuori dal parlamento si sono divisi tra chi apprezza comunque il passo in avanti (Amnesty Italia) e chi lo ritiene al contrario un passo falso, controproducente (A buon diritto, associazione Cucchi, comitato verità e giustizia per Genova). In parlamento ha votato a favore praticamente solo il Pd (gli alfaniani di Ap in teoria erano della partita, ma si sono presentati solo in 4 su 24); i democratici hanno registrato comunque il 40% di assenze. Segno di un forte malcontento, espresso giorni fa in un’intervista dal presidente del partito Orfini – «legge inutile, meglio non approvarla» – e in aula solo dalla deputata Giuditta Pini. Si sono astenuti i 5 Stelle, che tendono a vedere il bicchiere mezzo pieno, e infatti al senato sull’identico testo avevano votato a favore, Mdp che parla di «legge debole», i centristi di maggioranza del gruppo Civici e innovatori e anche Sinistra italiana che è assai più critica: «Abbiamo confezionato il reato impossibile per il retropensiero di alcuni che in questi tempi di terrorismo un po’ di tortura possa tornare utile», ha detto il deputato Daniele Farina. Mentre è noto che il senatore del Pd Luigi Manconi, che ha presentato il progetto di legge originario nel primo giorno della legislatura, ha parlato di un provvedimento «completamente stravolto». Contraria tutta la destra, che vede nella legge una minaccia alla libertà di azione delle forze di polizia. Con argomenti come quelli del «fratello d’Italia» Cirielli: «Il poliziotto che di fronte a uno stupratore o a un autonomo perde la pazienza e lascia partire qualche schiaffo o qualche calcio rischia più dei delinquenti».
Difficile però che si possa applicare a casi del genere – «meno di un occhio pesto», per citare sempre Cirielli – il reato di tortura. Perché così com’è stato approvato definitivamente ieri non è più un reato proprio del pubblico ufficiale ma un «delitto comune» che può essere compiuto da chiunque si trovi nelle condizioni di esercitare «vigilanza, controllo, cura o assistenza» nei confronti della vittima. È forse la peggiore novità imposta nel passaggio in senato, rispetto al testo già approvato dalla camera nel 2015.
Le altre, tutte negative, sono la previsione che le violenze e le minacce debbano essere «gravi» (un po’ come dovevano essere «particolarmente efferate» le sevizie escluse dall’amnistia del ’46) «ovvero agendo con crudeltà», una circostanza difficile da dimostrare per i pm. Perché si verifichi tortura è adesso richiesto che siano commesse «più condotte», sembrerebbe cioè non bastare un singolo episodio e neanche un episodio reiterato della stessa natura. L’azione del pubblico ufficiale è adesso sempre giustificata «nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure limitative di diritti». Infine è necessario che l’azione del torturatore cagioni sulla vittima «un verificabile trauma psichico», sempre difficile da provare soprattutto a distanza dai fatti (quando in genere si arriva al processo).
Le pene sono alte, al massimo dieci anni aumentati a dodici nel caso in cui l’autore sia un pubblico ufficiale, ma la prescrizione non è del tutto scongiurata. Mentre è addirittura prevista la pena fissa, solo massima, di trent’anni e dell’ergastolo nel caso in cui dalla tortura derivi la morte, accidentale o intenzionale. «Tutti questi requisiti rendono difficile l’applicazione della nuova norma», ha spiegato il presidente della prima commissione, il centrista Mazziotti.
D’altra parte nella legge è rimasto il divieto di espulsione dello straniero quando ci sono fondati motivi di ritenere che rischi di essere torturato, anche sulla base delle violazioni sistematiche dei diritti umani nel suo stato di origine. Ma 33 anni dopo la Convenzione dell’Onu e 29 anni dopo la legge italiana che la recepiva (al governo c’era Ciricaco De Mita)  il nostro paese per adottare il reato di tortura ha avuto bisogno di snaturarlo.

il manifesto 6.7.17
Non basta che sia nel codice
di Patrizio Gonnella

In Italia da oggi la tortura è reato. C’è voluto un dibattito parlamentare lungo quasi trent’anni per produrre una legge definita di compromesso dal deputato del Pd Franco Vazio, relatore del provvedimento. Ma si può accettare o siglare un compromesso su un crimine contro l’umanità?
Il dibattito parlamentare è stato per lunghi tratti triste, incolto, illiberale, ricco di opposizioni pretestuose. Nel nome delle mani libere delle forze dell’ordine si è cercato di renderle immuni da responsabilità. Governi di destra e di sinistra hanno in passato detto no alla tortura. Oggi c’è un reato ad hoc.
Retroguardie culturali hanno condizionato il dibattito pubblico contribuendo a produrre una legge criptica, non rispondente alla definizione presente nella Convenzione Onu contro la Tortura del lontano 1984.
In vari punti la legge approvata ieri è di difficile digeribilità: la previsione della pluralità delle condotte violente affinché vi sia la configurabilità del delitto, il riferimento espresso alla condizione della «verificabilità» del trauma psichico. Un tentativo pacchiano di restringere l’area della punibilità del presunto torturatore. E poi non sono stati previsti tempi straordinari di prescrizione come un crimine di tale tipo richiede. Ed è stata prevista la pena dell’ergastolo contro cui si siamo sempre battuti e ci batteremo sempre.
Era il 10 dicembre del 1998 quando Antigone elaborò la sua prima proposta di legge, fedele al testo delle Nazioni Unite. Non abbiamo mai abbandonato la nostra pressione pubblica e politica su questo tema. Siamo andati davanti a giudici nazionali, europei, organismi internazionali a segnalare questa lacuna gravissima nel nostro ordinamento giuridico. Il manifesto è stato sempre al nostro fianco. Nel tempo i governi che si sono succeduti hanno usato le più svariate strategie di risposta: dilatorie, apertamente oppositive, falsamente disponibili.
Da ieri comunque abbiamo una legge che incrimina la tortura. Possiamo da oggi nelle Corti chiedere che un pubblico ufficiale sia incriminato non per lesioni o abusi vari o maltrattamenti in famiglia (come è accaduto ad Asti) ma per tortura. Purtroppo il delitto è configurato in modo a dir poco arzigogolato. È definito come un delitto generico, ossia che può essere commesso anche da un cittadino comune e non solo da un pubblico ufficiale. Per noi la tortura, nonostante la divergente previsione normativa, è e resta invece un delitto proprio, ossia un delitto che, come ci tramanda il diritto internazionale pattizio e consuetudinario, non può che essere un delitto dei pubblici ufficiali. Da domani il nostro lavoro sarà quello di sempre: nelle ipotesi di segnalazioni di casi che per noi costituiscono «tortura» ci impegneremo affinché la legge sia applicata davanti ai giudici nazionali. E se questi dovessero latitare – un po’ dipende anche da loro, così come dagli avvocati, rendere quella fattispecie operativa – andremo davanti alle Corti internazionali.
Uno sguardo va rivolto alle altre parti della legge ugualmente importanti le quali riguardano la non espulsione di persone che rischiano la tortura nel paese di provenienza e l’estradizione di cittadini stranieri accusati di tortura e attualmente residenti nel nostro paese. Qualora applicate in sede giurisdizionale con ragionevolezza e spirito democratico tali norme potranno salvare molte vite da un lato e rompere il circolo vizioso della impunità dei torturatori di Stato dall’altro.
Nessuno è però così ingenuo dal pensare che ottenuta la legge, buona o brutta che sia, la tortura sarà di conseguenza definitivamente eliminata dalle nostre prigioni, dalle nostre caserme, dai nostri centri per migranti, dalle nostre strade.
Il reato è una condizione necessaria ma non sufficiente per mettere al bando la tortura. È necessario che vi sia un cambio di paradigma che porti la dignità umana al centro delle nostre politiche di sicurezza.

Corriere 6.7.17
Le lotte fratricide a sinistra
di Paolo Mieli

Oggi si riunisce la direzione del Pde riprende la navigazione della sinistra italiana verso l’ignoto. La rotta indicata dal nocchiero Matteo Renzi non è chiara; il bastimentoha recentemente urtatocontro qualche scoglio e, il 4 dicembre scorso, contro un iceberg, ma è ancora a galla. La ciurma rumoreggia com’è avvezza a fare ormai da decenni. Alcuni tra gli ufficiali in seconda appaiono deditiad organizzare (ognuno per conto proprio) la prossima sedizione. Forse Dario Franceschini e Andrea Orlando, gli ultimi ad aver lanciato la sfida al capitano, nella giornata di oggi fingeranno di riappacificarsi con lui. Ma si tratterà, appunto, di una finzione, di una sosta lungo un itinerario che è già segnato. E che conduce all’ennesima rivolta. Come fu del resto per i loro predecessori, tutti, nessuno escluso. È il destino di questo partito: non fa in tempo a subire una defezione che c’è già qualcuno pronto a prendere il posto di coloroche se ne sono andati. Raccogliendone le bandieree facendone proprie le argomentazioni. Anche a costo di entrare in palese conflitto con quel che i nuovi riottosi avevano fatto e sostenuto fino a qualche ora prima. Ai fuorusciti non tocca miglior sorte: le acque in cui si trasferiscono con le loro scialuppe appaiono tutt’altro che tranquille. Dopo un po’ salgono su nuovi bastimentiin cui c’è un’atmosfera strana: quelli che non si erano mai imbarcati sulla nave da cui loro provengono non sembrano entusiasti — eccezion fatta per i più cinici — all’idea di accogliere a braccia aperte coloro che sene sono allontanati nella penultima e nell’ultima ora.
I nevitabile che il tema maggiormente dibattuto sia: fu giusto salire sulla imbarcazione renziana? E quand’è che fu chiaro che la si doveva abbandonare? Come mai alcuni lo capirono prima, altri ci misero mesi e altri ancora anni? Per quali motivi gran parte degli sbarcati — che pure adesso sostengono essere stata la navigazione funesta fin dall’inizio — sono rimasti a bordo fino a pochissimo tempo fa? È giusto, infine, che chi è sceso per ultimo venga messo a capo di coloro che se ne andarono precedentemente? Chi lo ha deciso? Ed è, oltretutto, una discussione tutt’altro che serena. Si svolge, anzi, all’insegna di un termine che sempre più ricorre in cronache e commenti: «odio».
Tempo fa, alla vigilia delle elezioni francesi, Marc Lazar osservava come i dissidi che dividevano le sinistre francesi, benché non fondati su corpus dottrinari definiti come ai tempi del comunismo, provocavano «antagonismi sempre più virulenti» che a volte degeneravano «in espressioni di vero e proprio odio reciproco». La sinistra e non solo quella parigina, gli appariva «impegolata nei suoi conflitti interni e nelle sue rivalità di leadership» al punto da renderla «incapace di comprendere la portata delle mutazioni in atto e le enormi sfide che gravano sulle nostre democrazie». Anche Emanuele Macaluso — grande vecchio del comunismo italiano che non ha mai avuto grande simpatia per l’attuale segretario Pd — di recente ha accantonato il dilemma «Renzi Sì-Renzi No» per soffermarsi su una questione più generale. Si è detto colpito, Macaluso, dall’«eterna» riproposizione dell’«odio a sinistra». Non ha avuto remore a definirla una «disgrazia storica», addirittura un «male incurabile». Anche perché, notava, l’800 è finito, se n’è andato pure il 900, non ci sono più né il socialismo, né il comunismo «con le loro lunghe lotte fratricide», eppure «la pulsione suicida di farsi la guerra a sinistra perdura come se niente fosse». È una pulsione che viene da lontano, da tempi, forse, assai remoti in cui la politica come la conosciamo oggi non esisteva nemmeno. Ma remoti quanto? Impossibile rispondere con una data. Forse ci può aiutare solo la mitologia greca.
Qualche giorno fa, Gianni Cuperlo, tra i più colti della combriccola ex Pci, ha messo in guardia i propri compagni dal rischio di «fare la parte dei proci a Itaca». Strana evocazione. Inconsueta. Poco lusinghiera, già nelle premesse, nei confronti dei suoi sodali. L’avvertimento era rivolto, presumibilmente, a coloro che militano dentro e fuori dal Pd per metterli in guardia dal rischio di farsi trascinare in un’ecatombe simile a quella che ha reso celebre il XXII canto dell’ Odissea . È da escludere che Cuperlo intendesse proporre una sovrapposizione tra la figura di Renzi e quella di Ulisse. Ed è anche improbabile che volesse suggerire una qualche analogia tra i nobili pretendenti alla mano di Penelope e coloro che vorrebbero detronizzare il segretario del partito testé rieletto dal congresso. Per quanto, come numero (108) siamo lì. Possibile invece che Cuperlo volesse alludere al clima che, a detta di Omero, si respirava nella reggia di Itaca prima, durante e dopo la strage: i rampolli della nobiltà locale si mostravano in pubblico pensosi del futuro dell’isola, ma in privato elaboravano complicati disegni per la presa del potere abbandonandosi nel contempo a baccanali e a festosi consessi. Non avevano, i proci, un leader riconosciuto, a meno che non si consideri tale Antinoo che era soltanto il più irriducibile, il più deciso a togliere di mezzo financo Telemaco, l’erede dinastico e che sarebbe stato il primo ad essere trafitto da una freccia di Odisseo. Il quale Odisseo — ed è un passaggio importante dell’intera vicenda — rinuncerà, persino nei momenti di maggior difficoltà, a stringere accordi con i proci apparentemente più duttili (non scenderà a patti neanche con Eurimaco che, dopo l’uccisione di Antinoo, gli aveva proposto una pace accompagnata da un considerevole indennizzo). E si darà la forza di combattere da solo, tenendo con sé esclusivamente il figlio e due servi fedeli. Il trattativista Eurimaco sarà il secondo dei proci a soccombere; poi, uno a uno, verranno uccisi tutti gli altri. Dopo la carneficina giungerà il tempo del lieto ricongiungimento tra Ulisse e Penelope. Un tempo che lì per lì poteva apparire definitivo ma che invece sarà brevissimo: i parenti dei proci uccisi cercheranno subito una rivincita armata che Ulisse (ora, nel XXIV e ultimo canto, in compagnia del padre Laerte) si mostrerà ben lieto di concedere. Stavolta però sarà Atena, con una saetta di Zeus, ad impedire lo svolgimento della nuova, ennesima, sanguinosa tenzone. E a chiudere lì questa storia di odi e di vendette.
Ripetiamo: siamo certi che Cuperlo non volesse proporre un’equiparazione tra la figura di Renzi e quella di Ulisse, accostamento che, tra l’altro, a dispetto degli intendimenti cuperliani, sarebbe stato oltremodo lusinghiero per il politico di Rignano. Ma siamo altresì convinti che il paragone venuto in mente a colui che sfidò Renzi nelle primarie del dicembre 2013, ci dica qualcosa — perfino al di là delle intenzioni — in merito all’aria che traspira dalla dimora del centrosinistra e dagli ambienti che la circondano. Laddove l’unica speranza rimasta a chi auspica la fine delle lotte fratricide che spaventano Macaluso e Lazar sembra essere che Zeus e Atena non si distraggano come hanno fatto per circa tremila anni dopo quei giorni di Itaca. E decidano di intervenire una seconda volta.

Corriere 6.7.17
Le occasioni perse della Polonia, il «quinto grande» che manca alla Ue
di Antonio Armellini

Le architetture ultramoderne oscurano a Varsavia la mole «socialista» del Palazzo della Cultura; a Cracovia l’assalto dei turisti fa il paio con quello di Praga. L’impronta mitteleuropea dei palazzi risorti dalle macerie convive con la cacofonia della globalizzazione. L’Ambasciatore Alessandro de Pedys fa notare che gli investimenti italiani in Polonia sono maggiori che in Russia. Appena fuori dai centri rinnovati tuttavia, ricompaiono i caseggiati popolari tirati su in fretta negli anni Cinquanta: hanno mantenuto il grigiore dimesso di un tempo e sono la metafora di un Paese in crescita vorticosa e profondamente diviso sul senso della sua ritrovata identità.
La Polonia potrebbe essere il «quinto grande» della Ue, in grado di riequilibrare la proiezione tedesca verso Est, e il brusco cambio di rotta nei confronti di Bruxelles ha il sapore di un’occasione perduta. Jaroslaw Kaczynski — l’uomo forte dietro il governo del PiS — usa abilmente la contrapposizione sull’Europa per rafforzare un consenso che si fonda sulla divaricazione fra città e campagna, fra vinti e vincitori della globalizzazione e sul misto di intolleranza e irrazionalità insito nell’animo polacco. La Ue è vista soprattutto in termini di costo/beneficio economico e in chiave anti russa. Secondo Adam Bielan, vice Presidente del Senato e del PiS, le «interferenze» della Ue sul ruolo di Donald Tusk e le accuse in materia di libertà di stampa e di prerogative della Corte Costituzionale non fanno che accrescere l’appoggio trasversale al governo. Con lui concorda uno dei padri della nuova Polonia come Adam Michnik, il quale guarda con rassegnata saggezza ad un Paese che avrebbe potuto essere quello per cui aveva lottato e rischia di diventare qualcos'altro.
Kaczynski non è il personaggio rozzo descritto talvolta, bensì un politico consumato. Ha ereditato dal precedente governo — fa notare l’ex premier Marek Belka — un quadro macroeconomico solido che gli consente di continuare in larghezze populiste (come l’assegno di poco più di cento euro mensili a partire dal secondo figlio) e di rinviare il momento in cui la crisi con la Ue comincerà a mordere seriamente, soprattutto in agricoltura. Il 14 per cento del settore assicura la sufficienza alimentare e l’export agricolo del Paese, mentre la restante maggioranza di piccoli produttori inefficienti dipende dai sussidi europei e costituisce un serbatoio elettorale fondamentale per il PiS.
Lo stesso vale per la Chiesa cattolica, che ha subito impotente la rapida secolarizzazione del Paese e si è rifugiata in una ortodossia retriva che ne ha indebolito il ruolo di riferimento morale della nazione. L’alleanza tattica fra la gerarchia cattolica e il governo conviene ad entrambi e consente a quest’ultimo di guadagnare tempo: prima o poi la pressione della Ue — che l’opposizione esorta a non lasciar cadere — avrà il suo effetto e il cambiamento diverrà inevitabile. Forse fra un paio di legislature, dice l’ex presidente della Repubblica Aleksander Kwasniewski, forse prima secondo Michnik. Sempre che, aggiungono, Kaczynski non fiuti per tempo il vento e faccia compiere al PiS una giravolta che spiazzi gli avversari nei giochi con Bruxelles. Wawrzyniec Smoczynski, il quarantenne esponente del think tank Polytika Insight, ha una visione diversa e afferma che lo scontro con Bruxelles è espressione di una politica in attesa di rottamazione, i cui temi non interessano la sua generazione la quale punta a una Polonia nella Ue e — un giorno — anche nell’euro. Perché la verità è che, al di là delle lamentazioni nazionalistiche, la grande maggioranza dei polacchi si vede saldamente dentro la Ue; il paradosso è che, nell’attesa, rischiano di contribuire ad affossarla.

Repubblica 6.7.17
l M5S, che aveva imposto la moda, da tempo ha smesso
Addio al mito della finta trasparenza
Direzione senza diretta anche il Pd chiude l’era dello streaming
La decisione su richiesta di Orfini: “No alle passerelle, dobbiamo parlare tra noi”
di Goffredo De Marchis

ROMA. Bye bye streaming.
Forse addio. Si chiudono le porte della direzione del Pd. Niente diretta oggi da Largo del Nazareno, fine del fragile mito della trasparenza in politica. I dem erano rimasti gli unici a trasmettere in tempo reale su telefonini e pc i lavori dei loro organismi. Gli unici dopo la defezione di Beppe Grillo, sostenitore della casa di vetro agli inizi e poi gelosissimo degli incontri segreti, blindati, lontani dai cittadini indiscreti. Saltano un giro anche i democratici, adesso. Lo ha chiesto Matteo Orfini, che presiede quelle riunioni. Matteo Renzi ha detto sì, stanco di un rito un po’ fasullo. A meno di ripensamenti dell’ultimo minuto, c’è tempo fino a oggi alle 15.
Si torna all’antico, perché lo streaming era diventato una passerella per i dirigenti, «quelli che correvano a mettere il video dell’intervento sulla propria pagina Facebook», dice Orfini, «la diretta serviva a parlare fuori invece dobbiamo parlarci tra di noi».
Gli anni ’70 sono stati quelli della parola scritta, gli ’80 e i ’90 gli anni della televisione, gli anni ’10 del 2000 quelli dello streaming, ovvero del buco della serratura spesso e volentieri senza niente di interessante da vedere. La trasmissione live infatti era diventata una fiera dell’ipocrisia da una parte e una rappresentazione della verità distorta dal mezzo. Il modello Grande fratello funziona così. I reality sono realismo approssimativo e lo streaming politica senza sfumature, senza complessità. In più, come i
reality, la diretta di partito rende tutti un po’ più “brutti” del vero, distanti dal mondo reale proprio quando vorrebbero essergli più vicini. Pier Luigi Bersani si prestò a una brutta figura quando accettò lo streaming dell’incontro con i 5 Stelle per convincerli a fare un governo con lui. Toccò poi a Renzi (per la legge elettorale) accarezzarsi nervosamente la pancia sotto la camicia bianca in diretta mentre Beppe Grillo faceva scattare la trappola dell’aggressione. Alla fine il segretario del Pd recuperò con una battuta: «Esci da questo blog, Beppe».
Ma si può tornare indietro? Non si corre il rischio di una blindatura nel momento in cui si accende il dibattito interno sul futuro del Pd? Piero Fassino si accalora: «Grillo è tornato molto indietro e nessuno gli rimprovera nulla ». All’ex segretario dei Ds la diretta non è mai piaciuta. Diceva sempre, scuola antica, che «le sedi di discussione hanno una loro identità, che si perde completamente quando le apri al pubblico ». Il pubblico del web, poi...
È vero che il Cda di un’azienda si svolge rigorosamente a porte chiuse, ma la politica, dove si parla del bene comune, dev’essere trasparente, senza filtri. «È la rete — urlava a Bologna Beppe Grillo al primo Vaffaday nel 2007 magnificando il blog e lo streaming come forma di partecipazione dal basso — . È un serpente che cambia la muta», qualsiasi cosa intendesse dire. Beh, è durata pochissimo. Il tempo di un paio di riunioni dei parlamentari nel 2013, compresa quella in cui ci fu il primo espulso di una lunga serie, Marino Mastrangeli. Poi sono venute le aggressioni studiate a tavolino a Bersani e Renzi. Fine. Adesso il comico riunisce i suoi all’Hotel Forum di Roma, Davide Casaleggio usa i suoi uffici di Milano, Virginia Raggi non ha mai fatto uno streaming delle sue riunioni. Semmai preferisce andare a parlare sul tetto. E quando i giornalisti provano a raccontare cosa succede dietro quelle porte chiuse scatta la gogna del blog e dei relativi commenti. Sarebbe bello credere che non ci sia niente da nascondere, ma solo il mestieraccio del teatrante che riconosce i limiti del mezzo, trasformato in canone estetico di decadenza della Seconda repubblica anziché di trasparenza.

Corriere 6.7.17
Ue e migranti, la vera sfida è sconfiggere i nazionalismi
di Massimo Franco

Dire che oggi e domani l’Italia si presenta a Tallin, capitale dell’Estonia, fiduciosa di avere risposte convincenti in materia di immigrazione, sarebbe un azzardo. Intanto, la riunione dei ministri dell’Interno avrà un carattere informale. E questo verrà usato da chi, tra i partecipanti, vuole prendere tempo. Più che affrontare temi strategici come la modifica del Trattato di Dublino per il quale i migranti devono chiedere asilo al Paese dove sbarcano, sempre più spesso l’Italia, si parlerà d’altro.
Si abbozzerà una strategia di contenimento che va oltre il Mediterraneo, nelle regioni africane di provenienza: impostazione corretta, ma che sa di alibi per non rispondere alle richieste italiane. Volere discutere, come chiede l’Estonia, su quanto è cambiata la situazione negli ultimi giorni al punto da far minacciare al governo di Roma la chiusura dei porti di approdo, sembra un modo per confutare la tesi. Ma dietro la piccola nazione baltica che ha il semestre di presidenza dell’Ue, si intravede il «fronte del Nord» europeo.
È un fronte incline a osservare quanto avviene nel Mediterraneo come un problema lontano non solo geograficamente: una filiera trasversale accomunata, più che da una visione continentale, da una somma di interessi nazionali. Si avverte la paura a fare concessioni che potrebbero dare fiato ai movimenti xenofobi. Per questo la sfida dell’Italia appare difficile, quasi impari. La tentazione austriaca, per il momento rientrata, di schierare carri armati alla sua frontiera per impedire il passaggio di profughi dal nostro Paese è un segnale emblematico.
È la conferma di un istintivo rifiuto ad assumersi un carico umano che politicamente appare troppo pesante. Di fronte all’allarme ripetuto del premier Paolo Gentiloni a non lasciare sole l’Italia ma anche la Grecia, le reazioni verbali sono state generose. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, e il presidente della Commissione Ue, Jean-Claude Juncker, hanno espresso una preoccupazione comune per quanto potrebbe accadere. L’impressione, tuttavia, è che non esista ancora una strategia comune per aiutare le nazioni mediterranee di fronte a sbarchi massicci.
Molti Stati sembrano decisi a blindare le loro frontiere meridionali. Lo ha rilevato l’ex presidente della Commissione, Romano Prodi, chiedendo «un’operazione europea di ampio respiro»; e confessando di vedere una Germania «orientata a farla», mentre esiste «un punto interrogativo» sull’atteggiamento di Emmanuel Macron. Il presidente del Parlamento Ue a Strasburgo, Antonio Tajani, si candida come mediatore. Ma sulla debolezza italiana pesa anche l’incapacità di sottrarre l’immigrazione alle polemiche interne.

Repubblica 6.7.17
La strettoia dello Ius Soli
di Stefano Folli

È ormai chiaro che il tema dell’immigrazione sarà centrale nella campagna elettorale prossima ventura. Che si voti in febbraio o un po’ più in là, in aprile o maggio, la gestione dei migranti si presenta fin d’ora come la principale discriminante fra l’area del centrodestra e quella del centrosinistra. Non senza contraddizioni che toccano soprattutto il Partito Democratico.
Esiste infatti un’area di sinistra che rimane fedele alla linea dell’accoglienza e della solidarietà come valori irrinunciabili: è il mondo che comprende il volontariato laico e soprattutto cattolico, con costante riferimento a papa Francesco; è anche un’area che sul piano politico si è riconosciuta fin qui nel Pd, almeno in una certa misura, ma che oggi è ben rappresentata nella galassia di sigle che stanno faticosamente tentando di riunirsi dietro l’iniziativa di Pisapia (e non è detto che ci riescano). Basta questo per comprendere che non c’è vera coesione all’interno del centrosinistra nel suo complesso.
La frattura di fondo è sempre quella che sul piano dell’identità divide destra e sinistra. E le recenti elezioni comunali dimostrano che Salvini ha fatto abilmente i suoi conti, cogliendo lo smarrimento dell’opinione pubblica di fronte all’”invasione” vera o presunta — e comunque ben enfatizzata — dei migranti. Con altrettanto fiuto politico Grillo si è spostato da tempo su posizioni molto simili, anzi è stato il primo a innescare la polemica sul ruolo delle varie sigle Ong. Quanto a Forza Italia, al nord i suoi esponenti non dicono cose diverse dalla Lega, evitando solo di condividerne l’estremismo nazionalista e anti-europeo.
Il partito di Renzi è invece l’immagine di un dramma politico che non vedrà una soluzione tanto presto. E che si riflette nel modo sofferto con cui Gentiloni e Minniti stanno affrontando l’emergenza. Non c’è solo la sordità dell’Unione o l’estrema difficoltà di controllare gli arrivi ovvero, a maggior ragione, di stringere accordi con le mille tribù libiche in vista di frenare le partenze. Come un singolare mosaico, ogni tassello è connesso a un altro. Per cui la legge sullo “Ius soli”, in origine bandiera di civiltà, si è rapidamente trasformata in un problema nel problema. Il passaggio cruciale del testo in Parlamento ha finito per coincidere con la grande ondata estiva degli sbarchi sulle nostre coste. E se è vero che le due questioni si sono sovrapposte nell’immaginario collettivo, contribuendo a spostare voti nei recenti ballottaggi, ecco che molti nel Pd cominciano a giudicare “inopportuna” l’approvazione della legge a tambur battente. Non si discute il merito, quanto la tempistica. Per cui in Senato nessuno si dispera per il rinvio di qualche giorno della discussione: è solo rimandata alla prossima settimana, ma non si esclude che — un passo dopo l’altro — lo “Ius soli” slitti a dopo l’estate.
In altre parole, fra la destra che ha trovato nell’immigrazione il cavallo di battaglia capace di nascondere gravi carenze politiche nonché profonde spaccature interne e la nuova sinistra che rivendica la linea umanitaria come grande tema unificante, il Pd cammina lungo uno stretto sentiero. Rischia di perdere consensi a sinistra perché la sua posizione sui migranti non è abbastanza solidale (vedi le critiche in tal senso al ministro dell’Interno, anche nel governo); e a destra perché non sa imporsi in Europa e non rinuncia allo “Ius soli”. Se Renzi dovesse impuntarsi e chiedere il voto di fiducia sulla legge, senza dubbio l’avrebbe vinta e il provvedimento passerebbe. Ma nel Pd rimarrebbero dubbi e mugugni, specie fra coloro che devono essere rieletti nei collegi a rischio, in particolare al nord.
Se viceversa il segretario lasciasse decidere al Parlamento, allora il probabile slittamento della legge offrirebbe buoni argomenti all’arcipelago della sinistra (Pisapia e gli altri) per acquisire consensi a scapito di un Pd “destrorso”. In entrambi i casi la scelta è ardua, ma è solo un aspetto della più generale questione migranti. Un tema suscettibile di decidere il futuro dell’Europa, certo, ma anche in tempi più rapidi il destino del centrosinistra.

il manifesto 6.7.17
Per i migranti l’alternativa c’è
di Luigi Manconi

Tra le molte insidie della discussione pubblica sul tema dell’asilo e dell’immigrazione, c’è quella – velenosissima – che porta a raffigurare la situazione come uno scenario nichilista senza salvezza, senza rimedio e senza via d’uscita.
Non è affatto così. In questa materia, politiche razionali e intelligenti, pur ardue e faticose, sono possibili e previste tra le pieghe dalle normative e delle convenzioni europee; e alcune di esse sono state già sperimentate e diffusamente applicate con un certo successo.
Nel 2013, all’indomani del naufragio di Lampedusa del 3 ottobre, avanzammo una serie di proposte molto concrete per affrontare la crisi umanitaria nel Mediterraneo. L’obiettivo era quello di evitare la lunga e dolente teoria delle morti in mare e l’intenzione quella di indurre l’Unione europea a farsi carico della questione migratoria adottando meccanismi di condivisione e solidarietà tra gli Stati.
Innanzitutto fu elaborato un piano di ammissione umanitaria, molto dettagliato e circostanziato, che prevedeva canali legali e sicuri verso l’Europa per i profughi bisognosi di protezione: un piano ancora attuale e sempre più necessario. La seconda proposta riguardava la possibilità che il governo italiano ricorresse alla concessione della protezione temporanea ai profughi sbarcati sulle nostre coste in base a quanto previsto dalla direttiva 55 del 2001. Ed è, questa, una opportunità estremamente importante che va presa in serissima considerazione al più presto. Quella direttiva, infatti, stabilisce standard minimi per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio, nonché la promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati membri che accolgono gli sfollati. La durata della protezione temporanea è di un anno e gli Stati membri sono obbligati a indicare la propria capacità di accoglienza; e a cooperare per il trasferimento della residenza delle persone da uno Stato all’altro.
Nei giorni scorsi ho riproposto in molte sedi l’adozione di questo provvedimento, e così hanno fatto Radicali italiani e Comunità di Sant’Egidio, come alternativa all’idea, difficilmente praticabile e da scongiurare, della chiusura dei porti italiani alle navi dei profughi. A ulteriore sostegno della richiesta sulla protezione temporanea, da avanzare rapidamente in sede Ue, si ritrova nella storia recente del nostro Paese un concreto e istruttivo precedente. Nel 2011 il governo Berlusconi di fronte agli arrivi, già allora consistenti, di profughi provenienti dalla Tunisia, concesse «un permesso di soggiorno per motivi umanitari», della durata di 6 mesi, rinnovati in seguito per un altro anno. Qualora una richiesta analoga del governo italiano al Consiglio europeo non venisse accolta, si potrebbe comunque procedere all’adozione a livello nazionale di un provvedimento simile a quello del 2011. A marzo di quell’anno, alcune migliaia di tunisini entrarono o provarono a entrare in Francia muniti di permesso temporaneo valido per attraversare le frontiere: si aprì un contenzioso con l’Italia e la questione si impose a livello europeo. A maggior ragione oggi, in un contesto molto più delicato, precario e complesso, porre in questi termini la necessità di una presa in carico della gestione dei flussi da parte di tutti gli Stati membri avrebbe un impatto forte, senza mettere a rischio l’incolumità delle persone in fuga.
Velleitario? Poco credibile? Ma davvero qualcuno può pensare che la concessione di un permesso di soggiorno per motivi umanitari sia meno realistica della cupa distopia della «chiusura dei porti italiani»?

Repubblica 6.7.17
I rilievi di Cantone ignorati dalle Camere
di Liana Milella

SI PUÒ cambiare, ma un fatto è certo: il Codice Antimafia va approvato». Parola di Orlando. «Un pasticcio, che ammazza le misure di prevenzione ». Parola di Cantone. Il suo nome — Raffaele Cantone, il presidente dell’Autorità anticorruzione — corre insistente nell’aula del Senato mentre si discute del Codice Antimafia, la destra tenta in tutti i modi di affondarlo.
E SI fa scudo delle tesi del noto ex pm anticamorra. Cantone diventa il beniamino di Niccolò Ghedini che agli amici scrive: «Avete visto? Avevo ragione io, Cantone dice esattamente quello che ho detto a Letta e che Letta ha puntualmente riferito a Zanda».
Cantone idolo della destra e affossatore del Codice Antimafia? Lui, al telefono, s’infiamma subito: «Se qualcuno ripete le stesse cose davanti a me lo querelo. Con questo schieramento non ho nulla a che vedere, tuttavia una battaglia è giusta anche se è un senatore della destra a farla. E io la mia netta contrarietà a trasferire sulla corruzione le misure di prevenzione utilizzate contro la mafia l’ho espressa in tempi non sospetti». Ma come? Ne è proprio sicuro? Qui tutti citano una sua intervista di qualche giorno fa... «... e si sbagliano di grosso. Perché nel mio ultimo libro, La corruzione spuzza, le cui bozze erano già pronte a gennaio, avevo già ampiamente criticato il Codice Antimafia uscito dalla Camera, scrivendo in ben tre pagine che il travaso delle misure di prevenzione dalla mafia alla corruzione era poco condivisibile ».
Negli stessi minuti in cui Cantone parla con Repubblica il centrodestra incassa un altro rinvio, le ore e ore di ostruzionismo — gli interventi di Caliendo, Palma, Falanga, Giovanardi — fanno slittare il voto a oggi. Anche colpa di Cantone? Qualche secondo di silenzio, poi una raffica di accuse, con una premessa: «Questa norma è una polpetta avvelenata, perché la prima volta che, dopo il sequestro dei beni a un imprenditore, il magistrato è costretto a restituirglieli, le misure di prevenzione saltano ». Scusi, Cantone, ma perché lei l’ha scritto nel suo libro, ma poi non l’ha detto al governo e al Parlamento? «Io non l’ho detto?!?! Io l’ho messo per iscritto. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando mi ha nominato presidente di un tavolo su mafia e corruzione. Con me c’erano giuristi come Vittorio Manes, Gherardo Colombo, e pure Giuliana Merola della commissione Antimafia. Il 20 aprile — dico 20 aprile — ho mandato la mia relazione dove è ripetutamente scritto che “non è condivisibile la traslazione tout court della normativa antimafia alla corruzione” ».
In effetti, in quella pagine, il Cantone pensiero è chiaro: «Per grave che sia la situazione, non appare condivisibile l’idea di estendere alla corruzione la legislazione speciale della lotta alle mafie, stante la diversità dei fenomeni e il fatto che possono essere già applicate laddove si presentano profili propri del crimine organizzato ». Chiosa Cantone: «Visto? Certo non ho parlato con il salumiere... poi non è colpa mia se in Parlamento sono stato audito perfino sulle mense scolastiche, ma nessuno ha pensato di chiamare il presidente dell’Anac quando si sta per fare una modifica devastante che ammazzerà le misure di prevenzione. E non sono solo io a dirlo, ma pure Canzio, Fiandaca, Cassese, Flick, Rossi, De Lucia. Siamo forse diventati tutti pazzi?».
Lo sfogo di Cantone potrebbe continuare, ce n’è per tutti, quelli che, non esperti, sembrano dettare legge sul Codice. Ma il ministro della Giustizia Andrea Orlando che dice? Innanzitutto un punto fermo: «Qualunque strada si prenda in Parlamento, il Codice va approvato in questa legislatura. Con un modifica alla Camera e un ulteriore passaggio rapidissimo e garantito al Senato, oppure lasciando tutto com’è adesso e sfruttando un altro veicolo normativo per fare le modifiche». Ma possibile che lei, ministro, non abbia letto la nota di Cantone? «No, non l’ho ancora vista, quel lavoro è in itinere, e i miei non mi hanno ancora portato nulla. Ma non era necessario aspettare Cantone per sapere che il testo della Camera presentava dei dubbi ». E qui Orlando racconta un’altra storia di mediazioni e modifiche: «Abbiamo rivisto il testo, ho sentito Franco Roberti, visto che si parla di mafia ed lui il procuratore nazionale Antimafia. Nasce con lui la soluzione di agganciare la lista dei reati di corruzione al 416, il legame associativo, una correzione che era sembrata equilibrata e sufficiente». Orlando non cede alle polemiche: «La mia priorità adesso è approvare comunque il Codice, sentirò i magistrati che lavorano tutti i giorni sulle misure di prevenzione e poi decideremo. Ma cambiare il testo alla Camera rischia di metterlo su un binario morto. E questo sarebbe un errore davvero imperdonabile».

Il Fatto 6.7.17
La legge sbagliata che uccide le donne
di Nicola Ferri

Di fronte all’ennesimo femminicidio – la dottoressa di Martinsicuro, Ester Pasqualoni, uccisa a colpi di pugnale dal suo stalker Enrico Di Luca, poi suicidatosi – sorge spontanea la domanda: cosa si può fare per prevenire nuovi agguati mortali, visto che neanche stavolta il meccanismo della prevenzione è servito a evitare che la vittima designata cadesse in preda della cieca violenza omicida?
Per questo interrogativo c’è una prima risposta: le decine di donne che ogni anno muoiono sotto i colpi assassini di mariti, compagni, fidanzati, amanti o loro ex, sono vittime non solo di una cultura da trogloditi che esalta la concezione “proprietaria” della donna amata vista dall’uomo, accecato dalla gelosia, come un “bene” esclusivo da non perdere, ma altresì di una legge sbagliata che non appresta efficaci strumenti preventivi e repressivi e che, di fronte a gravi minacce in atto (nel 90 per cento sono i prodromi dell’omicidio) prevede misure del tutto insufficienti a elidere o attenuare il pericolo.
Al riguardo, il caso Pasqualoni è esemplare poiché vani erano rimasti sia l’ammonimento di non avvicinarsi alla dottoressa intimato a Di Luca dal questore, sia il sequestro del porto d’armi, misure contenute della legge antiviolenza n. 119/2013 che prevede altresì l’allontanamento urgente della donna dalla casa familiare e l’arresto dell’uomo violento solo in caso di flagranza, difficilissima da riscontrare, mentre sarebbe necessario consentire l’arresto anche in caso di “flagranza protratta” (36 ore).
Se Ester fosse stata immediatamente messa sotto protezione in un luogo sicuro e scortata sul lavoro, e se Di Luca fosse stato arrestato, processato per direttissima, condannato senza condizionale e rinchiuso in carcere, salvo l’eventuale accertamento della sua infermità mentale (è scientificamente provato che il “delirio di gelosia” è un chiaro sintomo di incapacità di intendere e di volere che rende il soggetto un malato pericoloso da tenere sotto custodia), quasi certamente la dottoressa di Martinsicuro sarebbe ancora viva.
La seconda risposta alla domanda sul “che fare ?” è la seguente:
1) Occorre attuare quella rete di efficace protezione delle vittime delle minacce e degli atti di violenza imposta dalla Convenzione del Consiglio d’Europa dell’11 maggio 2011 e per la cui mancata adozione l’Italia è stata condannata dalla Corte europea di Strasburgo con la sentenza 2 marzo 2017;
2) Va rovesciata la logica che informa la legge n. 119/2013 (che non funziona, visto che i femminicidi non diminuiscono) prevedendo che non sia l’uomo bensì la donna minacciata che va immediatamente allontanata e posta a distanza di sicurezza dal suo persecutore poichè questi, di solito, se ne infischia del divieto di avvicinarsi alla casa familiare.
Se è vero che dietro la maschera dello stalker si nasconde quasi sempre un sanguinario criminale, le misure preventive e restrittive nei suoi confronti dovranno inevitabilmente essere commisurate al rischio mortale che incombe sulla donna minacciata.

La Stampa 6.7.17
Charlie
La sentenza sul dolore del piccolo
di Carlo Rimini
Ordinario di diritto privato nell’Università di Milano

Di fronte a due genitori che lottano disperatamente per tenere il loro bambino in vita e sono impotenti di fronte alla decisione dell’ospedale in cui il piccolo è ricoverato di iniziare le operazioni che lo porteranno alla morte, si prova un senso di vertigine. I fatti sono descritti in modo molto dettagliato, quasi puntiglioso, dalle sentenze inglesi che hanno deciso che le cure devono essere interrotte.
I punti fermi sono questi. a) L’ospedale in cui il piccolo Charlie è ricoverato, rispettando le rigorose procedure inglesi previste per questi casi, ha deciso che continuare a curare il bambino è una forma di accanimento terapeutico poiché non vi è più alcuna possibilità di tenerlo in vita o comunque di riportarlo ad una vita consapevole. b) I genitori ritengono invece che possa essere tentata una cura sperimentale praticata in un ospedale americano dove il bambino potrebbe essere trasferito. c) I medici americani hanno confermato ai giudici che la cura sperimentale non è mai stata tentata su pazienti nelle condizioni di Charlie e molto probabilmente non avrà su di lui alcun effetto e comunque non potrà riparare i danni cerebrali già subiti, ma si può comunque tentare poiché certo non aggraverà la situazione.
Le regole giuridiche per affrontare una situazione così drammatica sono semplici. Sono uguali in Inghilterra ed in ogni Stato civile. a) Sono i genitori a fare le scelte relative al figlio e ciò fino a che la responsabilità genitoriale non è limitata da un giudice; b) L’autorità giudiziaria può limitare la responsabilità genitoriale solo se i genitori prendono decisioni pregiudizievoli per il figlio. Questo significa che solo di fronte alla prova che una decisione crea un pregiudizio, la responsabilità genitoriale può essere limitata e l’autorità giudiziaria si sostituisce al genitore nella valutazione del migliore interesse del bambino.
La frase chiave della sentenza inglese è quindi questa: «I medici dell’ospedale che ha in cura il bambino non escludono che egli possa provare dolore». È la questione dirimente perché se Charlie prova dolore allora è vero che i genitori vogliono inutilmente prolungare la sua sofferenza ed è vero che vogliono compiere un atto (cercare di farlo sopravvivere) che porta al bambino un pregiudizio (una sofferenza inutile). Se invece il fatto che possa provare dolore è una mera ipotesi improbabile (come è improbabile che la terapia alternativa gli giovi), allora la limitazione della responsabilità genitoriale è ingiustificata. Di fronte a una semplice ipotesi - «non escludono che possa provare dolore» - rimane una sensazione: è un accanimento giudiziario. È il loro bambino e sta morendo: lasciate loro almeno la libertà di sbagliare.

La Stampa 6.7.17
Il mancato aiuto dell’Ue aumenta le difficoltà interne del governo
di Marcello Sorgi

È stato un resoconto desolato quello che Minniti ha fatto ieri alla Camera sul problema dell’immigrazione, dopo l’escalation degli sbarchi negli ultimi giorni e dopo i ripetuti tentativi di ottenere dai partner europei maggiore solidarietà. Il ministro dell’Interno, che pure dopo i primi contatti a livello comunitario si era sbilanciato parlando di un “6 -0 6-0” sulle sue proposte, spinte fino a prevedere la chiusura dei porti italiani di fronte a richieste di attracco di navi straniere cariche di immigrati, ha dovuto invece ammettere che al momento la disponibilità ad aiutare l’Italia, pur promessa dal presidente della Commissione Juncker e dal commissario per l’immigrazione Avramopoulos, è invece assai ridotta da parte di Paesi come Francia, Spagna, Austria (anche se ieri la minaccia di militarizzare il confine al Brennero è stata ritirata); e anche la Germania, con la Merkel in piena campagna elettorale, non aiuta. Minniti ha posto l’accento sulla scarsità di fondi stanziati per finanziare l’assistenza italiana ai profughi, molto ma molto inferiore rispetto a quella garantita alla Turchia grazie all’aiuto tedesco. Il governo rischia così di dover sopportare quasi da solo le pesanti conseguenze di un’estate che lascia prevedere una quantità ingestibile di sbarchi. Il tentativo di riportare il confine in mare dei soccorsi più indietro di quello che via via è scivolato fino a poche miglia dalle coste libiche è in corso, ma è inutile nascondersi che si scontra con l’attività, in molti casi senza controllo, delle navi delle Ong che pattugliano stabilmente il Canale di Sicilia e continuano a riversare migranti a migliaia sui porti della costa meridionale dell’isola.
Di un quadro così controverso continua a risentire anche il dibattito in corso al Senato sullo ius soli, rinviato alla prossima settimana per effetto dell’ostruzionismo congiunto di Lega, Movimento 5 stelle e Fratelli d’Italia, che prima sono riusciti a far cambiare l’ordine del giorno dei lavori, spostando in coda la discussione sulla nuova legge sulla cittadinanza per i figli degli immigrati, e poi hanno approfittato di una svista della maggioranza sul codice Antimafia, che ha allungato ulteriormente i tempi. Il governo è deciso a far passare lo ius soli mettendo la fiducia sul testo: ma proprio per questo le opposizioni tendono a drammatizzare, per cercare di collegare l’allarme-sbarchi con una legge che formalmente non c’entra niente, ma può dare la sensazione che l’Italia, debole nella limitazione degli arrivi, non si preoccupi di dare segnali di accoglienza che potrebbero incentivare le partenze degli immigrati.

La Stampa 6.7.17
In 122 restano in carcere perché mancano i braccialetti elettronici
Pronto il bando del ministero per 12.000 nuovi dispositivi
di Grazia Longo

Il Viminale ipotizza che entro agosto potrebbero arrivare i 12 mila nuovi bracciali elettronici per monitorare i detenuti agli arresti domiciliari. Intanto 122 persone sono in attesa di uscire dalla prigione per la mancanza di questo dispositivo di sorveglianza.
A riproporre la questione della loro annosa carenza è la mancata scarcerazione di due detenuti noti: l’attore Domenico Diele, arrestato per omicidio stradale a Salerno, e l’imprenditore Alfredo Romeo, a Regina Coeli con l’accusa di corruzione per lo scandalo Consip.
Per loro due, come per tutti gli altri, è però possibile che possano essere reperibili alcuni bracciali dei duemila già in funzione - grazie al servizio «chiavi in mano» di Telecom - ma finora destinati ad altri reclusi.
I duemila apparecchi sono stati attivati nel 2001 e applicati in questi anni a 8.856 detenuti per un totale di quasi 2 milioni di giorni (1 milione e 901 giorni per l’esattezza) e per una spesa complessiva di 173 milioni di euro.
L’esigenza di utilizzarli, tuttavia, non ha mai fine. Di qui la gara europea bandita dal ministero dell’Interno per 12 mila nuovi dispositivi. Tre le società ammesse al bando: Fastweb spa, Rti Engineering ingegneria informatica e Telecom Italia Spa. La gara d’appalto a normativa europea, con aggiudicazione sulla base del criterio dell’offerta più vantaggiosa, ha un importo complessivo a base di gara pari a circa 45 milioni di euro.
Anche questa volta si otterrà un servizio «chiavi in mano». Nel senso che tutti gli strumenti, gli apparati e il «software» messo a disposizione per rendere operativo il servizio resteranno di proprietà della società appaltatrice. Il braccialetto elettronico in realtà è una cavigliera ed è dotato di una centralina che ha la forma di una radiosveglia e che va installata nell’abitazione in cui deve essere scontata la pena. Un device riceve il segnale dal braccialetto e lancia l’allarme per eventuali tentativi di manomissione e in caso di allontanamento del detenuto.
Il tema del ricorso al braccialetto elettronico si inserisce in quello più ampio del sovraffollamento delle carceri italiane. Al momento, nei nostri istituti penitenziari si trovano 57.350 detenuti, contro i 44 mila posti previsti sulla carta. «La possibilità di concedere i domiciliari con il supporto della sorveglianza elettronica contribuisce sicuramente ad alleggerire le condizioni all’interno delle nostre carceri - osserva Donato Capece, segretario del Sappe, sindacato autonomo della polizia penitenziaria -. Bisognerebbe incrementarli e invece non ce n’è mai abbastanza. Non c’era certo bisogno della mancata scarcerazione di detenuti eccellenti come Diele e Romeo per sapere che le dotazioni dei braccialetti è ampiamente insufficiente rispetto alle reali necessità».
Capece è convinto che «le prigioni rimangono piene di persone che invece potrebbero da subito scontare la pena sul territorio. Il dramma di questo Paese - accusa - è che nessuno mai paga per questi sprechi e per questi errori. E nel frattempo in carcere proliferano le tensioni che spesso mettono in crisi il lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Fino a situazioni estreme come il suicidio». Il problema dell’indisponibilità del braccialetto elettronico, del resto, è finito anche all’esame della Corte di Cassazione, sia nel 2015 che alle Sezioni Unite nel 2016. Secondo la Cassazione la mancanza dell’apparecchio di sorveglianza non può determinare la temporanea permanenza in carcere dell’indagato poiché non si tratta di «una prescrizione che inasprisce la misura» ma solo di una modalità di controllo. Di qui la convinzione che una volta valutata adeguata la misura cautelare dei domiciliari «l’applicazione ed esecuzione di detta misura non può essere condizionata da eventuali difficoltà di natura tecnica e/o amministrativa». Di fatto spetta al giudice considerare la possibilità dei domiciliari senza il braccialetto elettronico o la permanenza in carcere in attesa che esso sia a disposizione.

La Stampa 6.7.17
“Il sovraffollamento non c’entra. Sono i magistrati a non fidarsi”
Il penalista: “È un problema, ma nessuno paga”

«Il braccialetto elettronico sarebbe utile ma in Italia c’è una certa resistenza alla sua applicazione», sostiene l’avvocato penalista Pietro Vincentini. «Per questo mi fa piacere che si crei un certo interesse mediatico sull’argomento».
La resistenza di cui parla da dove nasce?
«Partiamo da un presupposto: i braccialetti elettronici sono pochi. Ma c’è soprattutto un atteggiamento di sfiducia da parte della magistratura nei confronti di quello che viene considerato un orpello inutile, specialmente qui a Roma. E non è solo questo il motivo».
C’è dell’altro?
«Capita spesso, quando il braccialetto elettronico è disponibile, che nascano difficoltà nella sua applicazione alla caviglia della persona. Mi spiego: il più delle volte le forze dell’ordine rispondono che non sono in possesso degli strumenti operativi. Dove e perché la procedura si areni, però, non lo comunicano».
Cosa può fare il giudice per vedere applicata la sua sentenza?
«Può trovare un’alternativa. Di solito si ricorre alla detenzione domiciliare».
Eppure sarebbe utile...
«Il braccialetto è semplicemente uno strumento di monitoraggio. Può essere un deterrente oltre a uno strumento di garanzia. Alleggerisce l’attività di controllo della polizia giudiziaria e limita un dispendio di energie che possono essere profuse altrove. Serve, quindi, nonostante casi di persone che dopo averlo manomesso sono fuggite, senza che le forze dell’ordine se ne siano accorte».
C’è chi sostiene che servirebbe anche a svuotare le carceri italiane, da sempre sovraffollate. È così?
«Lo svuotamento delle carceri c’entra poco. Il problema dei troppi detenuti dipende più dalla riluttanza da parte dei giudici di ricorrere alle misure alternative al carcere. D’altra parte, mi è anche capitato di assistere una persona a cui era stata concessa la detenzione domiciliare con il braccialetto, ma per un lungo periodo, alcuni mesi, la persona non aveva potuto beneficiarne perché i braccialetti erano finiti, ed era stato costretto a rimanere in carcere».
Alla fine il risultato è comunque un diritto negato al detenuto. Qualcuno paga mai per questo?
«In Italia non ho mai sentito di nessuno che pagasse per i problemi del sistema giustizia. Non in questo senso, almeno. Va sottolineato però che qui la responsabilità non è certo del magistrato. Semmai del ministero».

Il Fatto 6.7.17
Consip, tutta colpa di Lillo. Perquisizioni e sequestri
La Gdf in redazione - Blitz cortese ma deciso: forzata una cassettiera, portato via il pc. Sottratto il telefono all’ex moglie, finanzieri anche a casa del padre del giornalista
di Vincenzo Iurillo e Antonio Massari

I finanzieri partono alle tre della notte da Napoli. Alle sette del mattino, la loro Punto nera è già dinanzi al cancello della redazione del Fatto a Roma . Hanno un mandato preciso: perquisire, sequestrare, trovare le prove che inchioderanno la fonte di un giornalista, il nostro vicedirettore Marco Lillo, autore dei principali scoop sul caso Consip.
La Procura di Napoli indaga – in coordinamento con quella romana – dopo la denuncia presentata dai legali di Alfredo Romeo, il principale indagato nell’inchiesta Consip, agli arresti in carcere fino a due giorni fa, quando gli sono stati concessi i domiciliari. Si sente diffamato, Romeo, e indica nella denuncia che nel libro intitolato Di padre in figlio – incentrato sull’inchiesta, con annessa pubblicazione dell’inedita intercettazione tra Matteo Renzi e suo padre Tiziano – si sono consumate delle rivelazioni del segreto istruttorio. Un’inchiesta, quella sulla Consip, sventrata da fughe di notizie eccellenti – contestate persino al ministro Lotti e all’attuale comandante dell’Arma – partorisce così una nuova inchiesta, stavolta sul Fatto Quotidiano, avviata dall’uomo che, secondo l’accusa, brigava illecitamente per ottenere appalti. E così, a poche ore dall’interrogatorio a Roma del pm Henry John Woodcock, e dopo quello alla sua compagna Federica Sciarelli, entrambi indagati per rivelazione del segreto istruttorio – Lillo ha da subito dichiarato: “Non sono le mie fonti” – la Procura di Napoli decide di sequestrare telefoni e computer del vicedirettore Marco Lillo.
Il nostro vicedirettore – si legge nel decreto – non vuol rivelare la fonte: la Procura decide di perquisire. E sequestra anche il telefono della ex moglie, gli strumenti di lavoro dell’Art director Fabio Corsi, che ha editato il libro, perquisisce la residenza romana di Lillo, dove i finanzieri copiano l’intero contenuto del computer dell’attuale compagna. Sequestrano le bozze del libro, con appunti segnati dal cronista, si presentano nella casa estiva in Calabria, quella del padre 96enne, dove Lillo è in vacanza con i figli e col papà. Perquisizioni anche nella “Grafica Veneta” di Padova che, per conto della Paper First, la casa editrice del Fatto, ha stampato il libro in questione.
Dieci finanzieri in viaggio tra Padova e Roma con tre tecnici nominati dalla Procura. Un notevole dispiegamento di forze, eppure il Fatto non è certo il covo di un pericoloso latitante. Il presunto corpo del reato? La Finanza – che ha agito costantemente in modo corretto e rispettoso – cerca due informative del Noe: la prima datata 9 gennaio 2017, la seconda risalente a febbraio. Entrambe riguardano il caso Consip. E poi – su mandato del procuratore aggiunto di Napoli, Alfonso D’Avino, e della sostituta Graziella Arlomede – i dieci finanzieri cercano “atti relativi al libro”, “messaggi di posta elettronica di interesse investigativo”, tracce che portino all’autore della soffiata che ha permesso a Lillo di pubblicare, in esclusiva, l’intercettazione tra Matteo Renzi e suo padre, nella quale il primo diceva al secondo di dire ai magistrati se avesse visto Romeo, con l’aria di fidarsi poco del genitore.
Lillo – si legge negli atti – ha dichiarato che Woodcock e Sciarelli non sono le sue fonti, ma ha anche detto pubblicamente che non intende rivelare il nome di chi lo ha aiutato a recuperare le notizie. E quindi: la Procura perquisisce. E sequestra. In modo “illegittimo”, sostiene l’avvocato del Fatto Angela De Rosa. Ha un bello scrivere, la Procura di Napoli, quando nel decreto ricorda i limiti che la magistratura incontra indagando – come suo dovere – quando s’imbatte in un giornalista. Semplifichiamo: prima si chiede di esibire gli atti sui quali s’indaga, e solo quelli, poi, in caso di diniego, il sequestro non si rende necessario.
Lillo era in Calabria e non s’è mai opposto all’esibizione. Al limite, era impossibilitato in tempi brevi a raggiungere sia la redazione, sia le sue abitazioni romane. Ma nessun diniego. Dopo il sequestro del suo telefono, si annota che il cronista non era raggiungibile. Peccato che, il suo telefono, alla Finanza in Calabria, l’avesse portato proprio Lillo. E così la Procura decide di sequestrare il suo computer e di aprire con un cacciavite la sua cassettiera. “Le operazioni di eventuale sequestro – fa annotare l’avvocato nel verbale – sono subordinate, come prescritto dal decreto, all’esibizione del materiale cartaceo e informatico citato nello stesso decreto. Esibizione che Lillo è nell’impossibilità oggettiva di operare”. E quindi: perquisizione e sequestro sono quindi avvenuti in modo “illegittimo” e “in violazione dei diritti del giornalista” che, si badi, non è neanche indagato.
Situazione ancora più gravve nel caso dell’Art director Fabio Corsi che, convocato in forza di un secondo decreto di perquisizione, esibisce tutto ciò che può, collaborando costantemente. Il suo unico ruolo, da Art director, è impaginare il libro e curarne la grafica. Non ha alcun ruolo nella sua redazione. Niente da fare: sequestro di telefono e computer. Con annesso “rischio”, annota l’avvocato, “di causare serie difficoltà al normale andamento del giornale”.
Tant’è, in attesa di ulteriori sviluppi dell’inchiesta, sia a Napoli sia a Roma, in questo momento, nel mirino delle Procure impegnate nel caso Consip, ci sono i giornalisti. “Io e Federica Sciarelli – commenta Lillo – siamo stati costretti a consegnare i telefonini. Tiziano Renzi, indagato per traffico illecito d’influenze, ancora no”.

Il Fatto 6.7.17
Dietrofront renziano in Senato, ora il Pd teme l’effetto boomerang
Autogol - L’interrogazione non va in aula oggi, difficilmente prima della pausa estiva
di Wanda Marra

Il Pd non ha più tanta fretta di discutere l’interrogazione sul ruolo dei carabinieri del Noe e della Procura di Napoli, che si sono occupati per primi dell’inchiesta su Consip, la centrale acquisti. Inchiesta che coinvolge anche Tiziano Renzi e il ministro Luca Lotti. “Ma perché dobbiamo riaprire questa questione? Perché dobbiamo metterla noi sotto i riflettori un’altra volta? Non vale la pena, non ci conviene”, raccontavano ieri i fedelissimi di Matteo Renzi.
Nell’interrogazione urgente a risposta orale al ministro dell’Interno, Marco Minniti, al ministro della Giustizia, Andrea Orlando e a quello della Difesa, Roberta Pinotti, anche se non nominati, finiscono sotto accusa Woodcock e Scafarto. Più volte Renzi nelle ultime settimane ha sostenuto di volere verità sulla questione. Ma l’effetto boomerang è un rischio. E così, mentre Luigi Zanda (capogruppo e primo firmatario) dichiarava al Fatto martedì che l’interrogazione sarebbe stata calendarizzata il prima possibile, ora le intenzioni non sembrano più quelle. Tanto è vero che a mezza bocca lo stesso Zanda viene indicato come il responsabile di una strategia non brillante.
L’interrogazione non verrà discussa oggi, nel primo momento che il Senato dedica proprio a questo. È stata depositata e annunciata in aula martedì pomeriggio, dopo la capigruppo. L’articolo del Regolamento di Palazzo Madama che fa fede è il 151: “Sulla richiesta dell’interrogante o del governo che a una interrogazione da svolgersi in Assemblea sia riconosciuto il carattere d’urgenza, giudica il presidente, il quale può disporne lo svolgimento immediato o nella seduta del giorno successivo, salva sempre la facoltà del governo prevista dal comma 3 dell’articolo 148”. Comma che dice: “Il governo ha facoltà di dichiarare all’Assemblea, indicandone i motivi, di non poter rispondere o di dover differire la risposta ad altro giorno determinato”. Insomma, starebbe al governo o all’interrogante sollecitare l’iter. La capigruppo non è determinante, ma resta comunque un momento utile per tale sollecito.
Il 13 e il 27 ci sono sedute del Senato destinate alle interrogazioni ma è improbabile che il caso Consip torni in aula. Ieri nel Pd del Senato raccontavano che tocca al governo decidere quando rispondere, o che in questo momento ci sono cose più urgenti, e quindi è difficile che se ne parli prima della pausa estiva. Il tempo c’è, la volontà politica sembra essere venuta meno.

Il Fatto 6.7.17
Consip, Vannoni indagato per favoreggiamento: interrogato, l’amico di Matteo Renzi fa marcia indietro
Interrogato il capo di Publiacqua: marcia indietro sulle accuse a Lotti per la soffiata anti-microspie
di Antonio Massari

Un’altra accusa di favoreggiamento nel caso Consip. Questa volta, nel registro degli indagati, finisce Filippo Vannoni. Parliamo del renzianissimo presidente di Publiacqua a Firenze. Fu lui a dichiarare dinanzi ai pm di Napoli di aver saputo dell’indagine su Consip dall’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, oggi ministro dello Sport, Luca Lotti. E in modo molto più blando lasciò intendere che, della vicenda Consip, in qualche modo, era venuto a conoscenza persino l’ex premier Matteo Renzi.
Interrogato ieri dalla Procura di Roma, alla presenza del suo avvocato, Vannoni ha sfumato la versione dei precedenti interrogatori, ritrattando in parte alcune dichiarazioni su Lotti. Nello stesso tempo, i pm romani Paolo Ielo e Mario Palazzi gli hanno contestato l’accusa di favoreggiamento a vantaggio degli indagati nell’inchiesta Consip. Accusa che nasce, il 20 dicembre scorso, dalle dichiarazioni dell’ex ad della centrale pubblica degli acquisti, Luigi Marroni, che dichiara di aver saputo di indagini in corso da quattro fonti diverse: Vannoni, appunto, il presidente di Consip Luigi Ferrara, il generale Emanuele Saltalamacchia e da Lotti. È per questo, racconta ai pm Marroni il 20 dicembre, che decide di bonificare gli uffici dalle microspie. Trovandole.
Di lì a poco è proprio Lotti – anch’egli indagato per rivelazione del segreto e favoreggiamento, come il comandante dell’Arma Tullio Del Sette e il generale Emanuele Saltalamacchia – a chiedere di essere ascoltato dalla Procura di Roma. Alla quale racconta la sua versione dei fatti e il suo rapporto con Vannoni. E la ricostruzione di Lotti – come risulta dal suo verbale, pubblicato in esclusiva da Davide Vecchi sul Fatto – è ricca di colpi di scena. Il 21 dicembre, infatti, dopo aver confermato ai magistrati di Napoli che anche il ministro dello Sport era nel ventaglio di nomi che avevano allertato il Giglio Magico sull’inchiesta Consip, Filippo Vannoni prende un treno per tornare a Firenze. Però decide di spezzare il percorso in due tappe. Scende a Roma. E si precipita a Palazzo Chigi. Per far cosa? Per riferire, anche al suo amico ministro, quel che ha appena dichiarato ai pm napoletani.
Il dato più bizzarro è che però, secondo le dichiarazioni di Lotti, Vannoni gli confessa di aver mentito ai pm sul suo coinvolgimento. Lotti, che dichiara di conscere Vannoni dal 2008, dice di non averlo mai incontrato nel 2016, tranne che in un’occasione: proprio quel 21 dicembre. E per una casualità. Lotti infatti racconta di averlo incontrato per caso, proprio la mattina di quel 21 dicembre, alla stazione di Firenze, quando lo saluta velocemente, mentre Vannoni gli dice di essere diretto a Napoli. I due prendono lo stesso treno, ma soltanto fino a Roma, visto che Vannoni prosegue per il capoluogo campano. Al rientro ripassa da Roma, va da Lotti, e gli racconta di aver mentito. Tanto che il ministro dichiara a verbale di avergli risposto: “Non ti do una testata per il rispetto del luogo nel quale siamo”.

Il Fatto 6.7.17
La solidarietà dei giornalisti: “Azione chiaramente intimidatoria”

Alle perquisizioni nei confronti di Marco Lillo hanno risposto ieri l’Ordine e il sindacato dei giornalisti. Nell’esprimere “solidarietà” al collega, il Consiglio nazionale dell’Ordine manifesta “preoccupazione” per “un tentativo di minare la libertà di informazione” e “ricorda che nel momento in cui viene a conoscenza di una notizia il compito di un collega è quello di informare correttamente l’opinione pubblica. Non è quindi più accettabile una situazione in cui i cronisti giudiziari vengono sistematicamente intimiditi e perquisiti”.
La Federazione nazionale della stampa (Fnsi), con il segretario Raffaele Lorusso e il presidente Giuseppe Giulietti, osserva che “si cerca di risolvere un problema reale, quello della fuga di notizie, colpendo chi invece ha il dovere professionale di dare le notizie nell’interesse dei cittadini ad essere correttamente informati” e sottolinea che la perquisizione a Lillo è “un’azione dai chiari contorni intimidatori”.
“Pur di non vedersi cestinare una querela per diffamazione – scrive il segretario dell’Associazione stampa romana, Lazzaro Pappagallo – i legali di Alfredo Romeo, presunto perno dell’assalto alla Consip, si servono dell’obbligo dell’azione penale per frugare tra le fonti di Lillo e, in buona sostanza, per intimidirlo”. Stampa romana “ricorda alle Procure che il lavoro dei colleghi non è merce di scambio nella partita delicatissima di appalti pubblici così rilevanti” e “ritiene che sull’accesso agli atti giudiziari si possano costruire insieme percorsi condivisi e praticabili”. Secondo l’Ordine di giornalisti del Lazio le perquisizioni “rischiano di apparire come intimidazioni nei confronti dei cronisti”.

Il Fatto 6.7.17
“Senza la segretezza delle fonti non esiste un’informazione libera”

Da stamattina e fino al tardo pomeriggio militari della Guardia di Finanza e consulenti tecnici, su ordine della Procura di Napoli, hanno perquisito a Roma e in Calabria abitazioni e ufficio del vicedirettore del Fatto Quotidiano, Marco Lillo (…). Sono stati sequestrati telefoni, tablet, pc, pen drive, cd e dvd appartenenti a Lillo e anche a persone a lui vicine, estranee alla sua attività professionale. Telefono e computer sono stati sequestrati anche al collega Fabio Corsi, Art director del Fatto. (…) Solo oggi, dopo oltre una settimana, è stato restituito il telefonino a Federica Sciarelli, conduttrice di Chi l’ha visto?: era stato sequestrato dalla Procura di Roma (…). Siamo certi che le Procure di Roma e Napoli conducano con altrettanta solerzia e determinazione le indagini sugli appalti miliardari della Consip e sulle rivelazioni di segreto che nel dicembre 2016 consentirono ai vertici della centrale acquisti pubblica di ripulire i loro uffici dalle microspie collocate dai carabinieri su ordine dei pm del capoluogo campano, vanificando in larga parte l’indagine. Tuttavia, fino a oggi, non abbiamo avuto notizia del sequestro di telefoni e pc dei principali presunti responsabili, dal ministro Luca Lotti a Tiziano Renzi.
Ferma restando la nostra incrollabile fiducia nella magistratura e negli organi di polizia giudiziaria, occorre sottolineare la valenza intimidatoria del sequestro di telefoni e memorie digitali dei giornalisti, che attenta alla segretezza delle fonti senza la quale non può esistere un’informazione libera. (…). Piena solidarietà ai colleghi Corsi, Lillo, Sciarelli e alle persone in vario modo coinvolte nell’operazione di oggi.

Il Fatto 6.7.17
Dai fratelli Galileo e Galilei alle lotte intestinali di Firenze
Gli svarioni più esilaranti degli studenti di fronte all’ultima sfida scolastica
Sui banchi – Sono oltre 505 mila gli studenti italiani che stanno affrontando l’esame di Stato
di Tommaso Rodano

Sono giorni di maturità: orali, tesine, notti insonni e qualche strafalcione terrificante. Da un po’ di anni sul Fatto
mettiamo insieme quelli più comici e surreali, grazie alle segnalazioni degli insegnanti e degli stessi studenti. Molte sono arrivate alla nostra casella di posta (lettere@ilfattoquotidiano.it), altre sono state raccolte in Rete dal sito Skuola.net. Un modo per riflettere sulla deriva del sistema scolastico, ma soprattutto per stemperare la tensione in vista dell’esame.
Fantasia poetica. “L’espressione ‘Ossi di seppia’ significa che Montale si sente solo come un pesce sbattuto sugli scogli”. Visionario.
Indirizzo Ostetricia. Professore: “Mi descriva la legge della gravitazione universale”. Studente: “Prof, ma la gravidanza universale non l’abbiamo fatta”. Non si riesce mai ad arrivare in fondo a questi maledetti programmi.
Allegria. Liceo classico. Dopo tentennamenti nell’analisi delle poesie di Pascoli, il professore stremato chiede di parlare in generale della poetica pascoliana. Il candidato, sollevato, esclama: “La poesia di Pascoli presenta tratti di serenità e gioia”. Il fanciullino ha scoperto il Prozac.
Evergreen. Questa torna tutti gli anni: “Gabriele D’Annunzio era un noto estetista”. Il superuomo che si faceva le lampade.
Evergreen/2. “I Malavoglia provarono a vendere dei cuccioli di lupo”. L’incapacità di distinguere i lupini dai lupetti è un grande (e tragico) classico della maturità.
Soluzioni drastiche. Commissario: “Quale avvenimento pose fine al conflitto tra Stati Uniti e Giappone, nel 1945?”. Studente: silenzio. Commissario: “Un’esplosione mai vista prima…”. Studente (esitante): “Forse il lancio del primo uomo nello spazio?”. Così la donna cannone, quell’enorme mistero volò.
La storia siamo noi. “I partigiani italiani combattevano per unirsi alla resistenza anglosassone”. Dalle colline alla Manica.
La storia siamo noi/2. “La causa della Prima guerra mondiale fu la polveriera baltica”. Il famoso vento del Nord.
La storia siamo noi/3.
“De Gasperi? Era un ministro di Berlusconi”. E Gasparri un illuminato statista.
Vedo/non vedo. Professore: “Dove era presente il fenomeno del proibizionismo?”. Studente: “Nei bar”. Non fa una piega.
Fashion blogger. “Ai tempi di Mussolini c’erano le camicette nere”. L’eleganza del ventennio.
Problemi di digestione. “A Firenze c’erano guerre intestinali tra guelfi e ghibellini”. Combattute rigorosamente al bagno.
Bolt Marinetti. “Il futurismo è una poesia che va di corsa”. Verso la bocciatura.
Bolt Mussolini.Professore: “Cosa ci fu nel ‘22?”. Studente: “Ci fu la… corsa su Roma”. “E chi la vinse?” “Mussolini”. Conclusione impeccabile.
Genio! “Il New Deal ? Una specie di 80 euro per tutti!”. Renzi, assumilo!
Comprovata eleganza. “Dopo il ‘43, in Italia, assistiamo alle serate nelle fabbriche milanesi”. Dress code?
Vietato ai minori. “Durante la guerra, le donne andarono a lavorare perché tutti i membri maschili andarono in guerra”. Conflitto pornografico.
Un po’ di confusione. Docente: “Qual è la differenza tra Aids e sifilide?”. Studente: “L’Aids è virale e la sifilide venerea”. Docente: “Perché si chiama venerea?”. Studente: “Perché si trasmette attraverso le vene”. Stava andando così bene…
Testa o croce? “I Promessi Sposi si concludono con la morte di uno tra Renzo e Lucia”. Uno a caso.
Balle imperiali. Professore: “Di cosa parla la Germania di Tacito?”. Studente: “Di Hitler”. Ja, certo.
Art attack. “Questo dipinto è ‘L’Urlo’ di Van Gogh”. Ovviamente, quello che ha cacciato quando si è tagliato l’orecchio.
Mano ignota. “A Hiroshima nel 1945 ci fu un grande terremoto che provocò il crollo di un’importante centrale nucleare, con conseguenti rischi per le persone e l’ambiente”. Maturità-tsunami.
Siamesi. “Galileo e Galilei erano due fratelli scienziati”. Due geni is megl che uan.
Uno, nessuno e… “Una data importante per Pirandello fu quando vinse l’Oscar”. La vita è bella.
Eroi italiani. “Craxi era il vice di Garibaldi in Sicilia”. Già puntava verso la Tunisia.
Neorealismo. “I muscoli sotto sforzo producono latte”. Chi ha bisogno delle mucche?
Ballerini vintage. Professore: “Mi può dire come si indica la lunghezza d’onda?” Studente: “La lambada”. Musica!
E il settimo si riposò. Professore: “Perché è detta Guerra dei sei giorni?”. Studente: “Perché il settimo era domenica!”. Non ci si ammazza durante i festivi.
Foscolo di nicchia. “I Sepolcri sono… underground”. Non fa una piega.

il manifesto 6.7.17
Utopie reali in attesa del sole dell’avvenire
Erik Olin Wright. Intervista al presidente dell’Associazione statunitense di sociologia. Docente all’università del Wisconsin è diventato l’animatore di un progetto globale di alternativa al capitalismo, sostenendo che Uguaglianza, libertà, partecipazione devono diventare i principî guida di cooperative, economia solidale, istituzioni e esperienze di mutuo soccorso
di Devi Sacchetto

«È sempre una sfida dire qualcosa di ragionevole in merito alle alternative al mondo esistente, specie quando si tratta di questioni complesse come un sistema sociale. Progetti esaurienti per modi alternativi di organizzare la società sembrano sempre innaturali, e sicuramente frutto di congetture. Questo è uno dei motivi per cui Marx è sempre stato scettico verso questi sforzi. Tuttavia, se non riusciamo a pensare ad alternative, il mondo così com’è si presenta sempre come naturalizzato». Gli interessi di ricerca di Erik Olin Wright – docente presso l’Università del Wisconsin e già presidente dell’Associazione statunitense di sociologia – si sono a lungo soffermarti sul concetto di classe e sulle forme di oppressione prodotte dal sistema capitalistico. Negli anni più recenti ha sviluppato un progetto, Real Utopias che è diventato anche un libro (Verso 2010). Il progetto mira all’analisi delle forme economiche alternative al capitalismo.
Abbiamo incontrato Wright durante il suo soggiorno in Italia, dove ha partecipato ad alcuni seminari e a un Convegno «Cooperative Pathways Meeting» tenutosi all’Università di Padova. Si tratta del quarto incontro nell’ambito del progetto Real Utopias, dopo quelli di Barcellona (2015), Buenos Aires (2015), e Johannesburg (2016).
Negli ultimi anni ha prestato particolare attenzione a forme alternative alla produzione capitalistica. Questa alternativa è connessa al suo progetto «utopie reali». Come si sviluppa questo progetto?
L’analisi inizia specificando i valori che si vorrebbe vedere accolti nelle nostre istituzioni sociali. Questo compito si riferisce alla necessità di elaborare fondamenti normativi di una scienza sociale emancipativa. Nel mio lavoro, mi sono dedicato prevalentemente a tre gruppi di valori: uguaglianza e onestà, democrazia e libertà, comunità e solidarietà. Questi fondamenti normativi mirano a due obiettivi: in primo luogo essi forniscono le basi per una diagnosi e una critica al capitalismo. In secondo luogo, sono fondamenti che forniscono un metro di giudizio per le alternative. Una cosa è dichiarare i valori o princìpi che animano un’alternativa e un’altra è specificare il progetto istituzionale che potrebbe realizzare questi valori. Noi vogliamo un’economia che sia profondamente e solidamente democratica.
Cosa significa in pratica?
L’utopia di cui parlo nel mio libro sulle «utopie reali» identifica i valori emancipativi di questa visione; mentre il reale guarda ai modi pratici per creare delle istituzioni in cui questi valori siano inclusi. Questo interessa due tipi di analisi. Primo, lo studio delle utopie reali comprende studi di casi concreti nel mondo, casi che, sebbene in modo imperfetto, rappresentano princìpi anticapitalistici congruenti con i valori emancipativi. Ne sono un esempio le cooperative, i bilanci partecipativi, l’economia sociale e solidale, le biblioteche pubbliche, le comunità legate da fini specifici, e molte altre cose.
Il punto saliente è capire come queste istituzioni operano, quali problemi esse si trovano di fronte, e quali cambiamenti nella loro esistenza potrebbe facilitarne l’espansione. Secondo, lo studio sulle utopie reali implica l’attenzione a proposte per nuove istituzioni che potrebbero essere organizzate all’interno delle economie capitalistiche e che potrebbero espandere le possibilità emancipative, ad esempio un reddito di base incondizionato e nuove forme di potere democratico, come assemblee legislative di cittadini/e scelti/e casualmente.
La strategia di base pensata intorno a queste linee di ricerca è che l’espansione di strutture e pratiche non capitalistiche all’interno delle economie capitalistiche possa prima o poi erodere il dominio del capitalismo. Questa strategia può essere fatta propria dal movimento operaio oppure servono nuovi movimenti sociali?
Abbiamo bisogno di entrambi. I movimenti necessitano di superare la strategia delle lotte che provano a migliorare le cose senza preoccuparsi delle trasformazioni delle condizioni di vita nel lungo periodo. Le lotte per il miglioramento delle condizioni di vita sono importanti certamente; ma noi abbiamo bisogno di riforme che cerchino di creare i «mattoni» per un futuro di emancipazione: una più incisiva democrazia in economia, nello stato e nella società civile.
Questi mattoni sono anche nell’interesse di un’ampia gamma di identità sociali e sono perciò congruenti con l’aspirazione di molti movimenti sociali popolari.
L’anticapitalismo è un modo di unire movimenti operai e molti altri movimenti sociali che si impegnano sull’ambiente e su varie forme di oppressione e diseguaglianze quali il genere, la «razza», l’etnicità, il sesso, la disabilità e l’emarginazione.
I movimenti sociali più recenti negli Stati Uniti e in Europa non sembrano essere basati su questioni relative alla classe (Occupy, 15M, etc..). Pensa che la questione di classe rimanga importante nell’attuale situazione globale?
Il mio punto di vista è abbastanza semplice: se il capitalismo rimane centrale, allora la classe deve essere importante, perché una delle caratteristiche che definisce il capitalismo è la sua struttura di classe basata sulle relazioni di potere. Questo non significa che l’identità di classe dei lavoratori rimanga importante come nel passato.
L’identità di classe operaia quale base per un’azione collettiva è stata infatti indebolita a causa di fattori sia strutturali (incremento della frammentazione ed eterogeneità della forza lavoro) sia politici (l’individualizzazione dei rischi, risultato delle politiche neoliberiste, in particolare grazie alla privatizzazione delle responsabilità). Ma questo non implica che la classe come struttura di relazioni di potere sia caduta verticalmente per quanto riguarda sia la determinazione delle condizioni di vita delle persone sia le forme del conflitto.
Negli ultimi trent’anni molti ricercatori hanno sottolineato come il capitalismo si stia strutturando attraverso catene del valore globali. Ma queste categorie possano essere di un qualche aiuto per comprendere la nuova organizzazione del capitalismo contemporaneo?
Non c’è dubbio che la produzione si strutturi oggi attraverso complesse catene e reti globali del valore. Ogni merce che arriva sul mercato è assemblata attraverso input – dalle materie prime ai semilavorati – prodotti in varie parti del mondo. Ma è anche importante sottolineare come molte delle attività economiche rimangano radicate a livello locale. In quest’ambito locale c’è infatti maggiore spazio di azione di quanto le persone pensino, in particolare per quanto riguarda la tassazione.
Quando la socialdemocrazia raggiunse il suo massimo splendore, la maggior parte della tassazione che sosteneva lo stato sociale proveniva dalla redistribuzione delle tasse dei lavoratori, non dal trasferimento dei profitti allo Stato. L’argomento critico rimane il livello di solidarietà tra salariati e la loro volontà di vedere la loro qualità di vita dipendere da quello che possiamo chiamare salario sociale piuttosto che dal loro «salario individuale».
Negli ultimi anni negli Stati Uniti e in Europa alcune delle più importanti proteste sono state sostenute dai lavoratori migranti. Pensi che la i lavoratori migranti siano in grado di modificare a fondo la classe operaia occidentale?
Negli Stati Uniti i lavoratori migranti sono così vulnerabili alla deportazione che è difficile definirli come un’avanguardia. Sospetto che questo sia vero anche per l’Europa. Inoltre le proteste dei lavoratori migranti spesso alimentano le divisioni razziali ed etniche, e quindi non è chiaro se questo di per sé favorisca nell’avvenire la ripresa di nuove solidarietà necessarie per la rigenerazione del movimento operaio.
Ma sono divisioni che devono essere perciò superate. Questo è successo nel passato in alcuni luoghi, sebbene altrettanto spesso questi sforzi siano falliti. Comunque, è chiaro che ogni rinnovamento del movimento operaio deve coinvolgere il lavoro migrante.

il manifesto 6.7.17
Se la psicanalista vuole essere dea. Un gioco di doppi tra le ossessioni
Serie tv. «Gypsy», la nuova serie targata Netflix di Lisa Rubin
di Mazzino Montinari

Lisa Rubin, al suo esordio come autrice di una serie, si è affidata a una narrazione tradizionale, scegliendo un percorso lineare nel quale i diversi elementi si mescolano senza disorientare lo spettatore, come ad esempio accade in tutto Twin Peaks.
Con il prodotto di David Lynch, Gypsy (visibile su Netflix) condivide la presenza di Naomi Watts, qui protagonista indiscussa di un racconto a tinte noir dove erotismo e ricerca/perdita dell’identità agitano i diversi personaggi.
L’attrice che in Mulholland Drive era Betty e Diane, anche in Gypsy si sdoppia, ma in questo caso la Jean Holloway, psicologa, moglie innamorata e madre di una figlia che vorrebbe essere un maschio, assume con piena consapevolezza l’identità di Diane, già ancora lei (!), per frequentare le persone che rappresentano l’ossessione dei suoi pazienti, e quindi per governare i fatti come una dea capricciosa.
«Ho sempre pensato che le persone determinassero la propria vita», dice Jean all’inizio. Ma, riconosce l’analista, c’è qualcosa che si oppone: l’inconscio. Forse, però, esiste un’altra forza ancora più potente: la presenza degli altri. Entrare in contatto con il prossimo rende imprevedibile l’esito di ogni intenzione. Impedisce a una dea capricciosa di mettere ordine, irretendola nel gioco delle parti, perché anche lei è una tra gli altri.