sabato 8 luglio 2017

Repubblica 8.7.17
Il nodo invisibile al collo del Pd
di Ezio Mauro

COME in Ubu re o in qualsiasi pièce del teatro dell’assurdo, c’è qualcosa di surreale nell’ultima discussione che incredibilmente divide e aggroviglia il Pd, davanti alla sua opinione pubblica ormai pronta a tutto, ma disorientata e sfinita. Stiamo alla cronaca dell’ultima direzione: da una parte due ministri, Franceschini e Orlando, che pongono il tema delle alleanze, giudicandole necessarie per vincere, dall’altra il segretario Renzi che respinge la questione come un latinorum per addetti ai lavori e invita invece il Pd a «parlare ai cittadini» cominciando dal lavoro, dall’immigrazione, dall’Europa e dallo ius soli.
Il risultato è che ancora una volta gli elettori vedono un Pd chiuso in una disputa astratta, metodologica, che riguarda sempre i preliminari della politica, rinviando comunque il momento di scendere in campo. Come se ci fosse tempo da perdere. Come se davanti alla sfida del populismo grillino e della destra risorgente ci fosse spazio per aspettare che il vertice del Pd si metta d’accordo sull’alfabeto da usare per dichiarare la guerra, sulla grammatica e sulla sintassi invece di concentrarsi sulla battaglia. Dimostrando così all’universo mondo che in quella comunità non c’è più una lingua comune, riconosciuta, accettata e praticata da tutti.
IN REALTÀ i dirigenti della sinistra sono specialisti nel costruire false strutture argomentative e polemiche (le «quistioni», le chiamava Pajetta) quando non vogliono svelare apertamente le ragioni del loro dissenso. È evidente a tutti, infatti, che un partito deve «parlare ai cittadini», soprattutto in una lunga campagna elettorale come quella che si aprirà dopo le ferie estive. Ma è altrettanto evidente che un grande partito che ha radici culturali in formazioni secolari e popolari non può ridursi al suo scheletro programmatico, in un risucchio di prassi che annulla i valori, la tradizione, la storia. Significherebbe disgiungere gli ideali dalla rappresentanza di interessi legittimi, due elementi che devono invece far parte insieme della moderna dotazione di un partito democratico e nazionale: altrimenti ridotto a pura lobby politico-istituzionale, che si muove sulla spinta degli interessi prevalenti e convenienti di ogni singola fase, senza un profilo culturale e civile, dunque senza una specifica identità culturale.
Nello stesso tempo, è ben chiaro a tutti i contendenti che una grande forza con ambizioni di rappresentanza, di governo e di cambiamento deve tenere insieme una presenza forte e incisiva nei progetti e nei programmi che riguardano la vita concreta dei cittadini, con una dimensione politica costante, che elabori la realtà del Paese, la storia e la tradizione della sinistra riformista per decidere le scelte strategiche necessarie, le svolte, l’aggiornamento identitario: se è il caso, anche le alleanze, quando si tratta di ragionare sui numeri, sulla possibilità di vincere o di perdere, sulle affinità e sulle preclusioni.
Perché allora sollevare una falsa disputa, quando la questione è chiara? Perché dietro il non detto del Pd, dietro le due formule della “coalizione a sinistra” e della “vocazione maggioritaria” c’è il nodo invisibile — eppure scorsoio — della candidatura di Renzi alla premiership. In poche parole, il problema è questo: Renzi si è rimangiato la promessa di lasciare la politica se sconfitto al referendum perché convinto di potersi riprendere Palazzo Chigi, gioco che per lui vale qualsiasi candela. A questo fine ha combattuto e vinto le primarie del Pd, e oggi fa un mestiere che non credo gli piaccia e per cui forse non è adatto, nell’attesa di giocarsi tutte le carte nella campagna elettorale per il governo, la sua vera partita. Gli ostacoli sono la legge elettorale proporzionale, che invita ad accordi dopo il voto senza leadership “unte” e prestabilite, e la configurazione ormai tripolare del sistema politico, che sembra vanificare ogni vocazione maggioritaria preventiva.
Una coalizione a sinistra rimetterebbe in discussione la premiership, scegliendo magari dopo il voto un candidato che rappresenti il minimo comune denominatore, come talvolta è accaduto nell’esperienza democristiana, e riporterebbe Renzi in alto mare, annacquando in quel mare il risultato delle primarie. Questo lo sanno Franceschini e Orlando, che potrebbero così riaprire surrettiziamente i giochi nel Pd, chiusi con le primarie, ma mai blindati definitivamente nonostante il prezzo di scissioni sanguinanti passate e future. Ecco perché Renzi vuole mani libere, coltivando l’idea di una campagna elettorale di vita o di morte, in cui si gioca tutto, pur di non mettersi nelle mani dei suoi compagni di partito. I quali sospettano che abbia già un accordo per finire nelle mani di Berlusconi con un governo di larghe intese, che lo porterebbe sì a Palazzo Chigi, ma sulla carrozza sbagliata, in un tamponamento ideologico per la sinistra italiana.
Naturalmente, ci sarebbe un modo per sciogliere il nodo, definitivamente, decidendo il futuro. Rispondere alla vera domanda che non viene mai fuori nelle direzioni a porte chiuse del Pd, come se il partito fosse rassegnato ad avere una scarsa cognizione di sé. La domanda che contiene tutte le risposte: cos’è il Pd oggi? Cos’è nella coscienza repubblicana dei suoi militanti, che nonostante le delusioni si presentano ogni volta davanti ai gazebo con una riserva di energia democratica che meriterebbe maggiore riconoscimento e tutela? E cosa vuole essere, nelle legittime interpretazioni del suo leader e nell’idea collettiva del gruppo dirigente?
Rispondendo a questa domanda, tutto il resto seguirebbe: gli eventuali alleati, la scelta maggioritaria, la risposta da dare al governissimo. E il leader che si facesse carico di questa risposta — fondamentale — sarebbe più forte di chi tiene tutte le carte coperte. Anche perché è questo il vero modo per il Pd di «parlare ai cittadini »: cominciando dai suoi.