sabato 1 luglio 2017

pagina99 8.7.17 
Al Pd non serve Corbyn serve un ’anima
Elezioni | Il segretario Labour, Sanders, Mélenchon, Klaver.
Leader diversi, una storia comune: i giovani sono tornati a votare a sinistra. In Italia no. Una sconfitta che si spiega con due parole: lavoro e ideali
di Gabriella Colarusso

«Il comunismo è cool? Chiedetelo a un millennial», ironizzava qualche settimana fa il Wall Street Journal, dopo che Jeremy Corbyn aveva sorpreso tutti portando il Labour a 261 seggi nel Parlamento inglese, +31, grazie al voto degli under 35. Escludendo nostalgie sovietiche dei giovani britannici, il fenomeno Corbyn racconta una tendenza in corso in diversi Paesi occidentali: i millennial hanno (ri)cominciato a votare per la sinistra. Bernie Sanders contro Hillary Clinton alle primarie del partito democratico americano (e poi Hillary contro Trump); l’ex trotzkista Jean-Luc Mélenchon in Francia, cioè un vecchio uomo di partito al posto dell’ostentatamente giovane Macron; il Green Left Party dell’europeista Jesse Klaver in Olanda, un 30enne di papà marocchino e madre di origini indonesiane, ecologista convinto, che ha scelto come colonna sonora della sua campagna elettorale I Gotta Feeling dei Black Eyed Peas e organizzava comizi nei locali, un paio di volte aperti dal rap di una band di profughi siriani. Leader diversi tra loro ma che hanno impostato la loro narrazione politica su un elemento comune: la radicalità delle proposte e la chiarezza delle scelte. L’Italia, in questo quadro, fa eccezione, come raccontano i dati elaborati dall’Istituto Cattaneo per pagina99. Dal 2013 in poi, i 18-35enni hanno progressivamente abbandonato la sinistra e i partiti tradizionali, il Pd in maniera più consistente ma anche Forza Italia, preferendo il format post-partitico del Movimento 5 stelle. Neppure la sinistra radicale o la Lega Nord sono riusciti a fermare l’emorragia. L’ascesa a Palazzo Chigi di Matteo Renzi sembrava aver invertito la tendenza, almeno per i democratici: il Pd raccolse alle europee del 2014 il 23% dei voti tra i 18-34enni, il 7% in più rispetto alle politiche dell’anno precedente. È durata poco. Con il referendum costituzionale del 4 dicembre 2016 sono stati gli under 35 a rottamare Renzi: una valanga di no, più del 63%. Cosa è successo? Una premessa per capire in che contesto ci muoviamo: non è vero che i millennial non votano più o votano sempre meno. La retorica sul disimpegno giovanile rispetto alla partecipazione politica non trova riscontro nella realtà. L’astensione tra i 18-35enni è diminuita tra il 2013 e il 2014, e anche le ultime rilevazioni sulle intenzioni di voto confermano la tendenza, non solo italiana. «È un dato che ritorna in tutta Europa», ci dice Marco Valbruzzi, analista dell’Istituto Cattaneo. «La crisi del 2008 ha prodotto una serie di movimenti, da Occupy Wall Street a Podemos in Spagna, che sono riusciti a stimolare la voglia di partecipazione dei giovani. Anche in Italia si è alzato questo vento», la speranza di un cambiamento nelle politiche seguite fino al crollo di Wall Street, «sul mercato elettorale c’era una disponibilità a mettersi in gioco ma è stata raccolta dal Movimento 5 stelle, il partito meno partito che c’è nel sistema politico italiano». Non si tratta di ribellismo, non solo almeno, ma della capacità di proporre una forma di partecipazione diversa «da quelle tipiche del Novecento». Il post-partitismo è un punto di forza del Movimento 5 stelle e la mancanza di democrazia interna non sembra scalfire la fiducia concessa ai grillini dall’elettorato giovane. Poi ci sono le idee, ma anche su questo piano la creatura di Casaleggio pare non scontare le incoerenze programmatiche o i passi falsi nell’amministrazione delle città. «Il M5s non ha tematiche particolari ma alcune idealità forti, riconoscibili, la prima è quella dell’onestà, mentre gli altri partiti che storicamente si contendevano il voto giovanile hanno perso in idealità e identità, sono diventati ideologicamente opachi soprattutto tra il 2011 e il 2013 quando Pd e Forza Italia hanno governato insieme nell’esecutivo Monti», dice Valbruzzi. Progetti chiari, scelte nette, radicalità fanno presa su una generazione cresciuta con molti miti e nessun Dio. Vale per tutte le culture politiche, anche quelle opposte al Movimento 5 stelle. Non a caso, fa notare il ricercatore, c’è anche «una componente di millennial che vota Scelta Civica, una formazione che ha una idealità diversa da quella dei grillini, europeista, ma ce l’ha». Fondamentali sono poi le ragioni sociali ed economiche che hanno portato i 18-35enni ad allontanarsi dai partiti tradizionali e dal Pd, il cui leader sembrava poterne rappresentare le istanze meglio di altri. Il lavoro è forse la principale. Renzi è arrivato a Palazzo Chigi con un’agenda per l’occupazione nelle intenzioni pro Millennial «ma i risultati raggiunti con gli interventi sul mercato del lavoro hanno deluso le aspettative». È cresciuta soprattutto l’occupazione dei 50-55enni, i dati su quella giovanile sono stagnanti o sono in decrescita, e la qualità del lavoro che c’è è fatta in grossa parte di lavoretti, occupazioni temporanee o sottopagate. Il problema non è certo solo italiano.
Uno studio di Eurofund del 2012 calcolava che il 45% dei giovani europei tra i 15 e i 29 anni è impegnato in lavori temporanei. In Gran Bretagna, un mercato del lavoro da tempo liberalizzato, si stima che oltre 1 milione di persone siano “occupate” nella Gig Economy, l’economia dei lavoretti, a chiamata e senza un salario fisso. Martin Wolf, uno dei più autorevoli commentatori economici del Financial Times, ha provato a indagare le cause della protesta populista esplosa in Europa e negli Stati Uniti e che secondo l’analista è stata solo parzialmente contenuta nelle ultime tornate elettorali, dalla Francia all’Olanda. Wolf contesta l’idea che a bruciare le polveri della rabbia siano stati solo fattori culturali, come la reazione dei maschi bianchi ai cambiamenti demografici e alla pressione migratoria. Il populismo, categoria nella quale inserisce anche il Movimento 5 Stelle, è figlio soprattutto della crisi del 2008, sostiene, i cui effetti non stati capiti fino in fondo dalle élite politiche. Gli indicatori economici di lungo periodo – «come il calo dell’occupazione nel settore manifatturiero, la globalizzazione delle catene logistiche, l’immigrazione, la disuguaglianza, la disoccupazione e la partecipazione alla forza lavoro» – scrive Wolf, mostrano che l’Italia, insieme con la Spagna, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti è stata una delle economie più colpite dal crollo del 2009. Diseguaglianza e mancanza di lavoro sono fenomeni tutt’ora in essere. La sfida per le élite occidentali sarà trovare risposte efficaci al declino delle working class. Su questo si giocherà il futuro dei millennial e anche della sinistra.