martedì 4 luglio 2017

 SULLLA STAMPA DI MERCOLEDI 4 LUGLIO

https://spogli.blogspot.com/2017/07/la-stampa-4.html


La Stampa 4.7.17
Condannato per pedofilia ritorna a dire messa
di Riccardo Arena

È tornato a dire messa, tra i fedeli di una parrocchia di una zona considerata a rischio criminalità, a Palermo, quella di corso dei Mille, nella chiesa di Maria Santissima del Carmelo ai Decollati. Stupore, imbarazzo tra i fedeli: e non perché si tratti di un prete antimafia in terra di mafia, quanto perché Paolo Turturro ha finito da qualche mese di scontare una condanna per pedofilia. Mai sospeso, mai cacciato, mai ridotto allo stato laicale: tre anni, gli erano stati inflitti per avere baciato e abusato di due bambini di 10 e 11 anni, e la metà della pena il sacerdote l’ha trascorsa nel carcere dei Pagliarelli. Tornato libero, è tornato pure sull’altare.
Ha 67 anni, Turturro: a invitarlo a celebrare è stato il parroco della chiesa dei Decollati, don Giacomo Ribaudo, anche lui prete impegnato nel sociale, molto vicino al “collega” durante la lunga vicenda giudiziaria che lo ha riguardato e che, a dispetto della severità della Chiesa contro i preti pedofili, a Turturro non è mai costata praticamente nulla. Quando era parroco della chiesa di Santa Lucia, in un altro quartiere infiltrato da Cosa nostra come il Borgo Vecchio, padre Paolo era diventato famoso per l’impegno in favore della legalità, per avere detto pubblicamente, durante la messa di Natale del 1993, di avere confessato uno degli autori della strage di Capaci. Finito sotto scorta, si era dedicato al recupero dei minori in situazioni di grave disagio e per questo aveva attrezzato il Borgo della Pace, una sorta di colonia estiva in un paese a una cinquantina di chilometri da Palermo, Baucina.
Proprio lì sarebbero avvenuti i due episodi finiti nel mirino dei magistrati. Pur tra mille imbarazzi e reticenze, un ragazzino disse in classe che il prete lo aveva baciato in bocca e che la cosa gli aveva fatto schifo. Venne fuori poi un altro caso, quello di una violenza vera e propria, avvenuta però nel 1999 e caduta in prescrizione quando il processo, nel 2014, finì in Cassazione. L’altro fatto, l’unico rimasto in piedi per la giustizia degli uomini, fu considerato «di minore gravità». Per la giustizia della Chiesa, invece, il caso non si è mai posto e il prete pregiudicato per pedofilia, una volta scarcerato, è tornato a predicare. «La gente mi accoglie con affetto – il suo commento –. Io ho portato la croce in questi anni con serenità, perché Dio è amore e perdono. Finora non ho incontrato nessuno che si mostrasse scandalizzato del mio ritorno. Ma ho scelto il silenzio».

La Stampa 4.7.17
“Pisapia alleato naturale,
Renzi non ha mai chiuso
Discutiamo di programmi”
Madia: “Ci aiutino, fuori dalla logica Matteo sì-Matteo no”
di Francesca Schianchi

Marianna Madia è il ministro della Pubblica amministrazione dal febbraio 2014, prima nel governo Renzi e ora in quello guidato da Gentiloni. Oggi sarà a Reggio Calabria, «in tour per curare l’attuazione della mia riforma», spiega difendendo i provvedimenti di questi anni da chi, fuori dal Pd, li critica. E lancia un appello a Pisapia: «E’ il nostro alleato naturale, discutiamo insieme di temi e non di veti su Renzi».
Partiamo dal Pd: come definisce il risultato delle amministrative?
«Avremmo preferito fosse migliore, anche se vanno riconosciute vittorie importanti come Padova. Ma è innegabile che avremmo sperato qualcosa in più».
Che impressione le ha fatto la piazza di Pisapia, Bersani e D’Alema?
«Pisapia e tutto ciò che gli ruota attorno sono gli unici potenziali alleati naturali del Pd: da loro mi aspetto che arrivi un innalzamento del dibattito, che portino la discussione su ciò che fa bene al Paese e ciò che bisognerà fare nella prossima legislatura, e non che la trascinino al ribasso su Renzi sì-Renzi no».
Lo hanno già detto: discontinuità con le politiche di Renzi.
«Nel suo discorso, Pisapia non è stato così chiaro».
Le critiche più aspre sono per il Jobs Act: per lei è di sinistra?
«E’ un provvedimento fortemente di sinistra che dà diritti a chi non ne aveva, a una generazione che era ormai abituata ai contratti a progetto».
Bersani sferza voi dirigenti del Pd: qual è la vostra idea del mondo, chiede.
«Vorrei capire cosa ne pensa lui dell’assunzione dei precari della Pa, dello sblocco dei contratti pubblici che ci accingiamo a fare, dell’approvazione del Foia che aumenta la trasparenza…».
Renzi ha già bocciato le coalizioni coi grandi tavoloni modello Unione: dialogo impossibile?
«Renzi non ha mai detto che Pisapia non può essere un alleato: affermarlo è una forzatura del dibattito. Semplicemente, dice di parlare delle cose da fare».
Beh, però un’alleanza con D’Alema la esclude, no?
«Non parliamo delle persone ma della natura dei provvedimenti».
C’è il rischio di larghe intese con Berlusconi? Orlando ha già detto che in quel caso chiederebbe un referendum tra gli iscritti…
«L’alleanza con Berlusconi non è all’ordine del giorno perché Forza Italia è alternativa a noi e non è un alleato naturale. Mentre noi superiamo le leggi sulla Pa di Brunetta, stiamo a discutere di presunte larghe intese con loro: un dibattito da marziani».
Molto dipenderà dalla legge elettorale: lei quale vorrebbe?
«Io sono entrata in Parlamento nel 2008 con Veltroni, sono figlia del maggioritario. Ma so bene quanto è difficile approvare una legge elettorale».
Ministro, come si lavora in un governo sempre esposto a fibrillazioni?
«Si lavora in assoluta continuità col governo Renzi e, in realtà, rispetto alla durata media dei governi in Italia, non ci sono tutte queste fibrillazioni…».
Oggi però ce n’è una nuova: Emiliano che definisce «invotabile» il decreto sulle banche…
«Quel decreto è strumento fondamentale per tutelare risparmiatori, imprese e lavoratori».
Sulla questione migranti lei è d’accordo con la minaccia di chiudere i porti italiani alle navi di Ong straniere?
«Cito il ministro Delrio: ha detto che non è immaginabile né ipotizzato. L’Italia ha fatto tanto non tradendo la sua identità: mi faccia dire che sono fiera di come si sta comportando la Pubblica amministrazione, dai medici ai sindaci. Ma la Ue su questi temi non può essere lenta ma reattiva. E per noi è doveroso chiederlo».
Francia e Spagna sono contrarie ad accogliere navi nei loro porti.
«L’accordo di Parigi mi sembra rappresenti un passo nella giusta direzione. Ora Bruxelles faccia la sua parte fino in fondo».
Lei per ottobre ha promesso il rinnovo dei contratti della Pa: è sicura che in quei giorni non staremo per votare per le politiche?
«Quello che ho fatto resta comunque come patrimonio di chi verrà. A cominciare dalla riforma della Pa, di cui in questo periodo sto curando l’applicazione, girando l’Italia con una campagna chiamata #terzotempo per verificare come viene attuata, dal digitale alle semplificazioni alle nuove norme sulla trasparenza. Ma non mi pare ci sia l’ipotesi del voto. Chi sostiene in modo convinto il governo è il segretario del Pd: non so se problemi possono venire da altre forze politiche».

Il Fatto 4.7.17
Pisapia è l’uomo del “quasi”: quasi tutto, quasi niente
di Andrea Scanzi

C’è Pisapia, all’anagrafe Giuliano, e c’è Orlando, il Jack Pisapia che non è uscito dal gruppo. In due non ne fanno uno, o almeno così sembra. Un po’ si somigliano, anzitutto nel collezionare i quasi. Quasi di sinistra, quasi di rottura, quasi alternativi a Renzi. Quasi di opposizione, quasi arrabbiati, quasi ribelli (parecchio quasi). Entrambi odiano il carisma, essendo in ciò pienamente ricambiati. Come noto, una delle ultime frasi scritte da Salinger prima di andarsene fu questa: “Uscendo di casa ho visto un frassino. Mi è parso anonimo, poi però ho visto Pisapia e Orlando in tivù e mi è venuta voglia di rivalutare il frassino”. Pisapia è da un po’ sulle prime pagine, e già questo ci fa capire uno dei motivi della crisi dell’editoria: disquisire di ciò che interessa solo all’editoria, in un continuo trip da metalinguaggio solipsistico (l’ultima frase non vuol dire nulla, ma dà l’illusione di essere arguta. Come gli interventi di Philippe Daverio). Conoscete una persona – non cento: una – che non vede l’ora di votare Pisapia? No. Eppure se ne parla come se, dalle scelte di questo novello Berlinguer, dipendessero le sorti della sinistra italiana. Di più: del Paese intero. Di più: dell’intera galassia. Prima che l’iconoclastia ci travolga, com’è poi tipico del Fatto, vanno qui ribaditi due concetti importanti. Uno: Pisapia è una brava persona. Due: Pisapia è stato un buon sindaco. Non è poco: magari, nella sinistra italiana, ci fossero stati più Pisapia e meno Genny Migliore. Da qui però a farne il nuovo Subcomandante Marcos, ce ne passa. Anche perché lo stesso Pisapia, arrogandosi una forza perlopiù immaginaria, prim’ancora di “ricostruire il centrosinistra” ha posto dei veti. Niente Fratoianni, perché lui non vuole; niente Civati, perché lui non vuole; niente Falcone-Montanari, perché lui non vuole. Già così si evince che l’idea di Pisapia, peraltro assai confusa, non è tanto quella di un nuovo centrosinistra ma di un vecchio centro, si presume più accettabile di quello di Renzi (ci vuol poco) e di Alfano (va be’, Alfano). L’uomo non manca di testimonial importanti, da Claudio Amendola a Sabrina Ferilli. Non si capisce però dove voglia andare. E qui torniamo a quel suo collezionar “quasi”. Se umanamente è un galantuomo, politicamente Pisapia chi è? A che gioco gioca? Da che parte sta? Sinora è stato (inconsapevolmente?) uno specchietto per le allodole al servizio di Renzi. Un abbindolatore di delusi di sinistra comprensibilmente schifati dal renzismo, che Pisapia porta a sé con l’illusione di “essere di sinistra”. Per poi però consegnarne i voti a Renzi. In questo senso, Pisapia è a tutt’oggi un fiancheggiatore del renzismo: se è questa la sua idea politica, il suo più che un progetto nazionale è una iattura biblica. Anche a Milano, con quella lista-civetta cara ai Lerner e Vecchioni, non ha fatto che condurre alla vittoria Sala. Cioè un berlusconiano. Cioè Renzi. Tomaso Montanari rimprovera a Pisapia – tra le mille cose – di avere votato sì al referendum del 4 dicembre. È però solo una delle tante criticità, anzi ambiguità, di Pisapia. Mentre tutta la stampa di quasi-sinistra ne parla, e con ciò spera (per esempio Scalfari) che assurga a decisiva stampella dell’Allegra Combriccola dei Lotti&Picierno, Pisapia continua a dire tutto e il suo esatto contrario. Prende tempo, tergiversa, cincischia. Se Veltroni era l’uomo del “ma anche”, lui è quello del “quasi”. Quasi renziano, quasi orlandiano, quasi prodiano. Quasi tutto. Quasi niente.

Corriere 4.7.17
«Buone idee nei due campi Ma tra Matteo e Insieme un accordo è impossibile»
di Aldo Cazzullo

Il sindaco: sto con il Pd, però Renzi è un po’ indisponente
Migranti non solo da sfamare, la sfida è farli lavorare
Sindaco, lei sta con Renzi o con Pisapia?
«Sto col Pd. Il weekend mi consegna due consapevolezze, una bella una brutta».
La bella?
«Vasco è un mito».
La brutta?
«Non si arriverà a nessuna intesa tra Pd e Insieme prima delle elezioni».
Perché dice questo?
«Lo dico con rammarico, ma vedo qualcosa che si avvicina molto a un’ostilità. Non sarebbe logica; ma il sentimento è questo, e a volte i sentimenti non sono logici. Anch’io ho tentato di richiamare la necessità di un accordo. Si può continuare a provare; ma nella vita tutto ha un tempo. Temo che l’unica soluzione sia che ognuna di queste componenti sfidi non solo l’altra ma tutto l’arco costituzionale, in termini di proposte. Gli elettori decideranno».
Per quale motivo è impossibile un’alleanza vasta di centrosinistra?
«In parte è legato alla personalità di Renzi. Ma onestamente non ho visto segni di convergenza. Ho sentito buone idee, in entrambi i campi. Ripeto: io sto col Pd. Ma nel discorso di Bersani mi è piaciuto ad esempio il passaggio sulla necessità di nuovi investimenti».
Cosa c’è che non va in Renzi?
«Come sempre si torna a lui. Io lo apprezzo, perché non è afflitto dalla tipica voluttà della sconfitta che caratterizza la sinistra italiana. Le primarie gli hanno dato ragione, e le primarie si rispettano. Detto questo, Renzi è un po’ indisponente. Lo sa anche lui. Resta da capire se questo suo modo d’essere fa arrabbiare solo i compagni di viaggio della politica, o anche gli elettori. Lo vedremo presto, alla resa dei conti. Io all’assemblea dei circoli Pd, con la libertà di uno che non ha la tessera, mi sono sentito di fargli presente che le amministrative sono state un campanello d’allarme».
Renzi replica che le politiche sono un’altra cosa.
«Non ci credo molto. Temo che il tipico emiliano o toscano o romagnolo di famiglia ex comunista che ha votato Lega continuerà a farlo. Forse ha ragione Cacciari: Renzi non cerca un’alleanza con Insieme perché ritiene di pescare di più verso il centro. Alla conta dei voti capiremo se è la strategia giusta».
Che impressione le fa il ritorno di Prodi?
«Lo stimo, abbiamo un ottimo rapporto, lo conosco da anni. Credo che durerà molta fatica a fare da collante tra le varie anime. Era giusto provarci. Ma conosco anche il suo caratterino. Non credo avrà ancora voglia di giocare questa parte in commedia».
È inevitabile dopo il voto l’alleanza tra Renzi e Berlusconi?
«Sarebbe obiettivamente una delusione. Bisogna anche vedere con quali rapporti di forza si arriva. È essenziale per il Pd avere un voto in più del secondo partito».
Chi sarà il candidato premier del Pd?
«È un dibattito vano. Non credo che lo diranno. E non vedo Renzi che prima del voto annuncia: il candidato premier non sono io. Sono certo che Renzi covi l’ambizione di essere lui; e se così non fosse, bisogna capire chi rimane in campo. Non è facile fare il presidente del Consiglio avendo una forte personalità come Renzi alla segreteria Pd. Se sei troppo morbido ti considerano debole; ma se sei troppo forte rischi di spaccare. Renzi è tutto fuorché stupido, queste cose le sa meglio di me».
Gentiloni è troppo morbido?
«Stimo Gentiloni. Ha ereditato una situazione difficile. Compatibilmente con quanto poteva fare, ha fatto il meglio. A lui va la mia riconoscenza da italiano. Non penso sia troppo morbido. Ma un conto è fare un anno; non so se riuscirebbe a reggere un mandato lungo, con Renzi che lo incalza il mattino, il pomeriggio e la sera».
Di chi è il merito del modello Milano? Chi è stato il miglior sindaco? Pisapia, la Moratti, Albertini?
«Il più amato è stato Tognoli. Albertini 1 è stato efficace. La Moratti ha avuto la grande intuizione dell’Expo e uno standing internazionale che non aveva nessun sindaco; ma si è ritrovata ostaggio delle pressioni di Lega e Forza Italia, che ne limitavano l’azione e ha vissuto il suo mandato troppo isolata dalla città. Pisapia ha avuto il merito di ridare entusiasmo a componenti della società milanese che si erano sentite escluse».
E lei?
«Io vorrei aver imparato un po’ da tutti. Esprimere una sintesi tra pragmatismo, operatività e zero deroghe ai principi, ai diritti che sono nel dna dei milanesi; anzi, sui diritti vorrei spingermi ancora più in avanti».
Ma lei tra Prodi e Berlusconi chi votava?
«Prodi. Ho sempre votato a sinistra. Il primo voto l’ho dato ai repubblicani, poi ho avuto il mio innamoramento per i radicali. Quindi ho votato per gli antesignani del Pd».
Che impressione le fa invece il ritorno di Berlusconi?
«Per lui il proporzionale è una manna: gli permette di cercare un ruolo non più da trionfatore ma da ago della bilancia. Penso che possa fare al massimo il padre nobile, non lo vedo nel ruolo di leader. Mi pare che loro stiano peggio di noi: qualche slogan un po’ stanco sulle tasse; e la strumentalizzazione dei migranti».
Non crede alla flat tax, l’aliquota uguale per tutti?
«A tutti, anche a me, piacerebbe pagare il 25%: ma gli altri soldi chi li mette? Non mi pare che il Paese sia abbastanza solido, che abbia i muscoli per affrontare una politica fiscale del genere».
L’emergenza migranti però è molto seria. E crea problemi soprattutto in periferia, tra i ceti popolari.
«Io su questo tema ho una posizione un po’ eterodossa: è molto difficile distinguere tra coloro che fuggono dalla guerra e coloro che fuggono dalla povertà assoluta. Vedo che nelle ultime ore forse si è trovato qualche accordo con Francia e Germania; ma sarà il cinquantesimo annuncio. Bravo Minniti che ci prova: una soluzione bisogna trovarla. Alla fine le città la loro parte l’hanno sempre fatta; ma un piano nazionale, al di là della redistribuzione dei migranti alle Regioni, non c’è».
Ripeto: il prezzo dell’immigrazione irregolare lo pagano i ceti popolari, i milanesi delle periferie.
«Mi sento milanese fino al midollo, con i milanesi parlo ogni giorno. Le assicuro che non ce l’hanno con i migranti che vedono arrivare sfranti, distrutti. Le frange di intolleranza sono minime: abbiamo aperto una caserma a trecento stranieri; mediaticamente è venuto giù il mondo, nella realtà non è successo nulla. I milanesi ce l’hanno con quelli che vedono bighellonare senza far niente. Non possiamo tenerli qui per anni e limitarci a sfamarli. La sfida è farli lavorare» .
Come?
«In Germania i migranti si impegnano a studiare il tedesco e a lavorare per 500 euro al mese, in attesa che la magistratura stabilisca se hanno diritto di restare o no. Il modello è questo».
Lei è indagato per l’Expo. Se ha qualcosa da rimproverarsi, lo dica ora.
«Vorrei chiarire una leggenda, secondo cui sarei accusato di aver pagato troppo gli alberi. Non è così. La transazione con il fornitore è stata verificata dall’Avvocatura dello Stato e dall’Anac. Nessuno potrà mai accusarmi di aver fatto gli interessi di qualcuno. Stiamo parlando di procedure molto complesse. Non minimizzo nulla. So che i miei destini politici e amministrativi sono legati a quel che succederà. So pure che, se ho fatto errori, li ho fatti solo con l’intento di portare a termine Expo, senza favorire nessuno. Attendo con serenità le decisioni della magistratura».
A cos’è legato il suo destino politico? Si dimetterebbe in caso di rinvio a giudizio?
«Non sono in gioco le mie dimissioni. Mi ero autosospeso perché volevo fare una riflessione. Certo una condanna segnerebbe un punto fondamentale nel mio curriculum politico, e comunque segnerebbe me. Ma di sicuro finirò il mandato di sindaco».

Repubblica 4.7.17
Massimo Zedda
“Pisapia ignori chi gli consiglia di rompere”
Giovanna Casadio

ROMA. «Giuliano lo sentirò nei prossimi giorni e gli dirò di non farsi tirare per la giacca per andare a una rottura con il Pd. L’esigenza dell’unità del centrosinistra è più forte e intelligente e corrisponde alle esigenze del paese». Massimo Zedda, il sindaco di Cagliari, ha aderito tra i primi a Campo progressista, il Movimento di Giuliano Pisapia.
Zedda, lei non era a piazza Santi Apostoli sabato scorso per veder nascere “Insieme”, il partito di Pisapia e Bersani?
«No non sono andato, sono rimasto a Cagliari. Ma sto a quello che ci siamo sempre detti in Campo progressista, che l’obiettivo è la ricostruzione del centrosinistra».
Cosa non la convince della piega che sta prendendo “Insieme”?
«Se è la base della coalizione e del dialogo con il Pd per ricostruire il centrosinistra, allora avrà respiro e mi ci riconosco. Se invece nasce dalle divisioni, dalle fratture temo che non possa andare lontano. Non credo neppure ci sia bisogno di creare un ennesimo partito. Si tratta di riunire il centrosinistra. È l’ispirazione originaria di Giuliano, gli chiedo di non tradirla».
Le due piazze di sabato hanno mostrato invece che l’unità si allontana?
«La cosa abbastanza curiosa è che quelli che non vogliono dialogare con il Pd sono gli stessi che fino all’altro giorno stavano nei Dem o che erano tentati dall’entrarvi… ora sono i più acerrimi nemici. Penso ai fondatori dei Democratici che cercavano di convincermi quando mi candidai a sindaco che esisteva solo il Pd. C’è un’unica via da percorrere ed è quella di ragionare sul futuro del paese e di risolvere i problemi dei cittadini. E chi ci sta, ci sta».
Ci sono però differenze di programma e di politiche, non crede?
«Allearsi con il Pd non significa abbracciarlo. Noi continueremo a porre l’attenzione sui temi del lavoro, del miglioramento dei servizi ai cittadini, dell’abbattimento dei costi che gravano pesantemente sullo sviluppo, dell’eliminazione degli sprechi e delle spese superflue. Però…».
Però?
«A me pare difficile spiegare agli elettori che chi sta insieme ad amministrare Cagliari, insieme alla Regione Sardegna e in quasi tutti i Comuni italiani vinti dal centrosinistra, nel voto politico sostenga che i Dem sono infrequentabili. Oltretutto i cittadini non è che stanno a pesare i nomi, i cognomi, i soprannomi: non gliene importa nulla, non hanno tempo da perdere».
Renzi non pare avere intenzione di dialogare.
«Se Renzi risponde picche, allora sei autorizzato a rompere ma non tentare neppure è il suicidio politico del centrosinistra. Non voglio che parte del Pd possa giustificare il fatto di guardare a destra con l’indisponibilità degli interlocutori a sinistra».

il manifesto 4.7.17
Sinistra, la lista unita si può ancora fare
Sinistra. E la legge elettorale aiuta a scansare il rischio di essere minoritari o integrati. Parlare di centrosinistra crea solo disorientamento. Non c’è più alcun «campo» che possa definirsi così perché Renzi ha privato il Pd di qualsiasi sistema di alleanze. D'altra parte si deve dichiarare da subito la totale disponibilità a mettersi in gioco, dopo le elezioni, per contrattare il possibile programma di governo. Per rispondere a chi teme una deriva minoritaria
di Antonio Floridia

Dopo il Brancaccio e Santi Apostoli, sono aumentate o stanno diminuendo le possibilità che, alle prossime elezioni, si possa presentare una lista unitaria di sinistra sorretta da un progetto credibile?
Non bisogna nascondersi la realtà: molti non ci credono, e non pochi lavorano perché queste possibilità svaniscano. L’idea che si fa strada – un po’ per rassegnazione, un po’ per convinzione – è che sia inevitabile una divisione: tra una sinistra-sinistra, da una parte, e una sorta di neo-ulivismo, dall’altra.
Pesa anche l’incertezza circa le regole elettorali con cui andremo al voto: e forse qualcuno accarezza l’idea che una soglia al 3% possa facilitare questa sorta di divisione del lavoro. Ma è una illusione che tutti rischiano di pagare caro. Vediamo i termini essenziali della questione.
È CONVINZIONE comune che una prospettiva unitaria si possa fondare solo una piattaforma programmatica condivisa. Bene. I richiami ascoltati al Brancaccio sulla Costituzione come asse politico-culturale e programmatico della sinistra, i discorsi di piazza Santi Apostoli (soprattutto quello di Bersani) sulla radicale discontinuità con le politiche seguite dal Pd renziano, sono una buona base di partenza: lotte alla diseguaglianze, diritti e dignità del lavoro, politiche economiche neo-keynesiane, difesa dell’universalismo dei diritti alla salute e all’istruzione, valorizzazione dei beni comuni.
Ciò che crea divisioni sono i discorsi sulle prospettive politiche e di schieramento. Ma su questo punto, oltre a differenze reali, ci sono anche molte ambiguità che è possibile eliminare. Qualcuno – nell’area Pisapia e Mdp tende ancora a parlare di «centrosinistra»: ma cosa intende? Una qualche coalizione preventiva? A parte il fatto che la legge elettorale probabilmente non imporrà nulla in questo senso, è evidente come questa prospettiva sia sempre meno credibile e sostenibile.
Troppo stridente il contrasto con i giudizi sulle politiche del Pd renziano e con la discontinuità che pure viene evocata. Si ha l’impressione che questo richiamo (peraltro, in sé, sempre meno attrattivo e mobilitante) sottenda la preoccupazione di non appiattire la nuova offerta politica entro i confini ristretti delle forze che tradizionalmente si sono collocate a sinistra del Pd. Preoccupazione sacrosanta, che però non viene fugata dalla genericità di un richiamo ad un «centrosinistra» che, oggi, non esiste; non esiste alcun «campo» pre-definito che si possa definire tale.
E non esiste perché radicale è stata la rottura maturata in questi anni tra le scelte di governo, e prima ancora la cultura politica, del Pd renziano, e tutto ciò che può essere ricondotto ad una qualche idea di sinistra. Radicale è stato anche il distacco dai mondi sociali che della sinistra dovrebbero costituire il naturale punto di riferimento.
ESISTE UN ELETTORATO di sinistra disperso e silenzioso, che avrebbe bisogno di trovare nuovi punti di riferimento e nuovi motivazioni, anche solo per tornare a votare. Ed esiste un partito di centro, il Pd, che il suo leader megalomane ha privato di un qualsiasi sistema di alleanza, e che tende a guardare a destra. In queste condizioni, parlare ancora di centrosinistra crea solo incertezza e disorientamento. E del resto (come ha fatto notare giustamente D’Alema all’assemblea romana di Mdp), che senso avrebbe avuto una scissione, se si pensa di ritrovare una base politica comune? Le prossime elezioni saranno un terreno di scontro molto aspro: solo dopo, a conti fatti, si potrà vedere se e come saranno possibili accordi e mediazioni.
A questo punto, qualcuno obietta: si rischia una sinistra di testimonianza, minoritaria, destinata all’irrilevanza. È un rischio, certo, ma può essere scongiurato. Una lista unitaria della sinistra si deve caratterizzare per un suo orizzonte ideale e per un suo programma di governo; ma anche per una precisa opzione politica: dichiarare apertamente la piena disponibilità a mettere in gioco la forza che gli elettori le vorranno dare per contrattare un possibile programma di governo (qualora, ovviamente, ce ne siano le condizioni numeriche). Questa disponibilità non deriva solo dalla probabilità che un nuovo governo possa formarsi solo sulla base di accordi in parlamento: è una strategia politica che si rivolge agli elettori del Pd e del M5S per incalzare queste forze politiche e metterne a nudo le ambiguità. Ed è un atteggiamento politico in grado di esprimere una proiezione egemonica, evitando il pericolo di un auto-confinamento in una posizione minoritaria e ininfluente.
MOLTI SI RICHIAMANO all’esempio positivo di Padova. Ma, appunto, è un caso che dimostra come la famosa «doppia cifra» si può raggiungere a due condizioni, una proposta autonoma e originale e un messaggio forte agli elettori: ci siamo, vogliamo governare, e non abbiamo timore di mediare e contrattare con altre forze (come dimostra l’alta partecipazione al voto e l’esito del ballottaggio, l’elettorato che si è riconosciuto nella coalizione civica padovana non ha per nulla esitato nell’esprimersi a favore di una coalizione, costruita dopo il primo turno).
Il sistema politico italiano sta cambiando rapidamente. È saltato lo schema che voleva ingabbiare tutto in un astratto e artificioso bipolarismo. Le culture politiche degli italiani si esprimono già attraverso una più articolata distribuzione lungo l’asse destra-sinistra: una destra xenofoba e nazionalista, una destra conservatrice, un’area centrista moderata (forse), un partito di centro (il Pd), una (potenziale) area di sinistra. E poi, naturalmente, il M5S: una forza politica che finora ha goduto di una comoda rendita di posizione, catalizzando le più svariate ragioni di risentimento sociale, ma che – in un diverso scenario competitivo – non è detto riesca a mantenere queste caratteristiche.
In tale contesto, attardarsi a parlare di coalizioni preventive non ha senso. Ancor meno senso ha, come ha fatto Prodi, invocare sistemi elettorali che le prevedano, per evitare la «frammentazione», come se non fossero stati proprio i sistemi maggioritari a esaltare il potere di veto dei piccoli gruppi (e Prodi dovrebbe saperlo!). No, è tempo di tornare ad offrire agli elettori proposte politiche chiare, con una loro identità e autonomia. Una lista unitaria non è un escamotage per aggirare le soglie: è una precondizione, necessaria anche se non sufficiente, perché l’elettorato di sinistra possa tornare a sperare di avere una voce.

La Stampa 4.7.17
Franceschini adesso prende tempo
i renziani provano a evitare la rottura
di Alessandro Di Matteo

C’è soprattutto Dario Franceschini sotto i riflettori renziani, ormai da una settimana, e adesso i vari pontieri già all’opera cercano proprio di evitare che alla direzione di giovedì vada in scena la rottura definitiva dell’asse principale che ha retto il partito negli ultimi quattro anni. Franceschini parla in continuazione con Lorenzo Guerini e ieri è andato alla Camera per incontrare Ettore Rosato, il capogruppo Pd suo uomo ma ormai sempre più su posizioni renziane, così come molto si stanno spendendo Maurizio Martina e Piero Fassino. «Vi aspettate la guerra», dice uno degli ambasciatori, ma noi lavoriamo per evitarla. E, vedrete, ci riusciremo».
Il compito non è semplice, Renzi è convinto che Franceschini abbia un progetto e che si sia mosso non a caso dopo che il capo dello Stato Sergio Mattarella ha detto che probabilmente si voterà a scadenza naturale. Il ministro dei Beni culturali viene a sua volta descritto «molto arrabbiato» per il modo in cui Renzi lo ha trattato parlando a Milano, sabato scorso: «Io rispondo a chi ci ha votato e non ai capi corrente». Franceschini, spiegano, vuole capire se Renzi intende usare gli stessi toni in direzione e poi deciderà come regolarsi. In queste ore ha sentito anche diverse volte Andrea Orlando e c’è anche chi parla di una sintonia crescente tra i due. Il ministro della Giustizia, peraltro, non è ancora sicuro di partecipare alla direzione perché ha un impegno in Europa con gli altri ministri della Giustizia.
E’ vero che i numeri in direzione mettono al riparo Renzi anche da un eventuale forfait di Franceschini ma gli uomini vicini al premier vogliono comunque evitare la certificazione di una rottura che politicamente peserebbe, eccome. «La maggioranza renziana deve fare il punto prima della direzione, vorremmo capire prima cosa dirà il segretario», dice una fonte dell’area di Franceschini.
Renzi, per ora, continua a menare fendenti: «Trecentocinquanta persone parlano di coalizione, 3.500.000 di pensionati hanno la quattordicesima», scrive su Facebook, e ovviamente la quattordicesima è un provvedimento del governo Renzi. Il senso è fin troppo chiaro: voi parlate il politichese, io faccio cose concrete. Uno degli uomini più vicini al premier la mette così: «Dario vuole parlare delle amministrative? Sacrosanto, abbiamo anche anticipato la direzione per farlo. Se poi il tema è l’alleanza con Pisapia e con quelli che dicono che il Pd è da buttare, allora anche lui dovrà dire se questa, nella quale lui è sempre stato ministro, è una legislatura da cancellare».
Di sicuro, se Franceschini per ora tace. Orlando, che riunirà i suoi giovedì, non perde occasione per incalzare. Il ministro insiste a chiedere il referendum sull’eventuale governo con Berlusconi, scatenando i renziani: «E’ una cosa che non esiste - taglia corto Rosato - Noi lottiamo per governare da soli, per arrivare al 40%, con un centrosinistra allargato». E Matteo Ricci ricorda il voto delle primarie: «Il referendum lo abbiamo già fatto, il 30 aprile, il giorno delle primarie, sono andate a votare 2 milioni di persone». Peraltro, l’idea del referendum non è piaciuta nemmeno a Michele Emiliano e tra i franceschiniani: «Che facciamo come M5s? Diciamo che non facciamo alleanze con nessuno anche se non ci sono altre maggioranze?». Il ministro della Giustizia però insiste, nega di voler uscire dal partito e chiede che il Pd lavori a una «legge maggioritaria» con premio di coalizione, e su questo l’intesa con Franceschini c’è.

La Stampa 4.7.17
L’inevitabile rifiuto dell’Eliseo
di Stefano Stefanini

Il rifiuto di Parigi di far sbarcare i migranti dalla Libia nei porti francesi impedisce di ripartire «a mare» gli arrivi, come sperava l’Italia, ma non è un fulmine a ciel sereno. Non preclude il codice di condotta per regolare con criteri uniformi l’attività umanitaria delle navi delle Organizzazioni non governative (Ong). Dovrà essere approvato dall’Ue ma è affidato principalmente all’Italia, sulla base di un’intesa di massima con Berlino e Parigi.
Per quanto sensibile all’appello del Presidente del Consiglio, per quanto incoraggiato dalla Cancelliera tedesca, per quanto solidale con le angustie italiane, Emmanuel Macron non aveva altra scelta che dire di no a sbarchi in Francia. Proviamo a metterci nei panni del neo-eletto Presidente francese. Se anche avrà pensato per un attimo ad accettarli, tre fattori glielo rendevano politicamente impossibile: il 34% dei voti andati a Marine Le Pen; le ferite inferte alla nazione dal terrorismo, associato inevitabilmente alla provenienza nordafricana degli attentatori; l’apertura di una scorciatoia verso la Francia di cui i trafficanti sarebbero lesti ad approfittare. Anche la sua enorme popolarità si sarebbe dissolta di fronte all’immagine dell’attracco a Marsiglia di navi cariche di migranti, nel momento in cui egli investe il suo capitale politico nelle riforme di cui la Francia ha un grande bisogno.
Le aspettative destate da Macron come leader di un’Europa in rilancio non devono far dimenticare che egli è anche (soprattutto) il Presidente della Francia. Per quanto europeista, la sua prima responsabilità è nei confronti dei francesi che l’hanno eletto e il suo criterio guida non può non essere l’interesse nazionale. Farà del suo meglio per comporlo in un quadro d’integrazione europea e di conciliazione con i partner, come Italia o Germania, e spesso ci riuscirà. Ma non può accantonarlo.
La tensione fra genuina vocazione europea e forte senso nazionale è una costante francese. Macron ne è la versione contemporanea, più aperta dei suoi predecessori al resto del mondo e all’innovazione, più disponibile a cessioni di sovranità all’Ue, ma non fa eccezione. La duplice fisionomia francese, europea e nazionale, è sempre stata un problema nelle relazioni italo-francesi: per quanto convergenti possano essere le agende europee, spesso non lo sono gli interessi nazionali. Il rapporto oscilla, fra vicinanza geografica, simpatie e profonde affinità culturali, da una parte, e una dose di squilibrio, economico, politico e militare, a favore della Francia, dall’altra. Entrambi Paesi mediterranei - ma la Francia è anche atlantica. Ha una dimensione in più, in aggiunta ad una geografia interna più favorevole. L’Italia è abbastanza grande e intraprendente da sedersi a molti tavoli da pari a pari con la Francia - ma non a tutti. Siamo partner nell’Ue, alleati nella Nato, ma anche concorrenti.
Negli ultimi 70 anni è sempre stato possibile comporre le diversità franco-italiane grazie al quadro europeo e alla costante buona volontà dei due governi. Ma sarebbe un errore illuderci che non esistano o che possano essere affogate nel comune afflato europeo. Sia Roma sia Parigi (specie con Emmanuel Macron) vogliono (e hanno bisogno di) un’Ue forte. Per arrivarci dovranno limare i rispettivi approcci nazionali in una strategia in cui la somma finale sia maggiore degli addendi. Non in un giorno.
Questo vale anche per l’immigrazione. Il no francese, senz’altro insoddisfacente per Roma, è stato accompagnato da un’apertura sul numero di rifugiati (aventi diritto all’asilo), sbarcati in Italia, che Parigi è disposta ad accogliere e sulla loro provenienza. E’ un piccolo passo avanti specie perché riguarderebbe due nazionalità, eritrea e somala, che danno luogo a flussi consistenti verso l’Italia. Sta anche maturando una politica europea di rimpatri dei migranti economici, attraverso accordi di riammissione europei anziché nazionali. Era ora. Ma il risultato più importante è un codice di condotta delle navi Ong che introduca limiti (no all’ingresso nelle acque territoriali libiche) e monitoraggio (presenza a bordo di polizia italiana) per rompere il nesso, fortuito o meno, con i trafficanti.
Può l’Italia ritenersi soddisfatta? Non del tutto. L’obiettivo di una piena europeizzazione della questione immigratoria e di una ripartizione delle responsabilità d’accoglimento non è stato ancora raggiunto. Ma il governo ha imboccato la strada giusta. Il dibattito con Ue e con i partner, come Francia, Spagna e Germania, non finisce oggi. E’ importante continuarlo con un misto di fermezza e ragionevolezza.

il manifesto 4.7.17
Migranti, il gran rifiuto di Francia e Spagna alle richieste italiane
Immigrazione. Macron: «Indispensabile mantenere le nostre frontiere». Oggi la Commissione Ue discute dell’emergenza nel Mediterraneo
di Carlo Lania

Non c’è nessun accordo tra Italia, Germania e Francia per quanto riguarda i migranti. O almeno non c’è sul punto più importante, quello su cui il premier Paolo Gentiloni e il ministro degli Interni Marco Minniti hanno maggiormente insistito negli ultimi giorni, fino al punto di minacciare la chiusura dei porti: vale a dire convincere i partner dell’Unione a far sbarcare i migranti salvati nel Mediterraneo in altri scali europei e non più solo in quelli italiani. La proposta non piacerebbe infatti a Francia e Spagna – i due paesi principalmente interessati visto che i porti in questione sarebbero quelli di Marsiglia e Barcellona – e difficilmente potrà passare al vertice dei ministri degli Interni e della Giustizia in programma giovedì e venerdì a Tallinn, in Estonia.
A confermare la resistenza dei due Paesi sono state ieri fonti diplomatiche di Bruxelles, ma è stato lo stesso Emmanuel Macron a prendere ulteriormente le distanze dalla proposta parlando ieri a Versailles. «Bisogna accogliere i rifugiati politici che corrono un rischio reale, senza però confonderli con i migranti economici e senza abbandonare l’indispensabile mantenimento delle nostre frontiere», ha detto il presidente francese ribadendo un concetto già espresso giorni fa a Berlino, durante un incontro preparatorio al G20 che si terrà ad Amburgo, ma aggiungendo un particolare in più, non certo casuale, come il riferimento alle «nostre frontiere». A novembre scade infatti la deroga al trattato di Schengen e Parigi non potrà rinnovarla. Stessa posizione, anche se con toni più diplomatici, da parte della Spagna, che ha ricordato come ogni intervento in tema di migranti debba essere concordato unitariamente agli altri leader europei.
Da mesi l’Italia chiede all’Europa tre cose per far fronte alla crisi provocata dall’alto numero di arrivi nel nostro paese: una riforma del regolamento di Dublino che sollevi i paesi di primo sbarco dell’onere di farsi carico dei migranti; di far funzionare il meccanismo dei ricollocamenti (scade a settembre e finora si è dimostrato un fallimento) e infine la disponibilità di altri Paesi ad accogliere le navi cariche di disperati. Il minivertice di domenica sera a Parigi tra i ministri degli Interni di Italia, Francia e Germania doveva servire proprio a preparare il terreno in vista del summit di Tallinn, ma alla fine il ministro Minniti ha portato a casa solo l’impegno a poter riscrivere le regole con cui potranno operare le Ong quotidianamente impegnate nei salvataggi nel canale di Sicilia. Regole più rigide che tra l’altro dovrebbero prevedere il divieto di entrare in acque libiche e trasparenza sui finanziamenti (ma già oggi tute le navi impegnate nei soccorsi sono coordinate dalla sala operativa della Guardia costiera). Dal minivertice di Parigi è uscito anche l’impegno per maggiori finanziamenti alla guardia costiera libica, un aumento dei rimpatri e la promessa di un’accelerazione sui rimpatri (l’Italia chiede che vengano coinvolte anche nazionalità diverse da siriani ed eritrei, come avviene ora).
La crisi italiana sarà discussa oggi dalla Commissione europea che dovrebbe presentare alcune proposte utili a diminuire i flussi e che potrebbero servire come base per la discussione di Tallinn. «Sarà un piano d’azione molto concreto». ha detto ieri un portavoce della commissione. E’ probabile che ci sia l’invito a finanziare il Fondo per l’Africa (ieri l’Estonia ha versato un milione) e a anche a contribuire maggiormente con i ricollocamenti. Ma è facile ipotizzare come gli sforzi maggiori saranno destinati a capire come intervenire in Africa e in particolare a sud della Libia. nei giorni scorsi si è parlato della possibilità di una missione europea ai confini con il Niger (ovviamente con l’assenso del governo di Niamey). Ma non sono escluse altre possibilità, come quella, elaborata nei giorni scorsi da Francia e Olanda in un documenti riservato, di utilizzare le formazioni militari messe a disposizione d Mali, Niger, Mauritania, Ciad e Senegal, i cinque Paesi che dal 2014 danno vita al G5 Sahel. Si tratta di 10 mila uomini impegnati principalmente in operazioni contro il terrorismo, ma anche potrebbero essere impiegate anche per contrastare le carovane di migranti che ogni giorno attraversano il confine tra Niger e Libia per poi provare a raggiungere l’Europa.

Corriere 4.7.17
Xi-Putin, prove di alleanza Messaggio agli Usa di Trump
di Guido Santevecchi

Russia e Cina provano a dimenticare i rancori e a unirsi in una nuova grande alleanza anti Usa. Ieri, nella cena che ha aperto la visita del leader cinese a Mosca, Putin e Xi Jinping hanno detto che i rapporti tra i due Paesi «non sono mai stati così buoni». Al Cremlino saranno firmati numerosi accordi. È Trump il «facilitatore» del riavvicinamento. Proprio Xi gli ha lanciato un duro monito: «Le relazioni bilaterali tra Cina e Usa hanno alcuni fattori negativi». Sfida nel Mar Cinese: nave Usa davanti alle isole reclamate da Pechino.

La luna di miele tra Donald Trump e Xi Jinping è finita, affondata tra le isole del Mar Cinese meridionale, la penisola coreana e Taiwan. Un cacciatorpediniere della US Navy è andato a mostrare la bandiera di fronte a Triton Island, un isolotto dell’arcipelago delle Paracel occupato dai cinesi nel 1974 dopo uno scontro a fuoco con il Vietnam, ma rivendicato anche da Taiwan. Secondo la legge del mare il caccia americano ha compiuto un «passaggio innocente», in base alle regole sulla libertà di navigazione, ma Pechino ha reagito con furia: «È stata una grave provocazione politica e militare contro la nostra sovranità».
Che sia stata una provocazione (o un bluff) è possibile, perché il «passaggio innocente» della USS Stethem davanti a Triton è stato pianificato con un tempismo sospetto: poche ore dopo era in calendario una telefonata del presidente americano a quello cinese. Ma sulla «sovranità» Pechino ha torto. Lo ha stabilito l’anno scorso la Corte dell’Onu per la legge del mare, giudicando illegali e antistoriche le sue pretese sul Mar Cinese meridionale. Nelle sue mappe, Pechino ha chiuso l’area dentro nove tratti di penna che segnano la rivendicazione di sovranità sul 90 per cento dei 3,5 milioni di chilometri quadrati di quell’oceano. Con tutto ciò che c’è sopra e sotto. Però basta dare uno sguardo alla mappa per rendersi conto dei motivi di vicinanza geografica per i quali altri Paesi, oltre alle Filippine il Vietnam, la Malaysia, Taiwan e il Brunei possono vantare diritti.
Occupate le Paracel (che in mandarino si chiamano Xisha), per controllare le Spratly (dette Nansha), Pechino ha ordinato al suo genio militare di far sorgere una serie di isole artificiali: riempiendo di cemento scogli semisommersi e atolli corallini, in poco più di due anni sono spuntati sette avamposti con la bandiera rossa che sono stati rapidamente dotati di moli per la flotta d’alto mare, piste per cacciabombardieri, radar, batterie antiaeree e silos per missili anti-nave e terra aria (lo dimostrano le foto dei satelliti). Inviando di tanto in tanto le unità della US Navy a pattugliare le zone contese Washington cerca di ricordare ai cinesi la sentenza che ha rigettato le loro pretese.
Ma questa ultima missione a Triton ha un significato più ampio e strategico. In campagna elettorale Trump aveva detto tutto il male possibile della Cina, accusandola di «stuprare l’America nei commerci» e minacciando sanzioni. Poi, a inizio aprile, nel tepore del suo resort di lusso a Mar-a-Lago, il capo della Casa Bianca aveva incontrato l’uomo di Pechino e si era fatto conquistare: «Tra noi è scoccata una relazione chimica, Xi mi ha spiegato che risolvere la questione nordcoreana non è semplice, ma ha promesso di fare il possibile», disse. Luna di miele dunque. Ora però Trump si è reso conto che a Pechino non sono pronti a spingere la stretta su Pyongyang fino al punto di rischiare il crollo del regime «cliente» di Kim Jong-un.
La telefonata di ieri, spiega la Casa Bianca, era diretta proprio a rinnovare la richiesta alla Cina di fare di più di fronte alla «crescente minaccia» della Nord Corea. E per rafforzare il messaggio, nei giorni scorsi sono partiti segnali duri: sanzioni americane a una banca cinese accusata di ripulire denaro nordcoreano; l’annuncio di nuove forniture militari Usa a Taiwan per 1,4 miliardi di dollari; la minaccia di punire l’export cinese nell’acciaio. E poi la missione dell’unità della US Navy intorno all’isola contesa.
Xi non vuole rompere, prende tempo e contromanovra rafforzando l’asse con la Russia di Putin. A Pechino riferiscono che il leader cinese durante la telefonata di ieri ha sottolineato come le relazioni sino-americane abbiano registrato progressi, anche se sono condizionate da «fattori negativi». Xi, riferendosi a Taiwan, ha premuto perché la Casa Bianca si comporti secondo la politica «Una Cina»: il riconoscimento di un unico governo legittimo, quello di Pechino. L’accettazione di questa politica «Una Cina» e la rottura (formale e un po’ ipocrita) delle relazioni diplomatiche con Taiwan permise nel 1972 il grande disgelo tra Richard Nixon e Mao Zedong. Dicono che Trump ieri abbia rinnovato la sua adesione a quel principio, ma intanto all’isola «ribelle» e democratica di Taiwan arriveranno armi americane per 1,4 miliardi di dollari. Il Mar Cinese continuerà a essere caldo.

Repubblica 4.7.17
Via alle nuove regole Fino a 15 giorni di carcere anche per chi lo intona ai funerali e negli spot
Niente mano sul cuore e guai a stonare Pechino fa arrestare chi sbaglia l’inno
di Angelo Aquaro

PECHINO. «Qi lai!», cioè «alzatevi, o voi che non volete essere schiavi!». Tenete, però, le mani a posto: altrimenti, se non proprio schiavi, finirete comunque prigionieri, visto che quindici giorni di cella per vilipendio all’inno nazionale non ve li toglierà nessuno.
C’è poco da scherzare in Cina su tante cose: non si scherza col fuoco delle critiche al partito unico, non si scherza se chiedi conto dei diritti umani, non si scherza se ti permetti di tirare in ballo la questione del Tibet e non si scherza, manco a dirlo, a riesumare gli scheletri di Tiananmen. Presto, però, non si potrà neppure più scherzare su quella marcetta che ai tempi anche da noi riscosse una certa fortuna: quando, come canta Giorgio Gaber, «qualcuno era comunista perché ‘Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-Tung!’». Sì, oggi Mao lo scriviamo Zedong perché Pechino ha modernizzato la trascrizione latina dei suoi caratteri. Peccato che certe vecchie abitudini non solo resistano ma stiano anzi tornando di moda: per ordine, guarda caso, proprio del nuovo Mao, il potentissimo presidente Xi Jinping che al suo popolo ha indicato, sì, un nuovo “China Dream” come recita il suo slogan – ma sempre, e anzi ancora più, di rosso vestito.
La Marcia dei volontari, conosciuta anche come Qi lai, l’inno composto del 1935 da Ni Er su testo di Tian Han – il drammaturgo poi morto lui stesso nelle prigioni di Mao – sta per essere dunque protetta da una legge allo studio del comitato centrale del congresso nazionale del popolo. Gli articoli? Pochi ma duri, e concepiti per fortificare «il rispetto e la protezione di questo simbolo nazionale». E quindi: niente più inno ai funerali, non sta bene, neppure se la richiesta è stata romanticamente avanzata dallo stesso compagno morituro. E niente più inno usato per spot: perché la pubblicità sarà anche l’anima del commercio, e i consumi formeranno anche il 67% del Pil cinese - che si sta modernizzando pure quello, non più spinto solo dalla spesa di stato – e però no, nel Carosello l’inno proprio non si può. Non è finita. Non tollerati naturalmente i cambi di testo con i giochi di parole, e questo in fondo in fondo si potrebbe capire: ma perché mai sarebbe invece vietato perfino cantare “Qi lai!” portandosi, come si fa con gli inni in tutto il mondo, la mano sul cuore? Ma che domanda: proprio perché così si fa tutto il mondo – a cominciare dagli Stati Uniti d’America. L’ultima iniziativa porta la firma del compagno Chen Guoling, che al Beijing News ha spiegato che la mano sul petto è sì un modo di portare rispetto, ma purtroppo
made in Usa, e importato ahiloro dagli atleti esposti di default al contatto con il resto delle nazioni. Il deputato, che per le offese all’inno deve avere sviluppato un orecchio particolare, su questo proprio non ci sente, e per assicurarsi che la mano dal petto non scivoli pericolosamente altrove, vorrebbe specificare per legge che «i cittadini non devono esibirsi in nessun tipo di postura: incluse quelle straniere, religiose o personali» – definizione, quest’ultima, così vaga, che rischia di sbattere per due settimane in galera anche chi si porta la mano alla bocca per arginare un irrispettoso starnuto.
Ma c’è poco da sorridere. La stretta sull’inno è solo l’ennesima imposta dal nuovo corso, che sa tanto di vecchio, di “Xi il Grande”, che all’estero parla di globalizzazione e in casa di ri-marxizzazione. Prima è arrivato l’invito, diciamo così, a rafforzare l’ideologia comunista, anche «copiando a mano la Costituzione », come se fossimo tornati alle elementari della ideologia. Poi ecco la reintroduzione, nelle situazioni ufficiali, dell’obbligo dell’uso di “compagni”: titolo che aveva perso ormai fascino guadagnando, al contrario, il significato di “gay” nello slang dei più giovani.
Forse anche per questo è arrivato, di rimando, l’invito agli 80 milioni di iscritti al partito di preferire, il giorno del fatidico sì, una compagna o un compagno letteralmente intesi: cioè, con la tessera. E perfino agli stranieri che scelgono la Cina per studiare è imposto, da quest’anno, l’obbligo della storia e dell’ideologia del partito. Come dire: Qi Lai!, alzatevi, o voi che non volete essere schiavi. Tenete, però, le mani a posto: altrimenti, se non proprio in galera, vi risbattiamo a casa vostra.

Repubblica 4.7.17
Manconi
“Siamo lontani dal testo Onu si rischia l’incostituzionalità”
di Liana Milella

ROMA. «L’Italia ha ratificato la convenzione Onu sulla tortura il primo gennaio del 1988. Come ha ricordato sua madre è l’anno di nascita di Giulio Regeni. Il fatto che nel nostro ordinamento non ci sia ancora il reato di tortura forse ha privato l’Italia dell’autorevolezza morale e giuridica necessaria per esigere dall’Egitto la verità su un nostro connazionale torturato a morte». Dice così Luigi Manconi, il presidente della Commissione per i diritti umani del Senato che ha presentato la sua proposta sulla tortura il 15 marzo 2013, primo giorno di questa legislatura. Ma di quel ddl non resta nulla in quello che finirà sulla Gazzetta ufficiale.
Siamo alla vigilia del voto definitivo della Camera sulla tortura. Come la valuta?
«Molto negativamente. Ho nutrito qualche dubbio sulla correttezza della mia posizione. Ma poi, il 22 giugno, è giunta la lettera inviata a me e, in primo luogo, ai presidenti di Camera e Senato, nella quale il Commissario per i Diritti umani del consiglio d’Europa Nils Miuznieks evidenziava le acutissime contraddizioni di quel testo di legge e ne chiedeva la riscrittura sulla base di tre considerazioni principali, più altre secondarie».
Un niet superpartes dunque. Su cosa si basa?
«La prima critica è di ordine generale, il termine usato nella traduzione italiana è “disallineamento” del testo rispetto alla convenzione dell’Onu contro la tortura. E qui si apre una questione grande come una casa. Il giurista Valerio Onida mi conferma che questa profondissima difformità dalla convenzione Onu rivela un serissimo dubbio di legittimità costituzionale con riferimento all’articolo 117 della nostra Carta. Per il quale le convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia vincolano il nostro legislatore».
Ma, nel merito, le contestazioni di Miuznieks inficiano l’applicabilità stessa del reato di tortura?
«Certo. Il commissario entra nel merito ed evidenzia quel perverso slittamento di senso – lo dico con parole mie – che presenta il testo rispetto alla convenzione dell’Onu. Lì si parla di “ogni violenza”. Qui, in una rovinosa precipitazione linguistica e giuridica, “ogni violenza” diventa prima “violenze” al plurale, poi “reiterate violenze”. Infine la soluzione peggiore: quel “più condotte” che può arrivare a distribuire i trattamenti inumani o degradanti lungo un ampio periodo di tempo».
Quindi la Camera sta approvando un reato di tortura che non servirà per punire le torture?
«Come ha spiegato il pm del processo per le violenze alla scuola Diaz al G8, il dottor Zucca, la gran parte di quegli atti efferati, se giudicate col metro del ddl che sta per essere approvato, non sarebbero qualificate come torture».
I sostenitori della legge, all’insegna del “meglio questa che niente”, dicono però che le condanne saranno possibili.
«Io guardo al testo. Anche l’altra fattispecie - “ogni violenza psichica” – è andata via via evaporando in una sorta di patologica torsione semantica. Ho sentito una vittima della Diaz parlare di come gli attacchi di panico siano insorti in lui a due anni dai fatti. Il che rende del tutto irrealistico il ricorso a quelle formule utilizzate per qualificare la violenza prima esigendo che fosse verificabile clinicamente e poi sottoponendola a un’improbabile documentazione. Circostanza tragicamente ridicola se si tiene conto che i processi per tortura si celebrano in genere a notevole distanza di tempo dai fatti».
Ma il ministro per i Rapporti con il Parlamento Finocchiaro dice che in questo momento politico questa è l’unica legge possibile.
«Questa legge è destinata a rimanere nel nostro ordinamento ancora per moltissimi anni, temo. Il dilemma si ripete in continuazione. Meglio una qualsiasi legge che nessuna legge? Avevo qualche incertezza, e molti miei amici la pensano come Finocchiaro. Ma la lettera di Miuznieks e la riflessione su quanto affermato a proposito dei fatti della Diaz mi inducono a ribadire il mio rifiuto. Posso sbagliarmi, lo so».
Quanto hanno pesato le pressioni, che si sono verificate perfino in Parlamento, dei sindacati di polizia?
«La classe politica italiana soffre da sempre di una sorta di complesso di colpa e di un senso di inferiorità nei confronti delle forze di polizia ed è intellettualmente e politicamente incapace di capire che l’individuazione e la sanzione severa dei pochissimi appartenenti a quei corpi che torturano e commettono illegalità è il solo modo per tutelare la stragrande maggioranza che quegli atti non commette e, dunque, di salvare il prestigio e, se vogliamo, l’onore della divisa».

Repubblica 4.7.17
Dall’antica Grecia a oggi
Straniero, ospite o nemico cosa ci insegna la Storia
di Marino Niola

L’ONDA di piena dei migranti scuote l’Italia e la mette di fronte al dilemma dell’accoglienza. Ricevere a oltranza e rischiare di essere sommersi. O respingere per arginare la marea e porre fine agli effetti collaterali di Frontex. I fatti di questi giorni hanno reso la questione indifferibile.
LA MINACCIA di chiusura dei porti, il timore sempre più strisciante di un’invasione fuori controllo, la percezione di un limite di sicurezza ormai superato, la delusione per l’indifferenza di un’Europa solidale a parole e farisaica nei fatti.
Gli episodi sono nuovi ma la questione viene da molto lontano. E per leggere fino in fondo il tumulto delle nostre emozioni, la confusione nella quale ci troviamo, può essere utile fare un passo indietro, verso la sorgente dei nostri valori e dei nostri timori. Visto che in realtà, sin dall’antichità, lo straniero è l’ospite ma potenzialmente anche il nemico. E questa doppia possibilità è scritta a chiare lettere nelle parole chiave delle civiltà mediterranee, quelle che hanno permeato la nostra cultura e formattato il nostro immaginario. Basti pensare che il latino hostis significava lo straniero ma anche il nemico. Una parola che è stata a doppio taglio per molti secoli della storia di Roma, prima che comparisse il vocabolo hospes, che equivale al nostro ospite. E il greco xenos (da cui espressioni come xenofobia) indicava il forestiero da accogliere e onorare, ma anche lo sconosciuto di cui verificare l’integrabilità. Il che vuol dire che ci troviamo di fronte a figure inestricabilmente intrecciate sin dai primi passi delle nostre civiltà. Insomma, il dilemma dell’accoglienza non nasce oggi. Perché il rapporto con chi viene da fuori oscilla, per sua natura, tra un estremo ospitale e un estremo ostile. È la regolamentazione della relazione a stabilire il giusto equilibrio tra respingimento e accoglimento. Per evitare che l’arrivo di altri uomini diventi un’epidemia inarrestabile. È significativo che il mito e la tragedia greca usassero proprio la parola “epidemie” per definire i rituali riservati agli dèi forestieri. Come Dioniso, l’altro per antonomasia, il nume sconosciuto che giungeva inatteso dal mare. Alla deriva su un’imbarcazione di fortuna. Come i gommoni di ora, privati di motore e timone da trafficanti senza scrupoli. I rituali epidemici prevedevano una cattiva accoglienza del dio, la cui barca veniva inizialmente ricacciata indietro. Così la parola del passato che, dalle sue profondità lontane, parla di noi nel suo presente-remoto anticipando ciò che stiamo vivendo oggi. Secondo il celebre grecista Marcel Detienne, il termine epidemia, in origine, non apparteneva al vocabolario della medicina ma a quello della religione e indicava l’irruzione di una potenza ignota. Una teoxenia. Letteralmente la manifestazione di un dio estraneo. In realtà nel Mediterraneo antico, l’ospite era sacro proprio in quanto in lui poteva nascondersi il dio. Stranieri e mendicanti vengono tutti da Zeus, dice Omero nell’Odissea. E nei Vangeli Cristo dice «sono venuto da lontano e mi avete accolto».
Insomma l’arrivo di forestieri, mortali o immortali, è un chiodo fisso delle mitologie e delle religioni proprio perché esprime in linguaggio figurato il pericolo e al tempo stesso la necessità dell’ospitalità, il disordine e la ricchezza della mescolanza. O, come si direbbe oggi, i rischi e i vantaggi della globalizzazione. Non a caso il patto di ospitalità che legava l’abitante della polis greca al forestiero si chiamava xenía ed era posto sotto la protezione di Dioniso. In virtù di questo patto, il cittadino si faceva garante del nuovo arrivato nei confronti dell’intera comunità accogliente. Tutto questo sembra dire che, ora come allora, l’apertura è indispensabile, ma non può essere incondizionata. Nemmeno i Greci, che pure avevano il culto dell’ospitalità, accoglievano tutti e in tutti i casi. E distinguevano accuratamente diritti e doveri dello straniero accolto e perciò tutelato dalle leggi civili e dalle norme morali, da quello che noi chiameremmo clandestino, profugo, migrante economico. La vera sfida del presente è di immaginare forme di xenía a misura di questo tempo. Per fronteggiare la diaspora globale in atto, con nuove norme in grado di conciliare sicurezza e umanità. Solo così potremo evitare che quell’equazione secca straniero uguale nemico, che Primo Levi considerava una infezione latente in ciascuno di noi, degeneri in malattia mortale.

Repubblica 4.7.17
Da Ipazia a Anna Politkovskaja È boom editoriale per le biografie al femminile destinate ai ragazzi e che fanno ricorso con successo al crowdfunding
Il coraggio delle donne raccontato ai più piccoli
di Claudia Morgoglione

C’è chi le chiama cattive ragazze. Chi preferisce definirle bambine ribelli. Chi le vede come donne guerriere. E chi le considera disobbedienti, nel senso gandhiano della parola. Figure femminili forti, di ogni tempo e di ogni epoca: da Ipazia ad Anna Politkovskaja, da Frida Kahlo a Rosa Parks. Tutte sono realmente esistite. Tutte hanno fatto la differenza. E tutte si ritrovano, adesso, al centro di un genere in grande ascesa, nella letteratura per giovanissimi: le raccolte di racconti ispirati alle loro biografie. Una non fiction rigorosamente vietata ai maggiori, intelligente nell’approccio
e femminista nei contenuti, che accomuna titoli diversi per stile, prezzo, autori, marchi. Candidata a diventare la nuova educazione civica, politica, sentimentale delle teenager. E non solo.
Il caso più eclatante è Storie della buonanotte per bambine
ribelli delle italiane trapiantate in California Francesca Cavallo ed Elena Favilli, pubblicato da Mondadori. Libro più finanziato dal crowdfunding di sempre (un milione e 300 mila dollari) e raro fenomeno editoriale, con le sue 300 mila copie vendute in Italia in quattro mesi e una permanenza ininterrotta nella top ten. La ricetta vincente è il mix tra passaparola internettiano, potenza delle cento biografie raccontate — artiste, scienziate, sportive — e confezione ricca. Per la casa editrice, un colpaccio. «Io già conoscevo e seguivo il lavoro di Elena e Francesca, le app per bambini che creano con la loro società Timbuktu Labs», ricorda Marta Mazza, editor di Mondadori Ragazzi che ha curato il volume, «così quando è arrivato il momento, eravamo pronti a fare l’offerta». E ora è partita la gara per il sequel: «Le due autrici hanno lanciato sulla piattaforma Kickstarter la raccolta fondi per il prossimo volume, con altre cento protagoniste», conclude Mazza, «e speriamo di acquisirne i diritti anche stavolta».
Ma ci sono altri grandi marchi che scommettono sulle biografie femminili, come modello alternativo alle principesse e dintorni. Ad esempio Einaudi Ragazzi — già artefice di una grande collana “dalla parte delle bambine”, Le Sirene, a partire dal 2002 — ora pubblica Le donne son guerriere — 26 ribelli che hanno cambiato il mondo degli spagnoli Irene Cívico e Sergio Parra, con le belle illustrazioni di Núria Aparicio; e Io dico No! Storie di eroica disobbedienza di Daniele Aristarco: 35 racconti di vite, anche maschili, in cui però le donne — dalla madri di Plaza de Mayo a Malala — spiccano per coraggio e determinazione. «Lavoro da sempre con i giovanissimi, come insegnante e poi nei laboratori teatrali», rivela Aristarco, «e negli anni ho scoperto che leggendo non cercano solo intrattenimento o informazioni utili, ma anche un’idea di futuro possibile». Da qui la sua scelta di scrivere testi capaci di fare vibrare questa corda: «Le donne sono senza dubbio i soggetti più interessanti», prosegue lo scrittore, che sta già lavorando su una nuova raccolta, «perché hanno una percezione più acuta della giustizia: la loro voce riesce a catturare anche gli adolescenti maschi».
Ed è proprio qui un nodo cru- ciale: la letteratura delle bambine ribelli aspira a diventare una forma di educazione civica per lui come per lei. Lo conferma Enrico Racca, che nel suo doppio ruolo di direttore editoriale del Battello a vapore Piemme e di Mondadori Ragazzi può contare su un osservatorio molto vasto: «È vero, questo tipo di storie piace anche ai ragazzi. Così come agli adulti, che spesso comprano i libri per loro stessi, e non solo per figli o nipoti. Ma se nelle nostre collane ci sono, da sempre, tante eroine femminili, realmente esistite o di finzione, è anche perché nel settore bambini e teenager c’è una prevalenza di editor donna, bravissime, che portano nel nostro mondo la loro sensibilità ».
Questo spiega l’orientamento di chi i libri li seleziona e li pubblica. Ma dal punto di vista dei lettori, libri del genere vengono sempre “imposti” da genitori o insegnanti? «Assolutamente no», prosegue Racca, «anzi, più si sale con l’età dei ragazzini, più l’adulto conta poco nelle scelte. Sono prodotti accattivanti, mai noiosi. E che dal punto di vista dei contenuti arrivano al momento giusto: nel raccontare a 360 gradi il coraggio di essere donne assecondano lo spirito del tempo, colmano un vuoto». Non a caso, il 12 settembre Il Battello a vapore farà uscire Noi cuori ribelli di Daniela Palumbo, focus su sette grandi donne (tra cui Alda Merini, Franca Rame, Margherita Hack) concepito prima delle Storie della buonanotte Mondadori.
Non solo big, però: la piccola editoria per ragazzi, che spesso e volentieri sforna prodotti di eccellenza, anche stavolta non sta a guardare. Come dimostra uno dei marchi più attivi, Sinnos, che da qualche anno fa girare — soprattutto tra gli studenti — Cattive ragazze, graphic novel firmata Assia Petricelli e Sergio Riccardi: quindici biografie per immagini, dalla rivoluzionaria francese Olympe de Gouges all’italiana Franca Viola che rifiutò la pratica del matrimonio riparatore. Tra pochi giorni il volume esce in una nuova edizione, a colori: «Nel nostro piccolo, un grande successo », racconta Della Passarelli, numero uno di Sinnos, «e il perché l’ho capito girando tante scuole, da Alcamo a Torino, con una tappa nel carcere di Saluzzo in provincia di Cuneo, con detenuti maschi: raccontiamo grandi donne, ma in controluce anche i grandi uomini che sono stati capaci di stare loro vicini». Il bilancio di questi tour, poi, è di quelli che allargano il cuore: «Ho visto con i miei occhi come, grazie a libri come il nostro, le lavagne delle scuole si sono riempite delle storie di tante altre cattive ragazze, diverse dalle nostre quindici. Una scoperta continua». Dalla lettura alla partecipazione attiva: questo sì che è un circolo virtuoso.

il manifesto 4.7.17
Retata dell’esercito israeliano e dello Shin Bet contro la sinistra palestinese
Cisgiordania. Prese di mira di mira Khalida Jarrar, parlamentare e dirigente di primo piano del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Khitam Saafin, presidentessa del Consiglio dell’Unione delle donne palestinesi
di Michele Giorgio

Retata in Cisgiordania dell’esercito israeliano e dello Shin bet, il servizio di sicurezza interno, contro la sinistra palestinese.
È scattata all’alba di domenica ed ha preso di mira Khalida Jarrar, parlamentare e dirigente di primo piano del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), Khitam Saafin, presidentessa del Consiglio dell’Unione delle donne palestinesi, e un’altra decina di persone, tra cui Ihab Massoud, sempre del Fplp, scarcerato lo scorso 12 febbraio dopo 16 anni trascorsi in una prigione di Israele dove ha preso parte a più scioperi della fame dei detenuti politici palestinesi. Tra gli arrestati ci sono anche quattro rappresentanti di comunità del campo profughi di al Aroub. Jarrar e Saafin sono accusate dalla procura militare israeliana «di coinvolgimento in attività terroristiche e violenti disordini pubblici».
Accusa respinta con forza dalle due donne che spiegano di essere impegnate in legittime attività politiche e sociali contro l’occupazione militare israeliana dei territori palestinesi giunta al suo 50esimo anno. I palestinesi ricordano che la legge applicata dall’esercito israeliano nella Cisgiordania occupata considera «terrorismo» anche la sola partecipazione ad organizzazioni politiche ritenute “ostili” o il lancio di pietre contro i militari e i coloni. Jarrar, 13esimo membro del Consiglio legislativo palestinese (Clp, il parlamento dell’Anp) detenuto Israele, è molto popolare in Cisgiordania. Tra i bersagli delle sue critiche roventi oltre a Israele c’è anche il presidente dell’Anp Abu Mazen, che la parlamentare accusa di avere una linea contraria agli interessi del popolo palestinese e di abusi e violazioni dei diritti delle opposizioni.
Jarrar era già stata arrestata il 2 aprile 2015, posta in detenzione amministrativa, senza processo e accuse precise, e successivamente processata per «gravi attività terroristiche». Ma non dovevano essere così «gravi» queste «attività» denunciate dalla procura israeliana visto che la parlamentare è stata poi scarcerata nel giro di alcuni mesi.
Ora un nuovo arresto e accuse simili al passato, rivolte questa volta anche a Khitam Saafin, attivista palestinese di livello internazionale che collabora con esponenti europee dei diritti delle donne e che ha partecipato a vari eventi, tra cui il Forum sociale mondiale. «Questi attacchi non ci fermeranno – scrive in un comunicato il Fplp – continueremo la resistenza all’occupazione e a contrastare crimini e progetti che tentano di liquidare la causa palestinese». Il Fplp, il più importante dei partiti e dei movimenti della sinistra palestinese, aggiunge che questi arresti «evidenziano la futilità» della linea dell’Anp a sostegno dei negoziati e del coordinamento di sicurezza con Israele.
Per Hanan Ashrawi, del Comitato esecutivo dell’Olp, l’arresto di Khalida Jarrar è «una violazione della sua immunità parlamentare e Israele deve adeguarsi alle norme internazionali che riguardano l’immunità di funzionari eletti«». Si tratta, afferma Ashrawi, «soltanto di un arresto politico». Issa Qaraqe, capo del comitato per i prigionieri politici, ricorda che dal 2002 Israele ha arrestato 70 deputati, pari a circa la metà del numero totale di membri del Clp, tra cui altre due donne, Majida Fida e Samira Halaika.
Sull’arresto di Khalida Jarrar è intervenuto anche il portavoce di Fatah, Osama Qawasmeh, per respingere l’accusa rivolta dal Fplp al suo partito (spina dorsale dell’Anp di Abu Mazen) di aver «collaborato» al blitz israeliano che ha portato alla detenzione della parlamentare e degli altri esponenti della sinistra palestinese. Samidoun, la rete di solidarietà con i detenuti, e le associazioni delle donne palestinesi rivolgono un appello alle organizzazioni internazionali affinchè siano fatte pressioni su Israele per ottenere la scarcercazione immediata di Jarrar, Saafin e di tutti i prigionieri politici.

il manifesto 4.7.17
Einstein e Croce due lettere del 1944  Divano. La rubrica settimanale a cura di Alberto Olivetti                                                                                                                                                                                                                                          

Pubblicato 29.6.2017, 23:58  Da Princeton, il 7 giugno del 1944, Albert Einstein scrive a Benedetto Croce. Una lettera a conforto dell’attivo impegno politico del filosofo nell’Italia ‘tagliata in due’. Einstein richiama Platone, “il suo sogno di un governo retto da filosofi” e la sua idea “del circolo delle forme di governo”. Ma constata che la filosofia e la ragione, “per un tempo prevedibile”, sono ben lontane dal guidare gli uomini. Esse restano “il più bel rifugio degli spiriti eletti”, una società dove trovano alimento “i vincoli fra viventi e morti”, dove i pensieri elaborati nel corso dei secoli “non perdono mai la loro attrattiva, la loro fecondità e la personale loro magia”. E conclude: “chi realmente appartiene a quella aristocrazia, potrà bensì dagli altri uomini essere messo a morte, ma non offeso”.  La lettera raggiunge Croce a Sorrento il 25 luglio: “ho ricevuto per via diplomatica una lettera dell’Einstein, che avevo conosciuto personalmente a Berlino nel 1931: l’amico che me l’ha portata, mi ha chiesto di lasciargliela pubblicare. Ma io ho detto che ci avrei pensato sopra e che, in ogni modo, essendo molto benevola verso di me, non l’avrei potuta pubblicare se non accompagnata da una risposta”.  Risposta che redige nel pomeriggio del 28 luglio. Pare a me molto significativa la pagina stesa, quello stesso giorno, nel diario, dove leggo: “ripensavo stamane al cosiddetto idealismo attuale, formulato e predicato dal Gentile, e che ebbe fortuna con la fortuna scolastica e poi politica di lui”. È questa l’unica volta in cui Croce fa ragionata e ampia menzione di Giovanni Gentile nei taccuini degli anni 1943-1945. E lo spunto, per dir così, a me pare vada trovato proprio nelle parole che chiudono la lettera di Einstein.  Appartiene o no Gentile a quella ‘aristocrazia’? Dunque, ‘messo a morte’ sì, ma ‘non offeso’, se l’opera sua resterà un retaggio per ‘gli spiriti eletti’? La notizia di Gentile “ammazzato in Firenze” (il 15 aprile) fu appresa da Croce – e registrata nel diario – due giorni dopo, il 17: “ruppi la mia relazione con lui per il suo passaggio al fascismo, aggravato dalla contaminazione che egli fece della filosofia con questo”. Contaminare la filosofia. Croce richiama le sue obiezioni all’attualismo, che aveva motivate fin dal 1913, in un saggio apparso su “La Voce”. Ma, ora, precisa “il diretto rapporto che quel filosofare aveva con l’abbassamento della vita morale, con una sorta di ottusità morale, con la malattia che sotto varie forme è le mal du siècle, del secolo nostro”. Così nel diario.  Nella risposta ad Einstein, Croce si dichiara convinto che la filosofia ha da essere “severa”, ovvero deve ben conoscere lo spazio suo proprio entro il quale operare per rapporto alla dimensione politica: “è un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che può soltanto sollecitare”. Croce sottolinea le “nobili parole” che Einstein rivolge a quanti hanno lasciato “opere di pensiero e di poesia” e, a sua volta, dice che in esse si rasserena e si ritempra. Un bagno spirituale (“quasi la mia pratica religiosa”) che non lo esenta dagli “umili e spesso ingrati doveri” che impongono al filosofo – come a Socrate oplita alla battaglia di Potidea – di partecipare “alla quotidiana, e più aspra e più complessa guerra, che è la politica”.  Nel taccuino leggiamo che Gentile “per la sua mancanza di senso della vita concreta, per intimo disinteresse verso le sue forme necessarie” si è adeguato “ai sentimenti e giudizi volgari o magari alla più disonesta vita politica e morale che abbia bruttato l’Italia e il mondo”. Nella lettera ad Einstein, Croce mostra d’esser consapevole che il compiuto della ricerca in filosofia è provvisorio sempre e, in ogni caso, non consegna applicazioni alla politica, ma, eventualmente, ‘sollecitazioni’. Esse aspettano d’essere, appunto, declinate secondo le forme della politica. “Perciò mi sento oggi, scrive ad Einstein, conforme ai miei convincimenti ai miei ideali, impegnato nella politica del mio paese; e vorrei, ahimè, possedere per essa a dovizia le forze che le sono più strettamente necessarie, ma tuttavia le do quelle, quali che siano, che mi riesce di raccogliere in me, sia pure con qualche stento”.