sabato 8 luglio 2017

Il Fatto 8.7.17
La scienza ha come bersaglio la paura
Quali timori condizionano la ricerca? Difficile dirlo. Ma la posta in gioco è enorme, perché riguarda direttamente noi: si tratta del nostro cervello, del suo funzionamento, della sua evoluzione e della sua unicità
di Andrea Moro

Cosa può far paura nella scienza? Non siamo abituati ad associare questi due termini – la paura e la scienza – eppure la storia della scienza è una storia di coraggio e il coraggio non si dà senza la paura. La paura e il coraggio non possono dunque non essere presenti nella ricerca scientifica ma non solo perché sono il contorno emotivo naturale delle imprese appassionanti e difficili ma perché spesso il coraggio nasce proprio per sconfiggere la paura; ha la paura come bersaglio. Di questo l’occidente ne è consapevole fino dagli esordi della riflessione sulla scienza come ci testimonia Lucrezio che elogia il coraggio della scienza di Epicuro come antidoto per la paura.
E poi c’è paura e paura: c’è la paura dell’ignoto, che Dante stesso ci dice è vinta dall’uomo per la sua naturale propensione alla curiosità, “l’ardore di divenir del mondo esperto”; c’è la paura delle conseguenze, come testimoniano le lettere di Einstein sull’impiego di bombe termonucleari; e c’è anche la paura della fatica, quella che prende Wiles, il grande matematico inglese quando, dopo essersi accorto di un buco nella sua dimostrazione della congettura di Fermat, entrò in una clausura metodica, una clausura che durò un anno ma che non sapeva né quando sarebbe finita, né se mai sarebbe finita.
Ma tutte queste paure sono paure dettate dal mondo; sono paure, cioè, che hanno in comune tra di loro il fatto di dipendere dalla natura delle cose, fisica e biologica, cioè, in sintesi: dalla realtà esterna all’uomo. Esiste, tuttavia, un altro tipo di paura che qui questa sera voglio evocare e considerare insieme a voi; si tratta di una paura diversa, una paura che dipende tutta dall’uomo e che implica un coraggio forse ancora più forte e che ci sfida costantemente: la paura di non riuscire a convincere gli altri quando si è capito ciò che è vero. Si tratta di una paura subdola ma che forse proprio per questo ci condiziona di più di ogni altra e non riconoscerla vorrebbe dire rimanerne vittime. Vediamone un esempio.
Ci fu un momento nella storia della scienza nel quale si giocò una partita importantissima, la partita che segnò la maturazione del metodo scientifico sbocciato come conseguenza del Rinascimento: quel metodo che al di là di ogni relativismo ha reso l’occidente il riferimento unico per la vita di tutti gli esseri umani. In questa partita il destino si giocò sulla vittoria verso questo tipo di paura della quale ho parlato. Mi riferisco alla legge di gravitazione di Newton quella che da sola spiega sia perché una mela cade per terra seguendo una linea retta sia perché la Luna si muove intorno alla Terra seguendo una linea curva. Cosa c’entra in questo la paura?
Al tempo di Newton la fisica aveva appena vissuto una rivoluzione epocale; una rivoluzione stupefacente e giusta ma che Newton si trovò addosso come limite. Cartesio aveva introdotto il principio fondamentale secondo il quale un fenomeno può condizionarne un altro a distanza solo se tra i due c’è una catena di fenomeni locali, dove qualche cosa entra a contatto con qualche cos’altro. Così, ad esempio, il suono dalla mia bocca esce e raggiunge le vostre orecchie trasportato da onde d’aria concentriche come un sasso gettato in uno stagno, e il profumo di un caffè passa dal liquido al vostro naso perché delle invisibili molecole di caffè toccano le mucose e da lì partono i segnali verso il cervello. Non esiste l’azione a distanza per i cartesiani; quella va bene solo per gli alchimisti.
Per Cartesio, dunque, la Luna, la Terra e tutti gli astri si muovono in cerchio perché catturati da un vortice di sostanza invisibile che si chiama etere. Ma la teoria dei vortici, che comunque deve ammettere l’esistenza di una sostanza che nessuno vede, non può essere applicata alla mela che cade. Newton, invece, capisce che i due fenomeni sono descrivibili con la stessa legge ma che, dovendo rinunciare alla teoria dei vortici, deve in qualche modo, sia pure temporaneamente, adottare un modello che descrive un’azione a distanza, ponendosi con ciò contro tutta la comunità scientifica.
Newton ebbe paura: buttare via tutto per non andar contro all’ortodossia scientifica o prendere un’altra strada sospendendo per il momento la validità della teoria cartesiana? Per anni Newton tenne chiusa nel cassetto la sua teoria ma alla fine, fidandosi della sua intelligenza e della sua intuizione, si decise e la pubblicò. L’annuncio di questa vittoria, che ha pochi eguali nella storia, arriva paradossalmente con una dichiarazione di resa che vale la pena ripetere: “Non sono stato in grado di scoprire le cause della forza di gravità e non fingo delle ipotesi. Per noi è sufficiente che la gravità esista veramente, che agisca in conformità con le leggi che ho spiegato e che serva per spiegare tutti i movimenti.” Quella paura fu vinta e la storia dell’umanità prese un nuovo corso.
Quali paure condizionano la ricerca scientifica oggi? Difficile dirlo: forse alcune sono così scontate che nessuno si cura di dichiararle; forse altre si pensa che siano insuperabili. Almeno in un caso, tuttavia, per quanto diverso, noi ci troviamo in una situazione simile a quella di Newton e la posta in gioco è enorme, forse anche maggiore rispetto a quella che riguardava il modello di universo fisico perché questa riguarda direttamente noi esseri umani: si tratta del nostro cervello, della comprensione del suo funzionamento, della sua natura, della sua evoluzione e della sua unicità. E, di tutti i fenomeni che riguardano il cervello, la struttura del linguaggio è il più rilevante perché costituisce lo spartiacque certo tra noi e tutti gli altri animali, l’impronta digitale della nostra mente. Questo è il problema: la grande scoperta delle regolarità matematiche universali delle lingue umane, la cosiddetta teoria delle grammatiche generative, non è al momento totalmente riconducibile alla “meccanica dei neuroni” e non sappiamo se mai lo sarà. Ci dobbiamo per questo fermare o conviene procedere nell’analisi del linguaggio rimandando l’unificazione dei due domini? Dovremo vegliare tutti insieme con coraggio perché non sia la paura a far tacere il prossimo Newton.
* Professore di linguistica generale alla Scuola Universitaria Superiore Iuss di Pavia © Andrea Moro 2017