SULLA STAMPA DI VENERDI 23 GIUGNO
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Il Fatto 23.6.17
“Il dossier Orlandi agli uomini di Ratzinger”
La
scomparsa di Emanuela Dopo 34 anni il fratello Pietro non si arrende e
tornerà a rivolgersi alla Segreteria di Stato vaticana
di Andrea Palladino
È
un dossier segreto, custodito all'intero della Città del Vaticano, il
pezzo mancante che potrebbe riaprire il caso del rapimento di Emanuela
Orlandi.
SONO PASSATI 34 anni dal 22 giugno 1983, quando la
figlia, all'epoca quindicenne, di un commesso della Prefettura della
Casa pontificia spariva senza lasciare tracce. Da allora il fratello
Pietro ha inseguito voci, piste, tracce che apparivano e sparivano nelle
pieghe dell'eterna Roma papalina. Tutto portava verso quel gruppo che
per un decennio ha dominato la Capitale, i Testaccini, il nucleo più
misterioso, potente e ricco della banda della Magliana. E a un nome,
Renatino De Pedis, il boss sepolto per quasi vent'anni nella basilica di
Sant'Apollinare.
Ieri Pietro Orlandi era al presidio in via della
Conciliazione, organizzato per ricordare la scomparsa della sorella e
per chiedere una risposta dal Vaticano. È sicuro che un pezzo chiave
della storia sia chiuso lì: “L’esistenza di quel dossier sulla
scomparsa di Emanuela – spiega al Fatto Quotidiano – è confermata dalla
intercettazione di Raoul Bonarelli (vice ispettore della Gendarmeria
vaticana, ndr) con il suo superiore l’anno dopo la scomparsa
della
ragazza”. Una telefonata agli atti dell'inchiesta, poi archiviata dal
gip di Roma, su richiesta della Procura, nel 2012. “Nella conversazione
telefonica – prosegue – il superiore dice che ‘la cosa è andata alla
Segreteria di Stato”. La “cosa” è la documentazione sulla scomparsa di
Emanuela”.
NON È L’UNICO elemento. Nel film di Roberto Faenza,
“La verità sta in cielo”, la sequenza finale (citata anche nell’istanza
presentata in Vaticano dai legali di Pietro Orlandi) descrive nei
particolari l’incontro tra il magistrato incaricato dell’inchiesta e un
alto prelato, per la consegna del dossier Orlandi in cambio della
rimozione della salma di De Pedis dalla basilica di Sant’Apollinare, la
cui sepoltura stava creando grave imbarazzo al Vaticano. Proprio in
seguito a questa ricostruzione il fratello di Emanuela ha chiesto lo
scorso anno un incontro con il segretario di Stato Parolin. Poi, nei
giorni scorsi, è stato presentata una istanza della famiglia Orlandi
dallo studio legale Bernardini de Pace e dall’esperta rotale Laura
Sgrò. La risposta, per ora, è stata netta: “Per il Vaticano è un caso
chiuso”, ha risposto monsignor Angelo Becciu, sostituto della
Segreteria di Stato. Pietro Orlandi non ha nessuna intenzione di tornare
indietro, di archiviare la storia del rapimento della sorella.
“MOLTE
VOLTE in questi anni eravamo sicuri di essere vicini alla soluzione –
spiega al Fatto– , pronti ad andare a prendere Emanuela”. Nonostante
l’archiviazione dei magistrati romani e il muro che si è alzato dal
Vaticano è tuttora sicuro di arrivare alla verità. Fonti autorevoli
confermano che il dossier era a disposizione dei collaboratori più
vicini a Benedetto XVI. Un elemento, questo, che la famiglia è pronta a
presentare alla Segreteria di Stato.
La Stampa 23.6.17
La Chiesa d’Inghilterra coprì gli abusi sui minori
Il mea culpa dell’arcivescovo di Canterbury: comportamento inaccettabile
di Christopher Lamb
È
come se Papa Francesco dicesse a Benedetto XVI che non può più
amministrare in pubblico. L’Arcivescovo di Canterbury, il leader
spirituale della comunità anglicana di tutto il mondo ha chiesto al suo
predecessore, Lord Carey, di rinunciare alla carica di vescovo onorario
in seguito all’accusa di non aver adeguatamente gestito le denunce
contro un ex vescovo condannato per abusi sessuali su uomini e
adolescenti.
È l’ultimo capitolo, clamoroso, di un nuovo scandalo
pedofilia che colpisce l’establishment del Regno Unito e in questo caso è
la chiesa d’Inghilterra a finire sotto accusa. Il suo leader,
l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, ha dovuto fare un «mea culpa»
senza precedenti rivelando anni di insabbiamenti e addirittura
collusioni per coprire gli abusi sessuali commessi su bambini e ragazzi
da Peter Ball quando era vescovo prima di Lewes e poi di Gloucester.
Quello del primate della «Church of England» è stato un atto necessario
dopo la pubblicazione di «Abuse of Faith», un rapporto indipendente che
fa luce su uno degli episodi più oscuri del mondo protestante
britannico.
«Siamo di fronte a un comportamento imperdonabile e
scioccante», ha affermato Welby, sottolineando che sono state tradite le
vittime che invece andavano aiutate. I risultati del rapporto sono per
certi versi sconvolgenti: è emerso che la chiesa ha perfino depistato le
indagini sui reati compiuti dall’ ex vescovo nel periodo che va dagli
anni Settanta fino agli anni Novanta. L’85enne Ball aveva ammesso di
aver abusato di 18 ragazzi - obbligandoli ad esempio a pregare nudi - ma
dopo la condanna a 32 mesi di carcere nel 2015 è stato rilasciato lo
scorso febbraio dopo aver trascorso solo 16 mesi dietro le sbarre.
E
fra le figure ai vertici della chiesa maggiormente coinvolte c’è
appunto l’ex arcivescovo di Canterbury, George Carey, che Welby ha
costretto alle dimissioni dall’incarico onorario di vice vescovo a
Oxford.
In una dichiarazione, il vescovo di Oxford, Steven Croft,
ha dichiarato che Lord Carey, guida della comunità anglicana nel mondo
dal 1991 al 2002, ha, per il momento, «volontariamente accettato di
ritirarsi dal ministero pubblico».
Un anomalo capovolgimento degli
eventi per un uomo ampiamente considerato fra i leader cristiani
britannici più importanti. Lord Carey, 81 anni, compare spesso sulle
pagine dei giornali date le sue posizioni, molto esplicite, su una serie
di argomenti: il vescovo è contrario al matrimonio fra persone dello
sesso, a favore del suicidio assistito e ha anche descritto il
presidente Usa Donald Trump come un «buon Samaritano».
L’arcivescovo
Welby, un ex dirigente petrolifero, con la missione di ripulire la
Chiesa d’Inghilterra dallo scandalo degli abusi sessuali, ha dichiarato
che i risultati della relazione hanno rivelato «comportamenti
inammissibili e sconvolgenti».
All’epoca nessuno credette alle
accuse mosse contro Ball. L’ex vescovo vantava amicizie molto potenti
tra cui quella con il principe Carlo. Lord Carey si era speso dinanzi
alla polizia e alle autorità in difesa del vescovo.
il manifesto 23.6.17
A Genova tortura prevedibile. L’Italia di nuovo condannata
G8
del 2001. Per la Corte di Strasburgo le violenze della polizia alla
Diaz e alla Pascoli erano evitabili. Riconosciuti 1,4 milioni di danni. E
la legge passa all’Aula senza emendamenti
di Eleonora Martini
Come
nel 2015 e con motivazioni ancora più dettagliate, la Corte europea dei
diritti umani torna a condannare l’Italia per la «macelleria
messicana», come la definì l’allora vicequestore del primo Reparto
mobile di Roma Michelangelo Fournier, compiuta dalle forze dell’ordine
durante il G8 di Genova del 2001 all’interno della scuola Diaz e (questa
volta anche) della scuola Pascoli, dove era stato allestito il centro
stampa e l’ufficio legale.
«Tortura», la definiscono ormai
esplicitamente i giudici di Strasburgo che hanno dato ragione a 29 dei
42 ricorrenti (Bartesaghi Gallo e altri) e, per violazione dell’articolo
3 della Convenzione, condannano lo Stato italiano a risarcire le
vittime con somme che vanno dai 45 mila ai 55 mila euro ciascuno, per un
totale di circa 1,4 milioni di euro.
Un’operazione, l’irruzione
nelle due scuole, «pianificata» dalla polizia e nella quale perciò
l’«uso di incontrollata violenza» poteva essere evitato, motiva la Cedu,
ma così non è stato. Inoltre dalla sentenza Cestaro del 2015 ancora
l’Italia presenta «carenze nel sistema giuridico riguardo la punizione
della tortura». Motivo per il quale coloro che sono stati ritenuti
responsabili di quella folle notte di violenze non sono stati puniti
adeguatamente, accusati di reati minori, presto caduti in prescrizione.
Le
parole di Strasburgo arrivano in commissione Giustizia della Camera,
dove si sta analizzando in quarta lettura il brutto testo di legge che
introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento penale, e fanno
l’effetto della maestra che torna in classe all’improvviso. Respinti
tutti gli emendamenti, il ddl arriverà in Aula il 26 giugno, senza più
altri rinvii. La convinzione che di questi tempi non si possa pretendere
di meglio nel Belpaese, porta ad accelerare i tempi verso
l’approvazione di un testo che il Consiglio d’Europa, per ultimo, e
decine di associazioni che hanno lanciato un appello contro la «legge
truffa», considerano inadatto e lontano dalle convenzioni Onu e dalle
raccomandazioni della Cedu.
Prendiamo ad esempio il reato
specifico per pubblico ufficiale, nemmeno lontanamente preso in
considerazione per via delle proteste di alcuni sindacati di polizia (a
danno della maggioranza delle forze dell’ordine). Nella sentenza resa
nota ieri, Strasburgo fa notare che nella notte tra il 20 e il 21 luglio
2001, quando all’interno delle due scuole furono commesse «violenze
multiple e ripetute, di un livello di gravità assoluta», «la polizia non
stava affrontando una situazione di emergenza, una minaccia immediata
che richiedeva una risposta proporzionata ai potenziali rischi». La
Corte «ritiene che i funzionari hanno avuto la possibilità di
pianificare l’intervento della polizia, analizzare tutte le informazioni
disponibili e tener conto della situazione di tensione e dello stress a
cui gli agenti erano stati sottoposti per 48 ore». Ma, «nonostante la
presenza a Genova di funzionari esperti appartenenti all’alta gerarchia
della polizia, non è stata emanata alcuna direttiva specifica sull’uso
della forza e non sono state date consegne adatte agli agenti su questo
aspetto decisivo».
In sostanza, le Corte europea fa notare
stavolta che la tortura e i trattamenti inumani e degradanti inflitti,
«con gravi danni fisici e psicofisici», su persone inermi non erano
imprevedibili. Non sono state frutto in una situazione sfuggita di mano.
E nel frattempo nulla è cambiato.
Per Amnesty international
Italia, la condanna della Cedu è «una buona notizia» perché «aiuta la
memoria collettiva» e «sottolinea la necessità di rafforzare la cultura
dei diritti umani tra le forze di polizia». Ma il ddl in dirittura
d’arrivo alla Camera anche per il senatore di Mdp, Felice Casson, tra i
firmatari del testo prima che venisse «stravolto in Senato», sarà «da un
punto di vista pratico difficilmente applicabile per la nostra
magistratura» e «avremo episodi chiari di tortura che non verranno mai
puniti».
E al Consiglio d’Europa che due giorni fa chiedeva una
fattispecie esente da ogni possibile misura di clemenza, l’Unione delle
camere penali risponde di non preoccuparsi, «perché a rendere
ineffettiva la norma sulla tortura non c’è bisogno né di amnistie, né di
indulti, né di prescrizioni: basta che il Parlamento approvi la legge
sulla tortura in via definitiva così com’è».
il manifesto 23.6.17
Quando la democrazia fu affidata a criminali di Stato
di Patrizio Gonnella
A
Genova la democrazia fu sospesa e messa nelle mani di criminali di
Stato. Fu fatta carta straccia della rule of law e dell’habeas corpus.
Decine e decine di corpi furono seviziati, massacrati, torturati. Dopo
sedici anni arriva finalmente per quarantadue di quei corpi un
risarcimento politico, giudiziario, morale, economico. La Corte europea
dei diritti umani, nella sentenza resa pubblica ieri, l’ha potuta
chiamare tortura. Noi, nelle nostre Corti, non possiamo ancora chiamarla
così, perché la tortura in Italia non è codificata come crimine.
Il
26 giugno è la giornata che le Nazioni Unite dedicano alle vittime
della tortura. È anche il giorno in cui la Camera dei Deputati inizierà a
votare la brutta, pasticciata e intenzionalmente confusa proposta di
legge che il Senato ha approvato giusto poche settimane fa, dando
cattiva prova di sé. Sono intanto trascorsi sedici anni dalle torture
della Diaz e ben ventinove da quando l’Italia ha ratificato la
Convenzione Onu contro la tortura che ci obbligava a introdurre nel
nostro codice il crimine di tortura. Il tempo passa ma non cambia il
modo in cui le istituzioni hanno cercato di non parlare di un delitto
che è tanto grave in quanto commesso su persone in stato di soggezione e
dalle mani dei servitori della democrazia.
Ancora una volta da
Strasburgo arriva un monito a non lasciare impuniti i torturatori sul
suolo italico. L’Italia infatti è una sorta di paradiso legale per i
torturatori di ogni nazionalità che qui possono sentirsi sicuri e
rifugiarsi da accuse e processi nei loro confronti. La sentenza
risarcisce le vittime di quello che possiamo chiamare ora a tutti gli
effetti un crimine di Stato, sia perché la tortura è nella storia del
diritto un reato proprio di agenti dello Stato, sia perché nel caso di
Genova i carnefici non sono stati due, tre o quattro ma un plotone
intero con tutti i suoi governanti. Basta riguardare la sentenza della
Corte di Cassazione del 2012 per leggere i nomi dei dirigenti ad
altissimo livello della Polizia che furono condannati a vario titolo, ma
nessuno per tortura, perché in Italia non si può condannare per
tortura.
La sentenza di Strasburgo restituisce giustizia a chi non
vuole che la memoria e la verità siano violentate. Il numero delle
vittime e la gravità delle condanne pongono un problema politico, non
solo giuridico ed economico come forse in molti al potere vorrebbero far
credere, ossessionati dalla paura dei fantasmi di Genova.
Fu
Antonio di Pietro, allora capo dell’Idv e ministro delle Infrastrutture,
ad affossare la legge che istituiva una Commissione di inchiesta sui
fatti di Genova. Una Commissione che ancora oggi sarebbe sacrosanto
mettere rapidamente in piedi per fare i nomi e cognomi dei responsabili
politici, militari e di Polizia di un piano sistematico criminale.
Come
altro definire un piano pensato per commettere crimini contro
l’umanità? Nel frattempo impunità e immunità hanno favorito le carriere
dei presunti torturatori e dei loro mandanti.
Chiediamo ai
governanti dello Stato italiano di oggi di rivalersi contro i
responsabili politici e di Polizia di quel 2001, di fare loro causa
civile, di istituire per via amministrativa un fondo per le vittime
della tortura, di consentire l’identificazione degli appartenenti alle
forze dell’ordine. Si può fare subito.
Se dovesse anche questa
volta prevalere la melina, l’autodifesa dei vertici, il quieto vivere
vorrà dire che la democrazia è ancora sospesa.
Tanti ragazzi che
oggi frequentano le Università non sanno cosa è successo a Genova in
quel luglio del 2001. Va loro raccontato che lo Stato democratico
italiano torturò altri ragazzi come loro. Lo fece perché aveva paura
delle loro bandiere della pace.
il manifesto 23.6.17
Bruno Trentin lettore di Montaigne
Il divano. Dai «diari 1988 - 1994», le note sulla lettura degli «Essais»
di Alberto Olivetti
22.6.2017, 23:59
In
libreria, a Parigi, il 2 aprile del 1992. Annota Bruno Trentin nel suo
diario: «…comperare libri, il mio desiderio di riprendere letture
frettolose dell’adolescenza: Montaigne. Piove a Parigi come a Roma. Un
tempo triste e sfasciato come questo periodo politico». Mesi cruciali
per i casi italiani questi dell’anno 1992. Le inchieste sulla
corruzione. Le elezioni politiche il 5 aprile. L’uccisione di Giovanni
Falcone il 23 maggio e di Paolo Borsellino il 19 luglio. La firma
dell’accordo con il governo sulla scala mobile e le sue dimissioni da
segretario della Cgil il 31 luglio. Il 13 agosto appunta: «Ho cominciato
a leggere – in fondo per la prima volta – gli Essais di Montaigne. E
sono molto colpito dall’acutezza e dalla modernità di alcuni scritti
(come quello sul bisogno di transfert, di oggettivare la causa del
proprio dolore o del proprio malessere, anche a costo di assumere un
oggetto altro, purché funga da simbolo)».
Nei Saggi, Trentin trova
un riscontro, rileva una consonanza con i suoi pensieri, tanto
imprevista quanto intensa. E forse vi scopre un modo di elaborare
inquietudini che lo tengono e ansie. «Leggo Montaigne nel prato verde
dell’Albergo di Hans e ritrovo il piacere, l’emozione della scoperta. La
scalata di domani non mi fa più paura. E nemmeno la dura prova che mi
attende a settembre. Pezzo per pezzo alcune riflessioni sulle vicende di
luglio si sedimentano, purgate dall’ansia e dal risentimento». Del
resto, in alcune pagine del diario, è affidata alle parole di Montaigne
la perfetta resa della condizione nella quale egli si trova.
Stato
d’animo ma, forse più esattamente, una consapevolezza che è il
risultato di quel costante interrogarsi sul senso dei suoi studi e delle
sue azioni. Trentin constata lo scarto che rende vane le sue ragionate
convinzioni circa il che fare. Avverte come questo vallo sia il portato
storico delle mancate iniziative disegnate e non condotte a compimento;
di scelte dichiarate e non perseguite; di consuetudini inerziali che
fanno ostacolo. Al netto degli errori, emergono l’inettitudine e il
tornaconto. Il risultato è un accumulo di scorie che si frappongono,
impediscono e deformano ogni ragionevole e ponderato proposito. Perché i
detriti offrono appoggio alle false soluzioni, alle suggestioni
loquaci, agli espedienti prolissi e fumosi che mascherano le opzioni di
personale convenienza, le operazioni di meschino cabotaggio.
Una
tra le prime considerazioni di Trentin a margine della lettura degli
Essais recita: «tutte le ideologie sopravvissute, dal riformismo al
comunismo, nella fase che precede nella sinistra il formarsi di nuove
ideologie – espressioni organiche e ideali di progetti concreti – sono
destinate a essere unicamente assolutorie e giustificatorie di
comportamenti politici concreti completamente avulsi dal progetto
originario che le ha viste nascere». Il patto con il governo di Giuliano
Amato del 31 luglio ha stritolato, secondo Trentin, «qualsiasi
riferimento a principi e programmi, lasciando soltanto lo spazio a
schieramenti e soldi, potere e contropartite per gli esclusi». E
aggiunge: «come scrive Montaigne, con questo ‘codice’ che esprime bene
la ‘perdita di senso’ della politica, almeno in forze che portano nel
loro codice genetico una volontà di cambiamento e di riforma, di
modifica dei vecchi equilibri di potere fra le classi e i gruppi
sociali, una trattativa sindacale diventa marchander».
A dicembre,
a New York, alcune righe dedicate alle iniziative della Cgil da
organizzare nel prossimo gennaio. Confessa il «bisogno di molta
solitudine» e trascrive un brano dal De la solitude degli Essais: «Noi
ci portiamo appresso le nostre catene: questa non è libertà piena, noi
volgiamo gli occhi verso quello che abbiamo lasciato, ne abbiamo piena
la fantasia. Il nostro male ci afferra nell’anima: ora, essa non può
sfuggire a sé stessa, così bisogna emendarla e rinchiuderla in sé: è la
vera solitudine, della quale si può godere in mezzo alle città e alle
corti dei re; ma la si gode più comodamente in disparte. Bisogna
riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella
quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la
nostra solitudine».
il manifesto 23.6.17
Pd nervoso, anche Zingaretti in piazza con Pisapia&Bersani
Alleanze.
Orfini contro Orlando. Ma dal Nazareno riparte la proposta di un
listone «Senza Mpd». L'ex sindaco: non ho avuto alcun contatto con
Lotti, è singolare che dopo il fallimento della legge delle larghe
intese Renzi si rivolga a me per un’intesa
di Daniela Preziosi
«Oltre
a non aver avuto alcun contatto con il ministro Lotti, ribadisco: è
quanto meno singolare che dopo essersi accordato con Forza Italia, Lega e
M5s per una legge elettorale che avrebbe portato inevitabilmente a un
governo di larghe intese, e dopo il fallimento di questa, Matteo Renzi
si rivolga a me per un’intesa elettorale». Giuliano Pisapia stavolta
manda una nota scritta di suo pugno per assicurare che nessun contatto
c’è stato fra lui e Lotti, potenziale emissario di «una proposta» di
Renzi.
Non è una vera smentita dei retroscena che lo hanno fatto
arrabbiare: raccontavano in realtà di tentativi di contatto da parte del
ministro dello sport, andati a vuoto. Ma l’occasione è utile per
sottolineare all’indirizzo di Renzi che il tempo del dialogo è scaduto.
«Le coalizioni si costruiscono su programmi condivisi e con
dichiarazioni pubbliche, non con trattative sotto banco», spiega,
«Continuerò a impegnarmi per un soggetto autonomo, aperto e progressista
che unisca esperienze diverse provenienti dal civismo, dalle
associazioni laiche e cattoliche e dall’ambientalismo, in netta
discontinuità con gli anomali accordi e alleanze con destra e
centrodestra che il Pd ha portato avanti negli ultimi anni».
Invece
dal Nazareno continuano a filtrare proposte di un «listone anche più
largo di quel che si dice oggi, a sinistra e al centro», spiega un
renziano di ranco, «chi arriva primo avrà l’incarico di formare il
governo e dovrà giocarsela in parlamento. Dunque tutti punteranno a fare
liste più ampie possibili, per ottenere voti». Listone sì, «ma senza
Mdp», è la condizione. Già respinta al mittente a suo tempo da Pisapia.
La
preparazione della piazza del primo luglio – a Roma, a Santi Apostoli,
sarà lanciato il nuovo soggetto «Insieme» dallo stesso Pisapia e da
Bersani – innervosisce il Pd. Soprattutto la notizia che alla
spicciolata annunciano la loro presenza gli esponenti della minoranza
(Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo), Orlando in testa. Una presenza,
la sua, che fa storcere il naso anche alla sinistra-sinistra che
contesta il decreto immigrazione che porta la sua firma. La sua presenza
in piazza invece «è un’ottima notizia» per Roberto Speranza,
coordinatore di Mdp, e per Pier Luigi Bersani che ha spalancato le porte
agli ex compagni della minoranza Pd. A pungerlo per ora è però l’ex
compagno di corrente Matteo Orfini: «Visto che abbiamo una legge
elettorale che non prevede le coalizioni, ritengo sia più utile
discutere con i nostri segretari di circolo su come rafforzare il Pd più
che con altre forze politiche. Rischia di essere solo una discussione
accademica». Replica Orlando con una certa dose di ironia: «Sono lieto
che Orfini si sia ricordato che esistono i circoli del Pd che, come è
noto, sono stati investiti nelle settimane scorse di una discussione
ampia e approfondita sulla legge elettorale».
Il guardasigilli
annuncia che quel sabato sarà anche all’assemblea dei circoli, prevista
in contro programmazione all’evento incriminato. «E ricordo che le
coalizioni esistono sia nei comuni che nelle regioni, pertanto, ignorare
gli alleati non è segno di lungimiranza». Infatti con lui a Santi
Apostoli andrà anche un altro uomo-simbolo delle coalizioni di
centrosinistra, il presidente del Lazio Nicola Zingaretti.
Quanto
ai comuni, sono un’altra spina per il Nazareno. Domenica si votano più
di cento ballottaggi. Il Pd è avanti in meno della metà, ma nella sede
Pd già si fasciano la testa in previsione di risultati non smaglianti.
Motivo che ha suggerito di evitare una manifestazione nazionale di
chiusura della campagna elettorale. Insieme al fatto che i candidati al
secondo turno hanno preferito tenere Renzi a distanza dai loro comizi.
«È divisivo», c’è chi spiega. Certo non è il brand giusto per quelli che
devono chiedere i voti della sinistra-sinistra.
il manifesto 23.6.17
Renzi ferma la concorrenza di Calenda
Alla
camera. Pd contro il governo, approvati quattro emendamenti in
commissione. Il disegno di legge che attende da due anni di essere
convertito deve tornare per la seconda volta al senato e rischia di
affondare. Il ministro, idolo di Confindustria, parla di decisione
incomprensibile. Ma il messaggio è per lui
A. Fab.
Il
Pd che appena 48 ore fa accusava i bersaniani di mettere in difficoltà
il governo, blocca alla camera uno dei provvedimenti più attesi
dell’esecutivo, il disegno di legge sulla concorrenza. La concorrenza in
questo caso è quella che Matteo Renzi teme possa arrivargli da Carlo
Calenda, ministro titolare del dossier e recente idolo di Confindustria
(per la quale è passato, e poi per l’associazione di Montezemolo e il
partito di Monti, prima di fermarsi sulla soglia del Pd). Proprio
raccogliendo gli applausi degli industriali, Calenda aveva detto che il
disegno di legge sulla concorrenza andava approvato «senza modifiche».
Aggiungendo, profetico: «Non vorrei finire come l’ultimo dei Mohicani».
Ieri
le commissioni sesta (finanze) e decima (attività produttive) di
Montecitorio hanno approvato invece quattro emendamenti del Pd (e
identici di Forza Italia) su quattro aspetti – mercato libero
dell’energia, rinnovo tacito delle assicurazioni, telemarketing e
odontoiatri – che secondo il ministro «non sono sostanziali ma di mera
chiarificazione, il governo era disponibile ad affrontare i punti
sollevati in fase di attuazione». Tutto questo per evitare un’altra
navetta e il quarto passaggio parlamentare. Che adesso invece ci sarà.
In
che tempi? Con la pausa estiva dietro l’angolo e la legislatura avviata
a conclusione, la preoccupazione del ministro è che il rinvio possa
equivalere a un affondamento. Tanto più che al senato nessun passaggio è
semplice per la maggioranza. Calenda voleva la fiducia, Gentiloni ha
ascoltato Renzi e non l’ha accontentato. Ieri in commissione il
sottosegretario allo sviluppo ha provato a respingere gli emendamenti
(precedentemente accantonati) ma il Pd ha imposto le modifiche. Con il
relatore Andrea Martella, già portavoce della mozione Orlando, costretto
ad andare contro il governo. Alla fine la ministra per i rapporti con
il parlamento, Anna Finocchiaro (anche lei area Orlando) ha dato l’ok
alle modifiche, assicurando però un rapido via libera del senato.
Intanto alla camera, dalla prossima settimana in aula, non si parla più
di fiducia, ma di«rapida approvazione».
Il sottosegretario che
ieri si è inutilmente opposto in commissione alle manovre del Pd è
l’altrimenti noto Antonio Guidi, rappresentante di quel partito di
Alfano che sta portando avanti un corteggiamento serrato a Calenda,
identificato dal fiuto del ministro degli esteri (e da un po’ di
giornali) come il possibile Macron italiano. Quella che adesso Alfano
chiama «agenda Calenda» è solo un altro terreno dello scontro tra Renzi e
l’area centrista dell’ex delfino di Berlusconi. Mentre Berlusconi in
persona ha detto in tv di voler incontrare Calenda, peraltro appena
uscito da un incontro con Prodi. Il ministro dello sviluppo ha fatto
sapere che non negherà la visita.
Sul disegno di legge concorrenza
si è morso la lingua – «altrimenti mi deprimo» -, ma assai esplicito è
stato il presidente della prima commissione di Montecitorio Andrea
Mazziotti, che gli è vicino: «Il Pd sui temi della concorrenza è oramai
all’opposizione rispetto al governo», ha detto. Un problema in più per
Gentiloni, che peraltro si trova a Bruxelles per il consiglio europeo:
proprio da lì era arrivata all’Italia la raccomandazione di chiudere con
la legge sulla concorrenza «che è del 2015 e non è ancora stata
perfezionata». La legge in effetti attende di essere approvata da 850
giorni, fu presentata nell’aprile 2015 della allora ministra Guidi e
avrebbe dovuto essere una legge annuale. «Con tutto il rispetto per il
parlamento la decisione di riaprire il disegno di legge – ha concluso il
ministro Calenda, facendo direttamente riferimento al prossimo esame
europeo sui conti italiani – è difficilmente comprensibile e rischia di
trasmettere l’ennesimo segnale negativo a cittadini, imprese e
istituzioni internazionali».
Il messaggio di Renzi, invece, è
proprio per Calenda ed è probabilmente più esplicito di quello
consegnato al ministro da Romano Prodi. Come d’abitudine Renzi si muove
blandendo e colpendo, non si può escludere neanche il puro gesto di
ritorsione. «Abbiamo migliorato il testo, in alcuni passaggi creava
problemi invece di risolverli. Approvare una norma imperfetta sarebbe
stato, questo sì, un segnale negativo al paese», ha detto il presidente
del Pd Matteo Orfini. Mentre il capogruppo del partito – alla camera –
Ettore Rosato, assicurava che «non c’è spazio per la polemica politica,
l’approvazione anche al senato sarà rapida». L’ultima previsione del
genere riguardava la legge elettorale.
il manifesto 23.6.17
Sinistra, per accendere la luce serve un programma
Unità.
Una Costituente di sinistra consisterebbe semplicemente in questo: su
cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo d’accordo? I disaccordi sono
componibili o no?
di Alberto Asor Rosa
In un
articolo sul manifesto di poco tempo fa (8/6/2017) avanzavo una
previsione che è risultata, inconsuetamente, azzeccata e formulavo un
auspicio che invece, a quanto sembra, stenta non dico a concretizzarsi,
ma più semplicemente a farsi strada.
La previsione era quella di
un progressivo, sempre più rapido e sempre più insolentemente
dichiarato, slittamento del Movimento 5 Stelle verso posizioni
praticamente coincidenti con quelle dell’estrema destra. Le
testimonianze, nel corso degli ultimi giorni, sono numerose.
Ma
preferisco fermarmi all’ultima, per il suo carattere davvero speciale.
E’ la posizione assunta sulla legge dello ius soli. In politica, com’è
noto, esistono, a seconda delle prospettive, posizioni giuste,
sbagliate, discutibili, contraddittorie, ecc… Ma se una posizione non è
né giusta né sbagliata ma semplicemente disumana, come quella sostenuta
da Grillo sulla richiamata legge, significa che tra quella forza e le
altre, più o meno discutibili, ma che non la pensano come lui, s’è
aperto un fossato invalicabile (come ovviamente per gli stessi motivi, e
ancor più, con la Lega di Salvini ecc…).
Il brutto è che ciò era
chiaro, chiarissimo fin dal giorno in cui Grillo emise il suo primo
strillo incoerente su di una piazza italiana (si potrebbe manifestare
qualche stupore perché tra gli attuali sostenitori di una sinistra “dura
e pura” ce ne siano che se ne sono accorti con impressionante ritardo,
per essere degli innovatori…).
IO, INVECE, SULLA BASE di una forse
settaria ma alla fin fine fondatissima preveggenza, mi permetto di
reiterare, anzi, di raddoppiare la previsione: con posizioni di questa
natura Grillo perderà più voti di quanti pensa di acquistarne. Ossia: il
declino del Movimento 5 Stelle sarà lento, ma è ormai inevitabile.
Quanto
all’auspicio, mi auguravo che le sinistre, disunite, trovassero
un’occasione o un luogo comune per discutere. Non sarebbe solo un
problema di correttezza etico-politica, è molto, molto di più. E’ un
problema di sopravvivenza. Si direbbe che, al contrario, ognuna di
quelle sinistre si sforzi sempre più puntigliosamente di dimostrare e
dichiarare come e perché sia diversa da tutte le altre. E’ ancora
possibile invertire questa micidiale tendenza?
Avanzerò qualche sommaria riflessione.
UNO
DEI MOTIVI del contendere, e perciò della divisione, è, a quanto
sembra, la parola d’ordine del centro-sinistra. Si può cominciare a
ragionarne, confrontando due apparentemente contrari ma in realtà
simmetrici, e anzi convergenti, punti di vista.
Innanzi tutto: la
parola d’ordine del centro-sinistra rappresenta una prospettiva
strategica per la sinistra in Italia. Infatti quando mai la sinistra può
aspirare a diventare in Italia forza di governo, localmente e
nazionalmente, se non in una prospettiva di centro-sinistra? Non ignoro
che nella sinistra esistono componenti e posizioni le quali, del tutto
legittimamente, puntano su di un altro versante della lotta politica,
quello movimentista, che nasce dal basso e agisce sul basso, ecc… Ma
cosa impedisce ad un centro-sinistra di governo di avere rapporti e
scambi molto proficui, anzi essenziali, con quest’altra sinistra? Ma il
centro-sinistra di cui stiamo parlando è quello che si batte per
arrivare a gestire il paese e le sue lotte da una posizione di governo.
Quindi, è a questa prospettiva che l’unità delle sinistre dovrebbe
innanzitutto guardare.
MA: UN CENTRO-SINISTRA, nella pienezza
delle sue forze e potenzialità, non si può fare con Matteo Renzi. Perché
Matteo Renzi è la negazione vivente del centro-sinistra: cultura,
ideologia (più o meno profonda), metodi e pratiche di governo spingono
in lui, strumentalmente, nella direzione opposta. La battaglia per il
centro-sinistra coincide dunque perfettamente – questo dev’essere chiaro
– con la battaglia contro l’egemonia nel Pd, e fuori del Pd, di questo
personaggio.
E’ ANCORA POSSIBILE questa battaglia? E cioè: è il
Pd, innanzitutto, prima di qualsiasi altra componente di sinistra,
recuperabile a una prospettiva di centro-sinistra (certo, con
lacerazioni interne anche profonde e la liquidazione di ogni tipo di
“giglio magico”)? Difficile dirlo. Ma di certo, se non ci si prova, i
tempi si allungheranno, tenderanno di diventare semisecolari.
Ma:
una battaglia di questa portata e natura, che va ben al di là delle
contingenze elettorali, di oggi e di domani, si può iniziare e
vittoriosamente condurre senza mettere le carte in tavola? E cioè: noi
chiediamo legittimamente il cambiamento, chiediamo di abbattere Renzi
per renderlo possibile, solo se discutiamo, progettiamo e propagandiamo
un vero e proprio programma, appunto, una serie di punti chiari e
definiti intorno a cui far quadrato e, come si diceva una volta,
“chiamare alla lotta”.
Di tutto ciò per ora non c’è traccia, né da
una parte né dall’altra. Una Costituente di sinistra consisterebbe
semplicemente in questo: su cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo
d’accordo? I disaccordi sono componibili oppure no? L’unità è una
conseguenza di questo, non il presupposto.
Se si passa da qui, una
luce si accende. Altrimenti resteremo nell’oscurità profonda che
circonda i “quattro dell’Orsa maggiore”: Renzi, Grillo, Berlusconi,
Salvini.
Mamma mia.
il manifesto 23.6.17
Sinistra con i piedi per terra, in cerca di senso e cittadinanza
di Alfonso Gianni
L’assemblea
del Brancaccio ha avuto il merito essenziale di porre con i piedi per
terra il tema della costruzione di una «lista di cittadinanza a
sinistra». Il percorso è tutto da costruire, né poteva essere
preconfezionato.
Ma alea iacta est, indietro non si deve e non si
può tornare. Il percorso non sarà facile e il tempo è breve. Proprio per
questo conviene da subito affrontare alcuni nodi. La contraddizione
nella quale si dibatte la costruzione della lista di cittadinanza a
sinistra è chiara e non va sottaciuta.
Da un lato si tratta di
favorire il massimo dell’unità possibile, perché il risultato elettorale
non risulti deprimente e perché la rappresentanza parlamentare che ne
consegue sia dotata di forza e consistenza. Dall’altro lato bisogna
garantire la sua autonomia in particolare da qualunque sogno di
riedizione di un fantomatico centrosinistra, che ucciderebbe la nuova
creatura prima del parto. Tenere insieme e conciliare questi due
elementi non è semplice, ma neppure impossibile e soprattutto
necessario.
Le ragioni non sono solo elettorali, ma più profonde.
Comincerei da queste ultime. Qui non si tratta di (ri)unificare forze di
sinistra già esistenti. Non che queste manchino e che non debbano in
primo luogo unirsi.
Sarebbe ingeneroso oltre che autolesionista
dimenticarlo o pensare di farne a meno. Ma esperienze comprovate
dimostrano che la somma non fa il totale. Anche se lo facesse,
rischierebbe di essere troppo poco persino per superare l’inevitabile
asticella del quorum, peraltro per ora ignota come il resto della legge
elettorale con cui si voterà, ma soprattutto per reggere la sfida della
stagione politica che si apre. La quale appare contrassegnata dal
fronteggiarsi di diversi e spesso opposti populismi: lo scontro tra
destra e sinistra non sparisce affatto – come dimostrano anche le
recenti esperienze di voto europee – ma avviene su quel terreno, ovvero
nella crisi della politica, entro un senso diffuso di distacco dalle
istituzioni e di diffidenza – eufemismo – verso l’establishment
politico-istituzionale ai suoi vari livelli.
L’unico punto fermo
sono i valori di fondo della Costituzione, lo abbiamo ben visto con il
voto popolare il 4 dicembre, quello stesso però che non si è
ripresentato nella stessa misura alle urne delle recenti amministrative
facendo lievitare ancora una volta l’astensionismo.
D’altro canto
la recente crisi del M5Stelle, cui il gruppo dirigente reagisce con una
evidente virata destrorsa, può liberare voti a sinistra (e non solo a
destra, come sembra stia ora avvenendo) solo se lì vi è una forza in
grado di attrarli. Il compito che ci sta di fronte è quindi ben più
complesso: costruire senso, più che cercare consenso.
Infatti va
ben al di là dell’appuntamento elettorale. Lo trascende in un
auspicabile, ma non predeterminato, processo costituente di un nuovo
soggetto di sinistra, senza però poterlo bypassare perché la politica
non prevede il salto del turno, ma al contrario che di volta in volta si
spenda tutto quello che si ha in tasca.
Che senso avrebbe
anteporre la scelta delle alleanze – il centrosinistra – senza avere
dimostrato che una sinistra autonoma e riconoscibile per profilo
politico-programmatico e qualità dell’agire, esiste? E poi
centrosinistra con chi? Con un centro – il Pd – che guarda a destra (per
parafrasare e capovolgere la celebre espressione di De Gasperi) come
dimostrano politiche e recenti sostegni parlamentari? Propugnatore del
più ambizioso quanto fallimentare progetto di stravolgimento oligarchico
dell’ordine costituzionale?
Non sottovaluto affatto l’importanza
delle scissioni e delle diaspore avvenute in campo Pd. Sono il frutto
diretto o indiretto delle battaglia politiche e soprattutto referendarie
di questi mesi. Queste ultime tanto temute da costruire la truffa del
voucher reloaded. Un fatto positivo, dunque. Che andrebbe aiutato a
liberarsi definitivamente dai fili vischiosi del bozzolo del passato.
Non promuovendo l’abiura, ma una politica senza piombo sulle ali. Se
invece si pensa a un centrosinistra senza Renzi, o ci si illude – visti
gli esiti delle ultime primarie – o si finisce in bocca ai
vagheggiamenti (à la Repubblica) di chi vuole semplicemente cambiare di
spalla al fucile, sapendo che un Calenda sparerebbe nella stessa
direzione.
La contraddizione di cui sopra può essere superata solo
spostando la definizione, da subito e nei modi necessari, di programmi e
candidature ai livelli della partecipazione popolare diretta. Da qui la
centralità del carattere «di cittadinanza» della lista, che pratica un
diverso agire nel momento stesso in cui lo proclama.
Significa
costruire la sinistra a partire dalla responsabilizzazione del suo
popolo diffuso, che non ha mai smesso di esistere anche se la sua
espressione come forza e soggetto politico ancora non c’è.
La Stampa 23.6.17
Dimettititù
di Mattia Feltri
L’ex
sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ieri ha chiesto le dimissioni di
Virginia Raggi. Che problema c’è? Qualche anno fa era Beppe Grillo a
chiedere le dimissioni di Alemanno. Ieri Renato Brunetta ha chiesto le
dimissioni del ministro Padoan. Matteo Salvini invece ha chiesto le
dimissioni del premier Gentiloni. Questo solo ieri. Nell’ultima
settimana, il Movimento cinque stelle ha chiesto le dimissioni del
senatore Formigoni, del presidente della Rai, Monica Maggioni, e di
tutto il Cda, metà Parlamento ha chiesto le dimissioni di Luca Lotti,
Roberto Calderoli ha chiesto le dimissioni di Chiara Appendino, la
forzista Giammanco ha chiesto le dimissioni del presidente Piero Grasso,
la Lega ha chiesto le dimissioni di Dario Franceschini, Grillo ha
chiesto le dimissioni di Angelino Alfano e Roberto Speranza ha chiesto
le dimissioni di Maria Elena Boschi. Vabbè, le dimissioni di Boschi sono
state chieste da tutti. Comunque, per restare all’ultimo mese, sono
state chieste le dimissioni dei ministri Fedeli, Minniti, Orlando,
Pinotti, Poletti e Lorenzin, del presidente della Repubblica, dei
presidenti di Camera e Senato, del direttore del Tg1, del direttore
della Repubblica, e forse non ve ne siete accorti ma l’europarlamentare
Gianni Pittella ha chiesto le dimissioni del premier inglese Theresa
May. La destra chiede le dimissioni della sinistra, la sinistra della
destra, i cinque stelle di tutti e tutti dei cinque stelle. Il che
spiega perché la qualità di una democrazia si vede anche (o
specialmente) dalla qualità dell’opposizione.
Corriere 23.6.17
Frenata sulla concorrenza, l’ira di Calenda
No del governo alla fiducia, la Camera approva quattro modifiche. E ora il ddl tornerà a Palazzo Madama
Il ministro in rotta con l’ex premier: spero che il Pd non voglia rottamare la riforma. Rosato: ok entro l’estate
di Francesco Di Frischia
ROMA
Si allontana l’approvazione definitiva del disegno di legge sulla
concorrenza: ieri le commissioni Finanze e Attività produttive della
Camera hanno dato il via libera al testo modificando 4 emendamenti (su
energia, telemarketing, assicurazioni e società di odontoiatri). Ora il
provvedimento, che era stato promosso dal governo Renzi nel febbraio del
2015, deve tornare per la quarta lettura al Senato. E il ministro dello
Sviluppo economico (Mise), Carlo Calenda, che ne voleva una rapida
approvazione e nei giorni scorsi aveva premuto sul governo per mettere
il sigillo della fiducia provvedimento, sbotta a Radio24 : «Spero che il
Pd non si trasformi nel partito che vuole rottamare la concorrenza». In
effetti le modifiche fatte a Palazzo Madama dal Pd vanno a incidere su
alcuni capitoli che lo stesso partito aveva cambiato a Montecitorio
rispetto al testo iniziale.
Quando nel primo pomeriggio la
riapertura del cantiere della legge sulla concorrenza è cosa fatta,
Calenda commenta: la mancata approvazione «a più di 850 giorni dalla sua
presentazione, con tutto il dovuto rispetto per il Parlamento, è
difficilmente comprensibile e rischia di trasmettere l’ennesimo segnale
negativo a cittadini, imprese e istituzioni internazionali». Infatti
«era stata la Ue due anni fa a chiederci di approvare subito questa
legge — ricorda Antonio Gentile, sottosegretario al Mise —. Anche la
scorsa estate e anche due estati fa sembrava che l’approvazione fosse a
un passo. Ora siamo con le spalle al muro: di certo non si capisce
perché al Senato il governo ha messo la fiducia e alla Camera no...».
Segno evidente che le ruggini dei mesi scorsi tra Renzi e Calenda hanno
lasciato il segno.
Ma le modifiche al ddl concorrenza erano
proprio indispensabili? Erano «di mera chiarificazione», sostiene
Calenda. Quindi, a suo parere, non così importanti da rischiare di fare
naufragare definitivamente una norma che dovrebbe stimolare l’economia e
aprire i mercati. Alternativa popolare e Civici e innovatori temono che
al Senato il ddl possa rimanere di nuovo impantanato, ma Anna
Finocchiaro, ministra per i Rapporti con il Parlamento, prima ribadisce
la contrarietà alla fiducia e poi assicura che «il governo ne chiederà
la più rapida calendarizzazione al Senato». «Sarà legge entro l’estate»,
garantisce il capogruppo alla Camera Ettore Rosato. «Vedremo se gli
impegni troveranno riscontro», taglia corto Calenda. Il muro contro muro
va avanti.
Il Sole 23.6.17
La Spd vuole aumentare le tasse sui redditi più alti
Proposta una nuova aliquota del 48% oltre i 250mila euro
di Alessandro Merli
Francoforte
Cinque mesi dopo la sua trionfale irruzione sulla scena politica
tedesca, che lo aveva portato testa a testa con il cancelliere Angela
Merkel, il leader socialdemocratico Martin Schulz è già alle prese con
la scelta della carta della disperazione per rientrare in gioco nelle
elezioni del 24 settembre. E ha scelto la riforma fiscale, con più tasse
sui redditi alti e un taglio delle imposte per i contribuenti dai
redditi medio-bassi. «Un Paese più giusto», è lo slogan dell’ex
presidente del Parlamento europeo, ma è tutto da dimostrare che tocchi
le corde giuste per risuonare alle orecchie di un elettorato che sembra
ancora una volta orientato ad affidarsi alle mani sicure della signora
Merkel. E le sue proposte in materia di tasse sono già nel mirino di
destra e sinistra.
L’arrivo di Schulz, dopo la rinuncia dello
spento Sigmar Gabriel, aveva ridato un senso alla corsa della Spd,
fiacco vassallo dell’unione democristiana (Cdu/Csu) del cancelliere
nella grande coalizione. L’oratoria più vigorosa, la novità del politico
quasi sconosciuto in patria avendo speso quasi tutta la sua carriera in
Europa, l’affaticamento di Angela Merkel dopo quasi dodici anni al
potere avevano contribuito a un recupero di consensi inopinato. Poi però
la realtà ha preso il sopravvento: gli sconquassi provocati da Brexit e
dall’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti hanno rimesso in cima
alle preferenze dei tedeschi l’esperienza del cancelliere, che, sempre
ignorando, come da sua abitudine, l’avversario, ha fatto valere il suo
ruolo sulla scena internazionale. Fino a rubare, con l’immediato
abbraccio al neo-eletto presidente francese Emmanuel Macron (dopo tutto,
un ex socialista) e il rilancio dell’asse franco-tedesco in chiave
europea, anche quella carta dell’Europa, che avrebbe dovuto essere
l’atout migliore nelle mani di Schulz.
In mezzo, ci sono state tre
elezioni regionali che si sono trasformate per la Spd in altrettante
sconfitte, la più grave delle quali il mese scorso nel Nord
Reno-Vestfalia, stato natale del candidato cancelliere, feudo storico
della socialdemocrazia ed elettoralmente il più pesante della Germania.
L’elettorato ha respinto alcune scelte del nuovo leader, come quella di
far balenare un’alleanza rosso-rosso-verde. Psicologicamente, la
campagna di Schulz ha faticato a riprendersi. I sondaggi sono impietosi:
la Cdu/Csu è rimbalzata al 37,6%, la Spd al 23,1 è appena al di sopra
dei livelli di prima dell’arrivo dell’uomo nuovo.
In questo
contesto si colloca il lancio, lunedì scorso, del programma fiscale che
dovrà essere approvato domenica dal congresso della Spd.
La parte
centrale della piattaforma è un piano di ridistribuzione del reddito.
Per i contribuenti più ricchi, sopra i 250mila euro, viene creata una
nuova aliquota del 48%. La fascia successiva viene portata al 45% dal
42, alzando però la soglia da 54mila a 76mila euro. In compenso, per i
redditi medio-bassi verrebbe abolita, a partire dal 2020, l’imposta di
solidarietà con la quale i contribuenti dell’Ovest continuano a
finanziare l’economia dell’Est dalla riunificazione tedesca.
Complessivamente, si tratterebbe di tagli fiscali di 15 miliardi di
euro, secondo la Spd. L’imposta sui capital gain verrebbe ancorata alle
aliquote delle imposte sui redditi, e non più una ritenuta secca del
25%. Sull’altro piatto della bilancia, il programma mette investimenti
pubblici per 30 miliardi di euro nei prossimi quattro anni, per far
fronte alle lacune emerse in questi anni in cui l’obiettivo dello
Schwarze Null, il deficit zero, “feticcio” del ministro delle Finanze,
Wolfgang Schäuble, ha avuto la priorità di investimenti in
infrastrutture per far funzionare l’economia. Sono previsti anche
ritocchi alla legislazione sul lavoro e sul welfare Hartz IV, che i
socialdemocratici approvarono, obtorto collo, sotto il cancelliere
Gerhard Schröder, ma di cui ha tratto vantaggio, in termini di creazione
di posti di lavoro, Angela Merkel.
La sinistra, potenziale
alleata di Schulz dopo le elezioni, una prospettiva che peraltro si
allontana di giorno in giorno, ha criticato il piano per la mancanza di
coraggio nel non aver proposto una patrimoniale e una tassa sulle grandi
fortune, la destra lo ha bollato come la solita ricetta socialista. Gli
economisti ne vedono un impatto modesto. Se questa era l’ultima carta
di Schulz, difficilmente servirà a ribaltare il gioco.
Corriere 23.6.17
Giorgione
Il dominio del cuore
di Carlo Bertelli
L’amore è una virtù per pochi nei due amici di Giorgione l’aristocrazia dei sentimenti
Un
giovane indubbiamente bello, perduto in sogni e pensieri lontani,
appoggia la guancia alla mano sinistra. È la posa della musa Polimnia,
la musa che presiede, anche, alla poesia. Non si capisce bene a cosa il
giovane appoggi il gomito. Certamente ha davanti a sé un piano, forse
uno scrittoio, sul quale posa la sinistra in cui tiene un frutto, per
l’esattezza un melangolo, ossia un’arancia amara. La desiderata dolcezza
dell’agrume è tradita dal forte sapore amaro. Anche altre volte, nella
pittura del Cinquecento, gli agrumi compaiono come simboli dell’amore.
Sul
melangolo il giovane medita. Lo stringe appena (il pollice emerge al di
là del frutto) e sembra tastarne la buccia rugosa, quasi la leggesse
col tatto. Il giovane è chiuso in una stanza, e di chiusura ci parla la
stessa angolosità della composizione, con l’orlo di seta dorata della
veste, o l’angolo che formano il polso e il palmo della mano. Una mano
certamente non quieta, che con il mignolo perlustra le palpebre, mentre
proietta la sua ombra sullo zigomo. La stessa luce, da sinistra e
dall’alto, illumina la folta chioma rossa che scende a cascata oltre la
mano, e allora ci rendiamo conto dell’incongruenza del cappello che il
giovane indossa. È ornato di due gioielli d’oro pendenti, forse
distintivi di un’appartenenza.
Perché quel cappello, se è chiuso
in una stanza, anzi quasi costretto tra il tavolo e il probabile leggio?
Ha la testa nuda, i capelli un po’ più corti, il giovane che appare in
piena luce alle spalle. Ha sguardo vispo e, sotto la peluria che ne vela
il labbro, un sorriso appena abbozzato. La sua camicia è aperta, e
questa è d’un bianco niveo che costituisce il momento più esaltante di
tutta la composizione. Questo secondo personaggio si trova al di là
d’una colonna, e dietro di sé ha il cielo azzurro con appena qualche
nube.
Ma non è quello sfondo celeste a illuminare il quadro. Una
luce scrutatrice ne collega tutti gli elementi significativi, dalla mano
che tiene il melangolo all’orlo squillante della camicia del secondo
giovane, che si affaccia così spavaldo come sarebbe piaciuto a
Caravaggio. La differenza degli incarnati è davvero notevole. Si
direbbe: Giorgione ha dipinto il contrasto tra la vita attiva e la vita
contemplativa. Anche se così fosse, non si tratterebbe in nessun modo di
allegorie. Qui sono persone vere, caratteri autentici. Tanto che molta
critica ha trattato male il giovane che, con la sua vitalità, interrompe
bruscamente il tono contemplativo della composizione.
Di
contrasti tra volti bellissimi e nobili e altri più sanguigni e volgari
si era interessato in più disegni Leonardo, il cui breve soggiorno a
Venezia aveva sconvolto tutti e aveva avuto un’importanza assoluta per
la pittura di Giorgione. Anche nel nostro caso Leonardo è sullo sfondo.
Basta a dirlo la massa di capelli del giovane in primo piano, che ricade
con la mobilità dei flutti.
Non si sfugge però alla certezza di
trovarci di fronte a persone vere. E persone che sono state ritratte con
un programma. Questo è, sembra evidente, il proposito della gioventù
aristocratica veneziana che aveva fatto del petrarchismo un costume.
Dove
la malinconia degli Asolani di Pietro Bembo si fa manifesto di
compagnie giovanili maschili e guida di un modo di vivere. «Amore, la
tua virtute / Non è dal mondo e dalla gente intesa», si legge negli
Asolani , i dialoghi neoplatonici che Pietro Bembo aveva meditato tra i
fiori, le piante e i portici luminosi nel «barco» delle regina Cornaro
ad Asolo. L’amore è virtù ed è milizia riservata ai pochi che si
staccano dal «mondo» e dalla «gente»: l’amore come coraggio virile di
chi affronta le amarezze che procura. Il melangolo lo riassume tutto. Il
contrasto, enunciato teoricamente dal Bembo, è nel dipinto di Giorgione
sofferta realtà. Meditabondo isolamento.
Repubblica 23.6.17
Le idee
L’Occidente
considera universali i suoi concetti della mente, del sé, della
sessualità. Ma lo studioso e terapista indiano Sudhir Kakar ci spiega
come questi elementi variano in base alle diverse culture
Shiva sul lettino di Freud la nostra psiche vista da Oriente
SUDHIR KAKAR
La
cultura non è un sistema astratto di idee ma qualcosa che informa le
nostre attività quotidiane mentre allo stesso tempo ci guida lungo il
percorso della vita. Come comportarsi verso i superiori e i sottoposti
nelle organizzazioni, i tipi di cibo più adatti per una vita sana, la
rete di doveri e obblighi verso la famiglia - tutte queste cose sono
influenzate dalla nostra cultura tanto quanto lo sono le idee che
riguardano una vita realizzata, rapporti adeguati tra i sessi o la
nostra relazione con la divinità. Per oltre un secolo il “terroir” della
psicoanalisi, per usare il termine del mio collega Anurag Mishra, è
stato e continua ad essere occidentale. Contiene numerose idee e ideali
culturali dell’Occidente che permeano
le teorie e la pratica
psicoterapeutica. Condivise da analisti e pazienti e presenti nello
spazio analitico in cui i due si muovono, le idee fondamentali sui
rapporti umani, la famiglia, il matrimonio, il maschile e il femminile e
così via, che sono essenzialmente di origine culturale, spesso non
vengono analizzate e vengono considerate universalmente valide. Ora, noi
sappiamo che ogni forma di terapia è anche una inculturazione. In
psicoanalisi un paziente alle prese con l’amore di transfert diventa
particolarmente sensibile ai suggerimenti del suo analista sui valori.
L’analizzando fa presto a cogliere i suggerimenti che inconsciamente
modellano le sue reazioni perché è spinto dall’obiettivo primario di far
piacere e di essere gradito agli occhi dell’amato analista. Il suo
bisogno chi essere “capito” dall’analista dà origine a una forza
inconscia che lo spinge a tenere sottotono le parti culturali del suo sé
che pensa siano troppo lontane dall’esperienza dell’analista.
Permettetemi
a questo punto di fare un solo esempio sul ruolo fondamentale della
cultura nel modellare la psiche e sui problemi che ciò pone per la
teoria e la pratica psicoanalitica: l’importanza nella cultura
indù-indiana della connessione. Che si riflette sull’immagine del corpo,
un elemento fondamentale nello sviluppo della mente. Secondo Ayurveda
il corpo è intimamente connesso alla natura e al cosmo e non c’è nulla
nella natura che non sia rilevante per la medicina. L’immagine del corpo
degli indiani quindi sottolinea un incessante interscambio con
l’ambiente. Inoltre, secondo gli indiani, non c’è una sostanziale
differenza tra il corpo e la mente. Il corpo è semplicemente una forma
grezza di materia ( sthulasharira), così come la mente è una forma più
tenue della stessa materia ( sukshmasharira); entrambi sono forme
diverse della stessa materia corpo-mente, sharira.
Invece
l’immagine occidentale è quella di un corpo chiaramente conchiuso,
nettamente differenziato dal resto degli oggetti dell’universo. Questa
idea del corpo come una roccaforte sicura dotata di numero limitato di
ponti levatoi che mantengono un tenue contatto con il mondo esterno ha
notevoli conseguenze. Sembra che il discorso occidentale, sia
scientifico che artistico, si occupi principalmente di ciò che avviene
dentro la fortezza del corpo dell’individuo. Gli aspetti naturali
dell’ambiente - la qualità dell’aria, la quantità di luce solare, la
presenza di uccelli e animali, di piante e alberi - se mai vengono presi
in considerazione, sono considerati a priori come irrilevanti per lo
sviluppo intellettuale ed emotivo. A volte mi chiedo se l’assenza
dell’ambiente nei casi clinici o nelle teorie degli occidentali sia
anche connessa all’ubicazione della psicoanalisi, alle sue origini in un
paese freddo in cui terapista e paziente hanno bisogno di stare chiusi
in una stanza al caldo e in cui anche il modello più antico, quello del
confessionale, prevedeva uno spazio chiuso. Se la psicoanalisi fosse
nata in India, mi domando se non avrebbe seguito il modello tradizionale
del guru e del discepolo le cui interazioni avvengono all’aperto,
all’ombra di un albero.
Per tornare al corpo, vorrei anche dire
che la cultura organizza la differenziazione tra i sessi e la profonda
convinzione che gli esseri umani sono maschi o femmine. Ciò appare
evidente se pensiamo alle sculture greche e romane che hanno tanto
influenzato la rappresentazione dei generi in Occidente. In essa gli dei
maschi sono rappresentati con corpi duri e muscolosi sul cui petto non
c’è traccia di grasso. Confrontiamoli con le rappresentazioni scolpite
delle divinità indù o del Budda che hanno corpi più morbidi e flessuosi
con un accenno di seno, più vicini alle forme femminili. Questa
minimizzazione della differenza tra la rappresentazione dei maschi e
delle femmine culmina nella forma del grande dio Shiva, mezzo maschio e
mezzo femmina, che viene rappresentato con le caratteristiche sessuali
secondarie di entrambi i sessi.
La connessione indica anche
un’altra direzione per spiegare il mistero della coscienza, il sacro
Graal sia della biologia che della psicologia. Nella attuale posizione
elevata goduta dalle neuroscienze si ritiene che la coscienza sia un
epifenomeno del cervello che deriva dai processi che avvengono in un
cervello incapsulato. Secondo gli indiani il cervello non può essere
visto come l’origine della coscienza ma come un filtro attraverso il
quale una coscienza che tutto pervade passa per diventare la coscienza
personale.
A differenza di quella dell’Occidente contemporaneo,
l’idea indiana del sé non è quella di un’individualità unica
auto-conchiusa. La persona indiana non è un centro di consapevolezza
auto- contenuto che interagisce con altri individui simili. Invece
nell’immagine dominante della cultura il sé è costituito da rapporti.
Tutti gli affetti, i bisogni e le motivazioni sono relazionali. E le
sofferenze sono disturbi delle relazioni – non solo con l’ordine umano
ma anche con quello naturale e cosmico.
Il mio progetto personale
di “traduzione” negli ultimi quarant’anni di lavoro con pazienti indiani
e occidentali è stato guidato da un’immagine della psiche in cui
l’inconscio individuale dinamico e l’inconscio culturale sono
strettamente collegati e l’uno arricchisce, vincola e modella l’altro
mentre evolvono contemporaneamente insieme nella vita.
L’autore,
classe 1938, è uno psicoanalista, studioso e scrittore indiano. In
Italia è appena uscito il suo libro Cultura e Psiche ( Alpes, prefazione
di Alfredo Lombardozzi, pagg. 142, euro 15) da cui questo testo è
tratto
Repubblica 23.6.17
A Roma, un percorso diviso tra Palazzo Venezia e Castel Sant’Angelo dedicato al pittore e al suo tempo
Giorgione
Il viaggio sentimentale di un genio del colore
CESARE DE SETA
Nel
Palazzo Venezia, o più propriamente di Venezia, e nel Castel
Sant’Angelo si tiene (da domani al 17 settembre) un’originale mostra che
rimanda a Giano bifronte: la prima sezione è centrata sul celebre
ritratto i “Due amici” (1502 c.) di Zorzi da Castelfranco, che assunse
poi il nome di Giorgione, tra i più celebri pittori del Rinascimento.
Zorzi era figlio di un notaio che in seconde nozze aveva sposato una
donna originaria di Conegliano che gli aveva dato un pargolo il cui
destino sarà luminoso. Nel 1489 il piccolo è già orfano del padre, e lo
si sa perché la madre per sopravvivere è costretta a vendere una parte
delle terre che possedeva per riscattare dalla prigione Zorzi che s’era
cacciato a Venezia nei guai. Il giovane torna a Castelfranco nel 1493, e
col suo lavoro mantiene la madre e nel 1497 si fa cassare dal registro
dei contribuenti per trasferirsi a Venezia. Per Giorgione “li maggiori
suoi” furono Gentile e Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Vittore
Carpaccio: Giorgio Vasari ricorda, nella prima edizione delle Vite
(1550), che suonava il liuto, frequentava il patriziato della
Serenissima, era assai stimato da Isabella d’Este. Gli erano vicini i
più giovani Tiziano e Sebastiano del Piombo. Non ebbe mai una bottega
con praticanti come d’uso, faceva tutto da solo. Nella seconda edizione
delle Vite (1568) Vasari ne amplia il profilo biografico, posticipando
la data di nascita al 1478, e l’arricchisce di nuovi dati. Giorgione è
artista di cui poco si sa, ma è certo che morì di peste nell’hospitale
di Nazareth a Venezia nel 1510.
Palazzo Venezia fu la prima
residenza romana di Domenico Grimani, collezionista e proprietario di
varie opere di Zorzi. Assai bello il ritratto dei fratelli Grimani, in
vesti cardinalizie, di Jacopo Palma il Giovane. Domenico fu uno dei
protagonisti dei rapporti politici, diplomatici e culturali tra i due
stati tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento: il
rapporto con Giorgione dové essere intenso e suo era l’Autoritratto in
figura di David. I Due amici sono il baricentro dell’appartamento di
papa Paolo II Barbo, figura altrettanto rilevante nei rapporti tra
Venezia e Roma che conosciamo in un bel busto di Mino da Fiesole. Ed è
proprio nell’appartamento di papa Barbo che si sviluppa la prima sezione
della mostra, dedicata alle vicende storiche e allo straordinario Due
amici, caposaldo nelle vicende artistiche di questi primi anni del
secolo XVI. Ma di Zorzi non meno rilevanti sono Fetonte davanti ad
Apollo (1496-98) National Gallery, Londra: nel gruppo in primo piano con
un musico sulla destra incombe un’enorme roccia, dietro un paesaggio;
in Leda e il cigno, pressoché coevo, il tema mitologico non appanna
l’eccezionale qualità del grande paesaggista della Tempesta.
La
mostra ha per titolo Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del
sentimento tra Venezia e Roma ed è a cura di Enrico Maria Dal Pozzolo
(nel comitato scientifico: Lina Bolzoni, Miguel Falomir, Silvia Gazzola,
Augusto Gentili e Ottavia Niccoli), a cui si deve una fondamentale
monografia (2009) che l’autore – in contributi successivi e in premessa
al ricco catalogo Arte’m – articola con numerose novità. Ma l’idea
originale del curatore, in sintonia con la direttrice del Polo Museale
del Lazio (che organizza la mostra in collaborazione con Civita) Edith
Gabrielli, è stata quella di associare una seconda sezione negli
appartamenti papali di Castel Sant’Angelo, in cui sono raccolte non solo
opere di grandi artisti veneziani, ma di alcuni dei più migliori
pittori del Cinquecento. Un percorso esposi- tivo che comprende 45
dipinti, 27 sculture, 36 libri e manoscritti, oltre a numerosi, disegni e
stampe. Dalle edizioni di Aldo Manuzio alle incisioni di Albrecht
Dürer, il monumentale “ritratto” xilografico di Venezia (1500) di Jacopo
de’ Barbari.
La ritrattistica ha un rilievo significativo da
Gentile e Giovanni Bellini, a Tiziano, a Domenico Tintoretto, ad
Alessandro Allori con Bianca Cappello e il figlio, al Bronzino con
Eleonora di Toledo con il figlio, che ci conducono in area fiorentina.
La pittura di storia si alterna a opere che illustrano i sentimenti:
l’amore declinato in forme che possono essere ritratti come la tela di
Bernardino Licinio che raffigura l’intera famiglia (1535-40) del
fratello. Dello stesso Bernardino è il ritratto di Donna che scopre il
seno (1536), tema esibito con grazia da Domenico Tintoretto in una bella
tela di fine Cinquecento del Prado. Questo oscillare di tematiche
conduce il visitatore in un labirinto esistenziale che è parte dei
sentimenti che segnano la vita umana. Il Doppio ritratto di Federico
Barocci è un segno d’amore coniugale. Carlo V chiese a Tiziano nel 1548
un ritratto della defunta consorte Isabella del Portogallo. Una
Gentildonna si fa effigiare da Bernardino Licinio mentre abbraccia il
ritratto del coniuge assente o defunto. Due storie d’amore che solo il
conforto dell’arte può lenire. Il potere della parola è esaltato nel
ritratto di un Uomo con una lettera di Paris Bordon. Se la parola ha il
suo ruolo, la musica le è compagna nello splendido ritratto del
Musicista
di Tiziano (1513-14) nel quale il gioco di luci e ombre è un miracolo.
S’è ricordato che lo stesso Giorgione era un musico e questo rimando al
maestro ricorre in più opere, di cui sempre si va scoprendo qualcosa di
nuovo. Ora i rapporti tra Venezia e Roma sono più chiari e visti con
un’ottica inedita. L’allestimento in entrambe le sedi è progettato dello
studio De Lucchi con rara eleganza e rispetto di ambienti così
prestigiosi: contributo rilevante al felice esito della mostra.
Il Sole 23.6.17
La Storia sepolta tra le macerie di Mosul
di Alberto Negri
Scavando
tra le macerie dell’Iraq e della Siria tra qualche anno sembrerà
persino anacronistico parlare di “responsabilità” e indagare su
vincitori e vinti di un conflitto che coinvolge tutte le potenze
regionali e internazionali.
Baghdad accusa l’Isis di avere fatto
saltare la moschea del 12° secolo di Al Nouri a Mosul - dove Al Baghdadi
nel giugno 2014 proclamò il Califfato - per impedirne la riconquista, i
jihadisti sostengono che sono stati i raid Usa, gli americani
smentiscono.
La verità è brutale: da anni è in corso la
distruzione di intere nazioni e del loro patrimonio artistico,
archeologico e culturale che ciascuna delle parti in guerra rivendica di
volere “proteggere” in nome delle più diverse bandiere ma in realtà
contribuisce a sgretolare, giorno dopo giorno. Per il Medio Oriente
questi conflitti contemporanei sono ancora più devastanti della seconda
guerra mondiale quando qui le ferite dei bombardamenti furono assai più
limitate che in Europa.
Al viaggiatore che conosce da decenni la
regione oggi si stringe il cuore. E lo sguardo, che un tempo si alzava
verso il cielo ad ammirare i monumenti di tante civiltà millenarie,
adesso si abbassa sconsolato al suolo per scrutare con angoscia le
macerie che riempiono le strade e le piazze di città come Aleppo, Homs e
Palmira in Siria, Mosul e Ninive in Iraq.
Non abbiamo più la
moschea costruita nel 715 dagli Omayyadi ad Aleppo, insieme alla Qalat,
la cittadella, e al bazar, sono stati sbriciolati i leoni, le colonne e i
templi di Palmira, abbattuti dall’Isis che ha fatto saltare anche le
mura di Ninive, saccheggiato le rovine assire di Dur Sharukkin, la città
di Hatra, la Chiesa Verde di Tikrit, uno dei più antichi monumenti
della cristianità, i mausolei sciiti di Mosul e Tikrit con 40 tombe
omayadi, il monastero di Sant’Elia a Qaryatain in Siria.
Ma questo
è un elenco assai incompleto. Insieme ai monumenti i jihadisti hanno
dato alle fiamme anche i libri e dove si bruciano i libri, come diceva
il poeta Heinrich Heine, si bruciano anche gli uomini. Un’estate
incendiarono la biblioteca di Mosul, come era già accaduto a Sarajevo
nel 1992 e a Baghdad nel 2003 quando per giorni le fiamme inghiottirono
antichi manoscritti e l’archivio del regime baathista. Eppure proprio in
Mesopotamia quattromila anni fa furono aperte le prime biblioteche con
le tavolette d’argilla di Sumeri, Assiri e Babilonesi. A Ninive venne
fondata dal re Assurbanipal la più grande biblioteca del mondo antico,
ricca di ventimila tavolette tra cui quelle recanti la narrazione
dell’epopea di Gilgamesh. Una conservazione del sapere proseguita con la
civiltà araba degli Abbassidi quando a Baghdad si contavano 63
biblioteche. A spazzare via tutto nella capitale ci pensarono i mongoli
nel 1258. I volumi gettati nel Tigri erano così numerosi da permettere
il passaggio, per lungo tempo, da una riva all’altra attraverso le
cataste di libri affioranti sulla corrente.
Sotto queste macerie
contemporanee non si stanno seppellendo soltanto i popoli, con centinaia
di migliaia di morti e milioni di profughi, ma anche la ragione stessa
della loro esistenza futura e le speranze delle nuove generazioni: i
monumenti sono la testimonianza concreta e visibile di una storia e di
una memoria che le guerre stanno cancellando. Erano queste pietre con la
loro presenza la motivazione intima che faceva dire a ogni abitante:
«Sono di Mosul, sono di Aleppo». Distruggere il passato vuol dire rubare
il presente e il futuro.
La guerra mondiale del Medio Oriente
coinvolge in pieno le superpotenze, Stati Uniti e Russia, rende ancora
più acceso lo scontro Iran-Arabia Saudita, tra sciiti e sunniti, lacera
tutto l’universo musulmano e fa coltivare pericolose tentazioni di
conquista, di rivincita ed eliminazione degli avversari. Convivenza e
tolleranza, le parole della cultura, sono abolite da chi vuole nuove
frontiere, muri e territori. L’estremismo scorre come un veleno mortale
nelle vene aperte di questa regione, l’occupazione di truppe straniere
diventa una presenza forse necessaria ma umiliante, le società sono
frammentate da conflitti settari, etnici, economici e di potere. Le
distruzioni materiali sono eclatanti, quelle morali forse lo sono ancora
di più e tra qualche tempo sembrerà persino assurdo rintracciare le
colpe.
il manifesto 23.6.17
Orban gela il vertice: «Mai le quote»
C. L.
ROMA
«Non potremo mai dare il nostro accordo alle quote europee per
ripartire i migranti». Ci ha pensato Viktor Orban a scaldare subito il
vertice dei capi di stato e i governo che si è aperto ieri a Bruxelles.
Più infastidito che intimorito dalla procedura d’infrazione avviata nei
giorni scorsi dalla Commissione europea contro Budapest e Varsavia, il
premier ungherese ha ribadito il rifiuto ad accogliere migranti
dall’Italia e dalla Grecia, una posizione che certamente non aiuterà il
confronto tra i 28 leader europei.
Di immigrazione a Bruxelles in
realtà si comincerà a parlare solo oggi, quando i capi di stato e di
governo entreranno nel vivo delle questioni. Sul tavolo ci sono tutti
temi delicati sui quali – considerata l’aria che tira – sarà difficile
trovare una posizione unanime: dalla riforma di Dublino (sulla quale
manca l’accordo e che continua ad attribuire al paese di primo sbarco
l’onere della gestione dei richiedenti asilo), ai ricollocamenti. Per
finire con la proposta italiana di far sbarcare i migranti tratti in
salvo anche in altri paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo,
come Spagna e Francia. Sarà interessante su questo punto vedere quale
sarà la posizione del presidente francese Emmanuel Macron, al suo primo
vertice da capo di stato, che in un’intervista apparsa ieri su alcuni
quotidiani europei ha ribadito come l’Europa non sia un supermercato in
cui ognuno prende ciò che vuole, e quindi le responsabilità vanno
condivise (frase risultata indigesta a Orban, che oggi incontrerà Macron
insieme agli altri paesi del gruppo Visegrad).
Tutt’altro
discorso è invece quello che riguarda la possibilità di aumentare gli
investimenti in Africa. Il premier italiano Paolo Gentiloni ne ha
parlato ieri appena arrivato a Bruxelles con il presidente della
Commissione Ue Jean Claude Juncker e con il premier libico Fayez al
Serraj. Al primo ha ribadito la sua irritazione per lo scarso impegno
dell’Europa nel fronteggiare la crisi dei migranti e chiesto di
spendersi per un rifinanziamento del Fondo per l’Africa. Al secondo ha
chiesto invece maggiore impegno nel fermare le partenze dei migranti.
«L’obiettivo è contenere i flussi migratori – ha spiegato il premier –
mettere in condizione le autorità libiche di esercitare un maggiore
controllo del loro territorio, dare un contributo alla lotta contro i
trafficanti di esseri umani». Più esplicito, nel chiarire gli obiettivi
europei, è stato Angelino Alfano. Annunciando per i primi di luglio un
vertice a Roma con i rappresentanti di alcun paesi di transito, il
ministro degli esteri ha spiegato: «L’obiettivo non è impedire ai
migranti di partire dalla Libia, ma proprio di farli entrare in Libia.
Credo che questo sia un avanzamento reale».
il manifesto 23.6.17
Arabia Saudita: il principe ereditario è amico di Trump e Israele ed è schierato contro Teheran
Arabia
Saudita. La sua nomina è stata accolta con favore dalla Amministrazione
Trump e anche in Israele. Zvi Barel, analista del quotidiano Haaretz di
Tel Aviv, scrive che l’erede al trono saudita è un partner ideale nella
lotta contro Tehran
di Michele Giorgio
Qualcuno
lo definisce un colpo di stato «morbido», altri una «rivoluzione».
Quello che conta è che l’81enne re Salman dell’Arabia Saudita, con un
decreto ha eliminato dalla successione diretta il nipote 57enne Mohammed
bin Nayef per sostituirlo con il figlio 31enne Mohammed bin Salman, ora
nuovo principe ereditario. E non passerà molto tempo prima che re
Salman annunci la volontà di farsi da parte a favore del figlio.
Si
è parlato di una decisione che vuole rinnovare la monarchia sunnita: il
balzo generazionale è di 50 anni. Mohammed bin Salman è considerato un
«riformatore». È stato lui a proporre di mettere sul mercato il 5% di
Aramco e la creazione di un fondo sovrano di 2mila miliardi di dollari,
il più grande al mondo.
Ma ci sono ben altri obiettivi dietro la
decisione di re Salman. Mohammed bin Salman, già ministro della difesa e
ora anche vice primo ministro, viene proiettato «ufficialmente» alla
guida dell’Arabia saudita. Da tempo aveva già preso il posto del cugino
messo da parte da re Salman, che manteneva i rapporti con Washington. La
sua influenza in politica estera, già elevata, è perciò destinata a
crescere. Il neo principe ereditario è un falco e, secondo gli
osservatori, è lui il principale artefice della linea di scontro aperto
con l’Iran.
La sua nomina è stata accolta con favore dalla
Amministrazione Trump e anche in Israele. Zvi Barel, analista del
quotidiano Haaretz di Tel Aviv, scrive che l’erede al trono saudita è un
partner ideale nella lotta contro Tehran. Diversi siti web arabi
riferiscono che bin Salman si è incontrato con vari esponenti
israeliani, in almeno un caso a Eilat nel 2015. Un blogger saudita molto
noto, Mujtahidd, ha scritto che il principe ereditario bon Salman e
l’erede al trono di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, intendevano
organizzare un colpo di stato in Qatar con mercenari della Blackwater e
degli Emirati ma sono stati fermati dagli Usa. Mohammed bin Salman è il
più accanito ai vertici sauditi nel sostenere l’isolamento del Qatar
accusato di «sponsorizzare il terrorismo» e di non partecipare con
determinazione al fronte arabo sunnita schierato contro Tehran.
Proprio
ieri l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo hanno elaborato una
«lista di richieste» da presentare al Qatar per risolvere la crisi
scoppiata all’inizio di questo mese. E non può essere dimenticato che
dopo essere stato nominato vice principe ereditario il 29 aprile 2015,
il giovane Mohammed è stato il principale fautore dell’intervento
saudita in Yemen, rinsaldando i rapporti con gli Usa, stabilendo
relazioni personali speciali con il presidente Trump. Sarebbe stato lui a
sollecitare l’acquisto per oltre cento miliardi di dollari di armi di
produzione statunitense in modo da sancire la rinnovata alleanza.
Con
lui la politica estera dell’Arabia saudita non potrà che farsi più
aggressiva. Lo scontro con l’Iran è perciò destinato ad aggravarsi e con
esso il rischio di un altro conflitto in Medio Oriente.
il manifesto 23.6.17
La lezione dell’islam in Senegal
Reportage.
Con l’arabo che guadagna terreno rispetto al francese, i movimenti
d’ispirazione wahabita puntano su un settore chiave, un tempo dominio
esclusivo della potente confraternita muride
Elisa Pelizzari
SAINT-LOUIS
Politologo
e arabista, docente all’università di Saint-Louis (la seconda del
Senegal, con 15 mila iscritti), Bakary Sambe coordina l’Osservatorio dei
radicalismi e dei conflitti religiosi in Africa (Orcra). Da anni
denuncia la minaccia di estremizzazione che incombe sull’islam del suo
paese, tradizionalmente legato alle confraternite mistiche (sufi), pur
ricordando come, a livello internazionale, siano riconosciuti lo spirito
di tolleranza e la solidità dell’ordinamento democratico locale.
Già
in un intervento dell’ottobre 2008, questo studioso tracciava il
profilo di un processo dal quale emergeva come i movimenti d’ispirazione
wahabita, propugnatori di una marcata de-laicizzazione della società
(la fede musulmana ha una lunga storia in Senegal e concerne il 90% dei
cittadini), abbiano puntato su un tema cruciale: l’istruzione
scolastica.
OSSERVA SAMBE: «La non conformità della politica
educativa del governo alle esigenze dell’islam è deplorata da molte
associazioni e spinge le più radicali a negare ogni legittimità» alle
istituzioni in carica. Eppure, il Senegal è una repubblica
aconfessionale, dove l’insegnamento viene dispensato in francese,
l’idioma ufficiale. Sfioriamo qui un nodo dolente, a partire dal quale
alcune correnti esprimono il proprio disaccordo: la lingua francese
rappresenta un’eredità coloniale e, pertanto, è tacciabile di veicolare
valori «occidentali», estranei, se non ostili, alla cultura africana. La
questione di fondo è però più complessa: all’istruzione francofona,
gruppi di matrice religiosa – quali l’Organizzazione per l’azione
islamica (Oai), al-Falah (o Movimento per la cultura e l’educazione
islamica autentica in Senegal), l’Associazione degli studenti musulmani
di Dakar (Aemud, legata alla rete della Jamat Ibad al-Rahman) –
contrappongono la volontà di “arabizzare” l’insegnamento, col pretesto
di renderlo più consono alla mentalità e alle istanze della popolazione.
ORA,
L’ARABO non è un idioma autoctono (al contrario, ad esempio, del wolof,
ampiamente parlato), ma costituisce piuttosto la lingua «sacra», lo
strumento per eccellenza tramite cui passa il messaggio di fede e si
prega. Rivendicarne l’apprendimento diffuso significa promuovere un
discorso confessionale e lo dimostra il fatto che, nel variegato
panorama nazionale, le scuole dove l’arabo è utilizzato hanno sempre un
carattere religioso. Tale aspetto viene rivendicato con orgoglio e i
direttori degli istituti lo sottolineano, agli occhi dei genitori, per
incoraggiarli a iscrivere i figli.
VEDIAMO ALLORA come si
configura il sistema scolastico nel suo insieme. Paese di circa 15
milioni di abitanti, il Senegal vanta un tasso di scolarizzazione nei
bambini dell’84% (con differenze marginali fra maschi e femmine); il 40%
degli alunni completa l’istruzione di livello secondario; mentre circa
il 4% dei diplomati s’iscrive in uno dei cinque atenei pubblici
(presenti a Dakar, Saint-Louis, Thiès, Bambey e Ziguinchor) o in una
delle cinque università private aperte in varie regioni.
DA NOTARE
come l’Université Cheikh Anta Diop di Dakar, la più grande, eretta dai
francesi nel 1957, accolga 100 mila studenti, con un rapporto
problematico docenti/alunni pari a 1/172 (l’unesco stima la condizione
ideale a 1/30). I programmi sono calcati sul modello francese, ma gli
insegnanti delle scuole pubbliche si trovano di fronte ad aule
affollatissime, sin dai livelli elementari (anche 90 allievi per classe)
e a una penuria cronica di strumenti pedagogici. Per questo le famiglie
urbanizzate della classe media preferiscono impartire ai loro figli la
formazione offerta dagli istituti privati parificati (alcuni cattolici).
VA
PRECISATO che l’introduzione dell’islam come materia d’insegnamento
ufficiale, accanto a nozioni di lingua araba, è recente: risale al 2002,
su iniziativa dell’ex presidente Abdoulaye Wade, che si è avvalso,
nella scalata al potere, dell’appoggio dei marabutti di obbedienza
muride, ossia delle figure a capo di una delle maggiori confraternite
musulmane, creata alla fine del XIX secolo da Cheikh Ahmadou Bamba. Da
rilevare che il figlio cadetto di questi, Cheikh Mouhamadou Mourtada
Mbacké, è stato l’ideatore della principale rete di scuole private
religiose del paese, gestita con fondi propri e comprendente istituti
diffusi un po’ ovunque, per un totale di 70 mila alunni, i più poveri
dei quali frequentano gratuitamente.
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Pellegrini adepti del muridismo all’ingresso della Grande Moschea di Touba, Senegal (foto di Ben Curtis/Ap)
L’EDUCAZIONE
in senso confessionale non concerne tanto il sistema di apprendimento
pubblico, quanto un ambito privato, che ambisce a esercitare la sua
concorrenza nei confronti dell’istruzione in lingua francese. Tale
realtà ha solide basi nella cultura popolare e s’ispira a un modello
informale antico: quello delle scuole coraniche o daara. Sorte, da
secoli, per permettere ai fedeli, sin da piccoli, di memorizzare il
Corano in arabo e di conoscere gli elementi essenziali per la pratica
rituale, le daara hanno talvolta dato origine a centri di alto
prestigio, seppure rigidamente orientati a materie teologiche o affini
(ad esempio la grammatica araba). Dagli anni 1970, l’affermarsi del
francese come idioma ufficiale e strumento di lavoro, dunque di
modernità e sviluppo, ha emarginato le scuole coraniche.
SONO LE
DISILLUSIONI del presente, legate a un’economia che non offre sbocchi
per tutti, e tanto meno ai giovani che hanno ultimato gli studi, ad aver
modificato, ancora una volta, le strategie delle famiglie, spingendole a
tornare a un tipo d’istruzione che salvaguarda i valori tradizionali e
preserva la moralità dei ragazzi, a dispetto di garantirne la riuscita
in termini occupazionali. Ce l’ha spiegato Djim Dramé, ricercatore al
laboratorio d’islamologia dell’Ifan, presso l’università di Dakar. Lui
stesso è il prodotto di detta tendenza: ha studiato in una daara molto
famosa (situata a Koki, accoglie quasi 4 mila studenti dai 4 ai 17 anni
e, fra loro, anche alcuni provenienti da famiglie emigrate in Italia,
che preferiscono crescere i figli in patria, nella stretta osservanza
dell’islam). Dramé si è poi laureato in arabo all’università di al Azhar
in Egitto e ha conseguito un dottorato in scienze dell’educazione al
rientro in Senegal.
SOTTO LA PRESSIONE di un revival religioso
concepito in termini identitari, la politica del governo è di aprire
spazi all’insegnamento arabo-musulmano, evitando di urtare le
suscettibilità sia degli ambienti sufi, sia di quelli wahabiti, ben più
agguerriti e forniti di appoggi esterni, di ordine materiale e
dottrinale (Arabia Saudita ed Emirati arabi). Per questo, ci racconta
Ramatoulaye Diagne Mbengue, docente di filosofia all’università di Dakar
e ispettrice generale dell’educazione e della formazione, alla maturità
francese, cui si era gradualmente sommata la maturità franco-araba, si è
aggiunta da tre anni la maturità araba, conseguibile in médersas
confessionali.
Un rischio, per l’apertura in senso critico delle menti giovanili?