venerdì 23 giugno 2017

SULLA STAMPA DI VENERDI 23 GIUGNO

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Il Fatto 23.6.17
“Il dossier Orlandi agli uomini di Ratzinger”
La scomparsa di Emanuela Dopo 34 anni il fratello Pietro non si arrende e tornerà a rivolgersi alla Segreteria di Stato vaticana
di Andrea Palladino

È un dossier segreto, custodito all'intero della Città del Vaticano, il pezzo mancante che potrebbe riaprire il caso del rapimento di Emanuela Orlandi.
SONO PASSATI 34 anni dal 22 giugno 1983, quando la figlia, all'epoca quindicenne, di un commesso della Prefettura della Casa pontificia spariva senza lasciare tracce. Da allora il fratello Pietro ha inseguito voci, piste, tracce che apparivano e sparivano nelle pieghe dell'eterna Roma papalina. Tutto portava verso quel gruppo che per un decennio ha dominato la Capitale, i Testaccini, il nucleo più misterioso, potente e ricco della banda della Magliana. E  a un nome, Renatino De Pedis, il boss sepolto per quasi vent'anni nella basilica di Sant'Apollinare.
Ieri Pietro Orlandi era al presidio in via della Conciliazione, organizzato per ricordare la scomparsa della sorella e per chiedere una risposta dal Vaticano. È sicuro che un pezzo chiave della storia sia chiuso lì: “L’esistenza di quel dossier sulla scomparsa di Emanuela – spiega al Fatto Quotidiano – è confermata dalla intercettazione di Raoul Bonarelli (vice ispettore della Gendarmeria vaticana, ndr) con il suo superiore l’anno dopo la scomparsa
della ragazza”. Una telefonata agli atti dell'inchiesta, poi archiviata dal gip di Roma, su richiesta della Procura, nel 2012. “Nella conversazione telefonica – prosegue – il superiore dice che ‘la cosa è andata alla Segreteria di Stato”. La “cosa” è la documentazione sulla scomparsa di Emanuela”.
NON È L’UNICO elemento. Nel film di Roberto Faenza, “La verità sta in cielo”, la sequenza finale (citata anche nell’istanza presentata in Vaticano dai legali di Pietro Orlandi) descrive nei particolari l’incontro tra il magistrato incaricato dell’inchiesta e un alto prelato, per la consegna del dossier Orlandi in cambio della rimozione della salma di De Pedis dalla basilica di Sant’Apollinare, la cui sepoltura stava creando grave imbarazzo al Vaticano. Proprio in seguito a questa ricostruzione il fratello di Emanuela ha chiesto lo scorso anno un incontro con il segretario di Stato Parolin. Poi, nei giorni scorsi, è stato presentata una istanza della famiglia Orlandi dallo studio legale Bernardini de Pace e dall’esperta rotale Laura Sgrò. La risposta, per ora, è stata netta: “Per il Vaticano è un caso chiuso”, ha risposto monsignor Angelo Becciu, sostituto della Segreteria di Stato. Pietro Orlandi non ha nessuna intenzione di tornare indietro, di archiviare la storia del rapimento della sorella.
“MOLTE VOLTE in questi anni eravamo sicuri di essere vicini alla soluzione – spiega al Fatto– , pronti ad andare a prendere Emanuela”. Nonostante l’archiviazione dei magistrati romani e il muro che si è alzato dal Vaticano è tuttora sicuro di arrivare alla verità. Fonti autorevoli confermano che il dossier era a disposizione dei collaboratori più vicini a Benedetto XVI. Un elemento, questo, che la famiglia è pronta a presentare alla Segreteria di Stato.

La Stampa 23.6.17
La Chiesa d’Inghilterra coprì gli abusi sui minori
Il mea culpa dell’arcivescovo di Canterbury: comportamento inaccettabile
di Christopher Lamb

È come se Papa Francesco dicesse a Benedetto XVI che non può più amministrare in pubblico. L’Arcivescovo di Canterbury, il leader spirituale della comunità anglicana di tutto il mondo ha chiesto al suo predecessore, Lord Carey, di rinunciare alla carica di vescovo onorario in seguito all’accusa di non aver adeguatamente gestito le denunce contro un ex vescovo condannato per abusi sessuali su uomini e adolescenti.
È l’ultimo capitolo, clamoroso, di un nuovo scandalo pedofilia che colpisce l’establishment del Regno Unito e in questo caso è la chiesa d’Inghilterra a finire sotto accusa. Il suo leader, l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, ha dovuto fare un «mea culpa» senza precedenti rivelando anni di insabbiamenti e addirittura collusioni per coprire gli abusi sessuali commessi su bambini e ragazzi da Peter Ball quando era vescovo prima di Lewes e poi di Gloucester. Quello del primate della «Church of England» è stato un atto necessario dopo la pubblicazione di «Abuse of Faith», un rapporto indipendente che fa luce su uno degli episodi più oscuri del mondo protestante britannico.
«Siamo di fronte a un comportamento imperdonabile e scioccante», ha affermato Welby, sottolineando che sono state tradite le vittime che invece andavano aiutate. I risultati del rapporto sono per certi versi sconvolgenti: è emerso che la chiesa ha perfino depistato le indagini sui reati compiuti dall’ ex vescovo nel periodo che va dagli anni Settanta fino agli anni Novanta. L’85enne Ball aveva ammesso di aver abusato di 18 ragazzi - obbligandoli ad esempio a pregare nudi - ma dopo la condanna a 32 mesi di carcere nel 2015 è stato rilasciato lo scorso febbraio dopo aver trascorso solo 16 mesi dietro le sbarre.
E fra le figure ai vertici della chiesa maggiormente coinvolte c’è appunto l’ex arcivescovo di Canterbury, George Carey, che Welby ha costretto alle dimissioni dall’incarico onorario di vice vescovo a Oxford.
In una dichiarazione, il vescovo di Oxford, Steven Croft, ha dichiarato che Lord Carey, guida della comunità anglicana nel mondo dal 1991 al 2002, ha, per il momento, «volontariamente accettato di ritirarsi dal ministero pubblico».
Un anomalo capovolgimento degli eventi per un uomo ampiamente considerato fra i leader cristiani britannici più importanti. Lord Carey, 81 anni, compare spesso sulle pagine dei giornali date le sue posizioni, molto esplicite, su una serie di argomenti: il vescovo è contrario al matrimonio fra persone dello sesso, a favore del suicidio assistito e ha anche descritto il presidente Usa Donald Trump come un «buon Samaritano».
L’arcivescovo Welby, un ex dirigente petrolifero, con la missione di ripulire la Chiesa d’Inghilterra dallo scandalo degli abusi sessuali, ha dichiarato che i risultati della relazione hanno rivelato «comportamenti inammissibili e sconvolgenti».
All’epoca nessuno credette alle accuse mosse contro Ball. L’ex vescovo vantava amicizie molto potenti tra cui quella con il principe Carlo. Lord Carey si era speso dinanzi alla polizia e alle autorità in difesa del vescovo.

il manifesto 23.6.17
A Genova tortura prevedibile. L’Italia di nuovo condannata
G8 del 2001. Per la Corte di Strasburgo le violenze della polizia alla Diaz e alla Pascoli erano evitabili. Riconosciuti 1,4 milioni di danni. E la legge passa all’Aula senza emendamenti
di Eleonora Martini

Come nel 2015 e con motivazioni ancora più dettagliate, la Corte europea dei diritti umani torna a condannare l’Italia per la «macelleria messicana», come la definì l’allora vicequestore del primo Reparto mobile di Roma Michelangelo Fournier, compiuta dalle forze dell’ordine durante il G8 di Genova del 2001 all’interno della scuola Diaz e (questa volta anche) della scuola Pascoli, dove era stato allestito il centro stampa e l’ufficio legale.
«Tortura», la definiscono ormai esplicitamente i giudici di Strasburgo che hanno dato ragione a 29 dei 42 ricorrenti (Bartesaghi Gallo e altri) e, per violazione dell’articolo 3 della Convenzione, condannano lo Stato italiano a risarcire le vittime con somme che vanno dai 45 mila ai 55 mila euro ciascuno, per un totale di circa 1,4 milioni di euro.
Un’operazione, l’irruzione nelle due scuole, «pianificata» dalla polizia e nella quale perciò l’«uso di incontrollata violenza» poteva essere evitato, motiva la Cedu, ma così non è stato. Inoltre dalla sentenza Cestaro del 2015 ancora l’Italia presenta «carenze nel sistema giuridico riguardo la punizione della tortura». Motivo per il quale coloro che sono stati ritenuti responsabili di quella folle notte di violenze non sono stati puniti adeguatamente, accusati di reati minori, presto caduti in prescrizione.
Le parole di Strasburgo arrivano in commissione Giustizia della Camera, dove si sta analizzando in quarta lettura il brutto testo di legge che introduce il reato di tortura nel nostro ordinamento penale, e fanno l’effetto della maestra che torna in classe all’improvviso. Respinti tutti gli emendamenti, il ddl arriverà in Aula il 26 giugno, senza più altri rinvii. La convinzione che di questi tempi non si possa pretendere di meglio nel Belpaese, porta ad accelerare i tempi verso l’approvazione di un testo che il Consiglio d’Europa, per ultimo, e decine di associazioni che hanno lanciato un appello contro la «legge truffa», considerano inadatto e lontano dalle convenzioni Onu e dalle raccomandazioni della Cedu.
Prendiamo ad esempio il reato specifico per pubblico ufficiale, nemmeno lontanamente preso in considerazione per via delle proteste di alcuni sindacati di polizia (a danno della maggioranza delle forze dell’ordine). Nella sentenza resa nota ieri, Strasburgo fa notare che nella notte tra il 20 e il 21 luglio 2001, quando all’interno delle due scuole furono commesse «violenze multiple e ripetute, di un livello di gravità assoluta», «la polizia non stava affrontando una situazione di emergenza, una minaccia immediata che richiedeva una risposta proporzionata ai potenziali rischi». La Corte «ritiene che i funzionari hanno avuto la possibilità di pianificare l’intervento della polizia, analizzare tutte le informazioni disponibili e tener conto della situazione di tensione e dello stress a cui gli agenti erano stati sottoposti per 48 ore». Ma, «nonostante la presenza a Genova di funzionari esperti appartenenti all’alta gerarchia della polizia, non è stata emanata alcuna direttiva specifica sull’uso della forza e non sono state date consegne adatte agli agenti su questo aspetto decisivo».
In sostanza, le Corte europea fa notare stavolta che la tortura e i trattamenti inumani e degradanti inflitti, «con gravi danni fisici e psicofisici», su persone inermi non erano imprevedibili. Non sono state frutto in una situazione sfuggita di mano. E nel frattempo nulla è cambiato.
Per Amnesty international Italia, la condanna della Cedu è «una buona notizia» perché «aiuta la memoria collettiva» e «sottolinea la necessità di rafforzare la cultura dei diritti umani tra le forze di polizia». Ma il ddl in dirittura d’arrivo alla Camera anche per il senatore di Mdp, Felice Casson, tra i firmatari del testo prima che venisse «stravolto in Senato», sarà «da un punto di vista pratico difficilmente applicabile per la nostra magistratura» e «avremo episodi chiari di tortura che non verranno mai puniti».
E al Consiglio d’Europa che due giorni fa chiedeva una fattispecie esente da ogni possibile misura di clemenza, l’Unione delle camere penali risponde di non preoccuparsi, «perché a rendere ineffettiva la norma sulla tortura non c’è bisogno né di amnistie, né di indulti, né di prescrizioni: basta che il Parlamento approvi la legge sulla tortura in via definitiva così com’è».

il manifesto 23.6.17
Quando la democrazia fu affidata a criminali di Stato
di Patrizio Gonnella

A Genova la democrazia fu sospesa e messa nelle mani di criminali di Stato. Fu fatta carta straccia della rule of law e dell’habeas corpus. Decine e decine di corpi furono seviziati, massacrati, torturati. Dopo sedici anni arriva finalmente per quarantadue di quei corpi un risarcimento politico, giudiziario, morale, economico. La Corte europea dei diritti umani, nella sentenza resa pubblica ieri, l’ha potuta chiamare tortura. Noi, nelle nostre Corti, non possiamo ancora chiamarla così, perché la tortura in Italia non è codificata come crimine.
Il 26 giugno è la giornata che le Nazioni Unite dedicano alle vittime della tortura. È anche il giorno in cui la Camera dei Deputati inizierà a votare la brutta, pasticciata e intenzionalmente confusa proposta di legge che il Senato ha approvato giusto poche settimane fa, dando cattiva prova di sé. Sono intanto trascorsi sedici anni dalle torture della Diaz e ben ventinove da quando l’Italia ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura che ci obbligava a introdurre nel nostro codice il crimine di tortura. Il tempo passa ma non cambia il modo in cui le istituzioni hanno cercato di non parlare di un delitto che è tanto grave in quanto commesso su persone in stato di soggezione e dalle mani dei servitori della democrazia.
Ancora una volta da Strasburgo arriva un monito a non lasciare impuniti i torturatori sul suolo italico. L’Italia infatti è una sorta di paradiso legale per i torturatori di ogni nazionalità che qui possono sentirsi sicuri e rifugiarsi da accuse e processi nei loro confronti. La sentenza risarcisce le vittime di quello che possiamo chiamare ora a tutti gli effetti un crimine di Stato, sia perché la tortura è nella storia del diritto un reato proprio di agenti dello Stato, sia perché nel caso di Genova i carnefici non sono stati due, tre o quattro ma un plotone intero con tutti i suoi governanti. Basta riguardare la sentenza della Corte di Cassazione del 2012 per leggere i nomi dei dirigenti ad altissimo livello della Polizia che furono condannati a vario titolo, ma nessuno per tortura, perché in Italia non si può condannare per tortura.
La sentenza di Strasburgo restituisce giustizia a chi non vuole che la memoria e la verità siano violentate. Il numero delle vittime e la gravità delle condanne pongono un problema politico, non solo giuridico ed economico come forse in molti al potere vorrebbero far credere, ossessionati dalla paura dei fantasmi di Genova.
Fu Antonio di Pietro, allora capo dell’Idv e ministro delle Infrastrutture, ad affossare la legge che istituiva una Commissione di inchiesta sui fatti di Genova. Una Commissione che ancora oggi sarebbe sacrosanto mettere rapidamente in piedi per fare i nomi e cognomi dei responsabili politici, militari e di Polizia di un piano sistematico criminale.
Come altro definire un piano pensato per commettere crimini contro l’umanità? Nel frattempo impunità e immunità hanno favorito le carriere dei presunti torturatori e dei loro mandanti.
Chiediamo ai governanti dello Stato italiano di oggi di rivalersi contro i responsabili politici e di Polizia di quel 2001, di fare loro causa civile, di istituire per via amministrativa un fondo per le vittime della tortura, di consentire l’identificazione degli appartenenti alle forze dell’ordine. Si può fare subito.
Se dovesse anche questa volta prevalere la melina, l’autodifesa dei vertici, il quieto vivere vorrà dire che la democrazia è ancora sospesa.
Tanti ragazzi che oggi frequentano le Università non sanno cosa è successo a Genova in quel luglio del 2001. Va loro raccontato che lo Stato democratico italiano torturò altri ragazzi come loro. Lo fece perché aveva paura delle loro bandiere della pace.

il manifesto 23.6.17
Bruno Trentin lettore di Montaigne
Il divano. Dai «diari 1988 - 1994», le note sulla lettura degli «Essais»
di Alberto Olivetti

22.6.2017, 23:59
In libreria, a Parigi, il 2 aprile del 1992. Annota Bruno Trentin nel suo diario: «…comperare libri, il mio desiderio di riprendere letture frettolose dell’adolescenza: Montaigne. Piove a Parigi come a Roma. Un tempo triste e sfasciato come questo periodo politico». Mesi cruciali per i casi italiani questi dell’anno 1992. Le inchieste sulla corruzione. Le elezioni politiche il 5 aprile. L’uccisione di Giovanni Falcone il 23 maggio e di Paolo Borsellino il 19 luglio. La firma dell’accordo con il governo sulla scala mobile e le sue dimissioni da segretario della Cgil il 31 luglio. Il 13 agosto appunta: «Ho cominciato a leggere – in fondo per la prima volta – gli Essais di Montaigne. E sono molto colpito dall’acutezza e dalla modernità di alcuni scritti (come quello sul bisogno di transfert, di oggettivare la causa del proprio dolore o del proprio malessere, anche a costo di assumere un oggetto altro, purché funga da simbolo)».
Nei Saggi, Trentin trova un riscontro, rileva una consonanza con i suoi pensieri, tanto imprevista quanto intensa. E forse vi scopre un modo di elaborare inquietudini che lo tengono e ansie. «Leggo Montaigne nel prato verde dell’Albergo di Hans e ritrovo il piacere, l’emozione della scoperta. La scalata di domani non mi fa più paura. E nemmeno la dura prova che mi attende a settembre. Pezzo per pezzo alcune riflessioni sulle vicende di luglio si sedimentano, purgate dall’ansia e dal risentimento». Del resto, in alcune pagine del diario, è affidata alle parole di Montaigne la perfetta resa della condizione nella quale egli si trova.
Stato d’animo ma, forse più esattamente, una consapevolezza che è il risultato di quel costante interrogarsi sul senso dei suoi studi e delle sue azioni. Trentin constata lo scarto che rende vane le sue ragionate convinzioni circa il che fare. Avverte come questo vallo sia il portato storico delle mancate iniziative disegnate e non condotte a compimento; di scelte dichiarate e non perseguite; di consuetudini inerziali che fanno ostacolo. Al netto degli errori, emergono l’inettitudine e il tornaconto. Il risultato è un accumulo di scorie che si frappongono, impediscono e deformano ogni ragionevole e ponderato proposito. Perché i detriti offrono appoggio alle false soluzioni, alle suggestioni loquaci, agli espedienti prolissi e fumosi che mascherano le opzioni di personale convenienza, le operazioni di meschino cabotaggio.
Una tra le prime considerazioni di Trentin a margine della lettura degli Essais recita: «tutte le ideologie sopravvissute, dal riformismo al comunismo, nella fase che precede nella sinistra il formarsi di nuove ideologie – espressioni organiche e ideali di progetti concreti – sono destinate a essere unicamente assolutorie e giustificatorie di comportamenti politici concreti completamente avulsi dal progetto originario che le ha viste nascere». Il patto con il governo di Giuliano Amato del 31 luglio ha stritolato, secondo Trentin, «qualsiasi riferimento a principi e programmi, lasciando soltanto lo spazio a schieramenti e soldi, potere e contropartite per gli esclusi». E aggiunge: «come scrive Montaigne, con questo ‘codice’ che esprime bene la ‘perdita di senso’ della politica, almeno in forze che portano nel loro codice genetico una volontà di cambiamento e di riforma, di modifica dei vecchi equilibri di potere fra le classi e i gruppi sociali, una trattativa sindacale diventa marchander».
A dicembre, a New York, alcune righe dedicate alle iniziative della Cgil da organizzare nel prossimo gennaio. Confessa il «bisogno di molta solitudine» e trascrive un brano dal De la solitude degli Essais: «Noi ci portiamo appresso le nostre catene: questa non è libertà piena, noi volgiamo gli occhi verso quello che abbiamo lasciato, ne abbiamo piena la fantasia. Il nostro male ci afferra nell’anima: ora, essa non può sfuggire a sé stessa, così bisogna emendarla e rinchiuderla in sé: è la vera solitudine, della quale si può godere in mezzo alle città e alle corti dei re; ma la si gode più comodamente in disparte. Bisogna riservarsi una retrobottega tutta nostra, del tutto indipendente, nella quale stabilire la nostra vera libertà, il nostro principale ritiro e la nostra solitudine».

il manifesto 23.6.17
Pd nervoso, anche Zingaretti in piazza con Pisapia&Bersani
Alleanze. Orfini contro Orlando. Ma dal Nazareno riparte la proposta di un listone «Senza Mpd». L'ex sindaco: non ho avuto alcun contatto con Lotti, è singolare che dopo il fallimento della legge delle larghe intese Renzi si rivolga a me per un’intesa
di Daniela Preziosi

«Oltre a non aver avuto alcun contatto con il ministro Lotti, ribadisco: è quanto meno singolare che dopo essersi accordato con Forza Italia, Lega e M5s per una legge elettorale che avrebbe portato inevitabilmente a un governo di larghe intese, e dopo il fallimento di questa, Matteo Renzi si rivolga a me per un’intesa elettorale». Giuliano Pisapia stavolta manda una nota scritta di suo pugno per assicurare che nessun contatto c’è stato fra lui e Lotti, potenziale emissario di «una proposta» di Renzi.
Non è una vera smentita dei retroscena che lo hanno fatto arrabbiare: raccontavano in realtà di tentativi di contatto da parte del ministro dello sport, andati a vuoto. Ma l’occasione è utile per sottolineare all’indirizzo di Renzi che il tempo del dialogo è scaduto. «Le coalizioni si costruiscono su programmi condivisi e con dichiarazioni pubbliche, non con trattative sotto banco», spiega, «Continuerò a impegnarmi per un soggetto autonomo, aperto e progressista che unisca esperienze diverse provenienti dal civismo, dalle associazioni laiche e cattoliche e dall’ambientalismo, in netta discontinuità con gli anomali accordi e alleanze con destra e centrodestra che il Pd ha portato avanti negli ultimi anni».
Invece dal Nazareno continuano a filtrare proposte di un «listone anche più largo di quel che si dice oggi, a sinistra e al centro», spiega un renziano di ranco, «chi arriva primo avrà l’incarico di formare il governo e dovrà giocarsela in parlamento. Dunque tutti punteranno a fare liste più ampie possibili, per ottenere voti». Listone sì, «ma senza Mdp», è la condizione. Già respinta al mittente a suo tempo da Pisapia.
La preparazione della piazza del primo luglio – a Roma, a Santi Apostoli, sarà lanciato il nuovo soggetto «Insieme» dallo stesso Pisapia e da Bersani – innervosisce il Pd. Soprattutto la notizia che alla spicciolata annunciano la loro presenza gli esponenti della minoranza (Barbara Pollastrini, Gianni Cuperlo), Orlando in testa. Una presenza, la sua, che fa storcere il naso anche alla sinistra-sinistra che contesta il decreto immigrazione che porta la sua firma. La sua presenza in piazza invece «è un’ottima notizia» per Roberto Speranza, coordinatore di Mdp, e per Pier Luigi Bersani che ha spalancato le porte agli ex compagni della minoranza Pd. A pungerlo per ora è però l’ex compagno di corrente Matteo Orfini: «Visto che abbiamo una legge elettorale che non prevede le coalizioni, ritengo sia più utile discutere con i nostri segretari di circolo su come rafforzare il Pd più che con altre forze politiche. Rischia di essere solo una discussione accademica». Replica Orlando con una certa dose di ironia: «Sono lieto che Orfini si sia ricordato che esistono i circoli del Pd che, come è noto, sono stati investiti nelle settimane scorse di una discussione ampia e approfondita sulla legge elettorale».
Il guardasigilli annuncia che quel sabato sarà anche all’assemblea dei circoli, prevista in contro programmazione all’evento incriminato. «E ricordo che le coalizioni esistono sia nei comuni che nelle regioni, pertanto, ignorare gli alleati non è segno di lungimiranza». Infatti con lui a Santi Apostoli andrà anche un altro uomo-simbolo delle coalizioni di centrosinistra, il presidente del Lazio Nicola Zingaretti.
Quanto ai comuni, sono un’altra spina per il Nazareno. Domenica si votano più di cento ballottaggi. Il Pd è avanti in meno della metà, ma nella sede Pd già si fasciano la testa in previsione di risultati non smaglianti. Motivo che ha suggerito di evitare una manifestazione nazionale di chiusura della campagna elettorale. Insieme al fatto che i candidati al secondo turno hanno preferito tenere Renzi a distanza dai loro comizi. «È divisivo», c’è chi spiega. Certo non è il brand giusto per quelli che devono chiedere i voti della sinistra-sinistra.

il manifesto 23.6.17
Renzi ferma la concorrenza di Calenda
Alla camera. Pd contro il governo, approvati quattro emendamenti in commissione. Il disegno di legge che attende da due anni di essere convertito deve tornare per la seconda volta al senato e rischia di affondare. Il ministro, idolo di Confindustria, parla di decisione incomprensibile. Ma il messaggio è per lui
A. Fab.

Il Pd che appena 48 ore fa accusava i bersaniani di mettere in difficoltà il governo, blocca alla camera uno dei provvedimenti più attesi dell’esecutivo, il disegno di legge sulla concorrenza. La concorrenza in questo caso è quella che Matteo Renzi teme possa arrivargli da Carlo Calenda, ministro titolare del dossier e recente idolo di Confindustria (per la quale è passato, e poi per l’associazione di Montezemolo e il partito di Monti, prima di fermarsi sulla soglia del Pd). Proprio raccogliendo gli applausi degli industriali, Calenda aveva detto che il disegno di legge sulla concorrenza andava approvato «senza modifiche». Aggiungendo, profetico: «Non vorrei finire come l’ultimo dei Mohicani».
Ieri le commissioni sesta (finanze) e decima (attività produttive) di Montecitorio hanno approvato invece quattro emendamenti del Pd (e identici di Forza Italia) su quattro aspetti – mercato libero dell’energia, rinnovo tacito delle assicurazioni, telemarketing e odontoiatri – che secondo il ministro «non sono sostanziali ma di mera chiarificazione, il governo era disponibile ad affrontare i punti sollevati in fase di attuazione». Tutto questo per evitare un’altra navetta e il quarto passaggio parlamentare. Che adesso invece ci sarà.
In che tempi? Con la pausa estiva dietro l’angolo e la legislatura avviata a conclusione, la preoccupazione del ministro è che il rinvio possa equivalere a un affondamento. Tanto più che al senato nessun passaggio è semplice per la maggioranza. Calenda voleva la fiducia, Gentiloni ha ascoltato Renzi e non l’ha accontentato. Ieri in commissione il sottosegretario allo sviluppo ha provato a respingere gli emendamenti (precedentemente accantonati) ma il Pd ha imposto le modifiche. Con il relatore Andrea Martella, già portavoce della mozione Orlando, costretto ad andare contro il governo. Alla fine la ministra per i rapporti con il parlamento, Anna Finocchiaro (anche lei area Orlando) ha dato l’ok alle modifiche, assicurando però un rapido via libera del senato. Intanto alla camera, dalla prossima settimana in aula, non si parla più di fiducia, ma di«rapida approvazione».
Il sottosegretario che ieri si è inutilmente opposto in commissione alle manovre del Pd è l’altrimenti noto Antonio Guidi, rappresentante di quel partito di Alfano che sta portando avanti un corteggiamento serrato a Calenda, identificato dal fiuto del ministro degli esteri (e da un po’ di giornali) come il possibile Macron italiano. Quella che adesso Alfano chiama «agenda Calenda» è solo un altro terreno dello scontro tra Renzi e l’area centrista dell’ex delfino di Berlusconi. Mentre Berlusconi in persona ha detto in tv di voler incontrare Calenda, peraltro appena uscito da un incontro con Prodi. Il ministro dello sviluppo ha fatto sapere che non negherà la visita.
Sul disegno di legge concorrenza si è morso la lingua – «altrimenti mi deprimo» -, ma assai esplicito è stato il presidente della prima commissione di Montecitorio Andrea Mazziotti, che gli è vicino: «Il Pd sui temi della concorrenza è oramai all’opposizione rispetto al governo», ha detto. Un problema in più per Gentiloni, che peraltro si trova a Bruxelles per il consiglio europeo: proprio da lì era arrivata all’Italia la raccomandazione di chiudere con la legge sulla concorrenza «che è del 2015 e non è ancora stata perfezionata». La legge in effetti attende di essere approvata da 850 giorni, fu presentata nell’aprile 2015 della allora ministra Guidi e avrebbe dovuto essere una legge annuale. «Con tutto il rispetto per il parlamento la decisione di riaprire il disegno di legge – ha concluso il ministro Calenda, facendo direttamente riferimento al prossimo esame europeo sui conti italiani – è difficilmente comprensibile e rischia di trasmettere l’ennesimo segnale negativo a cittadini, imprese e istituzioni internazionali».
Il messaggio di Renzi, invece, è proprio per Calenda ed è probabilmente più esplicito di quello consegnato al ministro da Romano Prodi. Come d’abitudine Renzi si muove blandendo e colpendo, non si può escludere neanche il puro gesto di ritorsione. «Abbiamo migliorato il testo, in alcuni passaggi creava problemi invece di risolverli. Approvare una norma imperfetta sarebbe stato, questo sì, un segnale negativo al paese», ha detto il presidente del Pd Matteo Orfini. Mentre il capogruppo del partito – alla camera – Ettore Rosato, assicurava che «non c’è spazio per la polemica politica, l’approvazione anche al senato sarà rapida». L’ultima previsione del genere riguardava la legge elettorale.

il manifesto 23.6.17
Sinistra, per accendere la luce serve un programma
Unità. Una Costituente di sinistra consisterebbe semplicemente in questo: su cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo d’accordo? I disaccordi sono componibili o no?
di Alberto Asor Rosa

In un articolo sul manifesto di poco tempo fa (8/6/2017) avanzavo una previsione che è risultata, inconsuetamente, azzeccata e formulavo un auspicio che invece, a quanto sembra, stenta non dico a concretizzarsi, ma più semplicemente a farsi strada.
La previsione era quella di un progressivo, sempre più rapido e sempre più insolentemente dichiarato, slittamento del Movimento 5 Stelle verso posizioni praticamente coincidenti con quelle dell’estrema destra. Le testimonianze, nel corso degli ultimi giorni, sono numerose.
Ma preferisco fermarmi all’ultima, per il suo carattere davvero speciale. E’ la posizione assunta sulla legge dello ius soli. In politica, com’è noto, esistono, a seconda delle prospettive, posizioni giuste, sbagliate, discutibili, contraddittorie, ecc… Ma se una posizione non è né giusta né sbagliata ma semplicemente disumana, come quella sostenuta da Grillo sulla richiamata legge, significa che tra quella forza e le altre, più o meno discutibili, ma che non la pensano come lui, s’è aperto un fossato invalicabile (come ovviamente per gli stessi motivi, e ancor più, con la Lega di Salvini ecc…).
Il brutto è che ciò era chiaro, chiarissimo fin dal giorno in cui Grillo emise il suo primo strillo incoerente su di una piazza italiana (si potrebbe manifestare qualche stupore perché tra gli attuali sostenitori di una sinistra “dura e pura” ce ne siano che se ne sono accorti con impressionante ritardo, per essere degli innovatori…).
IO, INVECE, SULLA BASE di una forse settaria ma alla fin fine fondatissima preveggenza, mi permetto di reiterare, anzi, di raddoppiare la previsione: con posizioni di questa natura Grillo perderà più voti di quanti pensa di acquistarne. Ossia: il declino del Movimento 5 Stelle sarà lento, ma è ormai inevitabile.
Quanto all’auspicio, mi auguravo che le sinistre, disunite, trovassero un’occasione o un luogo comune per discutere. Non sarebbe solo un problema di correttezza etico-politica, è molto, molto di più. E’ un problema di sopravvivenza. Si direbbe che, al contrario, ognuna di quelle sinistre si sforzi sempre più puntigliosamente di dimostrare e dichiarare come e perché sia diversa da tutte le altre. E’ ancora possibile invertire questa micidiale tendenza?
Avanzerò qualche sommaria riflessione.
UNO DEI MOTIVI del contendere, e perciò della divisione, è, a quanto sembra, la parola d’ordine del centro-sinistra. Si può cominciare a ragionarne, confrontando due apparentemente contrari ma in realtà simmetrici, e anzi convergenti, punti di vista.
Innanzi tutto: la parola d’ordine del centro-sinistra rappresenta una prospettiva strategica per la sinistra in Italia. Infatti quando mai la sinistra può aspirare a diventare in Italia forza di governo, localmente e nazionalmente, se non in una prospettiva di centro-sinistra? Non ignoro che nella sinistra esistono componenti e posizioni le quali, del tutto legittimamente, puntano su di un altro versante della lotta politica, quello movimentista, che nasce dal basso e agisce sul basso, ecc… Ma cosa impedisce ad un centro-sinistra di governo di avere rapporti e scambi molto proficui, anzi essenziali, con quest’altra sinistra? Ma il centro-sinistra di cui stiamo parlando è quello che si batte per arrivare a gestire il paese e le sue lotte da una posizione di governo. Quindi, è a questa prospettiva che l’unità delle sinistre dovrebbe innanzitutto guardare.
MA: UN CENTRO-SINISTRA, nella pienezza delle sue forze e potenzialità, non si può fare con Matteo Renzi. Perché Matteo Renzi è la negazione vivente del centro-sinistra: cultura, ideologia (più o meno profonda), metodi e pratiche di governo spingono in lui, strumentalmente, nella direzione opposta. La battaglia per il centro-sinistra coincide dunque perfettamente – questo dev’essere chiaro – con la battaglia contro l’egemonia nel Pd, e fuori del Pd, di questo personaggio.
E’ ANCORA POSSIBILE questa battaglia? E cioè: è il Pd, innanzitutto, prima di qualsiasi altra componente di sinistra, recuperabile a una prospettiva di centro-sinistra (certo, con lacerazioni interne anche profonde e la liquidazione di ogni tipo di “giglio magico”)? Difficile dirlo. Ma di certo, se non ci si prova, i tempi si allungheranno, tenderanno di diventare semisecolari.
Ma: una battaglia di questa portata e natura, che va ben al di là delle contingenze elettorali, di oggi e di domani, si può iniziare e vittoriosamente condurre senza mettere le carte in tavola? E cioè: noi chiediamo legittimamente il cambiamento, chiediamo di abbattere Renzi per renderlo possibile, solo se discutiamo, progettiamo e propagandiamo un vero e proprio programma, appunto, una serie di punti chiari e definiti intorno a cui far quadrato e, come si diceva una volta, “chiamare alla lotta”.
Di tutto ciò per ora non c’è traccia, né da una parte né dall’altra. Una Costituente di sinistra consisterebbe semplicemente in questo: su cosa siamo d’accordo? Su cosa non siamo d’accordo? I disaccordi sono componibili oppure no? L’unità è una conseguenza di questo, non il presupposto.
Se si passa da qui, una luce si accende. Altrimenti resteremo nell’oscurità profonda che circonda i “quattro dell’Orsa maggiore”: Renzi, Grillo, Berlusconi, Salvini.
Mamma mia.

il manifesto 23.6.17
Sinistra con i piedi per terra, in cerca di senso e cittadinanza
di Alfonso Gianni

L’assemblea del Brancaccio ha avuto il merito essenziale di porre con i piedi per terra il tema della costruzione di una «lista di cittadinanza a sinistra». Il percorso è tutto da costruire, né poteva essere preconfezionato.
Ma alea iacta est, indietro non si deve e non si può tornare. Il percorso non sarà facile e il tempo è breve. Proprio per questo conviene da subito affrontare alcuni nodi. La contraddizione nella quale si dibatte la costruzione della lista di cittadinanza a sinistra è chiara e non va sottaciuta.
Da un lato si tratta di favorire il massimo dell’unità possibile, perché il risultato elettorale non risulti deprimente e perché la rappresentanza parlamentare che ne consegue sia dotata di forza e consistenza. Dall’altro lato bisogna garantire la sua autonomia in particolare da qualunque sogno di riedizione di un fantomatico centrosinistra, che ucciderebbe la nuova creatura prima del parto. Tenere insieme e conciliare questi due elementi non è semplice, ma neppure impossibile e soprattutto necessario.
Le ragioni non sono solo elettorali, ma più profonde. Comincerei da queste ultime. Qui non si tratta di (ri)unificare forze di sinistra già esistenti. Non che queste manchino e che non debbano in primo luogo unirsi.
Sarebbe ingeneroso oltre che autolesionista dimenticarlo o pensare di farne a meno. Ma esperienze comprovate dimostrano che la somma non fa il totale. Anche se lo facesse, rischierebbe di essere troppo poco persino per superare l’inevitabile asticella del quorum, peraltro per ora ignota come il resto della legge elettorale con cui si voterà, ma soprattutto per reggere la sfida della stagione politica che si apre. La quale appare contrassegnata dal fronteggiarsi di diversi e spesso opposti populismi: lo scontro tra destra e sinistra non sparisce affatto – come dimostrano anche le recenti esperienze di voto europee – ma avviene su quel terreno, ovvero nella crisi della politica, entro un senso diffuso di distacco dalle istituzioni e di diffidenza – eufemismo – verso l’establishment politico-istituzionale ai suoi vari livelli.
L’unico punto fermo sono i valori di fondo della Costituzione, lo abbiamo ben visto con il voto popolare il 4 dicembre, quello stesso però che non si è ripresentato nella stessa misura alle urne delle recenti amministrative facendo lievitare ancora una volta l’astensionismo.
D’altro canto la recente crisi del M5Stelle, cui il gruppo dirigente reagisce con una evidente virata destrorsa, può liberare voti a sinistra (e non solo a destra, come sembra stia ora avvenendo) solo se lì vi è una forza in grado di attrarli. Il compito che ci sta di fronte è quindi ben più complesso: costruire senso, più che cercare consenso.
Infatti va ben al di là dell’appuntamento elettorale. Lo trascende in un auspicabile, ma non predeterminato, processo costituente di un nuovo soggetto di sinistra, senza però poterlo bypassare perché la politica non prevede il salto del turno, ma al contrario che di volta in volta si spenda tutto quello che si ha in tasca.
Che senso avrebbe anteporre la scelta delle alleanze – il centrosinistra – senza avere dimostrato che una sinistra autonoma e riconoscibile per profilo politico-programmatico e qualità dell’agire, esiste? E poi centrosinistra con chi? Con un centro – il Pd – che guarda a destra (per parafrasare e capovolgere la celebre espressione di De Gasperi) come dimostrano politiche e recenti sostegni parlamentari? Propugnatore del più ambizioso quanto fallimentare progetto di stravolgimento oligarchico dell’ordine costituzionale?
Non sottovaluto affatto l’importanza delle scissioni e delle diaspore avvenute in campo Pd. Sono il frutto diretto o indiretto delle battaglia politiche e soprattutto referendarie di questi mesi. Queste ultime tanto temute da costruire la truffa del voucher reloaded. Un fatto positivo, dunque. Che andrebbe aiutato a liberarsi definitivamente dai fili vischiosi del bozzolo del passato. Non promuovendo l’abiura, ma una politica senza piombo sulle ali. Se invece si pensa a un centrosinistra senza Renzi, o ci si illude – visti gli esiti delle ultime primarie – o si finisce in bocca ai vagheggiamenti (à la Repubblica) di chi vuole semplicemente cambiare di spalla al fucile, sapendo che un Calenda sparerebbe nella stessa direzione.
La contraddizione di cui sopra può essere superata solo spostando la definizione, da subito e nei modi necessari, di programmi e candidature ai livelli della partecipazione popolare diretta. Da qui la centralità del carattere «di cittadinanza» della lista, che pratica un diverso agire nel momento stesso in cui lo proclama.
Significa costruire la sinistra a partire dalla responsabilizzazione del suo popolo diffuso, che non ha mai smesso di esistere anche se la sua espressione come forza e soggetto politico ancora non c’è.

La Stampa 23.6.17
Dimettititù
di Mattia Feltri

L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ieri ha chiesto le dimissioni di Virginia Raggi. Che problema c’è? Qualche anno fa era Beppe Grillo a chiedere le dimissioni di Alemanno. Ieri Renato Brunetta ha chiesto le dimissioni del ministro Padoan. Matteo Salvini invece ha chiesto le dimissioni del premier Gentiloni. Questo solo ieri. Nell’ultima settimana, il Movimento cinque stelle ha chiesto le dimissioni del senatore Formigoni, del presidente della Rai, Monica Maggioni, e di tutto il Cda, metà Parlamento ha chiesto le dimissioni di Luca Lotti, Roberto Calderoli ha chiesto le dimissioni di Chiara Appendino, la forzista Giammanco ha chiesto le dimissioni del presidente Piero Grasso, la Lega ha chiesto le dimissioni di Dario Franceschini, Grillo ha chiesto le dimissioni di Angelino Alfano e Roberto Speranza ha chiesto le dimissioni di Maria Elena Boschi. Vabbè, le dimissioni di Boschi sono state chieste da tutti. Comunque, per restare all’ultimo mese, sono state chieste le dimissioni dei ministri Fedeli, Minniti, Orlando, Pinotti, Poletti e Lorenzin, del presidente della Repubblica, dei presidenti di Camera e Senato, del direttore del Tg1, del direttore della Repubblica, e forse non ve ne siete accorti ma l’europarlamentare Gianni Pittella ha chiesto le dimissioni del premier inglese Theresa May. La destra chiede le dimissioni della sinistra, la sinistra della destra, i cinque stelle di tutti e tutti dei cinque stelle. Il che spiega perché la qualità di una democrazia si vede anche (o specialmente) dalla qualità dell’opposizione.

Corriere 23.6.17
Frenata sulla concorrenza, l’ira di Calenda
No del governo alla fiducia, la Camera approva quattro modifiche. E ora il ddl tornerà a Palazzo Madama
Il ministro in rotta con l’ex premier: spero che il Pd non voglia rottamare la riforma. Rosato: ok entro l’estate
di  Francesco Di Frischia

ROMA Si allontana l’approvazione definitiva del disegno di legge sulla concorrenza: ieri le commissioni Finanze e Attività produttive della Camera hanno dato il via libera al testo modificando 4 emendamenti (su energia, telemarketing, assicurazioni e società di odontoiatri). Ora il provvedimento, che era stato promosso dal governo Renzi nel febbraio del 2015, deve tornare per la quarta lettura al Senato. E il ministro dello Sviluppo economico (Mise), Carlo Calenda, che ne voleva una rapida approvazione e nei giorni scorsi aveva premuto sul governo per mettere il sigillo della fiducia provvedimento, sbotta a Radio24 : «Spero che il Pd non si trasformi nel partito che vuole rottamare la concorrenza». In effetti le modifiche fatte a Palazzo Madama dal Pd vanno a incidere su alcuni capitoli che lo stesso partito aveva cambiato a Montecitorio rispetto al testo iniziale.
Quando nel primo pomeriggio la riapertura del cantiere della legge sulla concorrenza è cosa fatta, Calenda commenta: la mancata approvazione «a più di 850 giorni dalla sua presentazione, con tutto il dovuto rispetto per il Parlamento, è difficilmente comprensibile e rischia di trasmettere l’ennesimo segnale negativo a cittadini, imprese e istituzioni internazionali». Infatti «era stata la Ue due anni fa a chiederci di approvare subito questa legge — ricorda Antonio Gentile, sottosegretario al Mise —. Anche la scorsa estate e anche due estati fa sembrava che l’approvazione fosse a un passo. Ora siamo con le spalle al muro: di certo non si capisce perché al Senato il governo ha messo la fiducia e alla Camera no...». Segno evidente che le ruggini dei mesi scorsi tra Renzi e Calenda hanno lasciato il segno.
Ma le modifiche al ddl concorrenza erano proprio indispensabili? Erano «di mera chiarificazione», sostiene Calenda. Quindi, a suo parere, non così importanti da rischiare di fare naufragare definitivamente una norma che dovrebbe stimolare l’economia e aprire i mercati. Alternativa popolare e Civici e innovatori temono che al Senato il ddl possa rimanere di nuovo impantanato, ma Anna Finocchiaro, ministra per i Rapporti con il Parlamento, prima ribadisce la contrarietà alla fiducia e poi assicura che «il governo ne chiederà la più rapida calendarizzazione al Senato». «Sarà legge entro l’estate», garantisce il capogruppo alla Camera Ettore Rosato. «Vedremo se gli impegni troveranno riscontro», taglia corto Calenda. Il muro contro muro va avanti.

Il Sole 23.6.17
La Spd vuole aumentare le tasse sui redditi più alti
Proposta una nuova aliquota del 48% oltre i 250mila euro
di Alessandro Merli

Francoforte Cinque mesi dopo la sua trionfale irruzione sulla scena politica tedesca, che lo aveva portato testa a testa con il cancelliere Angela Merkel, il leader socialdemocratico Martin Schulz è già alle prese con la scelta della carta della disperazione per rientrare in gioco nelle elezioni del 24 settembre. E ha scelto la riforma fiscale, con più tasse sui redditi alti e un taglio delle imposte per i contribuenti dai redditi medio-bassi. «Un Paese più giusto», è lo slogan dell’ex presidente del Parlamento europeo, ma è tutto da dimostrare che tocchi le corde giuste per risuonare alle orecchie di un elettorato che sembra ancora una volta orientato ad affidarsi alle mani sicure della signora Merkel. E le sue proposte in materia di tasse sono già nel mirino di destra e sinistra.
L’arrivo di Schulz, dopo la rinuncia dello spento Sigmar Gabriel, aveva ridato un senso alla corsa della Spd, fiacco vassallo dell’unione democristiana (Cdu/Csu) del cancelliere nella grande coalizione. L’oratoria più vigorosa, la novità del politico quasi sconosciuto in patria avendo speso quasi tutta la sua carriera in Europa, l’affaticamento di Angela Merkel dopo quasi dodici anni al potere avevano contribuito a un recupero di consensi inopinato. Poi però la realtà ha preso il sopravvento: gli sconquassi provocati da Brexit e dall’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti hanno rimesso in cima alle preferenze dei tedeschi l’esperienza del cancelliere, che, sempre ignorando, come da sua abitudine, l’avversario, ha fatto valere il suo ruolo sulla scena internazionale. Fino a rubare, con l’immediato abbraccio al neo-eletto presidente francese Emmanuel Macron (dopo tutto, un ex socialista) e il rilancio dell’asse franco-tedesco in chiave europea, anche quella carta dell’Europa, che avrebbe dovuto essere l’atout migliore nelle mani di Schulz.
In mezzo, ci sono state tre elezioni regionali che si sono trasformate per la Spd in altrettante sconfitte, la più grave delle quali il mese scorso nel Nord Reno-Vestfalia, stato natale del candidato cancelliere, feudo storico della socialdemocrazia ed elettoralmente il più pesante della Germania. L’elettorato ha respinto alcune scelte del nuovo leader, come quella di far balenare un’alleanza rosso-rosso-verde. Psicologicamente, la campagna di Schulz ha faticato a riprendersi. I sondaggi sono impietosi: la Cdu/Csu è rimbalzata al 37,6%, la Spd al 23,1 è appena al di sopra dei livelli di prima dell’arrivo dell’uomo nuovo.
In questo contesto si colloca il lancio, lunedì scorso, del programma fiscale che dovrà essere approvato domenica dal congresso della Spd.
La parte centrale della piattaforma è un piano di ridistribuzione del reddito. Per i contribuenti più ricchi, sopra i 250mila euro, viene creata una nuova aliquota del 48%. La fascia successiva viene portata al 45% dal 42, alzando però la soglia da 54mila a 76mila euro. In compenso, per i redditi medio-bassi verrebbe abolita, a partire dal 2020, l’imposta di solidarietà con la quale i contribuenti dell’Ovest continuano a finanziare l’economia dell’Est dalla riunificazione tedesca. Complessivamente, si tratterebbe di tagli fiscali di 15 miliardi di euro, secondo la Spd. L’imposta sui capital gain verrebbe ancorata alle aliquote delle imposte sui redditi, e non più una ritenuta secca del 25%. Sull’altro piatto della bilancia, il programma mette investimenti pubblici per 30 miliardi di euro nei prossimi quattro anni, per far fronte alle lacune emerse in questi anni in cui l’obiettivo dello Schwarze Null, il deficit zero, “feticcio” del ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha avuto la priorità di investimenti in infrastrutture per far funzionare l’economia. Sono previsti anche ritocchi alla legislazione sul lavoro e sul welfare Hartz IV, che i socialdemocratici approvarono, obtorto collo, sotto il cancelliere Gerhard Schröder, ma di cui ha tratto vantaggio, in termini di creazione di posti di lavoro, Angela Merkel.
La sinistra, potenziale alleata di Schulz dopo le elezioni, una prospettiva che peraltro si allontana di giorno in giorno, ha criticato il piano per la mancanza di coraggio nel non aver proposto una patrimoniale e una tassa sulle grandi fortune, la destra lo ha bollato come la solita ricetta socialista. Gli economisti ne vedono un impatto modesto. Se questa era l’ultima carta di Schulz, difficilmente servirà a ribaltare il gioco.

Corriere 23.6.17
Giorgione
Il dominio del cuore
di Carlo Bertelli

L’amore è una virtù per pochi nei due amici di Giorgione l’aristocrazia dei sentimenti

Un giovane indubbiamente bello, perduto in sogni e pensieri lontani, appoggia la guancia alla mano sinistra. È la posa della musa Polimnia, la musa che presiede, anche, alla poesia. Non si capisce bene a cosa il giovane appoggi il gomito. Certamente ha davanti a sé un piano, forse uno scrittoio, sul quale posa la sinistra in cui tiene un frutto, per l’esattezza un melangolo, ossia un’arancia amara. La desiderata dolcezza dell’agrume è tradita dal forte sapore amaro. Anche altre volte, nella pittura del Cinquecento, gli agrumi compaiono come simboli dell’amore.
Sul melangolo il giovane medita. Lo stringe appena (il pollice emerge al di là del frutto) e sembra tastarne la buccia rugosa, quasi la leggesse col tatto. Il giovane è chiuso in una stanza, e di chiusura ci parla la stessa angolosità della composizione, con l’orlo di seta dorata della veste, o l’angolo che formano il polso e il palmo della mano. Una mano certamente non quieta, che con il mignolo perlustra le palpebre, mentre proietta la sua ombra sullo zigomo. La stessa luce, da sinistra e dall’alto, illumina la folta chioma rossa che scende a cascata oltre la mano, e allora ci rendiamo conto dell’incongruenza del cappello che il giovane indossa. È ornato di due gioielli d’oro pendenti, forse distintivi di un’appartenenza.
Perché quel cappello, se è chiuso in una stanza, anzi quasi costretto tra il tavolo e il probabile leggio? Ha la testa nuda, i capelli un po’ più corti, il giovane che appare in piena luce alle spalle. Ha sguardo vispo e, sotto la peluria che ne vela il labbro, un sorriso appena abbozzato. La sua camicia è aperta, e questa è d’un bianco niveo che costituisce il momento più esaltante di tutta la composizione. Questo secondo personaggio si trova al di là d’una colonna, e dietro di sé ha il cielo azzurro con appena qualche nube.
Ma non è quello sfondo celeste a illuminare il quadro. Una luce scrutatrice ne collega tutti gli elementi significativi, dalla mano che tiene il melangolo all’orlo squillante della camicia del secondo giovane, che si affaccia così spavaldo come sarebbe piaciuto a Caravaggio. La differenza degli incarnati è davvero notevole. Si direbbe: Giorgione ha dipinto il contrasto tra la vita attiva e la vita contemplativa. Anche se così fosse, non si tratterebbe in nessun modo di allegorie. Qui sono persone vere, caratteri autentici. Tanto che molta critica ha trattato male il giovane che, con la sua vitalità, interrompe bruscamente il tono contemplativo della composizione.
Di contrasti tra volti bellissimi e nobili e altri più sanguigni e volgari si era interessato in più disegni Leonardo, il cui breve soggiorno a Venezia aveva sconvolto tutti e aveva avuto un’importanza assoluta per la pittura di Giorgione. Anche nel nostro caso Leonardo è sullo sfondo. Basta a dirlo la massa di capelli del giovane in primo piano, che ricade con la mobilità dei flutti.
Non si sfugge però alla certezza di trovarci di fronte a persone vere. E persone che sono state ritratte con un programma. Questo è, sembra evidente, il proposito della gioventù aristocratica veneziana che aveva fatto del petrarchismo un costume.
Dove la malinconia degli Asolani di Pietro Bembo si fa manifesto di compagnie giovanili maschili e guida di un modo di vivere. «Amore, la tua virtute / Non è dal mondo e dalla gente intesa», si legge negli Asolani , i dialoghi neoplatonici che Pietro Bembo aveva meditato tra i fiori, le piante e i portici luminosi nel «barco» delle regina Cornaro ad Asolo. L’amore è virtù ed è milizia riservata ai pochi che si staccano dal «mondo» e dalla «gente»: l’amore come coraggio virile di chi affronta le amarezze che procura. Il melangolo lo riassume tutto. Il contrasto, enunciato teoricamente dal Bembo, è nel dipinto di Giorgione sofferta realtà. Meditabondo isolamento.

Repubblica 23.6.17
Le idee
L’Occidente considera universali i suoi concetti della mente, del sé, della sessualità. Ma lo studioso e terapista indiano Sudhir Kakar ci spiega come questi elementi variano in base alle diverse culture
Shiva sul lettino di Freud la nostra psiche vista da Oriente
SUDHIR KAKAR

La cultura non è un sistema astratto di idee ma qualcosa che informa le nostre attività quotidiane mentre allo stesso tempo ci guida lungo il percorso della vita. Come comportarsi verso i superiori e i sottoposti nelle organizzazioni, i tipi di cibo più adatti per una vita sana, la rete di doveri e obblighi verso la famiglia - tutte queste cose sono influenzate dalla nostra cultura tanto quanto lo sono le idee che riguardano una vita realizzata, rapporti adeguati tra i sessi o la nostra relazione con la divinità. Per oltre un secolo il “terroir” della psicoanalisi, per usare il termine del mio collega Anurag Mishra, è stato e continua ad essere occidentale. Contiene numerose idee e ideali culturali dell’Occidente che permeano
le teorie e la pratica psicoterapeutica. Condivise da analisti e pazienti e presenti nello spazio analitico in cui i due si muovono, le idee fondamentali sui rapporti umani, la famiglia, il matrimonio, il maschile e il femminile e così via, che sono essenzialmente di origine culturale, spesso non vengono analizzate e vengono considerate universalmente valide. Ora, noi sappiamo che ogni forma di terapia è anche una inculturazione. In psicoanalisi un paziente alle prese con l’amore di transfert diventa particolarmente sensibile ai suggerimenti del suo analista sui valori. L’analizzando fa presto a cogliere i suggerimenti che inconsciamente modellano le sue reazioni perché è spinto dall’obiettivo primario di far piacere e di essere gradito agli occhi dell’amato analista. Il suo bisogno chi essere “capito” dall’analista dà origine a una forza inconscia che lo spinge a tenere sottotono le parti culturali del suo sé che pensa siano troppo lontane dall’esperienza dell’analista.
Permettetemi a questo punto di fare un solo esempio sul ruolo fondamentale della cultura nel modellare la psiche e sui problemi che ciò pone per la teoria e la pratica psicoanalitica: l’importanza nella cultura indù-indiana della connessione. Che si riflette sull’immagine del corpo, un elemento fondamentale nello sviluppo della mente. Secondo Ayurveda il corpo è intimamente connesso alla natura e al cosmo e non c’è nulla nella natura che non sia rilevante per la medicina. L’immagine del corpo degli indiani quindi sottolinea un incessante interscambio con l’ambiente. Inoltre, secondo gli indiani, non c’è una sostanziale differenza tra il corpo e la mente. Il corpo è semplicemente una forma grezza di materia ( sthulasharira), così come la mente è una forma più tenue della stessa materia ( sukshmasharira); entrambi sono forme diverse della stessa materia corpo-mente, sharira.
Invece l’immagine occidentale è quella di un corpo chiaramente conchiuso, nettamente differenziato dal resto degli oggetti dell’universo. Questa idea del corpo come una roccaforte sicura dotata di numero limitato di ponti levatoi che mantengono un tenue contatto con il mondo esterno ha notevoli conseguenze. Sembra che il discorso occidentale, sia scientifico che artistico, si occupi principalmente di ciò che avviene dentro la fortezza del corpo dell’individuo. Gli aspetti naturali dell’ambiente - la qualità dell’aria, la quantità di luce solare, la presenza di uccelli e animali, di piante e alberi - se mai vengono presi in considerazione, sono considerati a priori come irrilevanti per lo sviluppo intellettuale ed emotivo. A volte mi chiedo se l’assenza dell’ambiente nei casi clinici o nelle teorie degli occidentali sia anche connessa all’ubicazione della psicoanalisi, alle sue origini in un paese freddo in cui terapista e paziente hanno bisogno di stare chiusi in una stanza al caldo e in cui anche il modello più antico, quello del confessionale, prevedeva uno spazio chiuso. Se la psicoanalisi fosse nata in India, mi domando se non avrebbe seguito il modello tradizionale del guru e del discepolo le cui interazioni avvengono all’aperto, all’ombra di un albero.
Per tornare al corpo, vorrei anche dire che la cultura organizza la differenziazione tra i sessi e la profonda convinzione che gli esseri umani sono maschi o femmine. Ciò appare evidente se pensiamo alle sculture greche e romane che hanno tanto influenzato la rappresentazione dei generi in Occidente. In essa gli dei maschi sono rappresentati con corpi duri e muscolosi sul cui petto non c’è traccia di grasso. Confrontiamoli con le rappresentazioni scolpite delle divinità indù o del Budda che hanno corpi più morbidi e flessuosi con un accenno di seno, più vicini alle forme femminili. Questa minimizzazione della differenza tra la rappresentazione dei maschi e delle femmine culmina nella forma del grande dio Shiva, mezzo maschio e mezzo femmina, che viene rappresentato con le caratteristiche sessuali secondarie di entrambi i sessi.
La connessione indica anche un’altra direzione per spiegare il mistero della coscienza, il sacro Graal sia della biologia che della psicologia. Nella attuale posizione elevata goduta dalle neuroscienze si ritiene che la coscienza sia un epifenomeno del cervello che deriva dai processi che avvengono in un cervello incapsulato. Secondo gli indiani il cervello non può essere visto come l’origine della coscienza ma come un filtro attraverso il quale una coscienza che tutto pervade passa per diventare la coscienza personale.
A differenza di quella dell’Occidente contemporaneo, l’idea indiana del sé non è quella di un’individualità unica auto-conchiusa. La persona indiana non è un centro di consapevolezza auto- contenuto che interagisce con altri individui simili. Invece nell’immagine dominante della cultura il sé è costituito da rapporti. Tutti gli affetti, i bisogni e le motivazioni sono relazionali. E le sofferenze sono disturbi delle relazioni – non solo con l’ordine umano ma anche con quello naturale e cosmico.
Il mio progetto personale di “traduzione” negli ultimi quarant’anni di lavoro con pazienti indiani e occidentali è stato guidato da un’immagine della psiche in cui l’inconscio individuale dinamico e l’inconscio culturale sono strettamente collegati e l’uno arricchisce, vincola e modella l’altro mentre evolvono contemporaneamente insieme nella vita.
L’autore, classe 1938, è uno psicoanalista, studioso e scrittore indiano. In Italia è appena uscito il suo libro Cultura e Psiche ( Alpes, prefazione di Alfredo Lombardozzi, pagg. 142, euro 15) da cui questo testo è tratto

Repubblica 23.6.17
A Roma, un percorso diviso tra Palazzo Venezia e Castel Sant’Angelo dedicato al pittore e al suo tempo
Giorgione
Il viaggio sentimentale di un genio del colore
CESARE DE SETA

Nel Palazzo Venezia, o più propriamente di Venezia, e nel Castel Sant’Angelo si tiene (da domani al 17 settembre) un’originale mostra che rimanda a Giano bifronte: la prima sezione è centrata sul celebre ritratto i “Due amici” (1502 c.) di Zorzi da Castelfranco, che assunse poi il nome di Giorgione, tra i più celebri pittori del Rinascimento. Zorzi era figlio di un notaio che in seconde nozze aveva sposato una donna originaria di Conegliano che gli aveva dato un pargolo il cui destino sarà luminoso. Nel 1489 il piccolo è già orfano del padre, e lo si sa perché la madre per sopravvivere è costretta a vendere una parte delle terre che possedeva per riscattare dalla prigione Zorzi che s’era cacciato a Venezia nei guai. Il giovane torna a Castelfranco nel 1493, e col suo lavoro mantiene la madre e nel 1497 si fa cassare dal registro dei contribuenti per trasferirsi a Venezia. Per Giorgione “li maggiori suoi” furono Gentile e Giovanni Bellini, Cima da Conegliano, Vittore Carpaccio: Giorgio Vasari ricorda, nella prima edizione delle Vite (1550), che suonava il liuto, frequentava il patriziato della Serenissima, era assai stimato da Isabella d’Este. Gli erano vicini i più giovani Tiziano e Sebastiano del Piombo. Non ebbe mai una bottega con praticanti come d’uso, faceva tutto da solo. Nella seconda edizione delle Vite (1568) Vasari ne amplia il profilo biografico, posticipando la data di nascita al 1478, e l’arricchisce di nuovi dati. Giorgione è artista di cui poco si sa, ma è certo che morì di peste nell’hospitale di Nazareth a Venezia nel 1510.
Palazzo Venezia fu la prima residenza romana di Domenico Grimani, collezionista e proprietario di varie opere di Zorzi. Assai bello il ritratto dei fratelli Grimani, in vesti cardinalizie, di Jacopo Palma il Giovane. Domenico fu uno dei protagonisti dei rapporti politici, diplomatici e culturali tra i due stati tra la fine del Quattrocento e i primi decenni del Cinquecento: il rapporto con Giorgione dové essere intenso e suo era l’Autoritratto in figura di David. I Due amici sono il baricentro dell’appartamento di papa Paolo II Barbo, figura altrettanto rilevante nei rapporti tra Venezia e Roma che conosciamo in un bel busto di Mino da Fiesole. Ed è proprio nell’appartamento di papa Barbo che si sviluppa la prima sezione della mostra, dedicata alle vicende storiche e allo straordinario Due amici, caposaldo nelle vicende artistiche di questi primi anni del secolo XVI. Ma di Zorzi non meno rilevanti sono Fetonte davanti ad Apollo (1496-98) National Gallery, Londra: nel gruppo in primo piano con un musico sulla destra incombe un’enorme roccia, dietro un paesaggio; in Leda e il cigno, pressoché coevo, il tema mitologico non appanna l’eccezionale qualità del grande paesaggista della Tempesta.
La mostra ha per titolo Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma ed è a cura di Enrico Maria Dal Pozzolo (nel comitato scientifico: Lina Bolzoni, Miguel Falomir, Silvia Gazzola, Augusto Gentili e Ottavia Niccoli), a cui si deve una fondamentale monografia (2009) che l’autore – in contributi successivi e in premessa al ricco catalogo Arte’m – articola con numerose novità. Ma l’idea originale del curatore, in sintonia con la direttrice del Polo Museale del Lazio (che organizza la mostra in collaborazione con Civita) Edith Gabrielli, è stata quella di associare una seconda sezione negli appartamenti papali di Castel Sant’Angelo, in cui sono raccolte non solo opere di grandi artisti veneziani, ma di alcuni dei più migliori pittori del Cinquecento. Un percorso esposi- tivo che comprende 45 dipinti, 27 sculture, 36 libri e manoscritti, oltre a numerosi, disegni e stampe. Dalle edizioni di Aldo Manuzio alle incisioni di Albrecht Dürer, il monumentale “ritratto” xilografico di Venezia (1500) di Jacopo de’ Barbari.
La ritrattistica ha un rilievo significativo da Gentile e Giovanni Bellini, a Tiziano, a Domenico Tintoretto, ad Alessandro Allori con Bianca Cappello e il figlio, al Bronzino con Eleonora di Toledo con il figlio, che ci conducono in area fiorentina. La pittura di storia si alterna a opere che illustrano i sentimenti: l’amore declinato in forme che possono essere ritratti come la tela di Bernardino Licinio che raffigura l’intera famiglia (1535-40) del fratello. Dello stesso Bernardino è il ritratto di Donna che scopre il seno (1536), tema esibito con grazia da Domenico Tintoretto in una bella tela di fine Cinquecento del Prado. Questo oscillare di tematiche conduce il visitatore in un labirinto esistenziale che è parte dei sentimenti che segnano la vita umana. Il Doppio ritratto di Federico Barocci è un segno d’amore coniugale. Carlo V chiese a Tiziano nel 1548 un ritratto della defunta consorte Isabella del Portogallo. Una Gentildonna si fa effigiare da Bernardino Licinio mentre abbraccia il ritratto del coniuge assente o defunto. Due storie d’amore che solo il conforto dell’arte può lenire. Il potere della parola è esaltato nel ritratto di un Uomo con una lettera di Paris Bordon. Se la parola ha il suo ruolo, la musica le è compagna nello splendido ritratto del
Musicista di Tiziano (1513-14) nel quale il gioco di luci e ombre è un miracolo. S’è ricordato che lo stesso Giorgione era un musico e questo rimando al maestro ricorre in più opere, di cui sempre si va scoprendo qualcosa di nuovo. Ora i rapporti tra Venezia e Roma sono più chiari e visti con un’ottica inedita. L’allestimento in entrambe le sedi è progettato dello studio De Lucchi con rara eleganza e rispetto di ambienti così prestigiosi: contributo rilevante al felice esito della mostra.

Il Sole 23.6.17
La Storia sepolta tra le macerie di Mosul
di Alberto Negri

Scavando tra le macerie dell’Iraq e della Siria tra qualche anno sembrerà persino anacronistico parlare di “responsabilità” e indagare su vincitori e vinti di un conflitto che coinvolge tutte le potenze regionali e internazionali.
Baghdad accusa l’Isis di avere fatto saltare la moschea del 12° secolo di Al Nouri a Mosul - dove Al Baghdadi nel giugno 2014 proclamò il Califfato - per impedirne la riconquista, i jihadisti sostengono che sono stati i raid Usa, gli americani smentiscono.
La verità è brutale: da anni è in corso la distruzione di intere nazioni e del loro patrimonio artistico, archeologico e culturale che ciascuna delle parti in guerra rivendica di volere “proteggere” in nome delle più diverse bandiere ma in realtà contribuisce a sgretolare, giorno dopo giorno. Per il Medio Oriente questi conflitti contemporanei sono ancora più devastanti della seconda guerra mondiale quando qui le ferite dei bombardamenti furono assai più limitate che in Europa.
Al viaggiatore che conosce da decenni la regione oggi si stringe il cuore. E lo sguardo, che un tempo si alzava verso il cielo ad ammirare i monumenti di tante civiltà millenarie, adesso si abbassa sconsolato al suolo per scrutare con angoscia le macerie che riempiono le strade e le piazze di città come Aleppo, Homs e Palmira in Siria, Mosul e Ninive in Iraq.
Non abbiamo più la moschea costruita nel 715 dagli Omayyadi ad Aleppo, insieme alla Qalat, la cittadella, e al bazar, sono stati sbriciolati i leoni, le colonne e i templi di Palmira, abbattuti dall’Isis che ha fatto saltare anche le mura di Ninive, saccheggiato le rovine assire di Dur Sharukkin, la città di Hatra, la Chiesa Verde di Tikrit, uno dei più antichi monumenti della cristianità, i mausolei sciiti di Mosul e Tikrit con 40 tombe omayadi, il monastero di Sant’Elia a Qaryatain in Siria.
Ma questo è un elenco assai incompleto. Insieme ai monumenti i jihadisti hanno dato alle fiamme anche i libri e dove si bruciano i libri, come diceva il poeta Heinrich Heine, si bruciano anche gli uomini. Un’estate incendiarono la biblioteca di Mosul, come era già accaduto a Sarajevo nel 1992 e a Baghdad nel 2003 quando per giorni le fiamme inghiottirono antichi manoscritti e l’archivio del regime baathista. Eppure proprio in Mesopotamia quattromila anni fa furono aperte le prime biblioteche con le tavolette d’argilla di Sumeri, Assiri e Babilonesi. A Ninive venne fondata dal re Assurbanipal la più grande biblioteca del mondo antico, ricca di ventimila tavolette tra cui quelle recanti la narrazione dell’epopea di Gilgamesh. Una conservazione del sapere proseguita con la civiltà araba degli Abbassidi quando a Baghdad si contavano 63 biblioteche. A spazzare via tutto nella capitale ci pensarono i mongoli nel 1258. I volumi gettati nel Tigri erano così numerosi da permettere il passaggio, per lungo tempo, da una riva all’altra attraverso le cataste di libri affioranti sulla corrente.
Sotto queste macerie contemporanee non si stanno seppellendo soltanto i popoli, con centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi, ma anche la ragione stessa della loro esistenza futura e le speranze delle nuove generazioni: i monumenti sono la testimonianza concreta e visibile di una storia e di una memoria che le guerre stanno cancellando. Erano queste pietre con la loro presenza la motivazione intima che faceva dire a ogni abitante: «Sono di Mosul, sono di Aleppo». Distruggere il passato vuol dire rubare il presente e il futuro.
La guerra mondiale del Medio Oriente coinvolge in pieno le superpotenze, Stati Uniti e Russia, rende ancora più acceso lo scontro Iran-Arabia Saudita, tra sciiti e sunniti, lacera tutto l’universo musulmano e fa coltivare pericolose tentazioni di conquista, di rivincita ed eliminazione degli avversari. Convivenza e tolleranza, le parole della cultura, sono abolite da chi vuole nuove frontiere, muri e territori. L’estremismo scorre come un veleno mortale nelle vene aperte di questa regione, l’occupazione di truppe straniere diventa una presenza forse necessaria ma umiliante, le società sono frammentate da conflitti settari, etnici, economici e di potere. Le distruzioni materiali sono eclatanti, quelle morali forse lo sono ancora di più e tra qualche tempo sembrerà persino assurdo rintracciare le colpe.

il manifesto 23.6.17
Orban gela il vertice: «Mai le quote»
C. L.

ROMA «Non potremo mai dare il nostro accordo alle quote europee per ripartire i migranti». Ci ha pensato Viktor Orban a scaldare subito il vertice dei capi di stato e i governo che si è aperto ieri a Bruxelles. Più infastidito che intimorito dalla procedura d’infrazione avviata nei giorni scorsi dalla Commissione europea contro Budapest e Varsavia, il premier ungherese ha ribadito il rifiuto ad accogliere migranti dall’Italia e dalla Grecia, una posizione che certamente non aiuterà il confronto tra i 28 leader europei.
Di immigrazione a Bruxelles in realtà si comincerà a parlare solo oggi, quando i capi di stato e di governo entreranno nel vivo delle questioni. Sul tavolo ci sono tutti temi delicati sui quali – considerata l’aria che tira – sarà difficile trovare una posizione unanime: dalla riforma di Dublino (sulla quale manca l’accordo e che continua ad attribuire al paese di primo sbarco l’onere della gestione dei richiedenti asilo), ai ricollocamenti. Per finire con la proposta italiana di far sbarcare i migranti tratti in salvo anche in altri paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, come Spagna e Francia. Sarà interessante su questo punto vedere quale sarà la posizione del presidente francese Emmanuel Macron, al suo primo vertice da capo di stato, che in un’intervista apparsa ieri su alcuni quotidiani europei ha ribadito come l’Europa non sia un supermercato in cui ognuno prende ciò che vuole, e quindi le responsabilità vanno condivise (frase risultata indigesta a Orban, che oggi incontrerà Macron insieme agli altri paesi del gruppo Visegrad).
Tutt’altro discorso è invece quello che riguarda la possibilità di aumentare gli investimenti in Africa. Il premier italiano Paolo Gentiloni ne ha parlato ieri appena arrivato a Bruxelles con il presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker e con il premier libico Fayez al Serraj. Al primo ha ribadito la sua irritazione per lo scarso impegno dell’Europa nel fronteggiare la crisi dei migranti e chiesto di spendersi per un rifinanziamento del Fondo per l’Africa. Al secondo ha chiesto invece maggiore impegno nel fermare le partenze dei migranti. «L’obiettivo è contenere i flussi migratori – ha spiegato il premier – mettere in condizione le autorità libiche di esercitare un maggiore controllo del loro territorio, dare un contributo alla lotta contro i trafficanti di esseri umani». Più esplicito, nel chiarire gli obiettivi europei, è stato Angelino Alfano. Annunciando per i primi di luglio un vertice a Roma con i rappresentanti di alcun paesi di transito, il ministro degli esteri ha spiegato: «L’obiettivo non è impedire ai migranti di partire dalla Libia, ma proprio di farli entrare in Libia. Credo che questo sia un avanzamento reale».

il manifesto 23.6.17
Arabia Saudita: il principe ereditario è amico di Trump e Israele ed è schierato contro Teheran
Arabia Saudita. La sua nomina è stata accolta con favore dalla Amministrazione Trump e anche in Israele. Zvi Barel, analista del quotidiano Haaretz di Tel Aviv, scrive che l’erede al trono saudita è un partner ideale nella lotta contro Tehran
di Michele Giorgio

Qualcuno lo definisce un colpo di stato «morbido», altri una «rivoluzione». Quello che conta è che l’81enne re Salman dell’Arabia Saudita, con un decreto ha eliminato dalla successione diretta il nipote 57enne Mohammed bin Nayef per sostituirlo con il figlio 31enne Mohammed bin Salman, ora nuovo principe ereditario. E non passerà molto tempo prima che re Salman annunci la volontà di farsi da parte a favore del figlio.
Si è parlato di una decisione che vuole rinnovare la monarchia sunnita: il balzo generazionale è di 50 anni. Mohammed bin Salman è considerato un «riformatore». È stato lui a proporre di mettere sul mercato il 5% di Aramco e la creazione di un fondo sovrano di 2mila miliardi di dollari, il più grande al mondo.
Ma ci sono ben altri obiettivi dietro la decisione di re Salman. Mohammed bin Salman, già ministro della difesa e ora anche vice primo ministro, viene proiettato «ufficialmente» alla guida dell’Arabia saudita. Da tempo aveva già preso il posto del cugino messo da parte da re Salman, che manteneva i rapporti con Washington. La sua influenza in politica estera, già elevata, è perciò destinata a crescere. Il neo principe ereditario è un falco e, secondo gli osservatori, è lui il principale artefice della linea di scontro aperto con l’Iran.
La sua nomina è stata accolta con favore dalla Amministrazione Trump e anche in Israele. Zvi Barel, analista del quotidiano Haaretz di Tel Aviv, scrive che l’erede al trono saudita è un partner ideale nella lotta contro Tehran. Diversi siti web arabi riferiscono che bin Salman si è incontrato con vari esponenti israeliani, in almeno un caso a Eilat nel 2015. Un blogger saudita molto noto, Mujtahidd, ha scritto che il principe ereditario bon Salman e l’erede al trono di Abu Dhabi, Mohammed bin Zayed Al Nahyan, intendevano organizzare un colpo di stato in Qatar con mercenari della Blackwater e degli Emirati ma sono stati fermati dagli Usa. Mohammed bin Salman è il più accanito ai vertici sauditi nel sostenere l’isolamento del Qatar accusato di «sponsorizzare il terrorismo» e di non partecipare con determinazione al fronte arabo sunnita schierato contro Tehran.
Proprio ieri l’Arabia Saudita e i suoi alleati del Golfo hanno elaborato una «lista di richieste» da presentare al Qatar per risolvere la crisi scoppiata all’inizio di questo mese. E non può essere dimenticato che dopo essere stato nominato vice principe ereditario il 29 aprile 2015, il giovane Mohammed è stato il principale fautore dell’intervento saudita in Yemen, rinsaldando i rapporti con gli Usa, stabilendo relazioni personali speciali con il presidente Trump. Sarebbe stato lui a sollecitare l’acquisto per oltre cento miliardi di dollari di armi di produzione statunitense in modo da sancire la rinnovata alleanza.
Con lui la politica estera dell’Arabia saudita non potrà che farsi più aggressiva. Lo scontro con l’Iran è perciò destinato ad aggravarsi e con esso il rischio di un altro conflitto in Medio Oriente.

il manifesto 23.6.17
La lezione dell’islam in Senegal
Reportage. Con l’arabo che guadagna terreno rispetto al francese, i movimenti d’ispirazione wahabita puntano su un settore chiave, un tempo dominio esclusivo della potente confraternita muride
Elisa Pelizzari

SAINT-LOUIS
Politologo e arabista, docente all’università di Saint-Louis (la seconda del Senegal, con 15 mila iscritti), Bakary Sambe coordina l’Osservatorio dei radicalismi e dei conflitti religiosi in Africa (Orcra). Da anni denuncia la minaccia di estremizzazione che incombe sull’islam del suo paese, tradizionalmente legato alle confraternite mistiche (sufi), pur ricordando come, a livello internazionale, siano riconosciuti lo spirito di tolleranza e la solidità dell’ordinamento democratico locale.
Già in un intervento dell’ottobre 2008, questo studioso tracciava il profilo di un processo dal quale emergeva come i movimenti d’ispirazione wahabita, propugnatori di una marcata de-laicizzazione della società (la fede musulmana ha una lunga storia in Senegal e concerne il 90% dei cittadini), abbiano puntato su un tema cruciale: l’istruzione scolastica.
OSSERVA SAMBE: «La non conformità della politica educativa del governo alle esigenze dell’islam è deplorata da molte associazioni e spinge le più radicali a negare ogni legittimità» alle istituzioni in carica. Eppure, il Senegal è una repubblica aconfessionale, dove l’insegnamento viene dispensato in francese, l’idioma ufficiale. Sfioriamo qui un nodo dolente, a partire dal quale alcune correnti esprimono il proprio disaccordo: la lingua francese rappresenta un’eredità coloniale e, pertanto, è tacciabile di veicolare valori «occidentali», estranei, se non ostili, alla cultura africana. La questione di fondo è però più complessa: all’istruzione francofona, gruppi di matrice religiosa – quali l’Organizzazione per l’azione islamica (Oai), al-Falah (o Movimento per la cultura e l’educazione islamica autentica in Senegal), l’Associazione degli studenti musulmani di Dakar (Aemud, legata alla rete della Jamat Ibad al-Rahman) – contrappongono la volontà di “arabizzare” l’insegnamento, col pretesto di renderlo più consono alla mentalità e alle istanze della popolazione.
ORA, L’ARABO non è un idioma autoctono (al contrario, ad esempio, del wolof, ampiamente parlato), ma costituisce piuttosto la lingua «sacra», lo strumento per eccellenza tramite cui passa il messaggio di fede e si prega. Rivendicarne l’apprendimento diffuso significa promuovere un discorso confessionale e lo dimostra il fatto che, nel variegato panorama nazionale, le scuole dove l’arabo è utilizzato hanno sempre un carattere religioso. Tale aspetto viene rivendicato con orgoglio e i direttori degli istituti lo sottolineano, agli occhi dei genitori, per incoraggiarli a iscrivere i figli.
VEDIAMO ALLORA come si configura il sistema scolastico nel suo insieme. Paese di circa 15 milioni di abitanti, il Senegal vanta un tasso di scolarizzazione nei bambini dell’84% (con differenze marginali fra maschi e femmine); il 40% degli alunni completa l’istruzione di livello secondario; mentre circa il 4% dei diplomati s’iscrive in uno dei cinque atenei pubblici (presenti a Dakar, Saint-Louis, Thiès, Bambey e Ziguinchor) o in una delle cinque università private aperte in varie regioni.
DA NOTARE come l’Université Cheikh Anta Diop di Dakar, la più grande, eretta dai francesi nel 1957, accolga 100 mila studenti, con un rapporto problematico docenti/alunni pari a 1/172 (l’unesco stima la condizione ideale a 1/30). I programmi sono calcati sul modello francese, ma gli insegnanti delle scuole pubbliche si trovano di fronte ad aule affollatissime, sin dai livelli elementari (anche 90 allievi per classe) e a una penuria cronica di strumenti pedagogici. Per questo le famiglie urbanizzate della classe media preferiscono impartire ai loro figli la formazione offerta dagli istituti privati parificati (alcuni cattolici).
VA PRECISATO che l’introduzione dell’islam come materia d’insegnamento ufficiale, accanto a nozioni di lingua araba, è recente: risale al 2002, su iniziativa dell’ex presidente Abdoulaye Wade, che si è avvalso, nella scalata al potere, dell’appoggio dei marabutti di obbedienza muride, ossia delle figure a capo di una delle maggiori confraternite musulmane, creata alla fine del XIX secolo da Cheikh Ahmadou Bamba. Da rilevare che il figlio cadetto di questi, Cheikh Mouhamadou Mourtada Mbacké, è stato l’ideatore della principale rete di scuole private religiose del paese, gestita con fondi propri e comprendente istituti diffusi un po’ ovunque, per un totale di 70 mila alunni, i più poveri dei quali frequentano gratuitamente.
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Pellegrini adepti del muridismo all’ingresso della Grande Moschea di Touba, Senegal (foto di Ben Curtis/Ap)
L’EDUCAZIONE in senso confessionale non concerne tanto il sistema di apprendimento pubblico, quanto un ambito privato, che ambisce a esercitare la sua concorrenza nei confronti dell’istruzione in lingua francese. Tale realtà ha solide basi nella cultura popolare e s’ispira a un modello informale antico: quello delle scuole coraniche o daara. Sorte, da secoli, per permettere ai fedeli, sin da piccoli, di memorizzare il Corano in arabo e di conoscere gli elementi essenziali per la pratica rituale, le daara hanno talvolta dato origine a centri di alto prestigio, seppure rigidamente orientati a materie teologiche o affini (ad esempio la grammatica araba). Dagli anni 1970, l’affermarsi del francese come idioma ufficiale e strumento di lavoro, dunque di modernità e sviluppo, ha emarginato le scuole coraniche.
SONO LE DISILLUSIONI del presente, legate a un’economia che non offre sbocchi per tutti, e tanto meno ai giovani che hanno ultimato gli studi, ad aver modificato, ancora una volta, le strategie delle famiglie, spingendole a tornare a un tipo d’istruzione che salvaguarda i valori tradizionali e preserva la moralità dei ragazzi, a dispetto di garantirne la riuscita in termini occupazionali. Ce l’ha spiegato Djim Dramé, ricercatore al laboratorio d’islamologia dell’Ifan, presso l’università di Dakar. Lui stesso è il prodotto di detta tendenza: ha studiato in una daara molto famosa (situata a Koki, accoglie quasi 4 mila studenti dai 4 ai 17 anni e, fra loro, anche alcuni provenienti da famiglie emigrate in Italia, che preferiscono crescere i figli in patria, nella stretta osservanza dell’islam). Dramé si è poi laureato in arabo all’università di al Azhar in Egitto e ha conseguito un dottorato in scienze dell’educazione al rientro in Senegal.
SOTTO LA PRESSIONE di un revival religioso concepito in termini identitari, la politica del governo è di aprire spazi all’insegnamento arabo-musulmano, evitando di urtare le suscettibilità sia degli ambienti sufi, sia di quelli wahabiti, ben più agguerriti e forniti di appoggi esterni, di ordine materiale e dottrinale (Arabia Saudita ed Emirati arabi). Per questo, ci racconta Ramatoulaye Diagne Mbengue, docente di filosofia all’università di Dakar e ispettrice generale dell’educazione e della formazione, alla maturità francese, cui si era gradualmente sommata la maturità franco-araba, si è aggiunta da tre anni la maturità araba, conseguibile in médersas confessionali.
Un rischio, per l’apertura in senso critico delle menti giovanili?