lunedì 5 giugno 2017

Il Fatto quotidiano, 31.5.2017
Parla l'epidemiologo inglese Marmot i cui studi sono alla base del Festival dell'Economia di Trento che si apre venerdì: è la distanza tra i redditi a favorire le malattie "La disuguaglianza nuoce gravemente alla salute"
Di Giovanna Borrelli
Roma
Lo Stato, le istituzioni locali e la società civile, ma anche le grandi industrie devono essere coinvolte in una rivoluzione della nostra società". Questa è la ricetta per combattere le disuguaglianze nelle condizioni di salute prescritta da Michael Marmot, professore di Epidemiologia all'University College di Londra, presidente della World Medical Association e autore de La salute disuguale: la sfida di un mondo ingiusto , pubblicato in Italia da il Pensiero Scientifico, il libro che ha ispirato il Festival dell'Economia di Trento 2017 di cui sarà ospite dall'1 al 4 giugno. Professor Marmot perché un festival di economia ha scelto come tema le disuguaglianze in salute? Il modo in cui la società è organizzata si ripercuote sulla salute della popolazione e genera disuguaglianze nelle condizioni di salute. Gli economisti quando parlano di disuguaglianze di solito partono dall'assunto che è la scarsa salute a condurre l'individuo a una condizione economica più bassa: le persone malate, non potendo lavorare o studiare, diventano povere. La mia tesi è opposta: sono la povertà e le condizioni sociali svantaggiate che ne derivano a condurre alla malattia. Quindi i poveri si ammalano più dei ricchi? Negli Stati Uniti, nella città di Baltimora, la parte più povera della popolazione ha un'aspettativa di vita di 63 anni, quella più ricca di 83. Il reddito pro-capite della popolazione più povera è di 17 mila dollari all'anno, quello della zona più ricca di 90 mila: una differenza enorme. Ma se prendiamo la Costa Rica, il cui reddito pro-capite è di 13 mila dollari, minore di quello dei poveri a Baltimora, vediamo che lì l'aspettativa media di vita è di 77 anni. La povertà quindi da sola non spiega questo fenomeno, ma si deve considerare il contesto, le disuguaglianze relative, legate al modello sociale in cui si generano. In che modo si possono contrastare queste disuguaglianze? Ci sono sei ambiti in cui è possibile intervenire: prima di tutto nell'assistenza alle donne in gravidanza e ai bambini nei primi anni di vita; poi nel sistema scolastico garantendo l'accesso al maggior numero possibile di persone; ancora nel lavoro, migliorandone la regolamentazione e le condizioni, creando occupazione e offrendo supporto alle persone senza lavoro; introducendo un reddito minimo; nella tutela dell'ambiente e nella sostenibilità delle abitazioni; nella prevenzione adottando un approccio basato sui determinanti sociali. Ne sono un esempio la tassa sull'alcool o sullo zucchero: iniziative che hanno un impatto sul comportamento delle persone. È lo Stato che ha la maggiore responsabilità? Lo Stato ha un ruolo determinante ma non è l'unico attore che deve agire per contrastare le disuguaglianze in salute. Sono fondamentali le istituzioni locali e cittadine, ma anche la società civile e le grandi industrie. Abbiamo bisogno di coinvolgere le imprese responsabili dei prodotti che possono migliorare la nostra salute o danneggiarla. Non possiamo contare solo sui comportamenti spontanei, però, una corretta regolamentazione è fondamentale. I tagli al welfare in molti Paesi lasciano spazio alla sanità privata. Quali sono le conseguenze? Non credo che la difficoltà nell'accesso alle cure sia la prima causa di disuguaglianze. Le persone si ammalano per colpa del sistema sociale e poi hanno bisogno di assistenza sanitaria. Però privatizzare la sanità e rendere la salute un business non fa bene ai cittadini, in termini di qualità della vita ma anche di perdita di diritti. Per questo il discorso sulla salute deve essere collegato alla giustizia sociale. Se vogliamo benessere per tutti, potremo avere miglioramenti solo quando avremo ridotto le disuguaglianze in salute. © RIPRODUZIONE RISERVATA