venerdì 19 maggio 2017

Repubblca 19.5.17
Rosatellum, per il Pd al Senato il soccorso del centrodestra
A Palazzo Madama la riforma non ha i numeri, nasce un nuovo gruppo di “responsabili”. No di M5S e Bersani. Alla Camera testo in aula il 5 giugno
di Carmelo Lopapa


ROMA.In aula una settimana dopo, il 5 giugno e non più il 29 maggio, ma la legge elettorale sarà approvata entro il mese prossimo alla Camera. Matteo Renzi ottiene quel che ha fortemente voluto, ma ora che una testo per la riforma sulla carta c’è (il suo), che il Pd su quello ha deciso di andare fino in fondo per strappare il Mattarellum bis entro l’estate, ecco che apre ufficialmente i battenti il gran bazar del Senato.
Perché se a Montecitorio il testo non incontrerà ostacoli e nel giro di poche settimane otterrà il via - come deciso ieri dopo una battaglia campale di due giorni l’ufficio di Presidenza convocato da Laura Boldrini ieri sera - il percorso si preannuncia in salita, ai limiti del proibitivo a Palazzo Madama. La maggioranza trasversale che si è formata in un ramo del Parlamento non regge al pallottoliere dell’altro Palazzo. All’appello mancano oggi una ventina di senatori. Ma le grandi manovre e le trattative sono appena iniziate. Dentro c’è di tutto, dalle aspettative dei leader alla sopravvivenza di peones e senatori monopartito.
IL GRUPPO È SERVITO (A PRANZO)
Mercoledì al ristorante “Il Bolognese” di Piazza del Popolo il capogruppo di Forza Italia Paolo Romani invita il presidente dei 22 senatori di Gal Mario Ferrara e il fondatore di “Idea” Gaetano Quagliariello. Sono pezzi, frange di centrodestra sparsi, dall’inizio della legislatura orientati in vario modo. «Bisogna dare vita a un gruppo sempre di centrodestra ma compatto, che faccia da interlocutore credibile quando il Pd aprirà i giochi anche al Senato sulla riforma», è stato l’invito del senatore, di certo il più sensibile tra i berlusconiani alle campane maggioritarie fatte risuonare da Renzi (e perciò inviso a tanti, tra i suoi). Nascono i nuovi “responsabili” per la riforma elettorale? Quando due giorni fa il fittiano Rocco Palese ha cercato di far saltare l’operazione («Sta nascendo un gruppo per aiutare l’approvazione della riforma al Senato, sono 12-13»), Quagliariello lo ha smentito. Salvo ufficializzare ieri la nascita del gruppo Federazione della libertà. Nasce con la benedizione di Berlusconi, intenzionato a farne l’altra gamba di una sorta di Ppe italiano. Ne fanno parte tra gli altri Carlo Giovanardi, Andrea Augello, Luigi Compagna, Cinzia Bonfrisco, ma anche il forzista in prestito Francesco Aracri. Dieci in tutto, che potrebbero lievitare fino a 13-14 con gli Udc di Cesa. «Non siamo come i renzini occulti, ma un gruppo di opposizione al governo e alle strane manovre Pd sulla riforma», precisa Quagliariello. Ma non basterebbero nemmeno loro, semmai decidessero di votarla.
QUOTA 160 (CHE NON C’È)
Il Mattarellum bis può contare ad oggi al Senato solo sui 98 Pd (e non tutti, se sono confermate le perplessità di Chiti e Casson, per esempio), sui 16 verdiniani di Ala, sui 12 leghisti. Stop. Per sommare a questi i 26 fondamentali centristi Ap di Angelino Alfano - e varcare la soglia necessaria dei 160 - Renzi dovrebbe intanto cedere sullo sbarramento: dal 5 al 3 per cento. E potrebbe non bastare ancora, dato che Maurizio Lupi alla Camera si è schierato come altri senatori sul no tout court. Per non dire dei 15 di Mdp che ieri Pierluigi Bersani ha ufficialmente schierato sulle barricate («Non c’entra un bel nulla con il Mattarellum, è un’invenzione pasticciata ad usum delphini») e di Beppe Grillo coi suoi 35 senatori: «È una nuova legge truffa, la porcata di Renzi che inganna i cittadini ma piace ai massoni». Tutto questo dovrebbe destare allarme nel segretario Pd. Se non è così è per due ragioni. Prima, perché sarà tutto da decifrare il posizionamento al Senato di Silvio Berlusconi (con 43 senatori). Secondo: l’imprevedibile riserva di insospettabili che all’occorrenza l’emiciclo di Palazzo Madama porta in dote a chi guida il vapore. C’è il gruppo Misto col suo esercito di 33, per non dire dei 22 di Gal. «A conti fatti - ragionava ieri il capogruppo Ferrara - il ritorno anche parziale ai collegi sarebbe la soluzione migliore per arginare l’antipolitica».


Repubblica 19.5.17
Le tante versioni della laicità
di Nadia Urbinati


LA DECISIONE della Corte di Cassazione sull’obbligo degli stranieri di conformarsi ai nostri valori non è uno specchio di chiarezza. Non soltanto per l’oggetto della sentenza — che pertiene alla restrizione di un diritto fondamentale — ma per il linguaggio usato nella motivazione; un linguaggio che sovrappone piani diversi invece di adottare l’arte della distinzione: “valori” e “diritti”, “valori” e “diritto” sono termini che designano realtà diverse e vi è da chiedersi per quale motivo i giudici abbiano deciso di fare appello, per esempio, a supposti “valori occidentali”, un’espressione a sua volta etnocentrica e ben poco universalista.
Come sappiamo, la decisione è relativa al caso di un cittadino indiano che è stato fermato perché portava con sé il kirpan, il pugnale sacro dei Sikh, con l’imputazione di portare un’arma senza avere il porto d’armi. La persona fermata si è appellata alla libertà religiosa e all’articolo 19 della nostra Costituzione — il
kirpan non è un “oggetto” ma “uno dei simboli della religione monoteista Sikh”. La decisione della Corte sostiene che lo Stato italiano, pur riconoscendo il principio di eguaglianza e della libertá di culto, non riconosce il kirpan come simbolo religioso ma solo e semplicemente come un’arma; pertanto la persona che lo porta con sé deve conformarsi alle norme sulla sicurezza che vigono sul territorio nazionale. La dimensione della lama non lo rende accettabile come un coltellino da boyscout.
Non è la prima volta che la religione Sikh e la legge italiana collidono. Questa religione, fondata nel quindicesimo secolo e soggetta a molte persecuzioni, impone ai fedeli alcuni obblighi nel comportamento e nell’aspetto fisico: per esempio, i maschi non devono tagliarsi i capelli a partire dalla loro maggiore età e devono coprirli con un turbante; devono portare il pettine in segno di pulizia, pantaloni di foggia particolare in segno di castità, e oltre al bracciale d’acciaio anche il pugnale (con una lama fino a ventidue centimentri) alla cintola. Ciascuno di questi “oggetti” è un elemento essenziale per l’identità e la pratica religiosa. In passato anche il turbante aveva creato problemi; nel 1995 il ministero dell’Interno ne ha autorizzato l’uso nelle foto delle carte d’identità. Circa il kirpan, già a partire dal 2005 alcune sentenze lo avevano messo fuori legge provocando ricorsi della comunità Sikh che questa decisione della Suprema Corte dovrebbe risolvere. La questione ripropone il rapporto tra religione e stato; nei paesi occidentali, fondati sui diritti e la separazione tra religione e autorità civile, ha ricevuto due tipi di risposta, che si riferiscono a due tradizioni genericamente associate a quella anglo-americana e a quella continentale (avvicinabile a quella francese). In India e in Gran Bretagna la legge riconosce il diritto dei Sikh a portare il kirpan in quanto parte della loro identità mentre il divieto violerebbe la libertà religiosa; negli Stati Uniti e in Canada i tribunali hanno stabilito che ogni divieto che impedisca ai Sikh di portare il kirpan viola i diritti ed è incostituzionale. Contrariamente a questo si è letto in questi giorni, non è necessario arrendersi al pluralismo giuridico per far posto ai diritti dei Sikh di portare il kirpan. L’Italia, viene detto, si è schierata con l’altra tradizione, secondo la quale lo Stato non può fare eccezioni alla sua normativa (in questo caso sulle armi) per motivi religiosi. Ma è proprio così?.
L’Italia non ha mai seguito in effetti la linea dello Stato laico, non solo perché la sua Costituzione ha l’articolo 7 che riconosce una religione sopra tutte le altre — una scelta di “valore” che la riforma del Concordato del 1984 non ha rimosso, anche se ne attenua le implicazioni giuridiche. Alcune decisioni importanti, come quella del crocifisso esposto sui muri delle aule nelle scuole pubbliche, confermano che l’Italia non è proprio uno Stato laico su modello continentale, perché anche se ha cercato di attenuare il legame esclusivo con la chiesa di Roma lo ha fatto abbracciando un metodo che non è di neutralità rispetto alle religioni proprio perché non neutrale rispetto alla religione della larga maggioranza (che è nei fatti parte della cultura della nazione). La sovrapposizione di cultura giuridica e “valori” a cui questa recente recente sentenza si appella stride quindi con la presunta regola della laicità, alla quale evidentemente ci si appella di preferenza quando si tratta di rapporti con religioni minoritarie. I “valori” ai quali i giudici fanno riferimento hanno un significato in effetti ideologico e passibile di essere considerato poco laico.
In questa sentenza lo stato liberale cerca di essere laico ma lo fa appellandosi a “valori” intrisi di religione (quella maggioritaria). La prova è nella tensione tra l’appello agli articoli 2 e 19 della Costituzione (e poi l’affermazione del limite “costituito dal rispetto dei diritti umani e della civiltà giuridica della società ospitante”) e la giustificazione di questa restrizione con argomenti sia giuridici che etico- culturali. Questi ultimi rendono purtroppo l’argomentazione altrettanto identitaria. È questo che si ricava leggendo, da un lato, che “l’integrazione non impone l’abbandono della cultura di origine” e, dall’altro, che “è quindi essenziale l’obbligo per l’immigrato di conformare i propri valori a quelli del mondo occidentale”.
Quale è il “mondo occidentale” non è detto (né potrebbe esserlo senza cadere in una panoplia di assunti ideologici) mentre vi è di che dubitare che tutti gli occidentali abbiano gli stessi valori dei giudici della Corte di Cassazione o che abbiano una visione etica dello stato come questa sentenza sottintende. Presumibilmente la Corte ha pensato che appellandosi ai “valori” sarebbe riuscita a dare più forza argomentativa alla giustificazione della restrizione dei diritti costituzionali nel caso specifico di un gruppo religioso. Il fatto è che così facendo ha reso la “civiltà giuridica” di riferimento altrettanto “identitaria” della religione di minoranza con il rischio, evidente, di svelare che, in fin dei conti, qui come in altri ambiti relativi ai rapporti pubblici con le minoranze culturali, la questione sembra essere di forza, piuttosto che di diritto: la forza della cultura della maggioranza (e dei suoi valori), appunto.

Repubblica 19.5.17
Di cosa si parla a Praga
La pacifica invasione delle compagnie aeree cinesi
di Andrea Tarquini


Ipacifici cèchi sono abituati alle invasioni. Ma questa volta se ne annuncia una che porterà posti di lavoro. Insomma l’opposto dell’attacco nazista del 1938 e del brutale intervento sovietico trent’anni dopo contro la “Primavera” riformista. Vogliono sbarcare in forza a Praga le grandi compagnie aeree cinesi, tutte in espansione. Comincia China Eastern, una delle maggiori della Repubblica popolare. La compagnia che già ha molti collegamenti con l’Europa vuole trasformare il Vaclav Havel International Airport della bella Praga nel suo hub per l’intera Europa centrale e orientale. Se ne parla molto, ci si chiede come negoziare con i cinesi strappando il massimo di convenienza alla Cèchia e alla sua capitale. Ma ovviamente la prospettiva di assunzioni di piloti, tecnici e personale di terra, appare allettante al grande pubblico. Come la speranza di un ancor maggiore afflusso di turisti dall’Impero di Mezzo.
Il piano di China Eastern, appoggiata dal governo e in concorrenza con Air China e le altre compagnie cinesi — e con quelle a livello globale — è molto ambizioso. Il Vaclav Havel, già oggi uno dei maggiori e più moderni scali dell’est, dovrebbe col tempo divenire il principale snodo per l’intero Vecchio Continente. E la compagnia vuole divenire comproprietaria dell’aeroporto, oggi controllato al 100 per cento dallo Stato. La nuova Via della Seta sarà sempre piú affollata anche nei cieli.

Repubblica 19.5.17
Folla a Torino nella prima giornata. Riccardo Levi verso la presidenza dell’Aie
E i lettori riprendono la loro love story con il Salone
di Simonetta Fiori


TORINO Non si interrompe una storia d’amore così, senza motivo. E non si spezza dopo trent’anni, quando il legame è diventato forte e profondo: tra il Salone e la città di Torino, tra il Salone e la comunità del libro. Nel segno della riscossa e delle lacrime è il primo giorno della prima edizione sopravvissuta allo scisma milanese. Un’affluenza di pubblico mai vista al debutto. Confusione alle stelle. Rumore assordante. E una sorridente tolleranza da parte di tutti nell’accogliere il caos. Perché si festeggia di esserci ancora, esserci tutti insieme. E si festeggia, ma senza dirlo, di aver vinto sugli assenti, sui colossi editoriali che hanno scelto di disertare il trentesimo compleanno del salone nazionale. E che questa
sia la Signora italiana del Libro deve essere chiaro a tutti: sembrano ribadirlo le cariche presenti, il presidente del Senato Grasso e il vicepresidente della Camera Di Maio, i due ministri Fedeli e Franceschini. Il titolare dei Beni culturali confessa pubblicamente che a molti eventi è costretto a presenziare per obbligo istituzionale, ma ad alcuni partecipa anche con affetto, e questo è uno di quei casi. Altro non può dire, ma il pensiero corre alla sua faccia perplessa durante la cerimonia inaugurale della fiera concorrente – quattro settimane fa a Rho – quando una voce fuori campo annunciava gli ospiti alla maniera di uno show. «Ma chi è che parla?», continuava a chiedere stranito al presidente dell’Aie, orgoglioso artefice della kermesse spettacolare. Che la sfida con Rho sia stata vinta si capisce da un aggettivo pronunciato dal ministro Franceschini: «Insostituibile». Il Salone non può essere rimpiazzato da niente altro. Il neodirettore Lagioia, con l’espressione festosa di chi sta per dare vita a una nuova Woodstock, ne aggiunge un altro: «Inimitabile». La più appassionata appare la sindaca Appendino, la quale sa benissimo che, se fosse stato riconfermato Fassino, i giganti dell’editoria non ci avrebbero neppure provato a scippare Torino del suo Salone. Ma preferisce glissare e concentrarsi sulla zampata orgogliosa della città. «Il Salone resterà qui per molti anni», promette con voce ferma. E, come accade ai sopravvissuti di qualsiasi tormenta, si rievocano fino alle lacrime le pagine più difficili dell’epopea. «L’estate scorsa nessuno ci avrebbe più scommesso », dice un quasi piangente Massimo Bray, presidente della Fondazione per il Libro. E ora eccoci qua, più numerosi di prima.
Eccoci di nuovo al Lingotto, rassicurante con le sue mura annerite come quelle vecchie case che appaiono vissute. Non c’è la sontuosità della fiera milanese, la moquette fucsia fa a pugni con i colori squillanti degli stand, ma quando ci si ritrova tutti insieme non si sta a guardare se la tappezzeria è da cambiare. Quel che importa oggi è il ritorno della comunità, simboleggiata dalla splendida colonna di libri che troneggia nel terzo padiglione: i librai indipendenti di Torino insieme ai bibliotecari piemontesi, così come insieme convivono editori e scuole, autori e lettori, l’Italia dei festival e delle piccole fiere. Al centro della festa torinese è proprio una visione del libro che è la grande forza del Salone, soprattutto di questo Salone fortissimamente sostenuto dagli editori medi e piccoli: il libro nella sua funzione civile e culturale, sideralmente lontana dalla dittatura del marketing. E non si notano i grandi vuoti – quelli lasciati dalla galassia Mondadori/Rizzoli e da Gems – colmati dall’elegante architettura di Sellerio con le sue copertine blu, dal piccolo stand del Leone verde, dalle pareti rosse di Feltrinelli e Laterza. E tutt’intorno da quei marchi che esercitano un ruolo di avanguardia culturale alle latitudini più diverse da Iperborea a Sur, da e/o a minimum fax e Marcos y Marcos. Appare un po’ mortificato il punto vendita Einaudi, con le pile di libri per terra: niente a che vedere con il piglio signorile dell’allestimento milanese. Ma il direttore editoriale Ernesto Franco s’è dovuto accontentare: non è stato facile ottenere il consenso allo stand torinese da parte di Mondadori. E il comune di Torino sembra risarcire la sua leggenda editoriale con le vetrine dedicate alle collane storiche di Einaudi. Altro paradosso, uno dei tanti.
Al Salone della riscossa appaiono cambiati gli equilibri di potere. E se fino a un mese fa il pendolo sembrava a favore dei gruppi editoriali più forti che controllano un’importante fetta del mercato (e che si sono fatti la loro fiera a Milano) oggi sembra oscillare dalla parte del Lingotto. Da qui si ricomincia a trattare per il futuro. «Vedremo se ci sono le condizioni per passare dalla non collaborazione alla collaborazione o addirittura all’integrazione», dice Franceschini. In sostanza non è esclusa la possibilità che le due fiere possano dar vita a un’unica manifestazione. Tutto dipende anche da quello che accadrà nelle prossime settimane nelle stanze dell’Aie, dove si dovrà decidere se rinnovare o meno la presidenza di Federico Motta. La sua gestione non è piaciuta a molti – soprattutto ai piccoli e agli scolastici – per il tratto caratteriale non privo di arroganza e per le spaccature prodotte tra gli editori con il divorzio da Torino. Anche per questo Stefano Mauri, timoniere di Gems, ha proposto il nome alternativo di Riccardo Franco Levi, personalità apprezzata per la capacità di tessitura mostrata nell’omonima legge sul libro (la legge che contiene gli sconti sul prezzo di copertina e su cui oggi si è riaccesa la discussione tra chi vuole ridurli al 5% e chi è contrario). Si attende solo il placet di Mondadori, finora legata alla figura di Motta anche per le sue doti servizievoli. Riuscirà il profilo più autonomo di Levi a mettere d’accordo tutti? Dall’aspetto sorridente del nuovo candidato, che ieri si è avvicinato a salutare Franceschini, parrebbe proprio di sì. Dalla sua elezione potrebbe dipendere anche l’accordo futuro tra le due fiere. E intanto il Salone annuncia che la prossima edizione sarà sempre a maggio. «Come la festa della Madonna», dice Lagioia, reduce da una notte insonne. «Si può spostare la festa di Maria? ». No, non si può. L’autore della legge sul libro sostituirebbe Motta alla guida degli editori.

La Stampa 19.5.17
Cercasi presidente Cei, votato dai vescovi ma approvato dal Papa
Martedì 23 maggio le consultazioni all’assemblea generale della Conferenza episcopale italiana per designare tre nomi da sottoporre a Francesco. Tra i candidati Brambilla, Meini, Betori, Santoro e Seccia. E un outsider: il cardinale Bassetti
di Andrea Tornielli


Città del Vaticano La mattina di martedì 23 maggio, nell’aula nuova del Sinodo, per la prima volta i vescovi italiani saranno chiamati a esprimere la loro preferenza per il nuovo presidente della Cei. Non era mai accaduto. A differenza di ciò che accade nel resto del mondo la designazione del presidente dei vescovi del Belpaese, dato lo speciale legame che li unisce al Pontefice primate d’Italia, è sempre stata appannaggio del Vescovo di Roma: dal beato cardinale Alfredo Ildefonso Schuster (1952-1953) fino al cardinale Angelo Bagnasco (2007-2017).
Papa Francesco desiderava restituire pienamente all’episcopato italiano la facoltà di scegliersi colui che assume il compito di rappresentarlo per un quinquennio. Ma quando nel maggio 2014, durante l’assemblea generale della Cei, i vescovi hanno discusso le possibili modifiche allo statuto, hanno preferito una soluzione intermedia. Che dia loro la possibilità di esprimersi indicando tre possibili nomi, lasciando però al Pontefice la scelta finale su uno dei tre. 
Lo statuto è stato modificato, ma non si è proceduto immediatamente ad eleggere una terna. I l cardinale Angelo Bagnasco ha potuto così concludere il suo secondo quinquennio (scaduto lo scorso marzo) e ora arriva il momento di scegliere il successore. I vescovi italiani, oltre che per conferenze regionali, sono divisi in tre grandi aree geografiche: il Nord, il Centro e il Sud. Sono i vescovi meridionali - visto l’alto numero di diocesi a volte piccole storicamente presenti nel territorio - ad avere circa il 50 per cento dei voti in assemblea.
Non c’è stata alcuna campagna elettorale, almeno ufficialmente. Il modo di procedere sarà il seguente: il 23 maggio alla prima votazione i vescovi potrebbero andare a ruota libera, votando chiunque. Da questa prima elezione dovrebbero emergere i primi tre candidati, cioè coloro che hanno ottenuto un maggior numero di voti rispetto agli altri. Su ciascuno di questi tre nomi, con altrettante votazioni separate, si esprimeranno tutti i membri dell’assemblea: i candidati della terna dovranno ottenere ciascuno una maggioranza assoluta del 50 per cento dei voti più uno. Ma non è escluso che prima della elezione iniziale vi possano essere delle dichiarazioni di voto, da parte di vescovi i quali - magari indicando alcuni temi prioritari e alcune necessità giudicate più importanti - dichiarino magari a nome di piccoli o grandi gruppi di confratelli la preferenza per un nome. Se questo accadesse, non è escluso che il nome proposto possa venir subito votato e dunque teoricamente entrare nella terna in caso ottenga la maggioranza assoluta.
Per il Nord Italia il nome più accreditato è quello del vescovo-teologo di Novara, Franco Giulio Brambilla, già ausiliare di Milano con delega alla cultura. Per il Centro il candidato più accreditato appare quello del vescovo di Fiesole, Mario Meini, attuale vicepresidente della Cei in rappresentanza della sua area geografica. Ma c’è anche chi fa il nome del cardinale arcivescovo di Firenze, già segretario della Conferenza episcopale dal 2001 al 2008, prima con il cardinale Camillo Ruini e poi per un anno con Bagnasco. Due sono i possibili candidati: l’arcivescovo di Taranto Filippo Santoro e il vescovo di Teramo Michele Seccia. E non va dimenticato nemmeno il cardinale Francesco Montenegro, arcivescovo di Agrigento. Va ricordato che durante l’assemblea bisognerà anche eleggere un vicepresidente in rappresentanza del Sud Italia e dunque questi nomi potrebbero rientrare in gioco anche per tale incarico.
C’è infine un altro nome, quello di un outsider che potrebbe coagulare consensi: l’arcivescovo di Perugia Gualtiero Bassetti. Nominato cardinale da Francesco nel suo primo concistoro del febbraio 2014, con una decisione che ha segnato la fine della tradizione delle cosiddette «diocesi cardinalizie» (Perugia negli ultimi cento anni non lo era). È stato vicepresidente della Cei è stimato ed è ben conosciuto in tutto lo Stivale per aver fatto il visitatore apostolico dei seminari. Ha 75 anni, cioè l’età in cui i vescovi presentano la rinuncia al Papa. Francesco ha deciso però di prorogarlo fino agli ottant’anni, e dunque non può essere a priori esclusa la sorpresa di un suo inserimento nella terna. Non entra in gioco invece il nome dell’attuale segretario della Conferenza episcopale, Nunzio Galantino. Per statuto si è eleggibili soltanto se si è vescovi diocesani in carica e il numero due della Cei ha lasciato la diocesi per dedicarsi a tempo pieno al suo compito.

La Stampa 19.5.17
Pannella un anno dopo
I figli della diaspora radicale divisi anche nel ricordo
Da una parte gli ortodossi, dall’altra i seguaci di Emma Bonino
di Ilario Lombardo


Generali senza esercito, come voleva lui. I figli della diaspora radicale, un anno dopo, fanno i conti con il vuoto lasciato da quella voce graffiata dalle mille sigarette che ha raccontato un pezzo di Novecento. Un silenzio che prova a colmare una famiglia disfunzionale, rissosa, ma comunque ricca di un brio intellettuale mai scontato che Marco Pannella aveva insufflato nei suoi figli. Ci sono quelli che restano i custodi del totem ingombrante, e ci sono gli altri che invece rompono il tabù e avevano iniziato a uccidere il padre già in vita, a metabolizzare il suo corpo spirituale per camminare sui propri piedi, con la madre/madrina ripudiata. Emma Bonino porterà per sempre il dolore della fine, della separazione umana prima che politica da Pannella, con cui non si è potuta riconciliare prima della morte nella sua cucina di via della Panetteria dove carovane di politici andarono a rubargli l’ultima foto. Eppure Bonino, che a quella rottura ha dedicato solo poche parole, ma che volle parlare ai funerali, oggi sarà alla Camera a ricordarlo assieme a Giorgio Napolitano, in un evento organizzato dai Radicali italiani. Alla stessa ora, il Partito Radicale Transnazionale, quello con la P maiuscola di Pannella, piantonato dai fedelissimi Maurizio Turco e Rita Bernardini lo celebrerà all’Istituto per la storia del Risorgimento.
Nel giorno della memoria è questa la perfetta messinscena di un divorzio feroce. Caino e Abele a spartirsi l’eredità di Adamo-Pannella. Per chi non si è mai esercitato nella genesi della biblica pannelliana: esistono il Partito Radicale Transazionale e i Radicali italiani, assieme ad altre associazioni della galassia, dalla Luca Coscioni a Nessuno tocchi Caino. Nell’ultimo contestato congresso radicale, il primo senza Pannella, lo scorso settembre, nel carcere di Rebibbia, la mozione vincente è stata quella dei sacerdoti dell’ortodossia, Turco e Bernardini, con conseguente allontanamento e sfratto dei contendenti, i Radicali italiani guidati dal segretario Riccardo Magi, Marco Cappato e Bonino, rei di aver sposato la contesa elettorale alle comunali di Roma e Milano. Una violazione, secondo i pannelliani duri e puri, del dogma congressuale del 1989 che decretò il divieto di partecipare alle elezioni come radicali.
Un controsenso che non è tale per chi indossa fiero il vestito dell’eterno esiliato: «Noi siamo i veri eredi di Marco perché ne abbiamo ereditato lo stigma, siamo paria consapevoli come lui, ucciso politicamente da anni» dice Turco, che attraverso la Lista Marco Pannella detiene il patrimonio, costituito da sede e radio. Il brand Pannella è ancora sfruttato su un profilo Facebook che è sopravvissuto al titolare e l’immagine usata per il tesseramento: «Siamo a 1300 iscritti, se non arriviamo a 3000 a dicembre il partito è morto». Magi invece gli iscritti li ha aumentati del 25%. «Parassiti che hanno cambiato l’agenda per venire accettati» li liquida Turco.
Servirebbero seri studi di ermeneutica per comprendere questa faida babilonese che fa leva su una burocrazia delle regole più da sovietici (o grillini, diremmo oggi) che da allegri libertari. Ma sono le priorità che cambiano e così le scelte. Bernardini porta avanti le ultime battaglie di Pannella, l’amnistia e il diritto alla conoscenza. Cappato si è rifugiato nelle campagne della Luca Coscioni, ottenendo forse i maggiori successi in termini di popolarità su fine vita ed eutanasia. Magi e Bonino invece continuano a costruire uno spazio politico e battono forte sui temi dell’immigrazione, (con la raccolta firme contro al Bossi-Fini), l’Europa, la cannabis, e i correttivi per il rafforzamento del referendum. Un tema questo che li accomuna a Mario Staderini, figura che si ritaglia un po’ una storia a sé. Ex segretario dei Radicali, ha fatto ricorso all’Onu per violazione dei diritti politici perché «da anni è in atto un sabotaggio delle forme di democrazia diretta previste in Costituzione, referendum e leggi d’iniziativa popolare». I motivi sono diversi, «su tutti - spiega Magi che lunedì depositerà in Cassazione una legge di iniziativa popolare - l’impossibilità di usare le firme digitali e la mancanza di autenticatori». In attesa che l’Onu sentenzi nel 2018, Staderini ha inviato una lettera a Sergio Mattarella e sarà tutti i sabati davanti al Quirinale a fare Duran Anam, la pratica dello standing man nata a Istanbul, a piazza Taksim, contro Erdogan. Un’azione profondamente pannelliana. E forse è qui il segreto del futuro radicale e dell’eredità del Transpartito di Pannella, che si dissolve in incursioni e performance di grande forza attrattiva. «In fondo - dice Staderini - tutti noi radicali, in quella scuola, abbiamo imparato che un cittadino, anche senza esercito, può essere generale».

La Stampa 19.5.17
“La democrazia non è una questione di leggi elettorali”
La lezione-show di Cacciari
di Letizia Tortello


«Idioti di tutto il mondo unitevi. Chiamate pure “inutili” gli studi del latino e del greco. Non avete capito niente. Il pensiero classico oggi non è solo utile, è necessario per la nostra democrazia». In Sala Gialla è Cacciari show. Non vola una mosca anche perché il filosofo, appena prende parola, rimette subito al suo posto un importuno fotografo che lo sta deconcentrando: «Adesso ho iniziato a parlare io e smette lei, va bene?». La platea si gela. Si incolla ai seggiolini, occupati fino all’ultimo posto utile. Cacciari è al Salone del Libro per presentare «Ianus», il festival della Cultura classica che partirà a Torino dall’autunno, col sostegno di Treccani, e sarà un’immersione nella lingua e nel pensiero classico greco e latino per scoprirne la sorprendente attualità.
Cacciari si cala nella parte. Vola subito altissimo, salta qua e là, dal 430 a.C. all’Italia di oggi, che non ha mica ancora deciso se essere erede del demos dei greci, che riuniva cittadini della stessa terra con lo stesso sangue, o del populus dei latini, che fondava lo Stato sull’utilità, cioè sul patto di rispettare le stesse leggi. Le 600 persone restano appese alle parole del filosofo veneziano come davanti a un giallo di Netflix. Cacciari teatralizza, cita Tucidide e si immedesima in Pericle per spiegare alla folla perché della democrazia noi, in fondo, non abbiamo capito niente. «In che senso la democrazia ha ancora un senso? - instilla il dubbio -. Certo non perché siamo qui a disquisire della legge elettorale».
Vola al V secolo a.C. e, anche se le premesse sono chiare («I classici vanno rivitalizzati, sennò è come andare a trovare i parenti morti»), tradisce un velo di nostalgia per i «veri capi democratici» di allora. Arringa: «Gli ateniesi erano giustamente egemoni in Grecia perché erano tutti filosofi e amanti del bello». Qualcuno in sala si chiede se sia impazzito. Lui surfa sull’etimologia delle parole e svela la sua ricetta: «Gli ateniesi erano tutti philosofountes, dal calzolaio al politico, animati dalla curiosità di informarsi criticamente in prima persona. E amanti del bello, che non significa andare ai musei, ma produrre qualcosa di utile e bello per la propria comunità». In assenza di questo si resta «una moltitudine, come noi siamo, e non un popolo. La democrazia è poca cosa, anzi forse non ce ne facciamo nulla».

Corriere 19.5.17
«Renzi? No al segretario-premier E non vedo la volontà di unire»
Le critiche di Prodi: sui rapporti tra lui e il padre bisogna chiedere a Freud
di D. Gor.


ROMA Conferma di non volere tornare in politica, però sottolinea di avere «ancora l’obbligo di pensare, dire, parlare…». E Romano Prodi, infatti, ieri sera a Otto e mezzo ha detto e parlato. Soprattutto del Pd, di Matteo Renzi e delle speranze di rivedere in campo un centrosinistra: perché, sostiene il padre di quello che fu l’Ulivo, si può vincere soltanto «se si rimettono insieme» tutte le anime che hanno composto la coalizione.
Ora, sostiene l’ex presidente del Consiglio, «il compito di federare il centrosinistra spetterebbe al segretario del Pd, a Renzi, ma non so se questa sia la sua volontà. Un processo di riconciliazione esige un’apertura per rendere possibile di nuovo la convergenza». E aggiunge: «Penso che abbia vissuto una fase di depressione, di scoramento, dopo il referendum. Però, con la vittoria alle primarie, ha ripreso coraggio... Vediamo se sarà inclusivo o escludente. Credo che sia naturale che lui sia il leader del centrosinistra: purché sia inclusivo». Naturalmente, prosegue, «se il Pd avesse il 55% di voti, il problema neanche si porrebbe. Ma non è così».
Ancora su Renzi, Prodi critica poi la logica del doppio incarico: «In un sistema democratico, che il capo del governo sia anche il capo del partito non è sempre positivo». Quindi, «Renzi può andare a Palazzo Chigi, ma serve qualcuno che si occupi del partito».
Se il caso Consip e le relative intercettazioni tra Renzi e il padre Tiziano vengono liquidate con una battuta («Non so dire che rapporto ci sia fra loro, non faccio lo psicologo»), dell’eventuale intervento di Maria Elena Boschi a favore di Banca Etruria, Prodi dice: «Se fosse confermato che ha interpellato Unicredit, non avrebbe fatto bene perché c’era suo padre (in Banca Etruria, ndr )».
Bocciando un’idea di grande coalizione («un governo Pd-Forza Italia non avrebbe i numeri»), Prodi si aspetta invece che Giuliano Pisapia «prenda una decisione: si è proposto come aggregatore, ma non ancora come protagonista ufficiale della politica nazionale». Mentre non concede possibilità al Movimento 5 Stelle: «Non sono pronti a governare… Se arrivassero primi alle elezioni, potrebbero rappresentare un pericolo».
Parole alle quali replicano sia Pier Luigi Bersani (Mdp), che il M5S. «Anche io penso che il M5S non sia ancora pronto per governare. Ma invito a non evocare una Union sacrée contro il movimento di Grillo, perché questo gli spianerebbe la strada di un possibile successo elettorale». Inoltre, conclude Bersani, «bisogna evitare di fare solo una grande alleanza contro il M5S per poi ritrovarsi al governo a braccetto con Berlusconi». Dal fronte grillino, invece, gli replica il deputato Danilo Toninelli: «Ha ragione Prodi a spaventarsi. Quando la democrazia va al potere, il magna magna di politici e banchieri come certi suoi amici finisce».