La Stampa 13.5.17
Offensiva M5S contro Boschi
Pd in ansia per i sondaggi
Fico
scrive a Boldrini: Gentiloni chiarisca in aula. Sarà presentata anche
in Senato la mozione di censura contro la sottosegretaria, ma i
bersaniani incerti se votarla
di Carlo Bertini Ilario Lombardo
Le
banche. Ancora, loro. Per il M5S l’arma più potente contro Matteo
Renzi, il cosiddetto “giglio magico”, e da ultimo il governo. In vista
ci sono le elezioni amministrative tra meno di un mese, con i grillini
in forte difficoltà, soprattutto nelle due principali città al voto,
Genova e Palermo. Serviva qualcosa per rilanciare l’assalto al fortino
renziano. Le rivelazioni dell’ex direttore del Corriere Ferruccio De
Bortoli sono state tempestive. Come annunciato, il capogruppo grillino
Roberto Fico ha inviato una lettera alla presidente della Camera Laura
Boldrini per chiedere la calendarizzazione urgente del voto sulla
commissione d’inchiesta sul sistema bancario e che il premier Paolo
Gentiloni venga a riferire in aula sul caso Boschi. «Ed è anche pronta
la mozione di censura per far sì che Boschi vada a casa, come del resto
aveva promesso agli italiani prima del referendum». Non solo. L’ala più
movimentista del M5S guidata da Fico non sta digerendo l’eccessiva
disponibilità a trattare col Pd sulla legge elettorale del fronte
governativo di Luigi Di Maio: e così ha proposto e ottenuto obtorto
collo di lanciare una mozione di sfiducia al ministro Pier Carlo Padoan
per la nomina di Alessandro Profumo, ex presidente Mps, al vertice di
Leonardo-Finmeccanica.
Ma sarà comunque una capigruppo a decidere
quando la mozione verrà calendarizzata, perché intanto va deciso quando
verrà chiamato il governo in aula per l’informativa. Solo dopo verrà
depositata la mozione, prima alla Camera e poi al Senato fanno sapere i
grillini. Per il governo è chiaro che non c’è fretta, ieri in consiglio
dei ministri non si è fatto cenno alla questione, neanche una parola.
Boschi è apparsa tranquilla, ha spiegato i decreti legislativi sul
lavoro senza mostrarsi in ansia.
È il Pd invece che aspetta con ansia
i sondaggi che escono il lunedì: per vedere se il caso ha avuto qualche
riflesso. Le ultime rilevazioni dopo le primarie avevano infatti
registrato un rialzo dei consensi, con un sorpasso sui grillini di tre
punti secondo Swg. L’ultimo sondaggio Ixè mostra un recupero del Pd, ma
lo dà sempre sotto i 5stelle, con Renzi che però guadagna tre punti
nell’indice di fiducia dei leader rispetto al mese precedente, salendo
al 28%, seguito da Luigi Di Maio con il 22%.
Dunque per tenere alta
la china i Dem sperano che il caso si sgonfi e si cullano
nell’illusione-speranza che i 5Stelle non si accaniscano in Senato
chiedendo un voto sull’esecutivo che potrebbe risultare insidioso. Gli
uomini di Bersani sono piuttosto agguerriti nelle dichiarazioni sulla
vicenda, ma per ora non si scagliano con particolare vigore contro il
governo. «Noi abbiamo una posizione dura, ma formalmente non abbiamo
attivato nessuna procedura parlamentare», conferma il senatore Fornaro.
«Siamo ancora in attesa di chiarimenti, ad oggi Ghizzoni non smentisce
nulla, la Boschi non può limitarsi a dire querelo: il Parlamento è il
luogo dove un esponente del governo chiarisce, poi se uno esce convinto
da cosa dice, è da vedere». Quindi i bersaniani, dopo che il loro leader
aveva evocato le dimissioni di Boschi in assenza di un chiarimento, non
si sbilanciano ancora sul voto della mozione grillina.
La Stampa 13.5.17
Serracchiani, frase choc sullo stupro
“Più grave se lo commette un profugo”
Fuoco
incrociato sulla governatrice Pd. Lei replica: “Chi è accolto non
tradisca la fiducia” Imbarazzo tra i democratici. Mattarella: sui
migranti serve responsabilità e intelligenza
di Ugo Magri
Lo
stupro è davvero più grave se a commetterlo è un profugo, accolto come
un fratello? Debora Serracchiani, presidente «dem» del Friuli Venezia
Giulia, è convinta di sì, tradire la fiducia costituisce senz’altro
un’aggravante. E nonostante il putiferio che si è scatenato sui social,
anzi a dispetto del diluvio di insulti ricevuti da tutti gli
schieramenti politici, soprattutto da sinistra ma addirittura da
Salvini, ha tenuto il punto fino in fondo. Alimentando così il dubbio
che non si sia trattato di un lapsus, e l’esponente renziana (è stata
vicesegretaria Pd) abbia studiatamente deciso di mettere le vele al
vento di certi umori così diffusi nei confronti degli immigrati. Nel
qual caso gli sdegni sopra le righe, anziché danneggiarla sul piano
elettorale, finirebbero per darle scioccamente una spinta in vista delle
Regionali che si terranno nel 2018. Ma sono solo dietrologie: lei giura
di essere stata fraintesa. Ha trascorso l’intera giornata a chiarire
che lo stupro è grave sempre, perfino se l’autore fosse un nostro
compatriota.
Graduatoria fuori luogo
Tuttavia l’attenzione
collettiva si è appuntata sul testo della dichiarazione resa l’altro
ieri, dopo il tentativo di stupro commesso a Trieste da un richiedente
asilo iracheno. Ed è stato lì che la Serracchiani s’è impiccata con le
sue stesse parole. Argomentando che la violenza contro le donne è «un
atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor
più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza
nel nostro paese». Tra i più lesti a insorgere il giornalista e
scrittore Roberto Saviano. Sarcastico: «Salvini saluta l’ingresso di
Serracchiani nella Lega. Spero che la candidi lui». Solo che Matteo non
la vuole nemmeno in fotografia perché «lei e il Pd sono complici di
questa invasione»: chiaro l’obiettivo di difendere il suo recinto e di
screditarla agli occhi dei lepenisti (della serie, non vi fate
abbindolare da questa finta conversione). Per Roberto Fico, grillino,
Debora si è espressa in maniera «razzista». Più indulgente (ma di poco)
il sindaco milanese Giuseppe Sala: «Quella frase le è scappata».
Orripilati i 9 consiglieri Pd a Palazzo Marino: «parole inaccettabili».
Letteralmente infuriati quelli di Mpd, in gara tra loro nella condanna, e
di Sinistra Italiana («Si vergogni»). E perfino dalle donne di Forza
Italia si sono levate espressioni colme di biasimo.
L’auspicio di Mattarella
Praticamente
nessuno (nemmeno la Serracchiani) ha sfiorato il tasto che maggiormente
interessa a chi sta dalla parte dei profughi: la legalità come premessa
dell’accoglienza. Pretendere una buona condotta da quanti ricevono
aiuto non è di destra né di sinistra, ma semplicemente una regola di
civiltà. L’unica voce a ricordare il concetto è rimbalzata dal Sud
America. Interpellato dai cronisti a Montevideo, Sergio Mattarella ha
segnalato che «il fenomeno dei migranti va governato con senso di
responsabilità, con saggezza ma anche con intelligenza». Anche, e forse
soprattutto.
La Stampa 13.5.17
Danese, biondo e con gli occhi azzurri
Così abbiamo comprato un papà su misura
Le
banche del seme spediscono a domicilio il kit per l’inseminazione fai
da te I prezzi: da 300 euro a 12 mila, dipende dal donatore. Ordini in
crescita dall’Italia
di Gabriele Martini
Il sogno di diventare
madre è racchiuso in una scatola di cartone che arriva dalla Danimarca.
Dentro ci sono un contenitore di polistirolo pieno di ghiaccio secco,
una fiala di sperma, una siringa e il libretto con le istruzioni per
l’inseminazione artificiale fai da te.
Si ordina online e si
riceve a casa, poi s’incrociano le dita. Nessuna visita, nessuna
clinica, nessuna degenza. E - va da sé - nessun risultato garantito.
Ma
tante speranze, almeno a giudicare dalle 500 italiane che nel 2016 si
sono rivolte a Cryos International, una delle più grandi banche del seme
al mondo nonché la prima a fornire il servizio che non richiede
assistenza medica.
In Italia, a oltre tre anni dalla sentenza della
Consulta che cancellò il divieto di fecondazione eterologa, solo tre
Regioni (Toscana, Emilia e Friuli) forniscono la procreazione assistita
con seme e ovociti estranei alla coppia. Due mesi fa l’eterologa è stata
inserita nei nuovi «Livelli essenziali di assistenza», cioè il minimo
comun denominatore delle prestazioni sanitarie. Significa che le Regioni
dovranno attrezzarsi. Ma i problemi restano: carenza di fondi,
lungaggini burocratiche e resistenze politiche. L’eterologa, inoltre, è
consentita solo a coppie eterosessuali sposate o conviventi. Su Internet
invece non ci sono vincoli: bastano un computer, qualche centinaia di
euro e un po’ di pazienza. Il primo passo per le aspiranti madri è
scegliere il donatore.
La voce del donatore
Navigando sul sito di
Cryos, l’impressione è quella di essere su Amazon: con un clic si
seleziona la razza, con un altro il colore degli occhi, la tinta dei
capelli, il gruppo sanguigno. E poi altezza, peso e professione. Fin qui
le informazioni di base. Pagando un costo extra si aprono però le porte
dei cosiddetti profili «estesi». Alle caratteristiche estetiche si
aggiungono informazioni sul carattere, la vita e la famiglia. Per ogni
donatore il sito consente di passare al setaccio il percorso di studi,
le foto di quando era bambino, hobby, aspirazioni e tratti della
personalità. Poi ci sono il testo motivazionale scritto a mano che
consente di valutare linguaggio e grafia, l’albero genealogico per
indagare storie e longevità degli antenati e anche una registrazione
audio per poterne apprezzare il timbro di voce. I donatori attualmente a
catalogo sono 779. La quasi totalità (722) sono di razza «caucasica» e
questo conferma anche il target dei compratori, tendenzialmente europei.
«I nostri clienti cercano persone affini a loro sia fisicamente che a
livello professionale», racconta il direttore della Cryos International,
Ole Schou. «In un certo senso siamo simili a un club per appuntamenti.
Le persone si incontrano, si conoscono e si scelgono. Proprio come
avviene nella vita reale».
Consegna a domicilio
Scegliamo il seme
del donatore numero 5388. Razza «caucasica», occhi blu, capelli biondi,
192 centimetri di altezza e 92 chilogrammi di peso. Il gruppo sanguigno è
0+, tutte le analisi mediche (dal test dell’Hiv a quello per la
sifilide) negative. Non ci sono invece informazioni su carattere, hobby e
propensioni. E nemmeno foto, voce né albero genealogico. Conosciamo
però l’occupazione del donatore: ingegnere elettrico. Il prezzo del suo
seme parte da 37 euro a fiala. A questi si aggiungono 174 euro per la
spedizione e l’Iva al 25%, per un totale di 263,75 euro. Appena inviata
la richiesta però la responsabile degli ordini per l’Italia, Katrine
Falgaard, ci contatta per metterci in guardia e spiegarci che le
quantità ordinate (0,4 ml) non sono sufficienti per il fai da te (il
listino online è lo stesso utilizzato dalle cliniche per i trattamenti
tradizionali). Ci invita quindi ad acquistare almeno 1 ml di seme e
soprattutto ci consiglia di scegliere una motilità (l’indice che misura
l’attività degli spermatozoi) più alta per aumentare la possibilità di
successo, anche perché l’inseminazione in versione casalinga ha
percentuali di riuscita inferiori rispetto alle tecniche utilizzate nei
centri di procreazione medicalmente assistita. Da 263,50 euro il prezzo
balza così a 477. Ma una fiala può arrivare anche a superare i 1600 euro
(Iva esclusa) a seconda del profilo del donatore. Fino ai 12 mila
richiesti per un «padre» in esclusiva. Scegliamo l’opzione low cost:
l’ordine va a buon fine, non resta che attendere il pacco.
Dopo due
giorni la confezione arriva via posta e contiene tutto il necessario per
procedere all’istante. Le istruzioni, scritte in italiano, sono poche e
semplici. Dieci minuti per lo scongelamento del seme, un taglio netto
per aprire la fiala, un adattatore per riempire la siringa. A quel
punto, recita il libretto, basta «inserirla in profondità dentro la
vagina, il più possibile vicino all’ingresso della cervice, poi
rilassarsi e iniettare il seme delicatamente e lentamente». Infine si
consiglia di «lasciare la siringa per alcuni secondi, quindi rimuoverla
lentamente e mantenere la posizione per i successivi 30 minuti».
Boom di richieste
Ma
l’inseminazione fai da te è sicura? «Non è pericolosa. Però è una
pratica desueta, che non viene più usata nel mondo scientifico. Le
probabilità di successo sono più basse di quelle delle tecniche più
moderne», spiega Elisabetta Coccia, direttrice del centro di
procreazione assistita dell’ospedale Careggi di Firenze. Le spedizioni
dalla banca del seme verso l’Italia sono in costante aumento anche se il
mercato non è paragonabile a quello internazionale, che conta tra i 50 e
i 100 ordini giornalieri. E per diventare donatori? Bisogna sottoporsi a
esami medici, ma soprattutto garantire la disponibilità a recarsi
almeno una volta alla settimana presso i laboratori dell’azienda ad
Aarhus (città danese della penisola dello Jutland) per effettuare le
donazioni. Non sono previsti pagamenti, ma solo un rimborso spese di 33
euro a seduta. «La loro è una vocazione». Nessuno, ci tengono a
precisare da Cryos, «lo fa per soldi».
Corriere 13.5.17
Una (nuova) via della Seta per la Cina potenza globale
di Guido Santevecchi
Nella
nostra memoria è un mito: la Via della Seta che ci riporta a Marco
Polo. Ora, l’antica rotta delle carovane che dalla Cina arrivavano in
Europa attraversando l’Asia e il Vicino Oriente è al centro del piano di
diplomazia economica più ambizioso di Pechino. Si chiama «Una cintura
una strada» ed è l’iniziativa di Xi Jinping per costruire una rete
globale di infrastrutture lungo le quali far scorrere i commerci (cinesi
anzitutto).
I progetti prevedono investimenti internazionali per 900
miliardi di dollari nei prossimi 5-10 anni; 502 miliardi in 62 Paesi
entro il 2021, secondo i calcoli degli analisti di Credit Suisse. Questa
montagna di denaro servirebbe a costruire porti, autostrade, linee
ferroviarie ad alta velocità, reti elettriche soprattutto in Paesi in
via di sviluppo. Un sogno fatto di ombre cinesi o una realtà già in
marcia?
Domani e lunedì a Pechino Xi Jinping riunisce 28 capi di
Stato e di governo, un centinaio di ministri, leader di 70
organizzazioni internazionali per il «Forum Belt and Road for
International Cooperation». Arrivano tra gli altri il russo Vladimir
Putin, il premier pachistano Nawaz Sharif, il filippino Rodrigo Duterte,
la signora Aung San Suu Kyi del Myanmar. Manda una delegazione anche
Donald Trump, che sta cercando di stringere nuove intese economiche con
Xi. Può sorprendere la presenza di una delegazione da Pyongyang: la Nord
Corea è il Paese più isolato del mondo e non c’è da credere che a breve
sia possibile associarla a una Via della Seta, ma evidentemente gli
emissari di Kim Jong-un sono a Pechino per discutere di come evitare uno
scontro militare con gli Usa.
Xi Jinping ha parlato di nuova Via
della Seta per la prima volta nel 2013. Sembrava solo una suggestione.
Invece rapidamente i cinesi hanno spiegato di voler connettere Cina ed
Europa con corridoi terrestri e marittimi attraversando l’Asia e
toccando l’Africa: al momento ci sono sei percorsi tracciati sulle
mappe. Quello marittimo potrebbe sboccare in Italia, come nei tempi
epici dell’Antica Roma e della Dinastia Han (206 avanti Cristo-220 dopo
Cristo). I romani peraltro pare non sapessero nemmeno se la seta fosse
di origine animale o vegetale e l’attribuivano al Popolo dei Seri. La
definizione Via della Seta fu coniata dal geografo tedesco Ferdinand von
Richthofen nel 1877: Seidenstraße la chiamò il barone.
La collaborazione di Roma
L’Italia
è rappresentata dal presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, unico
leader di un Paese europeo del G7 presente a Pechino. Stiamo rincorrendo
una partecipazione possibilmente di peso. Durante la visita a febbraio,
il presidente Mattarella ha offerto i nostri porti di Genova sul
Tirreno e Venezia-Trieste sull’Adriatico come terminali della via
marittima: bisogna decidere in fretta, perché i cinesi si sono già
insediati al Pireo. Vorremmo lavorare assieme ai cinesi anche per
costruire infrastrutture in Asia centrale e Africa. Ieri sul China Daily
, giornale governativo in lingua inglese, un’intera pagina presentava
la partecipazione italiana: i cronisti cinesi hanno rintracciato a
Montecarlo anche «l’ultimo discendente di Marco Polo».
Sarà firmato
un memorandum per la costituzione di un fondo di investimento
italo-cinese da 100 milioni di euro tra Cassa depositi e prestiti e
China Development Bank per sostenere imprese nostre e loro impegnate
lungo la Via della Seta.
Marco Tronchetti Provera, presidente del
Business Forum governativo italo-cinese, porta a Pechino 70 piccole e
medie imprese italiane che avranno l’opportunità di incontrare 170
aziende cinesi con le quali si punta a costituire intese. Tronchetti
Provera ha già pilotato con successo Pirelli nella fusione con il
gigante ChemChina. Insomma, grandi (e piccoli o medi) progetti
globalizzati che possono rappresentare un’opportunità anche per il
Sistema Italia.
Qualche perplessità
Non mancano dubbi e rischi.
Questo grande esborso di capitali è possibile per la Cina che rallenta?
In mandarino «Una cintura una strada» si dice «Yi Dai Yi Lu» e la frase
qui è diventata ormai sinonimo di Apriti Sesamo per ottenere appoggio
politico e fondi statali: già l’anno scorso gli investimenti di Pechino
lungo la rotta asiatica hanno superato i 16 miliardi, che comprendono i
fondi per l’acquisto del porto pachistano di Gwadar. Però, i corridoi
commerciali e di infrastrutture debbono attraversare regioni instabili,
come l’Asia centrale, il Pakistan, il Myanmar, il Golfo di Aden,
l’Africa orientale e settentrionale. Solo per fare un esempio, il
corridoio pachistano si scontrerebbe con la presenza di guerriglia
talebana.
Niall Ferguson, storico e autore tra l’altro di Impero e
Soldi e potere nel mondo moderno dice al Corriere : «Via della Seta è un
nome romantico, ma dubito che i percorsi terrestri siano praticabili,
troppa instabilità. La via marittima invece è possibile, però resta da
vedere se la Cina non la userà come copertura per dotarsi di una Marina
militare capace di sfidare la supremazia americana». Una sola certezza:
Xi Jinping ha lanciato un nuovo grande gioco geopolitico per creare un
mondo globalizzato nel quale tutte le strade portano a Pechino.
Repubblica 13.5.17
Il
presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti
in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture
che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
La nuova Via della seta da 650 miliardi Pechino lancia il suo ordine mondiale
di Angelo Aquaro
PECHINO.
Anche Marco Polo, nel suo piccolo, se lo domandò: “Come il Grande Kane
conquistò il reame”? Il Gran Khan di oggi si chiama Xi Jinping, adesso
come ieri il leader mondiale “più possente d’averi e di gente”. Ma
stavolta altro che milione: 140 miliardi di budget iniziali, 650
miliardi che in 5 anni finiranno investiti in almeno 62 paesi. Ecco a
voi i segreti della Belt and Road Iniziative, il super summit che da
domani vedrà sfilare qui a Pechino una trentina tra capi di Stato e di
governo, compreso Paolo Gentiloni: in rappresentanza dei 64 paesi che
seguiranno la Cina sulla nuova via della Seta, ma anche degli altri 48 —
come l’Italia — che pure non iscritti a questo “blocco” partecipano al
progetto che coinvolge almeno 112 nazioni. Ma di che si tratta davvero? E
che ci fa, per esempio, la Corea del Nord sull’antica strada tracciata
dal nostro Polo?
La bulimia propagandistica cinese continua a
sfornare nomi su nomi. Nuova Via della Seta. Obor, cioè One Belt One
Road: una cintura una strada. Bri, cioè Belt and Road Initiative. Ma
l’idea è semplicissima: la costruzione di un sistema di infrastrutture
che leghi la Cina al resto del mondo. La prima volta che se ne parla è
il 7 settembre del 2013, il luogo è Astana, Kazakistan, ed è qui che Xi
Jinping, eletto da appena sei mesi, pone la prima pietra. «Shaanxi, la
mia provincia, si trova proprio all’inizio della Via della Seta», dice,
rievocando il viaggio di 2100 anni prima di un dignitario cinese lì
nell’Asia centrale. «E oggi, riandando al passato, posso quasi sentire i
campanacci del cammello echeggiare qui tra i monti».
Ne ha fatta di
strada quel cammello: anche grazie ai 40 miliardi di dollari che Pechino
ha investito. Occhio: il 2013 è anche l’anno del lancio di Aiib,
l’Asian Infrastructure Investment Bank, che con 100 miliardi di dollari
di capitalizzazione è l’altra cassaforte dei carovanieri di oggi. E che
si fa con tutti questi soldi? I cinque più grandi progetti tra i tanti
che i cinesi hanno già messo a punto sono tutti da favola. Il treno che
parte da Xian e arriva via Rotterdam a Londra. Il corridoio pachistano
con il porto di Gwadar. La ferrovia che collega la Cina con l’-I-ran.
L’oleodotto dell’Asia Centrale. Il centro di smistamento di Khorgos
ribattezzato la Nuova Dubai: proprio lì nel Kazakistan dove la via della
seta rinacque.
E l’Italia? Per la sua storia sarebbe la candidata
naturale a raccogliere le ricchezze dell’Asia e rilanciarle in Europa. I
cinesi, però, si sono comprati il porto del Pireo, anche se in tutte le
loro mappe Venezia compare sempre: sperando che prima o poi diventi
qualcosa di più dello specchietto da depliant. Certo non ci sono solo i
porti: con 43 miliardi di esportazioni l’Italia è il quinto partner in
Europa della Cina, che da noi ha investito 12 miliardi di dollari:
Pirelli, Inter e Milan comprese. E poi mettersi in viaggio sulla nuova
via della seta conviene: proprio nei giorni del meeting la Cassa
Depositi e Prestiti lancia con China Development Bank il primo fondo
comune, da 100 milioni di dollari, destinato alle piccole e medie
imprese.
Certo: Xi Jinping l’ha detto a Davos che mentre Donald Trump
pensa all’America First, prima all’America, la Cina è pronta a
prenderne il posto alla guida della globalizzazione. Gli Usa proprio
ieri, annunciando che manderanno perfino loro una delegazione al
supermeeting, hanno siglato una piccola pace commerciale, primo frutto
del “piano dei cento giorni” attrezzato da The Donald e il nuovo Mao a
Mar-a-Lago: dalle carni alle credit card passando per la biotecnologia
via libera all’export americano in cambio di una maggiore attenzione
verso «gli investimenti diretti di compagnie cinesi». Per il presidente
Usa è un voltafaccia dopo il viso duro mostrato in campagna elettorale:
ma si sa che in questo momento si concede (quasi) tutto a Pechino che
sta cercando di contenere l’atomica di Kim Jong-un. Per il Dragone è un
ulteriore riconoscimento del nuovo ordine cinese. Ma non sarà allora che
anche questa via della seta, questo gigantesco piano Marshall made in
China, è solo il proseguimento della guerra (per l’egemonia) con altri
mezzi? «C’è un detto cinese che dice: discutiamo dei problemi invece che
della teoria. Ed è chiaro che la cooperazione economica incrocia la
geopolitica », dice a Repubblica Zheng Liansheng, economista
dell’Accademia di scienze sociali e esponente del think thank Pangoal.
«Ma i nostri cari partner occidentali hanno forse un meccanismo migliore
per promuovere la cooperazione internazionale? ». E no: di Marco Polo,
nel suo piccolo, non ne abbiamo più.
E intanto arriva un accordo commerciale con gli Usa: banche, carne e biotecnologia Il piano.
Il
presidente Xi Jinping presenta domani il maxi progetto di investimenti
in un “blocco” di 64 Paesi Porti, strade, un oleodotto: infrastrutture
che attraverseranno tutta l’Asia. Con un impatto anche sull’Italia
Repubblica 13.5.17
Parla
la psichiatra californiana Elissa Epel: ottimismo e meditazione sono la
cura per restare giovani e vivere bene la terza età
“Lo stress peggiora il Dna così i cattivi pensieri fanno invecchiare prima”
di Giuliano Aluffi
Attenti
ai cattivi pensieri: ci fanno invecchiare più in fretta. Però,
liberandoci da pessimismo e negatività possiamo cercare di prolungare il
periodo d’oro della terza età, quello senza particolari malattie. In un
articolo dal titolo esplicito ( I pensieri accelrano l’invecchiamento?)
pubblicato sul blog della prestigiosa TED Conference lo sostiene Elissa
Epel, psichiatra e direttrice dell’Aging, Metabolism and Emotions
Center alla University of California, già autrice, insieme a Elizabeth
Blackburn, premio Nobel per la medicina, del saggio La scienza che
allunga la vita (Mondadori). Professoressa Epel, quali sono i
pensieriche ci fanno invecchiare anzitempo? «Quelli costantemente
negativi. Chi è depresso tende a subire i danni della vecchiaia prima
degli altri, perché le sue cellule invecchiano più precocemente. La
“colpa” è dei telomeri: estremità protettive dei cromosomi, che si
riducono a ogni divisione cellulare e, quando sono esauriti, impediscono
alle cellule di dividersi ulteriormente, facendole invecchiare insieme
agli organi. Abbiamo trovato che i depressi tendono ad avere i telomeri
dei leucociti più corti rispetto agli altri: ciò indebolisce il loro
sistema immunitario e predispone a una vecchiaia piena di acciacchi ».
Come si spiega? «Un’attività associata al pensiero depressivo, la
“ruminazione” – ossia l’essere intrappolati in pensieri negativi
ripetuti che riguardano episodi del passato – fa sì che il corpo non
riesca a liberarsi dallo stress anche quando non c’è più motivo. Così
l’ormone dello stress – il cortisolo – va in sovrapproduzione e riduce
la telomerasi, enzima in grado di riparare e riallungare i telomeri. In
uno studio riguardante donne che hanno cura di familiari malati cronici,
io ed Elizabeth Blackburn abbiamo visto che stress e ruminazione sono
associati a telomeri più corti e meno telomerasi nei linfociti T. Se
dura più di sei mesi, la depressione è associata a un accorciamento dei
telomeri irrimediabile». Lei però parla di “associazione”: significa che
non c’è ancora certezza che il pessimismo o la depressione siano la
causa dell’accorciamento dei telomeri? «Nel caso di malattie molto
complesse, come la depressione, è difficile distinguere tra causa ed
effetto. Ma dagli studi sullo stress – sia sugli umani che sugli animali
– emergono elementi a sostegno di una causalità tra stress e telomeri
più corti». A quali altri tipi di pensieri dobbiamo stare attenti?
«L’ostilità cinica: è un’attitudine soprattutto maschile che predispone a
ritenere gli altri animati da intenzioni malevole. Uno studio del 2012
mostra che questo tratto è associato a un rischio maggiore di malattie
della vecchiaia e mortalità, e a telomeri dei leucociti più corti. Anche
le fantasticherie legate a un giudizio negativo della realtà, come il
desiderare di essere da un’altra parte o di essere un’altra persona,
sono associate a telomeri più corti». Si può usare il pensiero per
proteggere i telomeri? «La meditazione può aiutare, perché riduce lo
stress cronico, che è l’unico davvero dannoso per la salute. Una tecnica
efficace è chiudere gli occhi, rilassarsi e focalizzare la nostra
attenzione sui pensieri mentre si susseguono, come guarderemmo passare
le auto da una finestra. Così impariamo a riconoscere i pensieri
negativi e a non farci dominare da loro. Nel 2013 abbiamo condotto uno
studio su persone sottoposte a notevole stress cronico: i volontari che
prestano assistenza ai malati di demenza senile. Abbiamo diviso il
campione in due gruppi che svolgevano due diverse attività per un quarto
d’ora al giorno per due mesi: meditare oppure ascoltare musica. Il
gruppo che ha meditato aveva una telomerasi più attiva degli altri.
Altri studi mostrano che tecniche yoga come il Kirtan Kriya possono
aumentare di oltre il 40% la produzione di telomerasi»
Repubblica 13.5.17
L’ora di Kerenskij
Era figlio delle bizzarrie della storia, nato nella stessa città di Lenin, eterno nemico
di Ezio Mauro
San
Pietroburgo Per un momento, quel mattino, tutto sembrò uguale a prima,
come un trucco della storia, a partire dal sole di primavera che in
nessun posto è ingannevole come in Russia, dopo il gelo dell’inverno.
Era un martedì quando la sagoma nera e blu di una delle 56 automobili
del parco imperiale (una Delaunay- Belleville modello 45) si presentò
davanti al cancello principale della reggia di Zarskoe Selo, coi
pneumatici di riserva appesi alla fiancata, come sempre. Ma
quell’ingresso era chiuso da due settimane, le vetture di servizio
passavano ormai dal portone più piccolo, sul viale laterale, tra il
Palazzo e la chiesa, l’auto era stata requisita dal governo provvisorio
per i suoi ministri e quel cancello segnava in realtà il confine tra il
prima e il dopo, tra la rivoluzione e l’Impero. Tutti capirono che
questa era una visita speciale, anche se organizzata all’improvviso,
fuori da ogni protocollo e senza avvertire nessuno, nemmeno il
Maresciallo di Corte che era rimasto al suo posto col monocolo innestato
dopo l’abdicazione, come se le forme regali potessero sopravvivere
senza il trono, la corona e l’Impero: senza lo Zar.
E invece il mondo
immutabile per trecento anni della dinastia Romanov improvvisamente si
era rovesciato, proprio qui fuori, dove adesso il vuoto cancella ogni
segno del tempo e il silenzio copre la distanza del secolo. Dietro
quelle finestre oggi socchiuse e buie, la Zarina cent’anni fa non
riusciva ad accettare l’accaduto («il a abdiqué, il a abdiqué», ripeteva
incredula aggirandosi per il suo appartamento appena avuta la notizia
dal Granduca Pavel, due giorni dopo la rinuncia al regno), mentre nelle
stanze al primo piano il precettore svizzero dello zarevic Aleksej
faceva sedere in poltrona l’erede a un trono che non c’era più per
informarlo poco alla volta, svelandogli l’inconcepibile nella camera dei
giochi. «Sapete – disse un mattino alle 11 monsieur Pierre Gilliard –
vostro padre non vuole più essere imperatore». «Come? E perché?».
«Perché è molto affaticato e ha incontrato molte difficoltà, ultimamente
». Il ragazzo alzò lo sguardo, rimase in silenzio, quindi domandò: «Ma
poi sarà di nuovo imperatore?». «Non lo so…». «Ma allora, se non ci
saranno più imperatori, chi governerà la Russia?». In questa sospensione
dei destini e in questa sostituzione dei rituali una Corte
rimpicciolita e stordita continuava a recitare l’antico cerimoniale con
una superstizione mimetica della regalità perduta, quasi fosse eterna e
impermeabile agli eventi. Così quando il marinaio autista aprì la porta
dell’auto e Aleksandr Kerenskij fece il saluto militare, il conte
Benkendorf provò a chiedere a che cosa l’imperial Casa doveva l’onore
della visita. «Vorrei vedere Nikolaj Aleksandrovic e la moglie e
ispezionare il Palazzo, stanza per stanza», disse il nuovo ministro
della Giustizia. Come se non fosse successo nulla intorno a lui, il
vecchio conte fece finta di non aver sentito la bestemmia del nome reale
pronunciato per la prima volta nudo e spoglio nell’eco della reggia,
senza più il titolo imperiale. Accennò appena un inchino e prese tempo:
«Riferirò a Sua Maestà ». Quindi salì le scale, da cui negli ultimi
giorni erano scesi di corsa per andarsene per sempre valletti, dame di
compagnia coi loro bauli, dignitari, cosacchi della Guardia, corrieri
col berretto guarnito di piume, persino i medici dei ragazzi e
l’infermiera. Un altro inchino al ritorno: «Sua Maestà ha gentilmente
acconsentito a ricevervi».
In realtà “Sua Maestà” non aveva nessuna
scelta. Il Primo Maresciallo sapeva, come tutti, che l’8 marzo il
governo provvisorio aveva pubblicato un decreto per «privare della
libertà l’imperatore abdicatario e la consorte» e aveva spedito quattro
deputati a Mogilev per «prenderlo in custodia» e accompagnarlo alla
residenza di famiglia: agli arresti nel Palazzo, dove gli aprirono le
porte chiamandolo «signor colonnello », come mai era successo prima. Ma
quello che nessuno sapeva è che nelle riunioni del Soviet Vjaceslav
Molotov aveva predisposto un piano per arrestare l’ex Zar, la sua
famiglia e tutti i Romanov, e rinchiuderli nel bastione Trubezkoj della
fortezza di Pietro e Paolo, per un veloce processo che avrebbe con ogni
probabilità portato all’esecuzione.
Lo stesso Kerenskij fu attaccato
direttamente dagli operai del Soviet di Mosca, che volevano Nikolaj II
in galera: «Perché è ancora libero? Perché può viaggiare tranquillamente
per la Russia?». «Tengo a dirvi, compagni, che finora la rivoluzione
russa non si è macchiata di sangue e non voglio che venga insozzata –
rispose il ministro –. Non sarò mai il Marat della nostra rivoluzione.
Tra breve l’ex Zar sarà imbarcato su una nave e inviato in Inghilterra
sotto la mia personale responsabilità ». Non ci fu nessuna nave, perché
il governo inglese si tirò indietro e perché il Comitato esecutivo del
Soviet fece presidiare tutte le stazioni fino alla Crimea e diramò
l’ordine di arrestare Nikolaj se si fosse avvicinato ad un treno. Anzi,
un blindato si presentò il 9 marzo a Zarskoe Selo per prelevare il
sovrano decaduto e portarlo al Soviet, ma non avendo un mandato di
cattura dovette ripartire senza il prigioniero, salvato dall’eterna
subordinazione russa alla burocrazia.
Il ministro che adesso saliva
al primo piano, attraversava i lunghi corridoi, entrava per la prima
volta negli appartamenti privati dei Romanov era dunque il carceriere e
insieme il garante di quella libertà prigioniera del cittadino Romanov,
come ormai lo chiamavano gli uomini di guardia. Non si erano mai
incontrati prima. Ambizioso, uomo forte del governo, teatrale e demagogo
Kerenskij aveva capito d’istinto che avrebbe potuto accrescere la sua
autorità nascente incrociandola davanti ai soldati e alla Russia
spettatrice con l’autorità declinante dell’imperatore, ormai nelle sue
mani come Procuratore Generale del nuovo Stato.
Segue nelle pagine successive
La Zarina cent’anni fa non riusciva ad accettare l’accaduto “il a abdiqué” ripeteva incredula
Sapeva
di essere il tramite attraverso cui la rivoluzione appena scoppiata
incrociava per la prima volta la dinastia imperiale morente, la persona
che impersonava, – in quel momento e in quel palazzo – il trasferimento
fisico e simbolico di sovranità, il potere dei Soviet e della Duma che
bussava alla reggia per decretarne il vuoto, controllando intanto che il
trono fosse rovesciato davvero, in un Paese abituato da secoli a quella
che Dostoevskij chiama «la legge della catena ».
Incredibilmente,
non venne condotto in uno studio e nemmeno in un salotto. Quella che si
aprì era la camera delle ragazze. C’era tutta la famiglia riunita
attorno a un piccolo tavolo sotto la finestra, vicino alla chaise longue
dell’ex Imperatrice. Come bisognava salutare quell’uomo in divisa
militare, ancora con le mostrine imperiali, abituato agli inchini e ai
rituali, adesso che non aveva più nulla della vecchia regalità?
«Kerenskij, Procuratore», si annunciò semplicemente il ministro,
tendendo la mano all’ex Zar: che la strinse afferrando così, per la
prima volta, la nuova dimensione in cui era appena entrato e per la
quale non c’era consuetudine e mancava un protocollo. In piedi,
Kerenskij chiese se era passata la rosolia ai ragazzi, scambiò qualche
notizia sulla guerra, comunicò che il comando del Palazzo era adesso
affidato al colonnello Korovicenko, salutò Alix informandola che la
regina d’Inghilterra aveva chiesto sue notizie, poi invitò Nikolaj a
passare in un salottino accanto, dove entrò per primo, da padrone. «Voi
saprete – disse a tu per tu – che sono riuscito a far abolire la pena di
morte… Non preoccupatevi, dovete fidarvi di me». Ma quando il ministro
(il primo della storia russa nominato senza il consenso dello Zar) se ne
andò, la prigionia divenne ufficiale come un decreto. Il cancello del
Palazzo si chiuse dietro a Kerenskij e davanti alla famiglia, che per la
prima volta aveva assistito all’inedito di qualcuno che dava ordini
allo Zar.
Figlio perfetto dell’impero e delle bizzarrie della storia
(era nato a Simbirsk sul medio Volga, proprio come Lenin, i loro padri
dirigevano due scuole in città, un’elementare e un liceo, e il professor
Kerenskij diventerà addirittura tutore dei due ragazzi Uljanov, dopo la
morte del genitore), il ministro di Grazia e Giustizia rappresentava
perfettamente l’uomo nuovo generato dal Febbraio, a cavallo tra
borghesia e rivoluzione, tra la Russia di ieri e quella di domani.
Avvocato, ribelle, aveva gettato la croce del battesimo nell’immondizia
di casa a quattordici anni, aveva ascoltato a sei anni la notizia che
sconvolgeva tutta Simbirsk di Sasha Uljanov, il fratello di Lenin,
arrestato mentre preparava un attentato allo Zar e impiccato, aveva
visto coi suoi occhi la terribile carrozza di cui in città tutti
parlavano, con le tendine verdi abbassate, che quasi ogni notte portava
gli oppositori del regime nelle prigioni della gendarmeria: e tuttavia
pianse quando seppe della morte di Alessandro III.
Da studente, aveva
assistito di persona alla “domenica di sangue”, col massacro dei
dimostranti guidati dal pope Gapon, e scrisse per protesta una lettera
al comandante della Guardia. Poi cercò di entrare in contatto con il
nucleo terroristico del partito socialrivoluzionario, che lo scartò dopo
un incontro carbonaro sul ponte Anickov, ma finì in cella nella
prigione Kresty per aver firmato un articolo sul giornale Burevestnik,
accusato di far parte di un’organizzazione che preparava rivolte armate e
voleva rovesciare il regime, finché nel 1912 fu eletto alla Duma nel
partito del lavoro, i “Trudoviki”. In parlamento pronuncerà uno dei
discorsi più duri verso la monarchia: «Il nostro compito storico è
rovesciare immediatamente questo regime medievale, costi quel che costi,
senza mezzi legali, con la forza». Nella vigilia febbrile e
inconsapevole dell’insurrezione, quando tutti rumoreggiavano e il
presidente della Duma gli chiese di chiarire meglio le sue intenzioni,
lui si alzò in piedi: «Mi riferisco a ciò che fece Bruto ai tempi di
Roma». La frase venne cancellata dal verbale della seduta.
Ma è il
lampo del Febbraio a toglierlo dall’anonimato, proiettandolo nella
storia russa del ’17, dove lo raggiungerà sopravanzandolo Lenin, il suo
eterno avversario. Quel lunedì 27, che verrà ricordato come il giorno
della rivoluzione, mentre ancora le mitragliatrici sparano sul Mojka
Quai e sulla Sergievskaja, è infatti Kerenskij a precipitarsi ai
cancelli della Duma invitando la folla a entrare, a chiamare i soldati
perché disarmino la Guardia con un colpo di mano e difendano il palazzo
Tauride. È lui a comparire davanti al presidente del Consiglio Imperiale
Shcheglovitov, che sta cercando di far valere l’immunità parlamentare
dopo essere stato fermato per strada e a dichiararlo in arresto, primo
detenuto nel padiglione del Palazzo che Kerenskij trasforma in carcere
provvisorio della rivoluzione.
Immediatamente popolare tra i soldati,
oratore appassionato, quando nasce il primo governo provvisorio gli
viene proposto il ministero della Giustizia. Ma il Soviet ha appena
deciso di non partecipare, perché il governo «è borghese», e lui è
vicepresidente del Soviet. A sorpresa entra nella sala del Comitato
esecutivo, interrompe la seduta, sale sul tavolo e spiega che «è
nell’interesse della Russia e degli operai che la democrazia
rivoluzionaria abbia il suo rappresentante al governo, in modo che
l’esecutivo sia in contatto permanente con la volontà del popolo». Urla,
applausi, Kerenskij viene portato a spalle nei saloni della Duma e
dentro il governo, mantenendo la vicepresidenza del Soviet, unico caso
di doppio incarico per l’unico socialista del ministero Lvov.
Da quel
giorno gli stivali militari di Kerenskij calpesteranno ogni angolo
della rivoluzione. È seduto sul divano nel salotto della principessa
Putjatin, il mattino dopo l’abdicazione dello Zar a Pskov, per
convincere il Granduca Mikhail a rifiutare la corona, facendogli capire
che nessuno potrà garantire la sua incolumità personale, nel malcontento
popolare verso la dinastia. «Apprezzo profondamente la vostra
decisione, assunta con nobiltà e da patriota», dirà dopo la rinuncia del
Granduca, prima di tornare alla Duma con la firma sul foglio che
scioglie per sempre il vincolo tra i Romanov e la Russia, procedendo tra
la folla senza scorta, per raccogliere gli applausi alla repubblica che
sta nascendo.
È vicino all’ex Primo Ministro Goremykin la notte in
cui viene portato in carcere alla fortezza, si accorge che nasconde
sotto la camicia la catena con dieci pietre preziose dell’ordine
imperiale di Sant’Andrea apostolo ma non gliela requisisce, per
compassione rivoluzionaria o per complicità borghese. È al telegrafo del
ministero, quando dà l’ordine – come suo primo atto di governo – di far
tornare con tutti gli onori dall’esilio siberiano la “nonna della
rivoluzione”, Ekaterina Breshko-Breshkovskaja, che da ragazza aveva
organizzato le “passeggiate tra il popolo” girando i villaggi con il
fagotto di pezza infilato a un bastone sulle spalle per convincere i
contadini a ribellarsi allo Zar: a 73 anni trova un picchetto d’onore
che l’aspetta a Pietroburgo con la Duma e i ministri, Kerenskij che la
fa ospitare in un appartamento a Palazzo d’Inverno, mentre il coro dei
ragazzi schierati dal ministro la saluta con le strofe dei “difiramby”, i
canti popolari dei contadini durante il raccolto e con l’inno del
ringraziamento: «Noi ci inchiniamo di fronte a te, con una profonda
gioia per la vittoria tanto attesa».
Nella vertigine di Pietrogrado –
livida per l’elettricità che salta, la neve ormai sporca, il collasso
del potere che si percepisce per strada – se c’è uno spettacolo della
rivoluzione l’impresario statale è Aleksandr Fedorovic Kerenskij. Porta
la mano infilata nella giacca al petto, dicendo che ha una ferita al
braccio, in realtà perché ha il mito di Napoleone. Si fa fotografare in
ufficio col colletto inamidato, il fiocco e il doppiopetto, con un
foglio in mano. A ogni comizio raccoglie applausi parlando contro la
pena di morte. Riceve i Granduchi, guidati da Kirill, che professano
sottomissione alla Duma. Usa con perizia la polizia segreta, abituato
fin da ragazzo ad avere due agenti davanti a casa con calosce, soprabito
nero e l’ombrello in mano in qualunque stagione. Crea un
super-gabinetto interno al governo con altri quattro ministri massoni, e
lui lo guida: è iscritto alla Società dal 1912, in una loggia che
ammetteva anche le donne, con il giuramento solenne di rispettare la
disciplina e non rivelare mai il nome degli altri aderenti. Ubbidirà
anche dall’esilio.
Ma è al fronte che Kerenskij unisce insieme la
retorica militare, l’ideologia rivoluzionaria, la religione russa della
patria e il culto fanatico di sé. Dal 2 maggio, con le dimissioni di
Guckov, diventa ministro della Guerra. Trova una situazione disastrosa.
La Germania, convinta che la Russia nel caos non sia più una potenza
internazionale, invitava i soldati a incrementare il disfattismo,
fraternizzando coi russi nelle trincee. Nelle strade delle due capitali,
nei villaggi di campagna si rovesciava quasi un milione e mezzo di
sbandati dal fronte. A Piter i marinai erano padroni del quartiere che
va dal lungofiume inglese fin quasi al teatro Mariinskij, i più eccitati
derubavano i passanti, sequestravano le persone chiedendo un riscatto.
Intanto tre reggimenti della 163ma divisione sul fronte romeno si
ribellano agli ordini, bisogna minacciarli con i cosacchi pronti ad
aprire il fuoco. Ma altre unità della 12ma e 13ma divisione si rifiutano
di avanzare. Gli agitatori bolscevichi (Semasko, Sivers, Krylenko,
Dzevaltovskij) fanno propaganda tra le truppe per la pace, e gli uomini
abbandonano i fucili: «Vi esortiamo a non morire per gli altri in
guerra, ma a annientare i vostri nemici di classe interni».
Il
ministro restituì subito agli ufficiali i poteri che Febbraio aveva
tolto, primo fra tutti l’uso della forza sui subalterni per far
rispettare la disciplina. «La patria è in pericolo – dichiarò
solennemente – ognuno deve sventare questa minaccia, tutti i soldati e i
marinai devono tornare al loro posto entro dieci giorni». Poi Kerenskij
partì per due settimane di visita al fronte. Prima alla flotta pesante
sul golfo finnico, poi allo schieramento sud-occidentale a Tarnopol,
quindi a Odessa, ancora a Riga dal comando settentrionale, infine a
Dvinsk dove operava la Quinta Armata. Fu un autoinganno. L’oratoria
appassionata, emotiva e demagogica del ministro sollevò fiammate
improvvise di entusiasmo tra i soldati, prima che il logoramento della
lunga guerra, le speranze suscitate dalla rivoluzione tornassero subito a
spargere la frustrazione ribelle tra le trincee. Ma Kerenskij si illuse
di poter ribaltare lo stato d’animo, riaccendendo la voglia di
combattere. Era esaltato, frastornato, con le truppe che gli lanciavano
fiori sul Mar Nero, gli baciavano gli stivali in Lettonia, lo
acclamavano piangendo in Galizia. L’estasi patriottico- militare
contagiò anche Olga Lvovna, la moglie infermiera per qualche mese, che
definiva un atto “religioso” lavare i piedi dei soldati.
Tutto questo
portò Kerenskij a scatenare l’offensiva di primavera, cercando per via
militare quella forza che il governo provvisorio non aveva per via
politica, con i soviet che erano ormai quasi mille, i sindacati che si
moltiplicavano, i bolscevichi che crescevano nelle fabbriche e nelle
tessere, le Guardie Rosse che si organizzavano militarmente. Il ministro
guidò personalmente l’attacco, aspettando l’“ora zero” sulle colline
ucraine. Per due giorni l’esercito avanzò: il terzo giorno ripiegò, poi
la ritirata divenne una fuga senza controllo, con la perdita del 35 per
cento dei pezzi d’artiglieria e degli aerei. Kerenskij prova a dare la
colpa ai bolscevichi infiltrati tra le truppe, scrive un telegramma agli
ambasciatori alleati, denunciando l’invio da parte dei loro governi di
forniture belliche difettose. Dal fronte, il comandante Denikin lo
accuserà di “isterismo”.
L’insuccesso militare, il malcontento dei
contadini, la deriva dei soldati in rotta gonfiavano di nevrosi
Pietrogrado, una città irreale, isterica, sospesa in un passaggio
doloroso tra il vecchio e il nuovo, la cornice urbana intatta, il cuore
trapiantato e fortemente sollecitato. Così le parole d’ordine
bolsceviche passavano da una strada all’altra con le venditrici di semi
di girasole, con i distributori di kvas, la bevanda di pane fermentato,
con le mogli dei soldati. Comizi spontanei e assemblee improvvisate si
davano il cambio alla Fontanka, a due passi dal famoso parrucchiere
Bogdanov, con l’insegna che diceva “maestro di taglio” al numero 80 del
Nevskij, vicino al giornale di moda Chic viennese, che chiuderà a fine
anno. Ma sul Nevskij si aprivano dieci cinema, prima che la notte
diventasse insicura anche se bianca, dal Palais Cristall al Comic, al
Piccadilly fino al fantastico Parisiana che aveva 800 posti e il
soffitto che da maggio si apriva sul cielo. I prezzi continuavano ad
aumentare. Bisognava sostituire lo zucchero che non c’era col miele,
carissimo, l’oca saliva dai 70 ai 90 copechi al “funt” (meno di mezzo
chilo), i polli volavano a più di tre rubli l’uno. Costavano molto meno i
bordelli popolari: 50 copechi, mentre quelli di lusso arrivavano fino a
12 rubli. Le inserzioni sui giornali – 20 copechi alla riga –
compravano e vendevano tutto, anelli d’oro e gemelli d’argento, ma anche
denti spaiati, dentiere rotte, apparecchi di cuoio per correggere la
linea del naso, «massaggi offerti da signora molto colta ». I quotidiani
proponevano i libri rilegati dei grandi autori russi ma anche i
cartamodelli. Man mano che gli abiti francesi sparivano dalle vetrine si
fece strada il mestiere del “perelizovshik”, il rovesciatore, che
rivoltava gli abiti usati per nascondere l’usura e guadagnare tempo. La
povertà cresceva, con la fame e la disperazione.
«Il mio esperimento
liberale è finito – dirà il Primo Ministro Lvov, ormai sono un pezzo di
legno in balia della marea rivoluzionaria». Man mano che il governo e
Kerenskij perdono terreno Lenin e il suo partito avanzano, come sulla
scacchiera che il leader bolscevico tiene in salotto nell’appartamento
della sorella in via Shirokaja, e ancora oggi è lì, col suo meccanismo
segreto per nascondere le carte bolsceviche. I due non si vedevano da
una funzione religiosa a mezzanotte di Pasqua quando il ministro,
bambino, riceveva la comunione vestito di picché bianco con la cravatta
rossa e sapeva che alle sue spalle – nelle due file di studenti più
grandi con l’uniforme azzurra dai bottoni d’argento – c’era lui,
Vladimir Ilic Uljanov, che diventerà Lenin.
Si incontreranno,
tenendosi a distanza, una volta sola, al congresso panrusso dei Soviet.
Sono andato a cercare i segni di quell’unico contatto, al vecchio numero
1 del palazzo dei cadetti, sull’isola Vasilievskij. Oggi qui c’è
l’università con le stanze “na remont?”,in ristrutturazione, ma se si
arriva presto si può immaginare l’eco dei passi e degli applausi nella
grande sala deserta e vuota del mattino, all’ora in cui Lenin dalla
tribuna propose l’arresto immediato di 100 capitalisti, Kerenskij si
alzò accusandolo di preparare la strada a un dittatore e mentre lui
parlava Ilic prese i suoi fogli e se ne andò da questa porta. Tutti li
guardavano. Si sfideranno per tutto il ’17 con Kerenskij agitato che
balza in piedi nel suo ufficio al ministero ogni volta che parla di
Lenin, e Ilic che lo addita come il fantoccio della borghesia. Si
studieranno, si controlleranno a vicenda, si inseguiranno sfiorandosi
fino a correre dentro l’epilogo verde e bianco del Palazzo d’Inverno, a
ottobre. Uno deve cavalcare un Paese imbizzarrito, provando a
governarlo, l’altro può aspettare, puntando sulla pazienza e sulla
costanza nella furia russa della primavera che da Piter ha incendiato il
mondo, cent’anni fa. In fondo, per Lenin anche Kerenskij era poco più
di un “perelizovshik”, che rivoltava l’abito rabberciato a un ex Impero
in miseria. Il vero sarto della rivoluzione, nel suo ufficio di quattro
metri alla “Pravda”, stava già prendendo le misure alla Madre Russia.
il manifesto 13.5.17
Una lingua meticcia ferita dall’Europa colonialista
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno
di Luciana Castellina
Sabir: basterebbe aver scelto questo nome a far capire cosa sia questo incontro del (non sul) Mediterraneo che per la terza volta si tiene in Sicilia,quest’anno a Siracusa. È il nome della lingua meticcia che da secoli i pescatori di questo mare usano per parlarsi, quelli che provengono dalla costa africana come quelli che provengono dalle coste europee.
Per comunicare oggigiorno bisogna fare un convegno, perché fra il sud e il nord del mare che si chiamava «di mezzo» proprio per far capire che si trattava di un’acqua di comunicazione fra terre che vi si sporgevano con le loro mille punte peninsulari e i loro arcipelaghi, si è scavato un solco. Sociale, politico, culturale, economico. Nemmeno il confine Messicano, lungo il quale Trump vuole erigere un muro, marca uno stacco così drammatico nella differenza procapite del reddito, nella circolazione della comunicazione. L’Europa, costruita 60 anni fa, porta la cicatrice, sanguinosa, non rimarginata di questa rottura. Che l’ha resa mostruosa, perché, come scriveva nel suo Breviario Mediterraneo un intellettuale della costa jugoslava che ci ha purtroppo appena lasciato – Peredrag Maktievich – «l’Europa senza il Mediterraneo è come un adulto privato della sua infanzia». Un mostro. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall’inferno.
E infatti appena le cose in uno dei nostri paesi meridionali vanno male c’è qualche signor ministro che dice: «oddio, stiamo precipitando nel Mediterraneo».
I nostri confini sono curiosi: il solo geograficamente davvero rilevante perché segnato addirittura da un grande oceano, l’Atlantico, ci separa dal paese cui in realtà siamo più appiccicati:gli Stati uniti. Il confine che è solo una pozza pari allo 0,7 % delle acque del globo, il Mediterraneo, ci separa da terre totalmente estranee. Le conosciamo solo per quanto sono state nell’antichità, ignoriamo quale sia la loro cultura moderna, sebbene noi si viva dell’eredità di quanto proprio lì – nel mondo arabo – si sia inventato in secoli non lontani. Per noi, nella modernità, quelle terre sono diventate solo colonie, e tali sono rimaste.
Questa nostra Sabir, promossa da Arci, Acli, Charitas e con la collaborazione di tantissime associazioni del sud e del nord, vuole ricominciare il dialogo interrotto, naturalmente provando a sanare la vergogna più grande, quella delle selvagge, inumane migrazioni. Ma vuole farlo per indicare all’Ue il suo errore più grave, esser stata incapace di pensarsi come la storia imponeva di fare: come un’area che non poteva “dimenticare” di essere una cosa sola con tutta l’area mediterranea, da cui ha preso tanto e che tanto ha danneggiato. Avrebbe dovuto pensare alla propria crescita assieme alla crescita di quest’area, con un progetto di co-sviluppo. Non, come invece è stato, come a una zona di ineguale commercio. Oggi, con i traumi delle migrazioni, di cui è responsabile, l’Europa paga i suoi errori.
Questo è quello che qui a Siracusa discutiamo in questi giorni, in decine di workshop e la sera assistendo a spettacoli musicali e teatrali. Dagli immediati drammatici problemi di chi arriva, o peggio di chi prova ad arrivare e non riesce, ai grandi problemi della prospettiva di lungo periodo. È il frutto del lavoro volontario, umanitario, di solidarietà e carità di tantissimi. Ma è anche di più: come ha detto papa Francesco quando recentemente ha ricevuto in Vaticano i movimenti sociali : la carità è importante, ma ci vuole la politica.
Mediterraneo. L’Europa l’abbiamo fatta tutta arrampicata sul Nord, quasi anche noi europei del sud fossimo già rifugiati che scappavano dall'inferno.
Il manifesto 13.5.17
Il fisco secondo Trump: 900 miliardi dai tagli alla sanità
Stati uniti. Il presidente: «Meno tasse eliminando l’Obamacare».I democratici: «Robin Hood all’inverso». I media criticano la cacciata di Comey e la Casa bianca li minaccia: basta press briefing
di Marina Catucci
NEW YORK Durante l’intervista con The Economist Donald Trump ha parlato di commercio, immigrazione, riforma fiscale e assistenza sanitaria e ha fatto alcune affermazioni particolarmente strane e dei curiosi parallelismi sulla qualità delle rose nel giardino della Casa Bianca e la spesa per le infrastrutture o gli schemi migratori degli uccelli migratori e le detrazioni fiscali.
Rompendo con le dichiarazioni dei collaboratori, Trump ha ammesso che il deficit potrebbe aumentare nel breve termine, due anni è la sua ottimistica previsione, ma che «non aumenterà a lungo».
«Bisogna innescare la pompa – ha detto – Mettere qualcosa prima di ottenere qualcosa e se non si farà aumentare il deficit non sarà possibile abbassare la pressione fiscale».
Il presidente ha anche aggiunto che, se al Congresso passerà la sua legge sulla sanità, il governo americano risparmierà «dai 400 ai 900 miliardi di dollari. Tutto sta nella riduzione delle tasse».
Il leader della minoranza, Nancy Pelosi, ha subito commentato che la legge sanitaria proposta da Trump è come un’azione alla «Robin Hood ma all’inverso, che ruba 600 miliardi ai cittadini poveri per passarli a quelli ricchi. Questo è l’obiettivo della loro manovra fiscale, hanno bisogno di questi fondi e li prenderanno dalla tua assistenza sanitaria».
Di opinione simile doveva essere l’intervistatore dell’Economist che ha affermato che chi otterrà maggiori benefici dal taglio fiscale sembra proprio saranno gli americani più ricchi. «Beh, non credo – si è limitato a replicare Trump – Stanno perdendo tutte le loro deduzioni fiscali».
Durante l’intervista Trump non è mai sembrato spaventato all’idea di smentirsi o contraddirsi: sul Nafta che non verrà cancellato ma rinegoziato con i presidenti di Canada e Messico che personalmente gli sono simpaticissimi; e su Xi Jinping, «fortissimo, bravissima persona», la Cina non è un manovratore di valuta, sono stati i media a pompare questa affermazione.
Riguardo le sue dichiarazioni dei redditi, Trump ha assicurato: «Prima o poi le renderò pubbliche. Forse quando avrò finito, perché ne vado molto fiero. Ho fatto un ottimo lavoro. Ma non saranno mai oggetto di trattativa. Non dimenticatevi che sono stato eletto anche senza rivelarlo».
Intanto però Trump deve affrontare le polemiche sorte dopo il licenziamento del direttore dell’Fbi James Comey, decisione impopolare che il 54% degli americani, secondo il sondaggio realizzato da Nbc News/Survey Monkey, ritiene inappropriata.
Il New York Times, citando due fonti anonime, ha fornito ulteriori dettagli: una settimana dopo il suo insediamento alla Casa Bianca Trump ha invitato a cena Comey, chiedendogli una promessa di lealtà a cui il capo dell’Fbi ha risposto dicendo di poter garantire solo «onestà».
Si era trattato di una cena privata a due e Trump, non soddisfatto della prima risposta di Comey, avanzò due volte il tema della lealtà chiedendo se poteva contare su «onesta lealtà», ottenendo finalmente una risposta affermativa da Comey.
La Casa Bianca ha contestato questa ricostruzione del New York Times: per la vice portavoce Sarah Sanders, il presidente «non lascerebbe mai intendere di aspettarsi lealtà personale, soltanto lealtà verso il nostro paese».
In una serie di tweet Trump ha poi deciso di mettere le cose a posto a modo suo: prima ironizzando sul fatto che i fake media avessero fatto gli straordinari, poi minacciando di cancellare il briefing con la stampa alla Casa Bianca.
«Forse la cosa migliore da fare sarebbe cancellare i futuri press briefing e inviare risposte scritte per aver maggiore accuratezza?», ha scritto su Twitter ed ha concluso, in risposta alle accuse di mancanza di precisione nella spiegazione sui motivi del licenziamento di Comey, sostenendo di essere troppo impegnato per essere anche preciso.
Ma più di tutto il presidente degli Stati Uniti su Twitter ha minacciato neppur troppo velatamente l’ex capo dell’Fbi: «James Comey farebbe bene a sperare che non esistano ’registrazioni’ delle nostre conversazioni prima che cominci a fare delle rivelazioni alla stampa». Poco dopo la Cnn, citando delle proprie fonti, ha affermato che Comey non teme i contenuti di alcuna registrazione.
il manifesto 13.5.17
Un palestinese ucciso e decine feriti da spari soldati israeliani
Cisgiordania. Prosegue lo sciopero della fame dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane e con esso le manifestazioni popolari. Ma la risposta israeliana si fa più dura. La Croce Rossa ha visitato Marwan Barghouti in cella
di Michele Giorgio
GERUSALEMME Saba Obaid, 20 anni, è arrivato in condizioni disperate all’ospedale di Salfit. I medici hanno fatto il possibile per rianimarlo ma il proiettile che lo ha colpito al pezzo mentre a Nabi Saleh, con altre decine di giovani palestinesi, lanciava pietre verso le jeep dell’esercito israeliano, non gli ha lasciato speranza. Il portavoce militare non ha confermato la sua uccisione. Si è limitato a comunicare che i soldati hanno usato i mezzi di “dispersione” a loro disposizione per respingere una folla palestinese che manifestava con “violenza”. E con quei mezzi di “dispersione” i soldati hanno ferito un’altra trentina di manifestanti a Nabi Saleh. Forti le proteste anche vicino Nablus dove in scontri sono rimaste ferite, pare tutte in modo leggero, almeno 60 persone. Decine di feriti anche a Beita, Kufr Qaddum, Beit Furik, Beit Ummar e in molte altre località.
A prima vista potrebbe apparire l’abituale conclusione di manifestazioni palestinesi uguali ad altre migliaia viste in 50 anni di occupazione militare israeliana. Invece l’uccisione di Saba Obeid e il ferimento di decine di dimostranti segnano una escalation nella risposta delle forze armate israeliane al crescere della protesta palestinese per le condizioni di (almeno) 1300 detenuti in sciopero della fame da 25 giorni nelle carceri israeliane. È il segnale della tensione che aumenta nei ranghi dell’Esercito per un digiuno che Israele, e non pochi palestinesi, pensavano destinato a concludersi presto con un fallimento e in una umiliazione per il suo promotore, il leader di Fatah in Cisgiordania Marwan Barghouti, in carcere in Israele dove sconta cinque ergastoli per “terrorismo”. Ora, dopo quasi un mese di digiuno e il peggioramento delle condizioni di salute di molti prigionieri, persino i settori di Fatah che mal digeriscono l’iniziativa di Barghouti, ora devono sostenerla, mentre vi aderiscono altre forze politiche – ma non il movimento islamico Hamas – a cominciare dai leader incarcerati del Fronte popolare (Fplp) che sottolineano il carattere “nazionale” della protesta, al di là delle motivazioni e degli obiettivi di Fatah.
La popolarità di Barghouti non è stata scalfita dalla vicenda delle “merendine”. Le immagini di un detenuto, ripreso dall’alto, che secondo le autorità carcerarie sarebbe il leader di Fatah mentre, in due occasioni, appare intento a mangiare delle merendine rompendo il digiuno, sono state giudicate un fake dai palestinesi e hanno addirittura rafforzato il sostegno all’organizzatore dello sciopero della fame. Intanto non è ancora trapelato nulla dalla visita che Barghouti ha ricevuto in cella due giorni fa da una delegazione del Comitato Internazionale della Croce Rossa . «La delegazione del Cicr ci ha detto che, come da accordi presi con le autorità israeliane, non può dirci nulla sul’incontro» ci spiegava ieri Qassam Barghouti, uno dei figli del leader di Fatah, «perciò ora siamo più preoccupati, temiamo che le condizioni di mio padre si siano aggravate».