venerdì 12 maggio 2017

La Stampa 12.5.17

Etruria, un altro caso nel governo

Non solo polemiche su Boschi: un esponente dell’esecutivo chiese nel 2015 a Bper di intervenire Sulla crescita l’Italia si conferma ultima in Euro

Si allarga lo scandalo Banca Etruria: prima del commissariamento un altro esponente del governo chiese aiuto a Popolare Emilia Romagna. Il governatore di Bankitalia Visco pronto a svelare i dialoghi con le Procure

di Gianluca Paolucci


Nelle settimane che precedettero il commissariamento di Banca Etruria un influente membro del governo chiese alla Banca Popolare dell’Emilia Romagna (Bper) di valutare un intervento in favore della banca aretina.

Siamo nei primi giorni del 2015 quando un «alto esponente» del governo guidato allora da Matteo Renzi contatta i vertici di Bper e chiede la disponibilità della popolare modenese a intervenire in favore di Banca Etruria. Quello stesso giorno e il successivo l’episodio viene riportato ad alcuni ex esponenti aziendali di Etruria, ai quali i vertici di Bper erano legati da una lunga consuetudine in virtù anche della comune appartenenza alla galassia delle banche popolari. D’altra parte, proprio Bper era stata una delle candidate a prendersi Etruria, della quale conosceva benissimo sia le potenzialità che i problemi, spiega una delle fonti interpellate. L’ultimo tentativo risaliva a qualche mese prima, quando la pressione di Bankitalia per aggregare Etruria si era fatta più forte ma Bper aveva dovuto lasciare il passo alle insistenze della Popolare di Vicenza di Gianni Zonin, preferita da via Nazionale, che tra maggio e giugno sembrava pronta a lanciare un’opa poi mai concretizzata.

L’allora presidente di Bper Ettore Caselli, contattato, nega di aver ricevuto pressioni di alcun tipo: «Guardammo il dossier Etruria come ne guardammo altri e decidemmo di non farne niente». Ma l’episodio si inserisce nelle polemiche sul ruolo del governo nella vicenda di Banca Etruria, il cui vicepresidente era il padre dell’allora ministro e oggi sottosegretario Maria Elena Boschi. E mostra come in quelle settimane l’attenzione dell’esecutivo sulle vicende della piccola Banca Etruria fossero condivise non solo dalla Boschi. Secondo quanto riferisce Ferruccio de Bortoli nel suo libro «Poteri forti (o quasi)», la Boschi chiese all’ad di Unicredit Federico Ghizzoni di interessarsi alla vicenda.

Lorenzo Rosi, presidente di Etruria dal 2014 fino al commissariamento, avrebbe incontrato Ghizzoni - come ricostruito da La Stampa - per sottoporre una possibile acquisizione da parte di Unicredit. Rosi, tramite il suo legale, conferma l’incontro ma lo retrodata di qualche settimana - a novembre e non a gennaio - e lo colloca presso la sede di Unicredit in piazza Gae Aulenti. Qualche giorno prima, il 5 novembre, la Boschi aveva partecipato alle celebrazioni dei 15 anni di Unicredit. A combinare l’appuntamento tra Rosi e Ghizzoni, si spiega, sarebbe stata Mediobanca, allora consulente di Etruria (da agosto 2014) per la trasformazione in spa e per la ricerca di un partner. Se non che Mediobanca fa sapere di «non aver avuto nessun ruolo nell’incontro e di non esserne stata a conoscenza». Secondo quanto ricostruito, durante il mandato di consulenza le uniche manifestazione d’interesse che furono portate ad Arezzo da piazzetta Cuccia provenivano da fondi speculativi o banche estere. Come l’israeliana Hapoalim, uno degli ultimi soggetti a guardare a Etruria prima del commissariamento arrivato l’11 febbraio del 2015. Mentre dalle banche italiane attraverso Mediobanca non venne registrato alcun interesse. L’avvocato della Boschi, Vincenzo Zeno Zencovich, ricostruisce la vicenda in maniera completamente diversa: «Ho motivo di ritenere che questa richiesta fosse stata avanzata da tempo da Banca d’Italia e che non ci sia stato nessun intervento, così come viene raccontato in questo libro». Quello che è certo è che nelle convulse settimane che precedettero il commissariamento i vertici di Etruria condussero una intensa attività «in proprio», slegati dai consulenti, per cercare un partner. Le pressioni di Bankitalia si facevano sempre più insistenti e il cda guidato da Rosi - con Pier Luigi Boschi vicepresidente - ebbe proprio la ricerca di un acquirente come priorità. Il Fatto Quotidiano racconta anche di un altro incontro, a marzo 2014 (quando il cda di Etruria era guidato da Giuseppe Fornasari), con Vincenzo Consoli e Flavio Trinca - allora alla guida di Veneto Banca.

Il 20 gennaio del 2015 poi il governo Renzi annuncia un provvedimento auspicato da almeno 20 anni e mai realizzato da nessun governo: la riforma delle banche popolari con l’obbligo di trasformazione in spa. Una decisione che non coglie di sorpresa Etruria, che aveva già da tempo deciso di anticiparla trasformandosi in società per azioni. Un procedimento interrotto anche in questo caso dal commissariamento del febbraio 2015. La fine di Etruria e l’inizio di una vicenda che dopo oltre 2 anni continua a catalizzare il dibattito politico.


Il Fatto 12.12.17

De Bortoli attacca ancora: “Una storia di massoneria”

Il giornalista ricorda tutti i “fratelli” che hanno girato attorno all’istituto. E Mattarella, dal Sudamerica, segue la vicenda

De Bortoli attacca ancora: “Una storia di massoneria”

di Carlo Tecce

qui


Corriere 12.5.17

La paura che fa dire davanti ai cadaveri «Però loro rubano»

di Goffredo Buccini


La paura ci cambia, ci deforma, Centocelle ce lo insegna. Se c’era un tratto proverbiale nel «genius loci» romano era la bonomia, perfino abusata, messa in caricatura, talvolta tendente al sentimentalismo di grana un po’ grossa. Un carattere che con tinte diverse colora la storia dell’Urbe, tempera la sferza delle pasquinate, intride i sonetti del Belli, si spande dal neorealismo alle maschere da commedia dell’arte di Fabrizi e Sordi. Fino a ieri o ieri l’altro, finché Roma ha mantenuto il suo tratto di ciabattante federazione di paesini, finché non è diventata ciò che è: una metropoli deforme e terrorizzata che serra la porta se qualcuno sul pianerottolo implora aiuto.

L’umanità, come il coraggio di don Abbondio, uno non se la può dare. E se serviva un caso eclatante per dimostrare quanto, senza sicurezza, non esista più neppure l’ombra della solidarietà, ecco la tragedia di Angelica e delle sue sorelle, le piccole rom arse vive nel rogo del loro camper. Ci vuole tutta la mistificazione ideologica del nostro tempo per aggrapparsi a qualche mazzo di rose deposto sul luogo della strage da anime pie e raccontare così quel brandello di quartiere, devastato dalla microcriminalità e assediato dai campi nomadi, come una enclave di paziente empatia e civica moderazione.

La verità di Centocelle sta nel «d’altra parte rubano» pronunciato a mezza bocca ma cento e cento volte davanti ai cadaveri carbonizzati delle piccole Halilovic: una frase più agghiacciante di tutte le infamie tracimate dal web, perché proviene dalla carne viva dei residenti, perché non si può liquidare come delirio dei leoni di tastiera, perché ci interpella.

La bonomia è stata sostituita da una ferocia che spiana il passo a qualsiasi eccesso. «D’altra parte», ci raccontano, non c’è casa attorno al campo di via Gordiani che non sia stata visitata due o tre volte dai ladri. Non esistono buoni o cattivi a prescindere, se non vogliamo trasformarci in un popolo di idioti razzisti dobbiamo risolvere alcuni problemi. A Roma quello dei nomadi è numericamente poco significativo ma ha un impatto potente sulla percezione dei romani. I campi vanno chiusi, ma non con le ruspe come dice Salvini: aprendo vie d’uscita dignitose, concordate con le comunità, ciò che chiedono molti rom talvolta integrati tra noi un po’ in segreto, nascondendo l’etnia per proteggersi dai pregiudizi. Il milione e mezzo che la giunta Raggi pare pronta a spendere per un nuovo campo a Roma nord potrebbe essere meglio impegnato nell’inclusione di chi è in regola. A chi non lo è, a chi delinque, pensi la legge. Girarsi dall’altra parte di fronte ai furtarelli, all’abuso di minori nell’accattonaggio, alla filiera gestita dai rom nei cassonetti, lascia spazio all’esasperazione dei residenti e alle belve del web: e non rende giustizia alle bambine morte a Centocelle. Angelica non doveva dormire in un camper con dodici familiari. Qualcuno doveva salvarla prima: se la paura non l’avesse resa invisibile agli occhi di mamma Roma.


Corriere 12.5.17

il falso mito illuminista della democraziA diretta

di Giovanni Belardelli


Dovrebbe essere ormai evidente che la democrazia diretta praticata dal Movimento Cinque Stelle ha ben poco di democratico: perché la decisione ultima spetta sempre a Beppe Grillo, come si è visto nel caso della candidata a sindaco di Genova, ma anche perché la piattaforma «Rousseau», nonostante si richiami al massimo teorico di una democrazia esercitata direttamente dai cittadini, è controllata da una società privata come la Casaleggio e associati. Eppure, in tempi di dilagante ostilità per i politici di professione e di generale disaffezione per il sistema rappresentativo, la democrazia diretta in quanto tale continua a godere di un pregiudizio favorevole.

Jean-Jacques Rousseau, che pure la considerava l’unica vera forma di democrazia («nel momento in cui un popolo si dà dei rappresentanti, non è più libero; esso non esiste più»), aveva dovuto ammettere con rammarico che, data la dimensione dei grandi Stati moderni, la democrazia diretta era di fatto impossibile.

Oggi però il web, collegando tutti i cittadini di un Paese in una grande agorà virtuale in cui ciascuno, volendo, può votare su ogni proposta, consentirebbe di superare l’ostacolo. E non appare inverosimile immaginare regole e meccanismi di organizzazione del voto online che, a differenza di quel che accade per la piattaforma dei Cinque Stelle, siano pubblici e trasparenti. Ma una volta assodato questo — che cioè, duemila e cinquecento anni dopo l’Atene di Pericle, la democrazia diretta è di nuovo diventata possibile — dobbiamo chiederci se rappresenta anche una soluzione augurabile. La risposta non può che essere negativa.

Il primo, e più evidente, motivo è anche l’unico che di solito viene evocato: vale a dire la quantità e complessità delle decisioni che un governo si trova a prendere, decisioni che non si vede come possano essere affrontate da cittadini privi di cognizioni adeguate. È un’obiezione assai rilevante, anche se probabilmente molti non la riterrebbero decisiva vista la scarsa qualità della nostra classe politica. Di certo non è però l’unica possibile.

Un’altra obiezione è stata formulata di recente dal politologo francese Bernard Manin (sul numero del dicembre scorso della «Rivista di Politica»), il quale ha osservato che la democrazia rappresentativa ha una netta superiorità sulla democrazia diretta in termini di uguaglianza nella partecipazione. Non tutti siamo disposti a dedicare lo stesso tempo alla partecipazione politica; o, semplicemente, non tutti possiamo permettercelo viste le nostre abituali occupazioni. Una continua interrogazione della volontà popolare attraverso il web premierebbe dunque i militanti e gli attivisti, osserva Manin, a scapito della maggioranza dei cittadini.

La democrazia diretta si reggerebbe insomma su dei cittadini che sono «più uguali» degli altri. Questo, si noti, è ciò che già avviene all’interno del Movimento Cinque Stelle, dove le decisioni sono spesso il frutto di un numero di voti davvero risibile (a Verona al candidato sindaco ne sono stati sufficienti 85 per essere scelto).

Ma c’è dell’altro. Mentre sul web il cittadino votante può solo esprimersi attraverso un sì o un no, approvando o respingendo in blocco una proposta, in un’assemblea rappresentativa si deve provare a convincere chi non è d’accordo, si deve tener conto delle argomentazioni degli avversari, a volte accogliendone qualcuna. Insomma, in una democrazia rappresentativa la decisione è il frutto della discussione e del confronto. Si dirà che questo dovrebbe avvenire in teoria ma in pratica le cose vanno diversamente. Non è del tutto vero. L’approvazione di emendamenti a una legge, la convergenza dei voti di un partito di opposizione su una proposta del governo sono prassi costante in qualunque Parlamento democratico.

La democrazia rappresentativa obbliga al confronto (non necessariamente all’accordo, ovviamente) e rende possibile il compromesso. La democrazia diretta annunciata dal Movimento Cinque Stelle favorisce invece il muro contro muro, l’irrigidimento di posizioni. È sempre un gioco a somma zero in cui o si vince o si perde. Ce ne è abbastanza, direi, per considerare la democrazia diretta, proprio oggi che potrebbe diventare realmente possibile grazie al web, come una prospettiva da cui rifuggire.


Corriere 12.5.17

La diagnosi di Hegel

In corsa verso la Non-Terra

La tecnica stravolge il pianeta

Forse all’umanità conviene scendere dal treno del tempo

di Claudio Magris


Il singolo individuo che si ostina contro la cieca potenza della totalità storica e del suo divenire, illudendosi di essersi ritagliato una propria sfera autonoma, s’inganna perché i fili che si è cucito nella sua stoffa sono manovrati dal mondo, gran burattinaio. Così dice un incandescente frammento di Hegel, edito e tradotto da Remo Bodei in un volume che, come molti suoi altri, è un’eccezionale interpretazione filosofico-letteraria del nostro presente vertiginosamente mutante. Soprattutto alla luce di quella grandiosa stagione culturale tedesca, di quell’età di Goethe, Hegel, Kant, Hölderlin che è stata l’ultima cultura universale, quella che aiuta come nessun’altra a capire la nostra epoca che la sta distruggendo, cambiando la natura dell’uomo stesso.

Hegel, che non amava le stravaganze romantiche né gli scrittori che facevano del nichilismo la sostanza e la forma stessa della loro arte, come il grande Jean Paul, sarebbe certamente inorridito dalla cultura odierna e vedrebbe in essa l’uovo di una civiltà che sta per rompersi e crearne chissà quale altra. Ma — contro ogni tentazione regressiva di cedere alla paura dell’ignoto — ha sempre ribadito il divieto di guardare indietro, di voltarsi al passato come la moglie di Lot. La Terra Promessa sta davanti, nello spazio e nel tempo, e ci si incammina verso di essa attraverso il deserto. Verità dell’esod o, dell’esilio.

Ma se la nostalgia che si volta indietro è quasi sempre ingannevole — anche perché il passato è stato quasi sempre orribile, falsamente idealizzato da anime pie e timorate — forse oggi la banalità filistea induce invece a guardare sempre avanti, rompendo continuamente le tavole della Legge e distruggendo il presente; trasformando l’uomo stesso in un alieno che non si riconosce più. Se la teoria dell’evoluzione è vera, oggi la trasformazione della specie è accelerata come nelle vecchie comiche di Ridolini che facevano ridere per la velocità innaturale con cui si muovevano i personaggi. Alla fine del deserto ci potrebbe essere una Non-Terra, almeno per noi come siamo; una Non-Terra per alieni nati con chissà quanti Dna e figli di chissà quante madri, robot e cyborg ancor più noiosi di quelli dei racconti di fantascienza. Già ben più di un secolo fa Nietzsche diceva che stava sopraggiungendo un secolo di barbarie e che le scienze si sarebbero messe al suo servizio.

Questa marcia del progresso somiglia troppo alle sfilate obbligatorie ed entusiaste di nuovi balilla o altri giovani pionieri in divise di vario colore dietro i gagliardetti dell’uno o dell’altro regime totalitario. Bisogna attraversare il deserto e il presente è sempre un deserto. Ma se per strada si trova un’oasi, con una buona ombra, succosi datteri e una sorgente d’acqua, perché non fermarsi e magari, se ci piace, piantare le tende? Non è soltanto lo Streben , l’incessante anelito faustiano all’azione, che può salvare la vita. Faust ride poco, quasi mai, e senza riso — ridere nonostante, esorta la teologia — non c’è forse salvezza.

È l’umorismo che può guardare in faccia la vita, la terribile vita vera, così difficilmente distinguibile dalle sue maschere e dai suoi ruoli. La vita nuda , come s’intitola un profondo e affascinante libro su Pirandello di Enrico Cerasi, un giovane studioso di filosofia cui si devono acuti saggi sulla grande teologia tedesca, sul mito nel cristianesimo, sul linguaggio religioso e sul nichilismo, saggi che costituiscono un contributo essenziale sulla crisi di senso nella cultura contemporanea. Una crisi che riguarda concretamente tutti noi, la nostra cultura e prima ancora la nostra esistenza; Cerasi la indaga a fondo, riconoscendone tutta la portata ma senza considerarla fatale e definitiva.

Il senso tragico di Pirandello risulta ben diverso da ogni relativismo stereotipo e nasce dal fallimento del tentativo di superare il nichilismo. L’umorismo è tragico, ma scevro di pathos ; la crisi radicale dell’identità non dissolve l’io, lo fa vivere e sopravvivere in altre forme e modalità, come Mattia Pascal in Adriano Meis. L’umorismo permette di non inchinarsi a nessun preteso assoluto; nemmeno — e forse men che meno — all’assoluto identificato nella Storia e nella necessità della sua marcia. Se il progresso ordina a Mattia Pascal di marciare, Adriano Meis può forse marcar visita, farsi esonerare dal servizio militare della Storia universale, restare un po’ indietro o almeno in parte. L’umorismo è un solvente di ogni ordine del giorno. Se la Terra Promessa attende l’uomo nuovo, radicalmente trasformato dalla tecnologia nel corpo, nel cervello e nel cuore, l’umorismo può farlo aspettare almeno un po’.

Lo scrittore che — pur avendo creato il suo capolavoro, L’uomo senza qualità , quasi un secolo fa — parla con maggiore lucidità del nostro presente e del nostro futuro, di ciò che sta avvenendo appena adesso e che si profila nell’avvenire, è Musil. La sua opera è incompiuta e illimitata come la vita che si trasforma di continuo e per questo è talora difficile, perché parla di una trasformazione dell’uomo, di noi, ancora in atto e in divenire. Forse nessun altro scrittore risulta, ancor oggi dopo tanti anni, così proiettato nel futuro, anche perché Musil conosceva bene quelle scienze — matematica e fisica, che stavano e stanno ancora scoprendo — forse creando — aspetti della natura e dell’uomo stesso sempre più sconcertanti e difficilmente accessibili a chi, a differenza di lui, non riesce ad orientarsi in questo mondo assolutamente nuovo.

Non si tratta di demonizzare pateticamente la tecnica, atteggiamento sbagliato e inutile, ma di dominarla anziché esserne dominati. La velocità delle email, che consente contatti pressoché immediati, è un grande aiuto non solo pratico, ma in molti casi anche affettivo, tuttavia ricevere ogni giorno cinquanta email invece delle cinque o dieci realmente necessarie (come sarebbe accaduto con le vecchie lettere) intasa, soffoca e disumanizza la vita. La tecnologia offre straordinarie possibilità, purché se ne faccia un uso sensato; poter andare in aereo da Milano a Londra o a New York è utile, ma prendere l’aereo per andare da Trieste a Venezia sarebbe imbecille. Come ogni altro mezzo, del passato e del presente, Facebook offre molte opportunità ma anche molte scemenze e violenze e si tratta, come in ogni cosa, di saperle distinguere. Chi non sa farlo ed è succube del meccanismo in quanto tale è un’ottusa pecora che segue ciò che altre fanno ed è destinata ad essere tosata.

L’essenziale è non essere come l’apprendista stregone finito così male, ossia essere critici e non ciecamente servi. Può darsi che l’uomo si trasformi, quasi in un’altra specie, ma finché è ancora l’ Homo sapiens fa benissimo a costruire il motore della Ferrari, ma non può metterlo in una Panda e credere di poterla guidare senza sfracellarsi. Purtroppo la tecnica e la scienza, come i dittatori, chiamano tutti ad adunate oceaniche di folle consenzienti e non tollerano critiche, negando così se stesse, lo spirito critico che è o dovrebbe essere il sale della scienza stessa.

In un bellissimo saggio che accompagna il film Nessuno mi troverà di Egidio Eronico, Roberto Finzi — riprendendo il tema di un suo altrettanto originale e forte libro di qualche anno fa — mostra come quando Majorana — grandissimo fisico — osa interrogarsi sul senso di ciò che egli e gli altri grandi scienziati insieme a lui stanno facendo, e non solo in merito alla bomba atomica ma alla scienza in genere, la comunità scientifica reagisce come un tempo la Chiesa nei confronti di Galileo: non ammette dubbi sulla propria attività e, non potendo negare il genio di Majorana, cerca di neutralizzarlo considerandolo un genio psichicamente disturbato o affetto da manie religiose, il che per molti suoi colleghi è lo stesso. La ragione richiede invece di poter criticare non solo il miracolo di San Gennaro ma anche Hiroshima; non solo l’Inquisizione ma anche i propositi di creare la possibilità di rendere accessibili a tutti i nostri pensieri, rendendoci così tutti schiavi.

Nell’ Uomo senza qualità Musil parla anche dell’impulso di «scendere dal treno del tempo», dell’«impressione sgradevole di aver già oltrepassato la meta e di aver imboccato la strada sbagliata». Con buona pace della marcia del progresso, si sente pure l’impulso o la necessità di scendere dal Tav del tempo, di «salire su un treno comune di una ferrovia comune». Magari, si può aggiungere, pure di fermarsi a bere un bicchiere al bar della stazione, se il vino è buono, anche a rischio di perdere la coincidenza.