mercoledì 14 dicembre 2016

La Stampa 14.12.16
La matematica senza i numeri
di Gabriele Beccaria

Tutto è matematica. Concetto esaltante per chi la capisce, terrificante per gli altri, probabilmente la maggior parte degli esseri umani. Questo è anche il principio che ispira la «Mathematics Gallery».
Questa scintillante creatura dedicata alla divulgazione è stata appena inaugurata in un’ala del labirintico Science Museum di Londra. Ma con una fondamentale sfumatura: se la matematica è onnipresente e onnipotente (e il kolossal di Oliver Stone, «Snowden», incombe a ricordarcelo), non è affatto scontato che debba sadicamente ispirare sentimenti di soggezione e fastidio. Può, invece, dimostrarsi seduttiva, proprio come appare agli addetti ai lavori, che non soltanto la praticano, ma la amano e arrivano perfino ad adorarla in una sorta di meta-religione misterica.
Non aleggiano formule e tantomeno imperversano calcoli e teoremi: stavolta - con un’abbondante dose di furbizia mediata dal marketing di massa - nel celebre museo inglese la matematica si presenta come un irrequieto ectoplasma vittoriano. Non si vede direttamente, semmai si intravvede attraverso le sue manifestazioni più intriganti. Abbandonato il look minaccioso, si svela con brio imprevisto in una serie di una settantina di oggetti-simbolo, organizzati in sezioni che inducono al racconto sognante, come «Commercio e Viaggi», «Guerra e Pace», «Mappe e Modelli», «Vita e Morte», «Forma e Bellezza». Si tratta dei micro e dei macro trionfi tecnologici che conosciamo (o a cui, il più delle volte, non prestiamo la necessaria attenzione), impensabili senza la misteriosa forza vitale dei numeri.
Così, all’ingresso i visitatori sono accolti da un’icona dell’high tech del passato (e dell’orgoglio britannico), il biplano Handley Page del 1928, sospeso in una grandiosa successione di forme curve, talmente coinvolgenti da essere state paragonate all’abbraccio di un grembo materno. Le ha disegnate Zaha Hadid, l’archistar scomparsa improvvisamente lo scorso marzo e che, non a caso, aveva studiato matematica prima di votarsi al design bulimico di musei e palazzi. Sono la materializzazione delle equazioni con cui diventa possibile far volare cose più pesanti dell’aria, congelate in uno sfondo di luci soffuse, più prossime a un centro benessere che a un’esibizione accademica: virano tra il rosa e il viola e suggeriscono un incantamento estetico che pochi attribuirebbero alla logica dei numeri.
Scatti simili di incantamento vogliono indurre anche un pesante astrolabio del XVII secolo, l’eterea sedia di Le Corbusier del 1930 e perfino l’enorme e goffa petroliera «Globtik Tokyo» del XX, fino ai luccicanti antenati dei computer, gli scatoloni meccanici firmati da Charles Babbage e da Alan Turing e quello ancora più ingombrante degli Anni 50, noto nel gergo degli ingegneri-informatici come «Moniac». Eppure a intuire davvero la futura onnipotenza di ciò che avremmo chiamato sbrigativamente «pc» - svelano gli organizzatori della Winton Gallery - fu una geniale (e solitaria) aristocratica dell’Ottocento. Si chiamava Ada Lovelace, era figlia del poeta Lord Byron e, per quanto eccessiva nel suo abbigliamento di nastri, fiocchi e scialli, incarna ancora oggi con la sua intelligenza algoritmica la forza irresistibile della sirena.
Ogni anno, in suo onore, nel mondo scatta l’«Ada Lovelace Day» (l’ultima edizione l’11 ottobre scorso). È un eterogeneo contenitore di eventi - dai seriosi incontri nelle università alle rumorose mostre interattive - per celebrare una specie di cervelli emergente e tuttavia spesso discriminata: le donne-scienziato. A cominciare da quelle che hanno avuto la forza di frantumare il «tetto di cristallo» e stanno collezionando successi con la disciplina più «maschile» di tutte: la matematica.