Il Fatto 9.12.16
Il Sì di Milano e le periferie perse dai Democratici
di Gianni Barbacetto
Milano
ha vinto il Sì. È l’unica grande città italiana che al referendum ha
dato credito alla proposta di Matteo Renzi. Come ogni cosa, anche
questa può essere letta da due opposti punti di vista. La prima è
quella del Pd milanese, che gioisce per il successo locale e lo spiega
così: “A Milano ha vinto il Sì perché siamo stati capaci di far
discutere la città sul merito della riforma”, garantisce il segretario
del Partito democratico metropolitano Pietro Bussolati. “La città si
conferma il punto più all’avanguardia nell’innovazione politica”. Isola
felice in una città metropolitana, in una regione, in un’Italia che
sceglie invece a maggioranza il No. Hanno sbagliato tutti gli altri, noi
siamo più avanti, sembra dire Bussolati, siamo “all’avanguardia
nell’innovazione politica”. Giudizio legittimo; che non tiene però
conto di alcuni elementi. Il primo è che è difficile affermare che la
minoranza che a Milano ha votato Sì lo abbia fatto ragionando e dando
un giudizio positivo sulla riforma di Renzi, mentre, chissà perché, la
maggioranza che ha votato No nel Paese l’ha fatto non scegliendo nel
merito ma per pura prevenzione antirenziana. In realtà, il giudizio
sulla riforma costituzionale e quello su Renzi si sono incrociati e
sovrapposti tra i votanti del No come in quelli del Sì. E a dare retta
all’aria che tirava a Milano prima del voto, il sentimento prevalente
era: “La riforma non è un granché, ma dobbiamo votare Sì per
garantire la continuità del governo, la sopravvivenza di Renzi, la
stabilità dei mercati”. Altro che “far discutere la città sul merito
della riforma”. IL SECONDO ELEMENTO su cui riflettere è la
distribuzione del voto a Milano. C’è un parallelo tra il Sì e il voto
al Pd alle ultime elezioni amministrative: vincono senza problemi nei
quartieri del centro, mentre nelle periferie nord (Quarto Oggiaro,
Musocco, Niguarda eccetera) e sud (Rogoredo eccetera) prevale il No. Si
ripropone la divisione tra la Milano di via Montenapoleone e piazza Gae
Aulenti, una città soddisfatta, ricca, occupata, scolarizzata e avanti
con gli anni, che in prevalenza ha votato Giuseppe Sala sindaco e poi,
il 4 dicembre, Sì al referendum; e quella delle periferie e dei giovani
che rifiutano l’establishment e non perdono occasione per dire no al
potere, sia quando si presenta con il volto sorridente e rassicurante
del sindaco-commissario di Expo, sia quando il sorriso è quello del
presidente del Consiglio che prometteva una riforma al mese. Milano non
è solo la più grande città del Paese per ricchezza prodotta. È anche
il laboratorio politico in cui nascono fenomeni destinati a
consolidarsi nel Paese. Ed è la città più sensibile d’Italia ai
discorsi sulla governabilità, sull’equilibrio, sulla stabilità, in
nome dei daneé da conservare, dei soldi da moltiplicare, del potere da
accrescere. A Milano si è affermato un banchiere che si chiamava
Michele Sindona, che insegnava ai milanesi come non pagare le tasse (e,
già che c’era, riciclava i soldi di Cosa nostra). A Milano è nato il
craxismo, poi il bossismo, poi il berlusconismo. A Milano, proprio nel
centro, collegio 1, veniva eletto il senatore Marcello Dell’Utri, ora in
carcere per i suoi rapporti con la mafia. I suoi elettori si sono ora
convertiti alla “governabilità” di Renzi e al sostegno del Sì. Felici
del passo avanti. Ma il Pd, invece di gioire acriticamente considerando
Milano “all’avanguardia nell’innovazione politica”, forse farebbe bene a
interrogarsi perché, in tutta questa modernità, ha perso le periferie
e i giovani.