martedì 15 novembre 2016

La Stampa 15.11.16
“Donald e Vladimir fanno riferimento a un elettorato bianco e poco istruito”
Svetlana Babaeva: “Sono visti come hooligan dell’ordine mondiale. Sapranno costruire alleanza ad hoc contro qualcuno”
intervista di Anna Zafesova

Svetlana Babaeva è una delle più acute analiste della politica statunitense di Mosca, conosce bene l’establishment repubblicano, e non è convinta che il vero vincitore delle elezioni Usa sia Vladimir Putin: «È una percezione nata dal desiderio di un leader forte. Putin viene visto come tale, e con l’elezione di Trump ha prevalso il desiderio di uno “strong man” rispetto alla tradizione di scegliere qualcuno di cui si condividono i valori».
Esiste la «russian connection» di Trump?
«Un miliardario di 70 anni, in un mondo di business globale, potrebbe benissimo aver fatto affari con vari russi. Le accuse di legami loschi andrebbero dimostrate. Per quanto riguarda la propaganda, più che a favore di Trump era diretta contro Hillary, nella convinzione che avrebbe vinto».
Il Cremlino avrebbe preferito Clinton?
«Non sarebbe cambiato niente, ma almeno era una certezza. Trump è imprevedibile, come Obama. Non è un politico, il suo algoritmo è sconosciuto».
In quali vantaggi può sperare Putin?
«Trump vuole un’America più forte. Che non serve alla Russia, né politicamente, né economicamente».
Che tipo di feeling può nascere tra Vladimir e Donald?
«Entrambi sono visti come gli hooligan dell’ordine mondiale. Hanno in comune un’incredibile vitalità, la curiosità verso il mondo, un certo gusto per i gesti adolescenziali. L’elettorato di Trump - maschi bianchi poco istruiti di provincia - è identico a quello di Putin, che governa il “voto di pancia” per conto delle élite che temono la rabbia popolare. Ma c’è una differenza profonda: Trump ha sfidato la Washington corrotta, le élite irremovibili indifferenti alla gente. Esattamente il sentimento che sta maturando in Russia, con la fine di 12 anni di benessere mai visto. Un giorno arriverà un Trump russo a sfidare il sistema, cioè Putin».
Da dove può iniziare un’ipotetica distensione?
«Credo che l’incontro con Putin non sarà nelle priorità di Trump, sarà impegnato a formulare la sua agenda, incentrata su tutt’altro: l’economia, le tasse, il rilancio dei progetti petroliferi, che distruggeranno definitivamente le fonti delle entrate russe».
E in politica estera?
«Possiamo immaginare alleanze ad hoc contro qualcuno, per esempio, certi leader dell’America Latina o del Medio Oriente».
Contro l’Isis?
«Potrebbero dividere le sfere d’influenza, è fattibile senza conflitti radicali, con una spartizione della Siria o un governo di coalizione. Questione di volontà politica. Il problema è un altro: l’Occidente non ha molto da dire alla Russia, a parte la Siria e il processo di Minsk».
Kiev infatti è molto preoccupata.
«L’Ucraina non sarà una priorità della Casa Bianca, considera più globali altri problemi, il Medio Oriente, la Cina. Intorno a Trump ci sono molti falchi, possiamo aspettarci tendenze bushiste, spese per nuove armi. Un giorno Trump e Putin si incontreranno, potranno piacersi, ma difficile sperare in nuovi accordi e cambiamenti sistemici».
Cosa si aspetta la Russia da Trump?
«A Mosca si danno risposte generiche, come “venire ascoltati come partner paritari”. In realtà in quasi quattro anni di rottura con gli Usa la Russia ha perso un ordine del giorno bilaterale, insieme al desiderio di realizzarlo. Non esiste una lista di richieste economiche o militari concrete agli Usa, i cui obiettivi globali sono completamente altrove. Parte dell’élite russa è affascinata da Trump e si aspetta che corra a Mosca con un’enorme agenda nuova. Avrà una grande delusione, e l’America ridiventerà il grande nemico, in tempo per la campagna presidenziale russa del 2018».
L’antiamericanismo è il perno della politica russa, nel caso di una distensione il Cremlino non saprebbe più cosa dire?
«È più perno della propaganda, l’elettore medio è convinto che a Washington non si pensi ad altro che a rovinare la Russia. Il guaio è che gli Usa inventano tecnologie elettorali. Quella della campagna di Trump è che non c’è più nulla che non si possa dire in pubblico. E noi copiamo sempre l’America, nel modo che ci conviene».